Il counseling medico e la prevenzione in cardiologia
Daniele Masini e Vincenzo Masini[1]
1. Il paziente cardiologico
L’ interconnessione tra le emozioni profonde e le sue reazioni cardiologiche è oggetto di riflessioni e ricerche da decenni, riuscendo ad uscire dalla intuitiva correlazione tra tipi di personalità, esposizione alle tensioni e attività cardiaca.
Se infatti era intuitivamente vero che l’alto interesse per le attività intellettuali, l’ostinazione, la cavillosità e la ricerca del perfezionismo, potevano essere fattori di rischio per cardiopatie, oggi è possibile correlare i disturbi cardiaci con una grande batteria di test che, oltre ad essere esplicativi possono essere anche predittivi.
Recentemente sono state unificate numerose scale per analizzare la personalità del paziente in cardiologia (Hospital Anxiety and Depression Scale, Illness Perception Questionnaire, Somatosensory Amplification Scale, Private Body Consciousness Scale, Health Anxiety Questionnaire), che valutano l’amplificazione della sensibilità somatica, dell’ansia, della depressione e del pessimismo[2] per semplificare, in un unico modello, diverse componenti psicologiche presenti nei pazienti ospedalizzati. In ambito cardiologico gli studi psicologici riferiscono[3] sull’uso del Cardiac Anxiety Questionnaire (CAQ), utilizzato per misurare l’HFA (ansietà focalizzata nel cuore) come prodotto della paura (e del panico) correlato alla necessità di un intervento, o invitano[4] a formulare una corretta diagnosi di depressione in pazienti sottoposti a by pass coronarico (CABG); l’irritabilità in molti pazienti, che stavano per essere sottoposti a CABG, poteva infatti oscurare la diagnosi di depressione. La corretta ricognizione diagnostica è proposta come indispensabile per ridurre la inappropriata prescrizione di benzodiazepine in luogo di antidepressivi.
Il rapporto tra fattori psicologici e problematiche cardiache è uno dei più classici ambiti di studio della medicina psicosomatica[5]: da tempo, infatti, molti ricercatori[6] hanno cercato di pervenire ad una individuazione della personalità del coronaropatico e dell’infartuato (energici, impulsivi, tendenti al tormento interiore, aggressività con eccessi di collera, perfezionismo meticoloso, latente tendenza persecutoria, ecc.).
Nella letteratura recente vengono associate[7] le aritmie cardiache e le palpitazioni con l’ansia, l’ipocondria (con aumento della autopercezione del battito cardiaco), la tendenza al panico, la paura delle sensazioni corporee e la depressione. Si insiste sul ruolo del disordine panico sulle patologia cardiache[8] al fine di organizzare un trattamento psicologico che prevenga problemi cardiaci, allo stesso tempo viene accertato che la depressione è un fattore predittivo di mortalità in pazienti cardiopatici[9] e che essa, frequente nei soggetti più anziani[10], viene purtroppo raramente diagnosticata e trattata in pazienti coronarici[11].
Alcune attente analisi sui processi psicologici, implicati nei problemi cardiaci (il rapporto mente-cuore), sono effettuate in ambito clinico per analizzare il comportamento dei pazienti dimessi e i processi di aiuto da attuare verso di loro anche con il coinvolgimento delle famiglie[12].
Gli studi sul coinvolgimento del paziente cardiopatico[13] mostrano l’efficacia del trattamenti psicoterapeutici per prevenire la mortalità, le ricadute e gli stress emozionali. Le ricerche condotte sul destino sociale dei pazienti dopo un intervento hanno infatti accertato che: 1) non sembra che ci sia differenza tra i gruppi che hanno subito un addestramento dagli istituti e quelli che non hanno vissuto tale addestramento 2) che i fattori psicologici (ansia e depressione) e sociologici (famiglia, ambiente e lavoro) hanno invece notevole importanza[14].
Dagli studi esaminati emerge con evidenza il legame tra patologia cardiaca, processo di cura e riabilitazione e problematiche psicologiche, che vengono descritte attraverso l’emersione di sintomi ansiosi, depressivi o di attacchi di panico (senza che però venga descritto esplicitamente un comportamento fobico). Tali studi discutono anche sulle implicazioni sociali, famigliari e lavorative del paziente. Complessivamente non giungono però a disegnare quadri idealtipici, per la cui costruzione è necessaria una metodologia di ricerca di impianto psicosociologico al fine di individuare quali siano i tratti socioculturali della personalità, dello stile di vita, di relazione e di lavoro del paziente cardiopatico e modellare su questi l’atteggiamento terapeutico-relazionale più efficace. Ad esempio: interventi di rassicurazione per pazienti ansiosi; di incoraggiamento per pazienti avviliti e spaventati; di informazione per pazienti dubbiosi; di tranquillizzazione per pazienti inquieti o agitati; di sostegno per pazienti depressi.
Tali modelli di relazione sono solitamente messi in atto dai medici, sulla base della loro comprensione empatica, ma possono essere descritti e operazionalizzati anche da parte di chi, pur avendo menori capacità empatiche può sottoporsi ad un adeguato training per svilupparle.
2. Il counseling medico
Il processo di lavoro preventivo sulle patologie cardiache rende necessario l’utilizzo di metodi di approccio al paziente e di comunicazione con lui che non possono essere demandati ad altra figura professionale, lo psicologo, ma che debbono essere posseduti dal personale sanitario nel suo insieme, sia che si voglia relazionarsi con pazienti portatori di patologie acclarate sia se si voglia invece sviluppare attività di prevenzione.
In questo quadro l’ipotesi di fornire al personale sanitario strumenti di counseling può rappresentare un modello di sviluppo delle professioni sanitarie per riavvicinare i cittadini e i loro mondi-della-vita-quotidiana alle strutture sanitarie preposte alla gestione di questi fondamentali bisogni sociali.
Sono molti gli ambiti della salute/malattia su cui il counseling può incidere positivamente, soprattutto sul versante comunicativo: la preparazione comunicativa del counselor non si ferma alle teorizzazioni astratte ma quella che si confronta con la realtà e si modula adattandosi continuamente alle contingenze, con uno schema di riferimento a maglie larghe che gli permetta di interpretare il reale in maniera snella e veloce. Il counselor “deve, oltrechè possedere, essere in grado di trasmettere flessibilità come unica strategia di coping[15] per l’inevitabile incertezza con cui dobbiamo ogni giorno confrontarci”[16].
