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...Iniziamo dalla legalità...

Un’esperienza di collaborazione tra Scuola e Giustizia Minorile

 

 Rosalba Romano

 
 

 


Casella di testo:  Le premesse

“A partire da queste esperienze vorrei concludere affermando con forza che la cultura della legalità può trovare cittadinanza in ciascuno di noi solo a partire dall’educazione e da una scuola che sia capace di progettualità verso il futuro. Progettualità tesa a dare contenuto alla parola legalità impegnandosi a creare spazi, opportunità, strumenti e conoscenza ma in particolare per trasmettere passione per una coscienza civile, per essere in grado di porsi interrogativi sull’ambiente, sulla politica e sulla società. Risvegliare passione e partecipazione, quindi, recuperare la grammatica della vita, il suo linguaggio che è concretezza, testimonianza e fatica.”[1]

Le conclusioni di Don Ciotti possono considerarsi quali assunti di base del lavoro avviato e svolto in sinergia tra la Scuola Media Cipolla e l’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Palermo siti nello stesso contesto cittadino ed entrambi impegnati, pur con mandati differenti, nel campo dell’educazione degli adolescenti.

Il sistema di premesse riguardava innanzitutto il disagio relazionale all’interno di alcune classi e la conseguente necessità di individuare gli idonei interventi educativi. L’apprezzabile sforzo teorico ed operativo promosso dall’istituzione scolastica e indirizzato verso la partecipazione globale della personalità dell’alunno, per impegnarlo nell’apprendimento non solo sul piano conoscitivo, ma anche su quello affettivo ed emozionale, andava concretizzato in progetti formativi realizzabili non soltanto in considerazione del contesto didattico, dei suoi tempi e delle variabili ad esso interconnesse, ma anche  degli ulteriori limiti e vincoli posti dall’interazione con il sistema- giustizia la cui immagine poteva risultare fuorviante ed aggressiva rispetto ai problemi da affrontare. Il primo quesito evidenziatosi con forte insistenza era: come si fa a rendere una classe un luogo educativo? Può il disagio esistenziale e personale dei ragazzi trovare idonei spazi di espressione nei contesti scolastici? Ciò che infatti frequentemente si verifica è che la classe, luogo e tempo lungo di sosta, diventa il più facile contenitore in cui riversare i problemi e le incongruenze della crescita senza che però ci siano i linguaggi, gli strumenti ed i contesti possibili  per far emergere i vissuti nelle loro reali definizioni emozionali; contemporaneamente, però, si va definendo sempre più come unico luogo possibile di aggancio educativo rispetto agli ambienti  frequentati, o meglio, il  più delle volte “bazzicati” dai ragazzi.

Un altro saldo pilastro su cui era necessario incastonare un’eventuale possibile collaborazione tra le Istituzioni era quello della legalità, ambito più agevole di incontro in considerazione delle possibili aree di intersezione tra le diverse realtà professionali e mandati istituzionali. L’educazione alla legalità, come quella alla salute o come l’educazione ambientale, è ormai uno dei momenti cardine dell’attività didattica della scuola dell’obbligo, soprattutto nella realtà palermitana, continua fonte di  stimolo e confronto rispetto ai concetti di norma, devianza o più semplicemente di crescita sociale e civile. L’educazione alla legalità è inoltre considerata uno strumento di conoscenza del mondo contemporaneo e delle sue problematiche, rivestendo così un alto valore culturale e seguendo la strada di una contiguità non ineludibile fra saperi e comportamenti. Se è un fatto importante che la scuola si ponga il problema di formare anche dei cittadini oltre che degli studenti, è altrettanto importante che la giustizia minorile si apra all’intervento in campo preventivo in considerazione dei nuovi scenari di marginalità sociale che la cosiddetta “normalità” ha dischiuso negli ultimi tempi.

Sulla scorta di queste considerazioni generali l’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni, istituzionalmente impegnato da anni anche nel campo della prevenzione della devianza minorile con interventi di vario genere presso enti pubblici e di privato sociale attivi nel settore del disagio adolescenziale, ha avviato con la Scuola Media Cipolla la messa in opera di interventi educativi in rete che sviluppino oltre ad una sempre più matura competenza negli approcci con gli adolescenti, anche una progettualità congiunta ed una visione allargata e condivisa delle problematiche afferenti alla condizione adolescenziale.

