Etica
dell’educazione e della relazione
di Lorenzo Barbagli
Il senso della relazione educativa.
Più volte ho cercato di riflettere su quale fosse realmente il senso delle relazioni educative, di aiuto o di sostegno e spesse volte mi sono reso conto che, pur possedendo un’ideale che animava la mia attività, non riuscivo a decifrarne l’origine e le caratteristiche nella loro completezza.
Una dimensione in cui agivo sostenuto implicitamente da un’opinione che non riuscivo a svolgere, definire ed elaborare compiutamente.
Pezzi di comprensione, distribuiti su vari ambiti che non riuscivo a connettere per costruire un quadro organico; domande a cui non riuscivo a dare una logica risposta pur intuendone il senso ed il significato profondo.
Cos’è educativo? Quali atti si possono considerare tali? E quali caratteristiche ha un atto educativo? Chi è l’educatore e chi può/deve esserlo? Ancora, in testa mi giravano questioni aperte tipo: qual è il limite dell’autorità nelle relazioni educative? Quando si deve essere permissivi e quando autoritari? Si deve proporre un modello oppure solamente lasciare occasioni di riflessione?
La lettura di alcuni libri, in particolare di Educazione e Libertà (M. Bernardi, 1981), mi hanno permesso di sciogliere alcuni nodi e di capire dov’era il blocco che mi impediva di connettere.
L’errore, semplicemente intuibile, era legato alla prospettiva da cui partivo.
Prospettiva che, cresciuta nell’esperienza universitaria e strutturata nei sistemi di istruzione e di educazione solitamente reperibili nella nostra società, trovava il suo fondamento in una dimensione che, prendendo un prestito un termine proprio della sociologia delle organizzazioni, potrei definire funzionalista/divisionale.
Prospettiva che, partendo da una visione legata al concetto di ruolo e di funzione, presupponeva di individuare un netto ambito di pertinenza dell’educazione ed in generale delle attività formative; ancor di più pretendeva di distinguere regole dell’educazione e di ridiscendere a ruoli educativi e ruoli non-educativi.
Idea teoricamente accettabile in quanto logica ma
praticamente mai dimostrata ed indimostrabile in quanto esclusivamente costruita
sul piano concettuale e astratto e dunque facente parte di quelle teorie che
“sopravvivono senza essere smentite dalla realtà semplicemente perché con questa
realtà non si misurano”[1].
La realtà, direttamente osservabile nella nostra esistenza e nella esperienze di vita di tutti noi, è che l’educazione non è una particolare forma dei rapporti umani. Nei fatti, ogni rapporto umano, ogni incontro ed ogni esperienza che si fa nella vita è educazione.
A volte esplicita, altre implicita, a volte intenzionale, a volte causale o casuale, altre volte tra pari, a volte tra diseguali e tutte le forme che possiamo immaginare. Il punto è che i rapporti umani, e purtroppo anche quelli dis-umani, sono educativi.
L’incontro con un altro uomo segna entrambe le persone, a volte positivamente, a volte negativamente. Anche se le persone sono del tutto autoreferenziali e non si incontrano realmente[2]. Ognuno di noi, in ogni età ed in ogni fase della vita, è stato educatore di qualcun altro. Di un fratello maggiore o minore, di un amico, di un figlio, di un genitore, di una donna o una fidanzata, o magari di un perfetto sconosciuto per cui abbiamo avuto più peso di ciò che ci saremmo aspettati.
Che senso ha dunque chiederci quali siano gli atti educativi? E che senso ha chiederci chi possa o debba essere educatore? Ha molto più senso a questo punto chiederci come debba essere una relazione educativa che non voglia essere manipolatoria o diseducativa.
Come riconoscere un atteggiamento non diseducativo?
Casualmente la nostra azione è stata educativa, diseducativa o neutra[3]. Assolutamente non casualmente si instaurano rapporti educativi. Nel momento in cui due persone si incontrano e mettono in contatto il loro vissuti e le loro esperienze, il confronto su di esse o la non- espressione, il non-confronto diretto, fa si che il rapporto assuma significati educativi.
Di fatto la relazione educativa non può avere ruoli, se non con la sola funzione di distinguere i due poli della relazione (l’educatore e l’educando). Relazione che si configura come uno scambio in cui entrambi ricevono e danno qualcosa. Anche quando le posizioni sociali o le differenze di età, conoscenze e abitudini, o legate a ruoli istituzionali la rendono asimmetrica nelle proporzioni.
L’asimmetria di una relazione educativa è una caratteristica a volte casuale, non caratterizzante per la qualità e per l’assunzione di significati educativi o diseducativi della relazione stessa, ma solamente descrittiva di alcune situazioni. Può esserci come no, e non è detto che la sua presenza in se sia negativa o sempre positiva.
Altra caratteristica, che invece assume un significato
piuttosto discriminante circa la positività di una relazione educativa (ma lo
capire meglio più avanti) è la complanarità[4].
Perché una relazione sia educativa (e non diseducativa) deve essere complanare, anche se asimmetrica. Diversamente verrebbe a mancare quella caratteristica di scambio umano e di rispetto reciproco che fa si che una relazione educativa non possa essere manipolatoria o eccessivamente condizionante.
Autoritarismo, permissivismo,
direttività e non-direttivtà: alla ricerca di una mediazione consapevole.
Costruire una teoria dell’azione educativa è un problema complesso.
Nella realtà, non può esistere una ricetta che possa essere applicabile a tutti i contesti della relazione. Possiamo però individuare alcuni presupposti essenziali.