Il counseling è un percorso di ricerca di strade nuove, di equilibri accettabili, di vie di uscita quando un problema (qualunque problema) diventa soggettivamente insostenibile e riduce le capacità di vedere ed inventare soluzioni.
Il counseling è un processo co-istituito, in cui
“l’operatore è lo strumento essenziale del colloquio e l’esito del percorso è il risultato e il prodotto della dinamica, di quella dinamica specifica, instauratasi tra il cliente e l’operatore. È per questo che più che un lavoro, è un arte, un’arte che poggia su conoscenze scientifiche e su competenze esperienziali. Peraltro non si vuole dimenticare..lo specifico carattere educativo che, secondo chi scrive, deve contraddistinguere il modo di accompagnare il cliente nel suo percorso di presa di coscienza, miglioramento e/o acquisizione di nuove strategie di fronteggiamento della propria esistenza”[17].
Il counselor affianca il suo cliente nella ricerca, senza guidarlo, senza sostituirsi a lui, senza indicargli soluzioni già pronte, ma ricostruisce ed esplicita le risorse e i limiti del soggetto da aiutare, valorizzandone le sue capacità e spronandolo ad autodeterminarsi, autonomamente.
«Il dialogo di sostegno non assume alcuna modulazione di tipo persuasivo, non è né convincente né insistente, non è ripetitivo o penetrante. La sua modulazione è estemporanea, apparentemente disordinata e frammentaria: è il soggetto che fa suo un filo logico sottointeso alle parole, riempiendo i vuoti ed usando la sua logica personale associa il messaggio ai vissuti empatizzati. Il sostegno richiede sensibilità ed autocontrollo»[18]
«..Il colloquio clinico è un incontro, uno scambio; ma non uno scambio qualunque. Nel colloquio clinico al centro è la persona, con ciò che mette in gioco di sé, con ciò che vuole migliorare della sua vita, con i suoi bisogni espliciti e quelli non detti. La persona che arriva in consulenza..ha già riconosciuto di avere un problema da risolvere e di avere la necessità di essere aiutata per trovare la propria soluzione personale alla questione. Ciò significa che di fronte allo stesso problema, ci possono essere soluzioni diverse, dipendenti dalla personalità, dalle circostanze e, soprattutto, dalle risorse interne su cui si può contare per aiutare la persona a gestire le circostanze..in alcuni casi il Counselor si troverà ad attivare un processo di cambiamento radicale delle condizioni esistenziali del richiedente; in altri casi, si potrà solo individuare il modo migliore per negoziare con una realtà non modificabile»[19]
La prima veste che il counselor deve imparare ad indossare è quella di “Artigiano dell’Educazione”, intendendo con questa espressione «tutti quegli uomini che, nella semplicità della vita quotidiana, agiscono con interventi educativi rivolti al loro prossimo e trasferiscono, da una generazione all’altra, la cultura dei valori costruita dall’umanità nel corso dei secoli. Il loro è un sapere artigianale…»[20], la cui prima finalità è quella di aiutare l’individuo, la coppia, la famiglia in situazione di sofferenza ad essere più liberi[21]: recidere i condizionamenti, stimolare l’autonomia, dare coraggio nella presa di decisioni, interrompere il reiterarsi di copioni appresi e automatici, elevare la consapevolezza di sé, insegnare a guardarsi a conoscersi, a “coccolarsi” o a rimproverarsi[22].
Il counseling è un intervento breve, al termine del quale il cliente potrebbe anche non avere cambiato il suo modo di essere, ma sicuramente avrà affinato le sue personali tecniche di fronteggiare i problemi, primo tra tutti quello specifico per il quale ha chiesto l’intervento del counselor, avrà raccolto nuove informazioni, avrà ampliato le sue ipotesi, avrà scoperto nuovi punti di vista.
«Essere counselor significa..entrare in contatto con una persona tanto velocemente quanto intensamente, accendere una discussione importante, confrontarsi e poi lasciare che la persona faccia la sua scelta e trovi in se stessa le risorse per metterla a regime. Non risolvere il problema, ma insegnare a farlo, in poco tempo, con grande precisione. Evitando di condizionare esercitando pressioni reiterate nel tempo..ma solamente offrendo una visone alternativa»[23].
Le tecniche del counseling sono varie e non rigide: non sono regole, sono possibilità. Le pricipali sono: il “silenzio”[24], “l’ascolto attivo”[25], “la comunicazione dinamica”[26], “la comunicazione narrativa”[27]; “la comunicazione simbolico-cognitiva”[28], l’osservazione dei particolari, “il rimprovero”[29], “l’incoraggiamento”[30], “l’insegnamento”[31], “il coinvolgimento emotivo”[32], “la tranquillizzazione”[33], “il sostegno”[34], “la gratificazione”[35], il gruppo di incontro[36], l’accoglienza[37], gli homework[38], l’auto biografia che, peraltro sono gli stessi che stanno riempiendo di contenuti l’importante approccio alla malattia proposto dalla medicina narrativa.
L’essenza della professione del counselor sta in una capacità specifica, la quale attraversa trasversalmente tutte le aree citate: la comunicazione. Proprio per fronteggiare la mancanza di capacità comunicativo-relazionali che sembra il grande deficit di tutte le professioni sociali odierne, a cui il counseling, invece, propone una risposta concreta:
«Per far fronte ai problemi e ai dissesti prodotti da questo analfabetismo comunicativo, emotivo e relazionale stanno emergendo da vari anni nuove professioni: dal counsellor relazionale al mediatore famigliare, dallo psicoterapeuta della coppia al consulente aziendale, dal formatore specializzato in comunicazione interpersonale, all’addetto alle relazioni con il pubblico. Non solo, ma anche molte professioni tradizionali si stanno accorgendo dell’importanza di integrare la propria formazione con saperi e tecniche attinenti la sfera interpersonale ed emozionale, dai manager ai formatori, dagli insegnanti ai medici»[39].