  La scuola è uno dei territori privilegiati in cui poter attivare possibili interventi preventivi, capaci di disinnescare il disagio personale, ambientale e culturale di cui può essere portatore il minore; in un progetto educativo di ampio respiro che, a partire dalla Scuola dell’obbligo, miri a riqualificare il diritto alla cittadinanza di tutti e di ognuno, è necessario acquisire il punto di vista dell’attenzione globale e integrale ai bisogni dei ragazzi sempre più celati dagli input di adeguamento all’immagine, favorendo occasioni di incontro ed emersione dei vissuti, e rendendo altresì visibile il confine che separa e distingue la legalità dall’illegalità. Accade, per fortuna sempre meno spesso, che la scuola risponda con interventi cristallizzati costruiti su sistemi astratti: occuparsi di legalità oggi, significa infatti leggere e conoscere il disagio e il suo manifestarsi nelle nuove generazioni.

 

Le azioni

Dinanzi a tali richieste e problematiche si trattava innanzi tutto di individuare delle azioni congrue al contesto da affrontare, alle risorse umane, materiali e professionali disponibili e agli obiettivi da porsi.

Il progetto nella sua totalità è stato rivolto ad alunni delle diverse classi della Scuola media e al corpo docente. Infatti si è valutata l’inopportunità, in questo primo periodo di collaborazione, di inglobare nel progetto, un percorso di coinvolgimento attivo della realtà genitoriale, poiché, pur convinti che un intervento diretto a proporre nuove sollecitazioni e stimoli di crescita non possa prescindere dal coinvolgere il mondo con cui il ragazzo stesso interagisce quotidianamente, la mancanza di tempo e di personale, e il sovrapporsi di altri interventi già programmati dalla scuola con altre agenzie in settori differenti,  hanno fatto slittare la possibilità di un progetto mirato ai genitori, pensato e adeguato a suscitare stimoli e raccogliere domande fornendo le opportune indicazioni.

Il gruppo di lavoro si è costruito intorno agli operatori dell’Ussm impegnati sul territorio, coordinati dalla referente territoriale, e coadiuvati da alcuni volontari professionali il cui apporto è stato fondamentale per la generosità con cui hanno profuso il loro impegno, e per la flessibilità e la disponibilità possibili in assenza di vincoli istituzionali. La presenza di differenti professionalità ed abilità umane (avvocati, sociologi, conduttori di gruppo di incontro, assistenti sociali), ha inoltre reso possibile programmare e realizzare interventi diversificati, ricchi di modalità, linguaggi, contenuti e sfumature differenti.

La collaborazione si è composta di varie azioni le cui scelte di fondo hanno riguardato la necessità di educare all’espressione dei propri vissuti in ambito gruppale, aiutando i ragazzi a sperimentare, opportunamente sollecitati e guidati da operatori esperti, un contesto di comunicazione empatica con i coetanei, giungendo all’ascolto, comprensione e condivisione dei vissuti altrui.

Pertanto si è utilizzato lo strumento del gruppo di incontro secondo la metodologia proposta dall’artigianato educativo di “Prevenire è Possibile”[2] con l’accensione di gruppi in cui i ragazzi potessero vivere sentimenti, esorcizzare paure, allentare tensioni, ribaltare situazioni di povertà affettive, aggressività, demotivazione, bassa autostima, capriccio onnipotente, adottando strategie tipo cooperative learning e tutoring. Gli obiettivi prioritari rispetto ai ragazzi erano relativi:

·        all’apprendimento di contenuti con un sostegno vicendevole;

·         al miglioramento del singolo alunno e dell’intera classe;

·         all’individuare la tipologia del singolo per modellare il tipo di intervento;

·         alla strutturazione di una solida rete di rapporti capaci di svelare il disagio;

·        all’offrire occasioni e spazi di incontro per favorire una crescita educativa nell’impegno verso la vita e la scuola;

·         allo sviluppare una capacità di analisi critica per sperimentare la possibilità di rappresentazioni di idee, concetti e stati d’animo differenti.