Ogni relazione, ogni incontro umano è educativo; è cioè portatore di significati, valori o anche semplicemente opinioni che assumono un peso educativo nella crescita di colui che riceve. Poiché in una relazione ogni attore riceve qualcosa (a volte un riconoscimento, altre una squalifica, un incoraggiamento o un sostegno o solamente un’informazione da elaborare o un’assenza di alcunché) è chiaro che ogni relazione assume per entrambi gli attori un significato che, implicitamente o esplicitamente avrà un peso nel futuro della persona[5].
Il problema che dobbiamo dunque porci è quello, semprechè si scelga di accettare il senso e la responsabilità che inevitabilmente abbiamo nell’incontro con le persone, relativo alla quantità e alla qualità delle relazioni che costruiamo.
Non ho la presunzione di essere educatore di chiunque io incontri nella mia esistenza, ho però la consapevolezza di essere portatore di valori o, a volte implicitamente dis-valori. La mia scelta e la mia prospettiva d’azione è comunque quella di voler avere un peso positivo nelle relazioni che costruisco. Per far questo devo chiedermi quando e come potrei averne di negativi.
Cosa vuol dire non averne di negativi? Vuol dire essere buoni con tutti?
Assolutamente No. Vuol dire imparare a riconoscere ciò di cui una persona ha bisogno o, più semplicemente, ciò di cui sicuramente non ha bisogno.
Come porci dunque rispetto ad alcune impostazioni educative come l’autoritarismo o il permissivismo?
Con la consapevolezza della parziale verità di cui ogni impostazione unidirezionale è portatrice. In alcuni casi, può darsi che sia necessario un atteggiamento direttivo, in altri un atteggiamento più flessibile e permissivo.
In alcuni casi, e ancor più specificatamente, con alcune persone, un atteggiamento autoritario è la peggior soluzione perché provoca semplicemente reazioni ancor più rigide. Con altri, è a volte l’unica soluzione.E’ del resto vero che in alcuni casi si deve saper relativizzare i significati per rispettare le scelte di ogni individuo, ma quando queste scelte oltrepassano dei limiti etici o di buon senso, si deve saper difendere la civiltà. Far questo richiede una diminuzione della relatività, per distinguere nettamente ciò che è umano da ciò che non lo è. Ciò che cresce e migliora, poiché ampia le potenzialità di un uomo e ciò che invece chiude e peggiora.
L’etica, la responsabilità e
le valenze manipolatorie della relazione educativa.
Rimane a questo punto un’unica dimensione da sviluppare nella nostra riflessione sull’educazione e l’etica.
Quand’è che possiamo considerare una relazione “etica”?
Abbiamo già parlato di quali siano le caratteristiche e le responsabilità all’interno di una relazione. Da ciò se ne evince il bisogno di una dimensione di eticità della relazione umana.
Eticità che è insita nella scelta che ogni uomo può fare rispetto alla sua esistenza. Si può scegliere di vivere solo in una dimensione autoreferenziale ed individualista oppure in una dimensione socio-solidale e di co-costruzione. Ci sono però alcune differenze tra le due impostazioni.
La prima scelta esclude la seconda, la seconda (esclusi i casi in cui sia una forma di chiusura e di sublimazione di pulsioni interne), è un’evoluzione del sé, una crescita individuale, che a sua volta comprende la prima. La prima tende alla chiusura, alla staticità e alla difensività. La seconda tende all’apertura con il mondo e con gli altri, alla condivisone, alla disponibilità, ad atteggiamenti prevalentemente di tipo ottimistico. E’ dimostrato quanto atteggiamenti, a volte anche illusori, ma ottimistici migliorino il senso di autoefficacia e nei fatti la probabilità di successo[6]. E la qualità della vita.
Pur riconoscendo il diritto di ogni individuo di scelta tra l’una e l’atra dimensione, in entrambi i casi si deve prendere atto della responsabilità di cui ognuno di noi è portatore e dei doveri di rispetto della libertà altrui che abbiamo.
Prendere coscienza di ciò vuol dire porsi quantomeno lo scrupolo di non essere manipolatori o portatori di dis-valori nelle relazioni della nostra vita.
Cammino lungo e difficile per quanto possa apparire complesso e tortuoso, ma dobbiamo anche ricordarci che spesso, tutto ciò che ci sembrava difficile, è diventato facile dopo averlo fatto e che tutto ciò che adesso ci sembra facile, ci è apparso difficile.
[1] Cfr. M. Bernardi, Educazione e Libertà, Giovanni De vecchi, Milano, 1980, p.21.
[2] Perdonatemi il gioco di parole, in questo caso ho giocato sulle accezione della parola Incontro: esso può significare il casuale incrocio tra due persone (due parole superficiali) o lo scambio umano, il riconoscimento di un vissuto altrui o la disposizione ad un contatto, se non eccessivamente profondo, autentico.
[3] In realtà tendo a pensare che l’ipotesi di situazioni di relazioni educativamente neutre difficilmente esistano in quanto i significati impliciti o latenti esistono sempre, e comunque solo nel caso di relazioni veramente superficiali o lontane.
[4] Entrambi i termini vengono messi in evidenza da B. Rossi nel testo: Intersoggettività ed educazione, La scuola, Brescia, 1992. L’autore evidenzia quanto esse siano caratteristiche centrali nella relazione educativa, se pur descrivendo l’asimmetria come una inevitabile presenza. Ciò è dovuto alla visione di fondo dell’autore che si ricollega all’impostazione funzionalista di cui sopra.
[5] Il peso che assumerà dipenderà anche dalle scelte e dalla profondità della persona stessa, dal contesto e dai modi della relazione, comunque avrà un significato.
[6] Cfr. AA.VV. (a cura di Gabriele Lo Iacono), Il senso di autoefficacia,ed. Centro Studi Erickson, Trento, 1996.