Il bagaglio comunicativo-relazionale del counselor gli permette di sintonizzarsi sull’unicità della persona con cui a che fare, esplorando tutte le varie componenti che strutturano quella specifica e unica personalità, ma, allo stesso tempo di riportare quella unicità in un insieme di casi simili, dai quali ci si può aspettare un comportamento e delle reazioni simili, anche se non identiche.
3. Il counseling in sanita’
L’aspetto comunicativo sembra la principale lacuna di cui soffre il mondo della salute e della malattia ed è proprio questo aspetto la principale risorsa del counselor. Sono numerosi gli esempi di questo importante gap relazionale: l’aumento esponenziale delle denuncie di malpractice; l’aumentata prassi dell’auto-cura; la consuetudine dei cittadini a cambiare spesso medico (di fiducia?), il rifugiarsi in pratiche esoteriche, ecc. Tra le principali ragioni di questi fenomeni sembra che l’insoddisfazione dovuta alla qualità dell’incontro relazionale umano tra operatori sanitari e pazienti sia la principale. Questo accade principalmente perché i “linguaggi” di queste due categorie di attori sociali appaiono sempre più distanti e incomprensibili.
Quando viene richiesto agli operatori sanitari di indicare le principali difficoltà che riscontrano nella comunicazione con i pazienti[40], la maggior parte di essi fa riferimento alla chiarezza, alla comprensibilità del messaggio inviato, difficoltà scaturente spesso da una iper-tecnologizzazione del linguaggio bio-medico, il quale sembra perdere di vista il vero referente delle sue attività, l’essere umano sofferente, il quale viene spesso ridotto all’organo malato o nei casi migliori incasellato in fredde linee guida, non viene ascoltato e non viene analizzata la sua narrazione[41] di sofferenza, perdendo così informazioni fondamentali per intervenire sulla patologia.
Le situazioni concrete in cui vengono meno chiarezza e comprensibilità sono molte e differenti tra loro[42]; alcuni esempi forniti dagli utenti di due ospedali con cui si è entrati in contatto:
Il linguaggio: sembra questo il primo ostacolo che disturba la reciproca comprensione. Viene spesso sottolineato il rischio comunicativo connesso con l’uso e l’abuso di termini tecnici, fenomeno piuttosto frequente a detta degli pazienti intervistati: «e non parliamo poi di come scrivono i medici, sembra che lo fanno a posta a non farti capire niente, ma che ci vuole a scrivere bene, in stampatello o con la macchina da scrivere ..no? secondo me lo fanno per essere ritenuti importanti..guardi questo referto, guardi!..ma è possibile, no..dico è possibile? Io non ho ancora capito che ho»[43]; anche i rischi di incomprensione connessi alla competenza linguistica dell’ascoltatore possono incidere pesantemente sulla riuscita della comunicazione. L’impiego di termini difficili e di uso non comune può rendere difficile la comunicazione: locuzioni come “accanimento terapeutico”, “posologia”, “cronicità”, “neoplasia”, “angiografia” non sono necessariamente presenti nel dizionario personale di chiunque; questa difficoltà viene inoltre accentuata dalla bassa scolarizzazione della maggior parte dei malati dei nostri tempi, infatti moltissime ricerche epidemiologiche indicano il massiccio aumento di patologie cronico-degenerative[44], le quali hanno come bersagli privilegiati gli anziani e gli indigenti, categorie sociali generalmente poco acculturate e scolarizzate. Il rischio di incomprensione è in questi casi accentuato dal fatto che le persone sovente si vergognano di chiedere delucidazioni nel timore di sembrare ignoranti, e il silenzio fa pensare a chi parla di essere stato capito. E’ ovvio che in una società multiculturale tale rischio possa risultare ancora più elevato; va però detto che, restando in Italia, anche il colloquio con chi si esprime in bergamasco o in napoletano può presentare notevoli difficoltà; e d’altra parte avviene che la persona possa trovare difficile tradurre in italiano ciò che è abituato a pensare in dialetto.
Il rischio di una comunicazione distorta e inefficace esiste anche quando si utilizzano termini di uso comune, poiché non è detto che il significato ad esse attribuito sia il medesimo per ambedue gli interlocutori. Il senso che uno dà a una parola è infatti frutto della sua storia personale, della cultura a cui appartiene, delle emozioni che a quei termini si collegano, del lessico familiare o amicale.
Ad esempio, la parola “sfogo” ha, nel linguaggio comune, una connotazione negativa, essendo spesso riferita a una manifestazione esteriore di un malessere interiore: sfogo epidermico di una alterazione interna al corpo; sfogo di pianto per un dolore interiore; ecc; ma per esempio nella teoria psicodimanica ha anche un valore positivo poiché è l’inizio di un processo di catarsi, infatti è l’indicazione di dove andare a cercare il blocco, il trauma; per il counselor uno sfogo del cliente può essere un indizio che si và nella direzione giusta nella relazione di aiuto, spesso esplicita la riuscita della connessione empatica; in una relazione amicale lo sfogo è sintomo di confidenza. Questo esempio mette in evidenza come il significato denotativo di un termine non deve essere assunto in maniera semplicistica e veloce, ma deve essere contestualizzato ed esplorato in profondità, nel tentativo di cogliere tutti gli eventuali significati connotativi, i quali possono fornire imprescindibili informazioni sulla rete semantica di riferimento dell’interlocutore.
La distanza tra i significati è ancora più evidente quando si utilizzano figure retoriche, metafore, giochi di parole o battute di spirito: una metafora adeguata e condivisa dai partecipanti alla comunicazione è spesso fondamentale per definire concetti altrimenti complessi, che richiederebbero pesanti parafrasi verbali, ma non è sempre così e non è sempre facile riuscirci, infatti anche in questo caso la locuzione deve appartenere al campo cognitivo dell’altro, a un ambito cioè che non gli risulti estraneo; non deve inoltre risultare eccessivamente spiazzante o, peggio, essere percepita come irritante o offensiva. La possibilità di fraintendimento ed equivoco è ancora più probabile quando si formulano battute umoristiche: a volte si utilizzano per cercare di sdrammatizzare una situazione difficile, ma non di rado avviene che l’altro si senta deriso e preso in giro. La prudenza e la cautela sono in questi casi d’obbligo, tanto più se si ignora del tutto il significato che l’altro o gli altri danno alle parole e ai concetti; e del resto nulla è più imbarazzante di una battuta che suscita, anziché riso o allegria, una reazione di gelo, di chiusura o di difesa.