Malgrado l’applicazione del gruppo di incontro in classe richieda una particolare modulazione delle regole di conduzione, poiché la classe scolastica non è la struttura più idonea a funzionare come gruppo, l’esperienza condotta all’interno della scuola è stata estremamente positiva in quanto ha permesso di innescare qualche forma di interdipendenza positiva in una classe portatrice di forti disagi individuali e quindi orientata in senso conflittuale.

Si sono realizzati altresì interventi di consulenza formativa/informativa per gli insegnanti rispetto alle strategie di lettura del disagio e agli opportuni interventi educativi, coinvolgendo via via il corpo docente nelle azioni condotte direttamente con i ragazzi in classe o in forme assembleari, in modo da consentire una certa continuità nel lavoro didattico e da mostrare indirettamente modalità comunicative e relazionali differenti da quelle quotidianamente utilizzate con i ragazzi. In assenza di una specifica richiesta formativa per gli insegnanti, infatti, si è ritenuto strategico evitare di proporre spazi strutturati di ripensamento degli stili e modelli educativi proposti, a volte distrattamente, dal corpo docente prioritariamente centrato sui contenuti e sugli obiettivi didattici da perseguire, e si è preferito lavorare sui tempi lunghi dell’induzione di nuove possibilità di comunicazione e relazione attraverso la messa in gioco all’interno di un’esperienza. Si è scelto di rifiutare il ruolo di “consulenza esperta” e quindi di delega in genere affibbiata ai servizi esterni dall’agenzia scolastica, con il rischio di ritenere inopportuna e inadeguata al contesto situazionale qualsiasi soluzione proposta, e di evitare altresì il rischio di “delirio di onnipotenza” cui, invece, facilmente incorrono i servizi in virtù del mandato istituzionale e della specializzazione del campo in cui lavorano.

 Rispetto poi alla promozione dei temi più strettamente connessi alla legalità, si sono considerati attuali e di estrema validità educativa i messaggi e i valori proposti da una riflessione relativa ai diritti e ai doveri che coinvolgono i ragazzi minorenni.

Si è, pertanto, costruito un modulo di due incontri con gruppi di alunni delle terze classi proponendo innanzi tutto un’attivazione interattiva sulla consapevolezza in relazione ai diritti di cui gode un minorenne all’interno di una società civile, evidenziando i riferimenti normativi, le discrepanze relative all’applicazione degli stessi, le difficoltà connesse alle situazioni particolari e i sistemi, servizi e operatori preposti alla tutela, transitando poi verso gli aspetti relativi ai doveri.

In merito a questi ultimi si è scelto di partire da una rilevazione guidata con un questionario proposto ai ragazzi in chiusura del primo incontro e costruito con l’intento di raccogliere informazioni sulle rappresentazioni degli alunni rispetto a ciò che si configura come reato, a ciò che consegue alla commissione di un reato per un minorenne e alle motivazioni  e stati d’animo che possano spingere un adolescente ad una simile esperienza. Tra  i due incontri si è interposta la strategia del “compito” quale possibilità di feedback sui contenuti proposti precedentemente e quale forma creativa di libera espressione sotto forma di narrazione, composizione musicale o rappresentazione grafico pittorica. L’incontro finale era poi dedicato alla restituzione di quanto emerso dai questionari con la chiarificazione degli aspetti legali e normativi e con un quasi sempre acceso dibattito sulle tipologie dei reati e sul procedimento penale relativo ai minorenni. In merito a ciò si è utilizzata la tecnica della drammatizzazione e del role playing per simulare il processo penale minorile. Gli alunni venivano invitati a simulare quello che accade durante una udienza penale impersonando i ruoli fondamentali.

A conclusione del percorso ed in coincidenza della fine dell’anno scolastico si è poi programmato congiuntamente di costruire un evento per proporre ai genitori, alle altre classi e al territorio i contenuti e i lavori prodotti scegliendo però una formula rappresentativa che rendesse contemporaneamente protagonisti e spettatori i ragazzi e gli adulti coinvolti.

“Quando tutto si muove egualmente, diceva Pascal, nulla si muove in apparenza, come su una nave. Quando tutti vanno verso la follia, nessuno sembra andarci. Solo fermandosi si rileva il movimento degli altri” così iniziava la narrazione che ha dato avvio all’evento a testimoniare la necessità di fermarsi per invertire i meccanismi degli ingranaggi che spingono verso l’omeostasi di un sistema che spesso avvertiamo, nelle nostre realtà quotidiane, inadeguato a far emergere le stesse subculture che combattiamo. Quindi attraverso la testimonianza viva di Magistrati, Giudici onorari, di Giovanni Impastato, fratello dell’ormai noto Peppino Impastato, di un ragazzo ex-utente dell’Ussm, e dello stesso Direttore dell’Ufficio di Servizio Sociale, impegnati quotidianamente nella promozione della cultura della legalità, si è proseguito dibattendo sui risultati emersi dai questionari e ascoltando le riflessioni e i vissuti proposti dai ragazzi in forma canora, teatrale e narrativa sugli aspetti per loro più interessanti e provocatori dei temi trattati.

 

Le reazioni

 

…“Nel gruppo, litigando, ci siamo conosciuti meglio.”…

 scrive Claudio nel diario di bordo del gruppo di incontro riassumendo con parole semplici il percorso compiuto, nell’arco di alcuni mesi, cambiando assetto, posizione fisica e punto di vista spaziale rispetto ai suoi compagni di classe.

Dinanzi ad una classe conflittuale, utilizzando il linguaggio del modello fornito dall’”artigianato educativo”, che più ci è sembrato adeguato ad affrontare i problemi posti dagli insegnanti, ci trovavamo ad affrontare un cumulo di energie dislocate in senso negativo e rivolte principalmente all’attivazione di conflitti interni. Una classe divisa, caratterizzata dalla scarsa valorizzazione delle persone, dalla scarsa identità di gruppo e da una forte instabilità. Gli alunni provenienti da esperienze scolastiche e personali fallimentari (situazioni familiari problematiche, parenti devianti, collocamento in casa-famiglia, adozioni problematiche, svantaggio fisico, etc..) pur avendo buone energie e motivazioni, finivano con l’attivare una agitazione priva di obiettivi che si concretizzava in continui dispetti e vendette vicendevoli costruendo così un clima dispersivo e negativo anche per l’attività didattica e favorendo la continua frustrazione per gli insegnanti impossibilitati a trovare iniziative o attività che potessero galvanizzare o quanto meno interessare gli studenti.

L’obiettivo quindi era quello di pacificare la classe dandole l’opportunità di costituirsi come gruppo. L’intervento educativo sul conflitto è particolarmente delicato e richiede la grande pazienza di assorbire le tensioni per poi orientarle costruttivamente. Si è trattato, in primo luogo, di osservare attentamente la struttura dei sottogruppi, dei leader e delle sequenze di relazione, cioè i diversi passaggi comunicativi tra le persone, individuando gli istigatori, poiché quando un ragazzo esprime, in maniera provocatoria o aggressiva, il suo pensiero, e si contrappone a qualche altro membro della classe o all’insegnante, è sempre sollecitato o appoggiato da un “invisibile istigatore”.

Una volta comprese le caratteristiche individuali di ciascun alunno, membro del gruppo, e le sequenze comunicative, si è lavorato sul depotenziamento del conflitto. Gli interventi sono stati condotti individualmente e in gruppo spezzando le sequenze sul nascere, non facendosi intrappolare nel ruolo di “giudice”, dando forza ai soggetti marginali al conflitto. “Il tempo del cerchio” sotto forma di itinerario di momenti di gruppo di incontro, ha permesso di affrontare adeguatamente le problematiche relazionali tra gli studenti costituendo un’occasione di rapporto interpersonale fondato sulla trasmissione e condivisione di sentimenti e di ascolto dei vissuti altrui non soltanto tra i pari, ma anche con le due insegnanti che avevano chiesto di partecipare. Infatti, pur non essendo consigliabile la partecipazione del docente per i vincoli del ruolo e il normale disagio rispetto al pregiudizio reciproco, tuttavia si è accettato di accogliere la richiesta sia perché permetteva di far partecipare all’esperienza un’allieva portatrice di handicap necessitante dell’appoggio dell’insegnante di sostegno, sia perché ciò consentiva di eliminare i fantasmi sull’intervento specialistico e di proporre un modello di intervento in classe.