L’utilizzo di numeri per veicolare un’informazione: questo problema è stato ampiamente discusso, soprattutto da parte degli epidemiologi, i quali si sono interrogati sulla modalità migliore per trasmettere informazioni attraverso un confronto numerico; quindi, per esempio, è meglio quantificare le probabilità ( in 1 caso su 10, su 100, su 1000) o limitarsi a parlare di probabilità “bassa”, “alta”, “media”?; oppure nel caso si scelga di utilizzare i numeri è meglio dire: il 10% degli ipertesi sviluppa questa patologia; oppure che su 10 individui affetti da ipertensione uno svilupperà la patologia in questione? In base ad alcune ricerche parrebbe che per la comprensione sia preferibile quantificare le probabilità e utilizzare la seconda formula. Va tuttavia ricordato che è largamente diffuso quello che è stato definito “analfabetismo numerico”, che colpisce molti individui indipendentemente dalla cultura e dalla posizione sociale; in altri termini, davanti ai numeri molte persone bloccano ascolto e comprensione e tendono a dimenticare rapidamente le cifre. E’ inoltre molto difficile per un individuo, che si percepisce come una singola unità, identificarsi con una percentuale. Questo per ricordare che i numeri nella comunicazione vanno usati solo se assolutamente necessario e facendo attenzione che quanto diciamo abbia davvero senso per l’altro. L’uso eccessivamente disinvolto di numeri, percentuali, valori soglia e così via può rendere il messaggio oscuro e produrre inoltre malintesi.
Le cose ritenute importanti non sono necessariamente le stesse per l’uno e per l’altro degli interlocutori. Se le priorità non coincidono, la comunicazione si fa difficile e succede spesso, in questi casi, che il professionista, a cui appare chiaro, evidente, scientifico che le informazioni che lui deve dare sono le più utili, le più vantaggiose per il maggior benessere dell’altro, non tenga in considerazione ciò che per l’interlocutore è invece importantissimo. Esplorare le priorità dell’altro o degli altri prima di dare informazioni o indicazioni è invece una mossa comunicativa fondamentale: se infatti l’altro avverte che ciò a che a lui sembra importante non è preso in considerazione dal professionista, semplicemente smette di ascoltare o assume un atteggiamento ostile e pregiudiziale. La possibilità di tessere una comunicazione efficace e produttiva si interrompe sul nascere e tra i due lo scambio diventa più improbabile, anche perché ricucire una divergenza creata dalla delusione è piuttosto difficile. I pericoli di questo processo relazionale fallito sono molti: il professionista può interpretarlo come accettazione e comprensione di quanto dice, e non indagare oltre, scoprendo solo troppo tardi che le sue informazioni e le sue prescrizioni sono cadute nel vuoto, quando il fenomeno della non-compliance si è ormai strutturato provocando i suoi danni.
Un’altra frequente causa di blocco della comunicazione, quindi di incomprensione e di malintesi, ha a che fare con la accettabilità e con la praticabilità delle informazioni e delle indicazioni da parte di chi le riceve. Spesso i professionisti della salute si dilungano in prescrizioni note e banali oppure impraticabili, compromettendo la sintonizzazione del paziente il quale crede di essere già informato al proposito, per cui smette di ascoltare. All’interno di queste possibilità si possono presentare i seguenti esempi:
- “fumare fa male”
- “mangiare i grassi animali è nocivo”
- “vai in palestra”
- “si prenda momenti di pausa dagli impegni quotidiani”
- “bisogna fare movimento”
- “un solo bicchiere di vino a pasto e non di più”
queste affermazioni, per quanto veritiere e fondamentali, vengono recepite come poco interessanti e scontate, non stimolano l’attenzione dell’ascoltatore, il quale si distrae e rischia di perdere indicazioni importanti associate a queste usuali locuzioni. Questa situazione si verifica soprattutto se la comunicazione non viene fatta in maniera congruente, cioè se non c’è coerenza tra linguaggio verbale e non verbale, tra comunicazione simbolica e narrativa, modulata in base alle caratteristiche dell’ascoltatore. Spesso l’operatore sanitario utilizza lo stesso tipo di messaggio per tutti i pazienti, dall’anziano al giovane, dal cardiopatico al dializzato:
«Il problema secondo me è sempre di comunicazione, i pazienti si sentono dire sempre le stesse cose, anche perché sono quelle e non ci si può fare niente, ma si sentono dei numeri e non delle persone perché insomma non viene considerata la specifica situazione di quella persona, la sua sofferenza, spesso i medici sono talmente stufi, brigativi, dedicano due minuti a paziente e poi via, io li capisco ehh, perché se non hai organico non puoi metterti a spiegare, però poi il risultato è che il paziente è insoddisfatto e soprattutto non segue le indicazioni che gli dai»[45]
Un altro scoglio importante da tenere presente nella comunicazione al paziente è l’accettabilità del messaggio, essa ha a che fare con i principi dell’individuo, siano essi religiosi, culturali o etici: spesso la persona capisce perfettamente il senso del messaggio, ma non può metterlo in pratica perché non ne accetta le premesse. Se questo campo non viene esplorato, il professionista può pensare di non essersi espresso con sufficiente chiarezza oppure che l’altro si comporti in modo irragionevole. Esempi lampanti di questa situazione sono l’impossibilità di praticare trasfusioni di sangue ai testimoni di geova o le difficoltà connesse all’accesso al corpo da parte di operatori sanitari del sesso opposto a quello del paziente, situazione ricorrente con individui eccessivamente ortodossi sia di religione cristiano-cattolica che islamica. Riportiamo una testimonianza di una studentessa di medicina che rende bene l’idea di questo tipo di frattura comunicativa causata dall’appartenenza a culture differenti:
«Questa vecchietta, morente, aveva un dolore fortissimo a l’ano, ogni volta che capitavo nella sua stanza la vedevo piangere e lamentarsi, anche il figlio era venuto a parlare con il medico chiedendogli spiegazioni, ma il medico gli ha risposto che non gli risultava perché quando le faceva la visita addominale, con la palpazione lei non si lamentava, ma comunque questa continuava a stare malissimo e a dire che voleva morire, che non era possibile sentire questi dolori eccetera..allora ho deciso di chiedere al medico perché non gli facessero un antidolorifico e mi ha risposto, come al solito, che a lui non risultavano dolori tali da richiedere un antidolorifico, a quel punto sono stata chiara ed esplicita e gli ho detto: “guardi a me continua a dire che ha delle fitte fortissime allo sfintere anale, non lo so perché a lei non lo dice”. Insomma siamo venuti a sapere che si vergognava a dire ad un uomo che gli faceva male quella parte del corpo»[46]
Si fa esperienza tutti i giorni della necessità di figure intermedie, di ponti tra linguaggi diversi, di ruoli sfumati ispirati dalla multidisciplinarità e dalla tolleranza, che cercano l’integrazione. Anche i ruoli consolidati come il medico o l’infermiere si trovano a rendersi conto di questa necessità e chiedono aiuto. In sanità il ruolo di esperto dei differenti linguaggi umani, incarnato nel counselor, comincia ad essere necessario, ed è una esigenza avvertita anche dai diretti interessati: gli studenti di medicina, i medici, gli infermieri, i pazienti. La malattia e la salute sono universi complessi, in cui le diverse componenti si intersecano e si influenzano a vicenda. La malattia non è solo disturbo fisico, ma è anche ruolo sociale, e anche vissuto interiore; mettendo in evidenza le tre facce della malattia si desume facilmente come la figura “ibrida” del counselor possa contribuire efficacemente a favorire una visione completa e integrata dell’essere malati:
· Disease (il disturbo fisico, la cui competenza spetta principalmente al medico, anche molte volte la manifestazione bio-organica altro non è che una conseguenza di un malessere psico-sociale; in casi come questo ultimo la competenza nel trattare il problema non è più solo del medico, ma anche di un esperto psico-relazionale);
· Sickness (il ruolo sociale del malato);
· Illness (il vissuto psicologico del malato).
Questi tre possibili modi di interpretare e leggere la malattia non possono essere che considerati nel loro insieme per non rischiare di perdere dettagli ed informazioni importanti per intervenire su di essa e alleviare la sofferenza che ne deriva.
4. La medicina narrativa
La narratività in medicina non è solo una anamnesi più accurata ma non è nemmeno una leziosa ed estenuante ricerca di particolari biografici; implica un diverso modo di intendere ciò che è rilevante; la narratività conduce alla co-costruzione del significato ma non è l’unica via per addivenire ad un senso condiviso; la narratività è un modello “nuovo” in medicina ma non nelle scienze umane, anzi queste ultime hanno il compito di indirizzare la narrative medicine verso la ricerca delle aree bonificate da deviazioni metodologiche e verso strumenti di analisi qualitativa valicati.
il programma di medicina narrativa dell'Università della Colombia diretto da Rita Charon, finalizzato ad addestrare i medici in abilità narrative nella lingua umana ordinaria e nella scrittura autobiografica riflettente.
”La medicina narrativa è emersa come nuova struttura per la medicina clinica e comprende le abilità testuali ed interpretative nella pratica della medicina. Se i medici possono riconoscere, assorbire, interpretare e scegliere attività terapeutiche sulla base delle descrizioni dei loro pazienti, l’esercizio della professione medica, contrassegnata da empatia, conduce all’efficacia… Con addestramento rigoroso e disciplinato in tali abilità narrative e la riflessione sulle proprie esperienze cliniche, i medici possono imparare ad assistere i loro pazienti proprio sulla base di quanto i pazienti dicono loro (nelle parole, nei silenzi, nei gesti). Possono così riconciliare le molte versioni contraddittorie della loro storia clinica… La teoria e la conoscenza narrative forniscono le strutture concettuali fondamentali per tutte le dimensioni della medicina, mentre le abilità ed i metodi narrativi forniscono i mezzi per realizzare cure competenti. Molte sono le implicazioni pratiche e concettuali della medicina narrativa in molte funzioni del lavoro clinico. La più importante è il rapporto medico-paziente, che può essere migliorato attraverso l’empatia… La pratica narrativa può aumentare la professionalità dei medici che possono spiegarsi tra di loro, così come con altri professionisti del settore medico-sanitario” [Charon, 2001:1899].
L’effetto sui processi comunicativi della narratività è immediato perché distoglie dal linguaggio clinico della biomedicina. Per due motivi: diminuisce la complessità del linguaggio biomedico e chiarisce i suoi passaggi allusivi. Tali linguaggi sono mascheramenti: in funzione del paziente verso il quale si sta formulando un’ipotesi diagnostica incerta, ma potenzialmente tragica oppure perché elitari e blasé o, addirittura, squalificanti, nei confronti di colleghi meno esperti. Ovviamente sono anche estremamente complessi proprio per la quantità di contenuti da esprimere. La narrazione consente di selezionale i contenuti, importanti per la diagnosi e per la terapia, sulla base di altri criteri su una gamma di informazioni più ampia nella quale vi sono spesso sintomi e sensazioni (che il paziente può esprimere in linguaggio comune) rilevanti per la diagnosi spesso non considerati importanti (si vedrà, ad esempio, più avanti nell’intervista al dottor Romano). Questo processo è anche agevolato dalla scrittura riflessiva o dalla narrazione letteraria che porta ad “esaminare ed illuminare situazioni narrative centrali per la medicina: medico e paziente, medico e se stesso, medico e colleghi, e medici e società. Con competenza narrativa, i medici possono raggiungere ed unirsi con i loro pazienti nella malattia, riconoscere i loro personali percorsi attraverso la medicina, riconoscere il legame che li accomuna e li obbliga verso altri professionisti della sanità ed inaugurare un processo conseguente con il pubblico sul significato di sanità. Gettando un ponte su ciò che divide medici e pazienti, colleghi e società; la medicina narrativa offre nuove occasioni per la cura medica rispettosa, empatica nel ricevere e nutritiva nel trasmettere” [Charon, 2001: 1900].
L’uscita dalla disputa tra EBM e NBM potrà presentarsi attraverso l’apertura verso l’olismo come categoria che introduce nella diagnosi e nella terapia una nuova classe di dati malamente maneggiati attraverso il solo approccio evidence. Questa interconnessione passa proprio attraverso il ruolo del counselor in sanità con molteplici funzioni:
· Analisi dei climi relazionali di un reparto o di una unità operativa: questo tipo di analisi è applicabile sia alle equipe di lavoro (medici, infermieri, tecnici), sia ai pazienti al fine di migliorare la loro relazione interpersonale e rendere possibili incontri significativi umanamente e utili alla cura del paziente. Questo tipo di operazioni sembrano essere, anche, un antidoto preventivo al burn out[47] dei professionisti. Occorre precisare che il clima relazionale di un reparto muta in base alle reali persone che lo compongono, quindi in un reparto ospedaliero, ad esclusione di quei reparti di lungodegenza e per malati cronici, cambierà giorno per giorno, è però utile rintracciare la struttura di base soggiacente, quella creata dalle persone che frequentano il reparto quotidianamente, come ad esempio medici e infermieri; inoltre è da tenere in considerazione che il clima relazionale di un qualsiasi gruppo è anche determinato dall’ambiente fisico e culturale in cui si realizza l’incontro tra individui.
· Progettista di programmi di miglioramento della qualità relazionale: il counselor può indicare delle strategie ad hoc per cercare di migliorare il rapporto tra i soggetti appartenenti ad un determinato gruppo, può promuovere e condurre un gruppo di incontro, un gruppo di lavoro o di formazione, colloqui individuali, ecc.
· Orientatore ai servizi; le competenze relazionali sono utili anche nel lavoro di front-office, attività socialmente disdegnata e considerata di secondo piano, ma che determina in maniera sostanziale il giudizio del paziente sulla qualità del servizio ricevuto[48].
· Mediatore culturale e di senso: il counselor affiancato al medico permette la comunicazione tra due culture probabilmente distanti, quella dello scienziato bio-medico e quella dell’utente, la quale può essere più o meno lontana da quella scientista del medico. Le culture di provenienza dei pazienti possono essere le più disparate in una società multi-culturale e globalizzata come quella odierna: non ci si riferisce soltanto a culture ed etnie straniere (albanese, magrebina, ecc.), ma anche a sotto-culture interne alla nostra come le culture giovanili (il punk, l’hip hop) o più semplicemente la cultura operaia o contadina. In questo caso il compito del counselor è quello di gettare ponti e permettere l’incontro tra differenti modi di leggere la realtà, anche quella bio-psico-sociale.
· Mediatore nei conflitti: questo ruolo, spesso svolto dal personale degli U.r.p. (Ufficio Relazioni con il Pubblico) delle aziende sanitarie, si ricollega al precedente punto, infatti per mediare e risolvere situazioni di conflittualità occorre possedere più codici linguistici e culturali al fine di rendere possibile l’incontro tra diversi punti di vista, personalità e pretese, così da spegnere il fuoco del conflitto e promuovere il chiarimento.
· Educatore sociale nelle situazioni di disturbo comportamentale o della personalità. Il supporto psico-sociale nelle situazioni di disagio è uno degli interventi classici del counseling anche all’esterno della sanità, quindi è evidente il bagaglio esperienziale che può portare all’interno di un ospedale.
· Progettista di strategie di soft quality ambientale: l’incontro e la confidenza di mondo vitale con utenti e operatori rende il counselor in grado di percepire i bisogni e le aspettative, esplicite e latenti, dei soggetti e quindi può fornire indicazioni preziose alla dirigenza per quanto riguarda la funzionalità, l’ergonomia e la qualità estetico-ambientale della struttura ospedaliera. Queste attenzioni determinano la qualità percepita dall’utenza e dal personale portando l’Azienda ha degli importanti risultati: maggiore fiducia e rispetto da parte dei cittadini, maggiore compliance da parte dei pazienti, maggiore accessibilità e umanizzazione delle cure, un accentuato senso di appartenenza dei dipendenti, una conoscenza relazionale diretta tra i vari operatori, un canale comunicativo e relazionale più efficace tra i “modi-della-vita” dei cittadini e gli apparati sistemici dell’Azienda[49].
· Sostegno individuale nelle situazioni di bisogno, counseling diretto ai pazienti e ai famigliari, finalizzato ad alleviare la sofferenza psico-relazionale connessa alla situazione di malattia, riscoperta delle risorse individuali della persona malata, incoraggiamento ad affrontare i disturbi derivanti dalla patologia, empowerment del paziente, ecc. Questa attività di sostegno può essere utile anche per il personale sanitario, infatti il counseling ottiene ottimi risultati nelle situazioni di mobbing[50] e burn out, soprattutto in ambito sanitario dove il ritrovare la motivazione e lo slancio valoriale è un percorso di rottura con le prassi consolidate, una piccola rivoluzione interna al soggetto, che deve abbandonare gli abiti consueti e ritornare in dietro di molti anni a quando aveva scelto di intraprendere questa carriera.
· Collaborazione con esperti di ricerca sociale nella progettazione e nello svolgimento di analisi della qualità percepita e dei bisogni degli utenti, questo lavoro può andare nella direzione della valutazione sociologica, della analisi etnografica e della ricerca-intervento di stampo psicologico.
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[1] Il saggio è da considerarsi il frutto di una riflessione comune, ad ogni modo Masini Daniele è responsabile della redazione dei paragrafi 2 e 3, Masini Vincenzo dei paragrafi 1 e 4 .