I momenti più dirompenti e che hanno provocato un interessante movimento di cambiamento individuale e gruppale hanno riguardato:

·        il silenzio. Il gruppo di incontro inizia con un momento di silenzio, sia per sancire la distanza tra quanto si stava facendo prima e l’attimo presente, sia per creare il clima. In particolare in questo gruppo è servito per poter allentare le tensioni interiori e permettere la riflessione in profondità. I ragazzi hanno sperimentato il saper tacere per potersi ascoltare e distinguere il contatto con se stessi e con gli altri.

·        Raccontare la vita. Partendo dalla banale presentazione e memorizzazione dei nomi è emerso che i ragazzi, ma anche gli insegnanti, si chiamavano per cognome o per soprannome. Riconoscersi e poter farsi riconoscere per quello che si è e che si vive ha costituito l’esperienza fondante del gruppo. Non si trattava di sfoggiare le proprie opinioni su argomenti proposti dagli adulti, ma di poter esprimere i propri sentimenti su quanto era la propria vita, dal litigio con il nonno, alla passione per gli animali, al dispiacere per la morte di un caro amico, con un filo conduttore riguardante sempre la vita scolastica e le relazioni con i compagni. Contrariamente alle aspettative di noi operatori ed insegnanti, i ragazzi hanno centrato subito le difficoltà di comunicazione in classe aprendo il dialogo sui fatti e accettando il confronto sui vissuti.

·        Il senso del limite. Non siamo tenuti ad avere tutte le risposte ma ad essere persone cui si possono fare tutte le domande. I ragazzi hanno apprezzato la possibilità di incontrare adulti, i conduttori e gli insegnanti, non nelle loro vesti del ruolo ma nelle loro qualità di persone. L’unico obiettivo che sta infatti alla base di questo tipo di esperienza di gruppo, è quello di vivere e respirare l’aria del gruppo e di arricchirsi del vissuto altrui. Per questo motivo i partecipanti sono tutti alla pari compreso il conduttore che ha il compito di ridurre al minimo i suoi interventi e rendere la comunicazione più fluida possibile, con la consapevolezza che ciò che davvero conta sono i sentimenti vissuti nel gruppo al fine di scoprire la comune umanità di tutti i partecipanti.

 

 

 

 

Casella di testo:  “…Poter vivere nella legalità significa avere e poter esprimere un proprio pensiero.”… (un alunno)

Se è vero che l’educazione non può risolvere i problemi, è altrettanto vero che nessun problema può essere risolto senza l’educazione. Non vi è dubbio che educare vuol dire soprattutto creare le condizioni per conoscere, per auto-orientarsi, per generare proprie autonome riflessioni e quindi interrogarsi e interrogare. Su questo terreno del confronto di idee, della discussione e della divergenza di opinioni si sono affrontati con i ragazzi i significati di legalità, norma, diritto/dovere ed il mondo ad essi connesso nella visione e percezione di un adolescente. Ed educare alla legalità, in questa realtà in cui facilmente si scivola nel centrare l’attenzione sul fare antimafia trascurando il contesto in cui prevalgono per lo più, come atteggiamenti di vita quotidiana, l’arroganza, la prepotenza, la violenza, ha significato concentrarsi su quanto i ragazzi stessi considerano la loro realtà interna ed esterna. Infatti, a scapito di qualsiasi opinionismo sulla superficialità della cultura giovanile, gli alunni stessi hanno posto ripetutamente interrogativi in merito a questioni nazionali concernenti prevalentemente il mondo della giustizia e ponendosi in un atteggiamento critico sia nei confronti del garantismo che del piglio repressivo.