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[15] «Coping: strategie agite basate su processi cognitivi di adattamento all’ambiente» [Studio Associato Prevenire e Possibile (2005), Dizionario Tascabile del Counseling, Arezzo, cit. pag 4]
[16] L. Barbagli (2004), Un orientamento semplice ed efficace, in Barbagli L. – Mazzoni E. (a cura di), Prevenzione e orientamento nell’obbligo formativo, Prevenire è Possibile, Arezzo, cit. pag. 9
[17] D. Troiani (2005), Il colloquio clinico, Dispense del corso, Arezzo, cit. pag. 1
[18] V. Masini (2005), Medicina Narrativa, FrancoAngeli, Milano, cit. pag 234
[19] D. Troiani (2005), cit. pag. 2
[20] V. Masini (2000), Dalle emozioni ai sentimenti, Prevenire è Possibile, Caltagirone, cit. pag. 19
[21] Cfr. V. Masini (2000)
[22] « In psicologia del cambiamento si passa da una fase di immobilità, ad una di reperimento delle risorse, a quella di attivazione delle energie, infine alla presa decisionale. Per innescare tale processo ed arrivare alla decisione c’è bisogno dell’innesco… il counselor fa il fiammifero, cercando di fare luce sopra l’apparente confusione, aumenta la consapevolezza e poi scompare per lasciare libera la persona » [E. Mazzoni (2005), Essere un counselor, in M. Martelli (2005) (a cura di), Orientare perché, “I quaderni della Valtiberina”, Toscana n.15, Sansepolcro
[23] Ibidem (2005), cit. pag. 55
[24] «Prima tecnica da applicare nel colloquio clinico..significa mettere tra parentesi, transitoriamente, il proprio Sé e i propri bisogni narcisistici per dare spazio all’altro. Solo in questo modo è possibile entrare nel contesto in cui si muove l’altro, comprendere le sue difficoltà all’interno di quel contesto e ipotizzare una soluzione, o un miglioramento situazionale, che siano realistici rispetto alla personalità del cliente e al mondo in cui è inserito» [D. Troiani (2005)]
[25] «ascolto attivo: sintonizzazione sul contenuto emozionale e fattuale di quanto viene detto dal cliente» [Studio Associato Prevenire e Possibile (2005), cit. pag. 2]
[26] Comunicazione centrata sui ruoli, in questo caso sul ruolo del counselor e su quella del cliente, utilizza prevalentemente atti comunicativi illocutori, proposti affinché l’altro agisca [Cfr. V. Masini (2005); D. Masini – V. Masini (2005), Narrative medicine e medicine complementari nella percezione degli studenti di medicina, in Medicina/Medicine. Le cure "altre" in una società che cambia, “Salute e Società”, FrancoAngeli, Milano]
[27] La comunicazione narrativa e relazionale si fonda sulla sensibilità alle sofferenze altrui anche a seguito di loro personali, o famigliari, vissuti di sofferenza. Il counselor empatizza affettivamente le emozioni e le sofferenze del cliente, riuscendo ad anticipare le risposte dell’altro, il quale si trova immediatamente a suo agio, gli atti linguistici esercitati in questo tipo di comunicazione sono quelli locatori, cioè atti che utilizzano parole dotate di significato, come negli atti di descrizione e di constatazione [Cfr. V. Masini (2005); D. Masini – V. Masini (2005)]
[28] La comunicazione simbolico-cognitiva si differenzia dai precedenti perché richiede un continuo sforzo di intuizione e di elaborazione delle problematiche dell’altro. Il counselor, attraverso il processo empatico-cognitivo, entra nello schema mentale del cliente, si fa prossimo a lui mediante l’oggettivazione esplicativa dei sui vissuti e, successivamente, della appropriazione percettiva del suo punto di vista. Questo tipo di approccio comunicativo utilizza soprattutto atti perlocutori, i quali tendono a produrre un preciso effetto nel ricettore. [Cfr. V. Masini (2005); D. Masini – V. Masini (2005)]
[29] «Modalità della comunicazione educativa atta a impedire un’azione o a bloccarne una già iniziata. Prescrizione» [Studio Associato Prevenire e Possibile (2005), cit. pag. 15].
[30] «Comunicazione necessaria quando è necessario arginare gli effetti della demotivazione e del timore dell’ignoto» [Troiani (2005), cit. pag.6]
[31] «..Far prendere coscienza di contenuti, far ragionare e far riflettere..contempla sia forme di comunicazione euristica..sia l’ostensione di modelli, e di rappresentazioni, di cui l’educando si appropria.. “Apprendere ad apprendere” è un processo descritto come acquisizione di forme mentali che consentono di elaborare le informazioni.. L’insegnamento, nell’artigianato educativo, è un modello di comunicazione finalizzato a porre l’educando alla giusta distanza dal sé, dalle relazioni, dal mondo, a liberarsi dai pregiudizi e a mettere in discussione le precedenti impressioni, convinzioni o condizionamenti..Il soggetto selettivamente più affine a questo tipo di comunicazione e il delirante, nella sua versione di creativo portatore di libertà e di autostima ed i personaggi, che hanno maggiore bisogno dell’insegnamento educativo, sono l’adesivo e l’invisibile» [V. Masini (2000), cit. pag. 171]
[32] «..È l’obiettivo della comunicazione espressiva ed artistica ed ha lo scopo di aprire l’altro alla percezione di sensazioni ed allo sperimentare emozioni..è il luogo specifico dell’emersione di carismi: se la vibrazione emotiva è attiva nel comunicatore, ed egli è particolarmente trasparente, gli altri possono immedesimarsi nel suo vissuto e far proprio il suo stato emotivo..il soggetto che meglio coinvolge emotivamente è lo sballone..è efficace nei confronti degli adesivi e degli avari. Nei primi sposta l’emozione di attaccamento verso la sensibilità protettiva, nei secondi sposta l’ansia di controllo verso l’impegno» [Ibidem (2000), cit. pag. 173-174]
[33] «..significa spegnere le tensioni e chiudere i processi che alimentano la produzione di energie..è una spugna che assorbe ogni tipo di feed-back, senza restituire alcun segnale e senza modificare il tono ed il ritmo circolare del tono comunicativo..chi riesce efficacemente in una comunicazione tranquillizzante è l’apatico. Non si accende, e non si eccita, ma si esprime trasmettendo pace. Destinatari di tal comunicazione sono l’avaro per spegnere la sua ansia e il ruminante per calmare la sua tensione» [Idem (2000), cit. pag. 175]