Casella di testo:  “Che cosa significa legalità?”..significa dialogo perché consente di escludere il ricorso alla violenza nei rapporti tra le persone; significa libertà perché le regole comuni assicurano lo spazio in cui ogni individuo può agire senza essere sottoposto al potere altrui; significa democrazia perché non è possibile nessuna partecipazione politica quando si è posti sotto la minaccia criminale; significa sviluppo economico perché la mafia soffoca la concorrenza e impedisce l’iniziativa di chi lavora e di chi dà lavoro....afferma Giancarlo Caselli in uno dei suoi tanti incontri con gli studenti, in giro per l’Italia; i 92 ragazzi della Scuola Media Cipolla cui abbiamo somministrato il questionario, più limitatamente individuano la legalità come un insieme di diritti, doveri, regole e leggi, ed il conseguente rispetto degli stessi, come si evince dal grafico n.1 qui di seguito riportato.

Vengono considerate situazioni al limite della legalità comportamenti immorali o irrispettosi come il fumare, inquinare l’ambiente o anche far lavorare i minorenni, ed altresì rimangono al limite della legalità anche le violazioni al codice della strada e l’uso di sostanze stupefacenti (vedi grafico n.2).

 

 

 

 

 

 

 

Casella di testo:

“Se avessi un problema con la giustizia con chi ne parleresti?” il 58% degli intervistati indica al primo posto un genitore evidenziando un buon livello di comunicazione tra le due generazioni o quanto meno una possibilità di dialogo rispetto alle situazioni problematiche, il 41% indica gli amici quale fonte di comprensione sicura e soltanto il 9% si rivolgerebbe ad un insegnante, o meglio ampliando il panorama, ad un adulto poiché, commenta Eleonora, 12 anni, “i grandi, soprattutto quelli che chiedono qualcosa di te, vogliono farti dire quello che loro stessi pensano. Credono di sapere già tutto..”.Dalle parole di Eleonora è scaturito un interessante dibattito sugli assistenti sociali cui è stato fatto un vero e proprio processo rispetto alle modalità di approccio ed ascolto con gli adolescenti.

“Come potresti definire chi commette un reato?” Oltre la risposta tautologica del delinquente, una forte percentuale vede il reo come un incosciente o come qualcuno che ha bisogno di farlo.  Sugli stati d’animo che possono spingere un ragazzo a delinquere, spicca in primo piano la disperazione, seguita dall’incoscienza e poi dalla rabbia e dalla paura di rimanere soli o di non essere accettati dal gruppo dei compagni. Anche l’incomprensione e la solitudine vengono considerati quali vissuti fortemente condizionanti mentre le ipotesi della curiosità o della noia non vengono quasi presi in considerazione quali cause scatenanti di scelte devianti, consce o inconsce che siano. Il questionario, compilato dai ragazzi con disinvoltura e partecipazione, in considerazione della sua brevità, delle tante risposte a scelta multipla e dei toni provocatori, ha riscosso un notevole interesse e ha stimolato una serie innumerevole di domande pertinenti, in special modo, alle conoscenze giuridiche sui reati, alla punibilità e alle procedure legali. In questo caso è stato necessario saturare l’esigenza di informazioni specifiche peraltro corrispondenti ad una serie di situazioni in cui i ragazzi si trovano quotidianamente coinvolti tra quello che è la norma, ciò che permette il comune senso civico, ed il bisogno trasgressivo tipico dell’età.

Casella di testo:  Le riflessioni

Se, da quanto emerge dalla ricerca appena presentata, a spingere i ragazzi di oggi a trasgredire fino al punto di delinquere, non è la noia o la curiosità come spesso gli adulti sono portati a credere, e non è neanche la mancanza di conoscenza dei valori di base di cui rivendicano il rispetto, né la mancanza di comunicazione con i genitori che, tutto sommato sono riusciti a conquistare un certo dialogo e confidenzialità, quali ipotesi si possono allora avanzare come punti di partenza su cui fondare percorsi di educazione ad una legalità possibile? E se, come è ormai assodato nella letteratura specifica di settore, il fatto deviante è sempre un atto di comunicazione che va letto e interpretato con categorie psico-sociali; quali fattori “educativi” meritano attenzione, rispetto a ragazzi “normali”, che apparentemente non manifestano nè sintomi né possibili cause di disagio ?

Intanto è opportuno ricordare che è necessario cercare sempre nuove motivazioni per la legalità in quanto non si tratta di nozioni, di concetti che una volta acquisiti possono essere relegati nei meandri della memoria, ma è ben di più, un valore, tanto più alto, quanto più si appoggia su un sentire etico. L’esperienza condotta ha permesso di individuare e portare alla luce una realtà tanto diffusa quanto sottovalutata: la tendenza dei ragazzi di aree urbane e sociali, sino ad oggi non considerate a rischio, ad allontanarsi dalle istituzioni e dalla legalità per avvicinarsi e far propri modelli di illegalità e giustificazione del reato. Il problema della legalità è un problema che riguarda tutti, gli adolescenti, infatti, vivono spesso in una situazione di illegalità diffusa di cui non sono consapevoli e che incide, invece, negativamente sulla loro formazione e sul loro modo di vivere; inoltre l’etica della responsabilità, individuale e collettiva, a cui deve mirare l’educazione dei ragazzi, è fondamentale nel processo di costruzione dell’identità e della capacità di giudizio critico.

La scelta di operare con le modalità e i contenuti descritti in precedenza, in un  contesto ambientale costituito sostanzialmente da famiglie benestanti, mediamente impegnate nella gestione educativa dei figli, ha affondato le radici nella convinzione, sempre più confermata dai dati statistici, che la devianza minorile non risponde più ad una serie di fattori socio-culturali definiti e riguardanti le marginalità e che l’attuale realtà adolescenziale ci presenta fasce di “marginalità relazionale ed interiore” che esulano dalle rappresentazioni sociali e si intridono nei più disparati tessuti della società privilegiando l’area della cosiddetta “normalità”. Si rende quindi sempre più necessario aumentare le consapevolezze rispetto ad una prevenzione diffusa centrata sul riconoscimento e sull’emersione dei vissuti; il disagio di giovani e adulti è figlio di una solitudine vissuta in mezzo a migliaia di persone, il senso di vuoto è prodotto da una scadente qualità di vissuti pur in un tempo di vita e di lavoro denso di iniziative e di attività. Come evidenziano gli stessi ragazzi intervistati, c’è una forte difficoltà nel vivere, gestire ed esprimere alcune emozioni quali la rabbia, la paura o altri stati d’animo a cui spesso è difficile anche dare un nome.

Un’altro flash di riflessione riguarda il senso e il significato delle regole e di un sistema relativo ad esse. Erika nel compiere quell’efferato delitto non aveva tralasciato di obbedire alla regola posta dalla madre di togliere le scarpe entrando in casa; ed anche uno dei nostri adolescenti di Gela, resosi responsabile di diversi omicidi di stampo mafioso, li commetteva soltanto in certi orari perché il padre, ignaro dei coinvolgimenti criminosi del figlio, teneva a che tutti fossero in casa riuniti per la cena. Quindi è evidente che la regola quale complesso di eventi ordinato e costante che impone prevedibilità ai fenomeni banalizza la relazione educativa riducendola ad un mero esercizio di controllo. Ma poiché l’interazione educativa necessita di regole, in riferimento ai mondi delle persone adolescenti, generare regole non banali potrebbe avere a che fare con il riconoscere l’originalità  individuale e proporre comportamenti spiazzanti, col sorprendersi ed incentivare la reciprocità, col raccontare la vita così come essa è e non come dovrebbe essere. Si tratta di ridefinire i problemi tramite l’apprendimento reciproco e di inventare nuove opzioni diverse dalle posizioni di partenza; si tratta di acquisire nel corso del processo un savoir faire che renda capaci di prendere decisioni in un clima di collaborazione tra diversi; intendendo per savoir faire l’esercizio di alcune competenze di base quali, il saper ascoltare, saper interpretare gli input cognitivi delle emozioni, saper gestire creativamente i conflitti.