[34] «Per sollevare gli altri è necessaria l’umiltà. Sostenere non significa “dar carica”..è un rapporto fondato sulla discrezione e sulla disponibilità a sacrificare qualcosa di sé per favorire un’altra persona. Chi sostiene non è mai in vista, sta alle spalle del soggetto da sostenere..comunicare sostegno significa saper sorreggere le difficoltà altrui, le sofferenze altrui ed anche la disperazione. Sostenere impedisce il cedimento della vita mentale altrui..sostenere una persona in difficoltà..è offerenza alla persona di fiducia nel suo successo» [Idem (2000), cit. pag. 177]
[35] «I complimenti sono la forma più semplice e diffusa di comunicazione gratificante..porta il soggetto al consolidamento nelle scelte..ha la proprietà di far entrare in contatto le persone con quella parte positiva di sé,di cui non sono mai del tutto certe..gli adesivi sono i più efficaci nel complimentarsi e nel gratificare..non si tratta di dire ciò che uno vorrebbe sentirsi dire, si tratta di individuare qualcosa di più che l’altro non vede di sé» [Idem (2000), cit. pag. 179]
[36] «Il gruppo di incontro è un metodo di relazione tra persone che, in sé, fornisce strumenti per mettere in contatto esperienze umane anche lontane e aiuta a comprendere come sia possibile superare il disagio..vive con al centro il concetto di empatia..all’interno del gruppo di incontro vengono alla luce sia i sentimenti nella loro forma attuale che le persone nella loro identità di coscienza..è un luogo relazionale dove le persone si possono riaprire alla possibilità di coglimento empatico» [Idem (2000), cit. pp. 5-19]
[38] Compiti a casa: «utili, in taluni casi, per consentire alla persona di mantenere l’attenzione sulla questione da risolvere, anche tra un incontro e l’altro. Gli homework, solitamente, prevedono la redazione di diari per l’automonitoraggio di comprortamenti, pensieri o entità dei sintomi; oppure, prevedono la messa in atto di strategie comportamentali nuove, l’esito delle quali dovrà essere comunicato al Counselor nella seduta successiva» [D. Troiani (2005), cit. pag. 6]
[39] Cfr. E. Cheli, Relazioni in armonia, FrancoAngeli, Milano, 2004
[40] Cfr. D. Masini (2005), Soft quality e qualità percepita per il nuovo ospedale di zona di Narni-Amelia, Tesi di Master, Valutazione della qualità dei servizi socio-sanitari, Università “Alma Mater Studiorum” di Bologna
[41] Cfr. A. Kleinman (1977), “Depression, somatization and the ‘New Cross-cultural Psychatry’ ”, Social Science and Medicine; A. Kleinman (1978), “Clinical relevance of Anthropogical and Cross-cultural Research: Concepts and Strategies”, American Journal of Psychiatry; A. Kleinman (1980), Patient and healer in the context of culture. An exploration of the borderland between Antrhropology, Medicine and Psychiatry, University of California Press, Berkeley; A. Kleinman (1988), The illness naratives: Suffering, healing, and the human condition, Basic Books, New York; A. Kleinman (1995), Writing at the marging: Discourse between Anthropology and Medicine, University of California Press, Berkeley; A. Kleinman – L. Eisenberg – B. Good (1978), “Culture, illness and care: Clinical lessons from anthropological and cross-cultural research”, Annals of Internal Medicine; A. Kleinman – E. Mendelsohn (1978), “Systems of medical Knowledge: A comparative approch”, Journal of Medicine and Philosophy; A. Kleinman – L.H. Sung (1979), “Why do indigenous practitioner successfully heal?”, Social science and Medicine; B.J. Good (1977), “The heart of what’s matters: The semantic of illness in Iran”, Culture, Medicine and Psychiatry; B.J. Good (1999), Narrare la medicina. Lo sguardo antropologoco sul rapporto medico-paziente, Edizione di Comunità, Milano; G. Giarelli (2005), Medicine non convenzionali e pluralismo sanitario. Prospettive e ambivalenze della medicina integrata, FrancoAngeli, Milano; G. Giarelli (2005), Storie di cura. Medicina narrativa e medicina delle evidenze: l’integrazione possibile, FrancoAngeli, Milano; V. Masini (2005)
[42] Cfr. D. Masini (2005); D. Masini (2004), La sociologia della salute. Il rapporto umano tra medico e paziente, le medicine alternative nella percezione dello studente di medicina, Tesi di Laurea in Scienze della Comunicazione, Università degli Studi di Perugia; D. Masini – V. Masini (2005)
[43] Stralcio di intervista ad un paziente estrapolato da D. Masini (2005)
[44] Cfr. A. Ardigò (1997), Società e salute. Lineamenti di sociologia sanitaria, FrancoAngeli, Milano; G. Giarelli (2003), Il malessere della medicina. Un confronto internazionale, FrancoAngeli, Milano
[45] Stralcio di intervista ad un medico di laboratorio [D. Masini (2005)]
[46] Stralcio di intervista tratto da D. Masini (2004)
[47] La sindrome del Burn Out o dell’Uomo Bruciato si sviluppa soprattutto in ambito sociale e sanitario ovvero in tutti quegli ambienti lavorativi caratterizzati da alta mission, ma anche da condizioni pratiche e concrete non sufficienti a garantire il conseguimento delle ambiziose finalità del servizio. Nello specifico, si tratta di una particolare forma di depressiva: uno stato di esaurimento fisico ed emotivo che si manifesta con un senso di affaticamento, svuotamento e totale demotivazione al lavoro. Il Burn Out non è mai frutto di un singolo evento traumatico, è piuttosto un lento logoramento interiore che si sviluppa lungo un percorso caratterizzato da quattro fasi principali: un primo momento di forte motivazione al lavoro ed entusiasmo idealistico, un secondo di “stagnazione”, un terzo di “frustrazione” ed un ultimo momento di passaggio dalla empatia alla apatia, che costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste a una vera e propria morte professionale.
[48] Cfr D. Masini (2005a)
[49] Cfr. D. Masini (2005a)
[50] Per Mobbing si intende una strategia finalizzata all’emarginazione, all’offesa ed all’isolamento di un lavoratore. L’estrema conseguenza di questo processo non è solamente il licenziamento ma anche l’annientamento del soggetto a tutti i livelli, sia professionali che personali. Le conseguenze hanno un notevole peso per il lavoratore a livello psicofisico ma anche per l’azienda che ne vede gravemente compromessa la produttività. Anche i costi sociali risultano assai consistenti ed il reinserimento proficuo al lavoro dei soggetti colpiti è assai problematico. Le patologie più frequentemente correlate al processo di Mobbing sono il disturbo dell’adattamento, il disturbo acuto da stress ed il ben più grave disturbo post-traumatico da stress.