 

Le evoluzioni

Da quanto finora riportato, l’identificazione dell’istituzione scolastica come luogo ideale per la promozione di una cultura della legalità tra le nuove generazioni, appare evidente, così come risulta chiara la distinzione che ribadiamo tra diffusione di cultura ed educazione che ci rimanda ad un impegno e ad una continuità le cui coordinate abbiamo tentato di porre attenzione al lavoro proposto. Le esperienze condotte sul campo hanno dimostrato l’efficacia di un approccio basato su un processo di autoapprendimento da parte degli alunni, infatti, se opportunamente guidati, gli stessi sono in grado di trarre da sé una valutazione critica della realtà in modo da elaborare in modo autonomo idee, progetti e desideri di cambiamento. Proprio attraverso questo sforzo personale si giunge ad un assorbimento delle responsabilità individuali e collettive dei cittadini e ad una spinta partecipativa che segnala un certo grado di  maturazione civica. In continuità con quanto realizzato con questa esperienza e grazie al clima di collaborazione instauratosi tra gli operatori che hanno interagito per la realizzazione degli interventi descritti, si è considerato importante promuovere altre iniziative abbinabili ad un’opportunità di finanziamento regionale relativo all’educazione ambientale, costruendo il progetto “Biografia degli spazi” centrato essenzialmente sulla convinzione che l’interazione col territorio è uno degli aspetti fondamentali dell’educazione ad una cittadinanza attiva.

Educare al “vivere bene” diventa quindi educare alla realtà, così come ci indica anche Hannah Arendt, tra le più importanti filosofe del novecento; una realtà che è sì complessa, irriducibile, problematica, ma che è insieme a tutto questo, anche positiva e interessante per noi che in essa viviamo. Quindi l’esperienza non è qualcosa che ci “capita” ma qualcosa che possiamo produrre sistematicamente a partire da come ci rapportiamo alle reazioni dell’ambiente complesso in cui viviamo e dal saper trasformare “dei piccoli appigli in grandi opere simboliche”[3].

 

Le letture

Abruzzese Saverio “Educare alla legalità” in Le nuove Criminalità, a  cura di Melita Cavallo

Abruzzese Saverio “Morire per sbaglio. A sedici anni”

Arendt Hannah “Il,pensiero secondo”, BUR

Cardamone Rocco “Educare i giovani alla legalità” in Polizia e democrazia, n.6/Giugno 1997

Caselli Gian Carlo “ Più legalità, più diritti, più felicità” in Ecole, n.66/1999

Cavana Laura “Educare al coraggio” in Adultità, Aprile 1998

Chitti D.-Gasparetto M.-Vergnani M., “Generare regole non banali” in Animazione Sociale, Aprile 1998

Conte Mino “Educare all’esistenza” in Studium educationis, n.3/98

Don Luigi Ciotti “L’illegalità quotidiana” in Ecole, n.66/1999

Masini Vincenzo “Dalle emozioni ai sentimenti” Ed.Prevenire è Possibile

Masini Vincenzo “La qualità educativa, relazionale e dell’apprendimento nella scuola.” Ed. Prevenire è Possibile

Pastore Enrico, Mario Vaudano “Una ricerca sulla percezione della giustizia fra i giovani”, in Minori giustizia n.2/94

Per una cultura di legalità: il rinascimento di Palermo- atti del Simposio Internazionale, Palermo 14-15 Dicembre 2000 

Regione Toscana “Darsi una mano”, Marzo 2001

Rizzi Armido “Una legalità piena di solidarietà” in Animazione Sociale, Maggio 1994

Sclavi Marianella, La signora va nel Bronx, Anabasi

 



[1] Don Luigi Ciotti “L’illegalità quotidiana”  in Ecole-Legalità ambientale  n.66/99

[2] V.Masini “La qualità educativa, relazionale e dell’apprendimento nella scuola.” Ed.Prevenire è Possibile

[3] Marianella Sclavi, La signora va nel Bronx, Anabasi

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