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IDEALTIPI DELLA RELIGIOSITA’ E DIALOGO INTERRELIGIOSO
Vincenzo Masini
Pubblicato in R. De Vita e F. Fabio, La religione nella società
dell'incertezza, Angeli, 2003
Martin Buber sostiene che l’uomo trova la sua vera identità laddove può realizzarsi dialogicamente e che solamente attraverso un rapporto dialogante può realizzarsi il suo sviluppo. “Il movimento fondamentale del dialogo, scrive Buber, consiste nel rivolgersi a qualcuno o a qualche cosa...Quando si guarda qualcuno o gli si rivolge la parola bisogna naturalmente rivolgersi al lui con il fisico e, nella misura necessaria, con l’anima dovendo fissare su di lui la nostra attenzione...Chi si rivolge all’altro come tale, riceve da lui un mondo. Soltanto l’essere di cui ho riconosciuto l’alterità e che mi vive di fronte nella concretezza della sua esistenza, mi reca le irradiazioni dell’eternità” [Buber, 1959:120].
L’obiettivo di questo saggio è la proposta di costruire un dialogo sulla base del programma di ricerca della sociologia delle emozioni[1]. L’apertura dialogica è umile e prudente poiché si propone come studio e riflessione svolti all’interno della sola religiosità cristiana, ma, in ragione del fatto di essere stata stimolata dall’osservazione degli atteggiamenti della religiosità di altri contesti, insegue il sogno di poter aprire un colloquio, discreto ma profondo, sui tratti comuni alle diverse esperienze religiose, fondandosi sulla comunanza delle emozioni dell’uomo espresse nei sentimenti religiosi.
La variegatura di tali sentimenti ha una prima verifica nel divario tra le impostazioni dottrinali e il comportamento religioso attuato. Per quanto intransigente, o tollerante, (a seconda delle fasi storiche e in funzione della rigidità dell’istituzione e della distanza -fino all’eresia- dei comportamenti e/o delle affermazioni degli adepti) possa essere l’atteggiamento conservatore dell’ortodossia verso i comportamenti che fuoriescono dalla normatività, la pluralizzazione dei modi di esprimere la religiosità è un processo ininterrotto nella storia. All’interno di ogni religione esistono diverse forme di religiosità, derivate sia dalla cultura che dalle forme proposte dalle istituzioni religiose, ma scaturite dai modi umani di relazionarsi al divino.
Thomas Luckmann [1963] classifica i fenomeni religiosi in due modelli: quello delle rappresentazioni proposte dalle istituzioni religiose e quello delle forme private delle visioni del mondo derivate dalle strutture di personalità. Il primo modello dipende dalle tradizioni, dall’impostazione della specifica religiosità e dalla loro cultura, dalle “credenze e dalle pratiche relative alle cose sacre” [Durkheim, 1912]. Il secondo modello immette direttamente nella analisi degli atteggiamenti: questi possono essere definiti perché obbediscono a criteri basati sulle possibili classificazioni del temperamento dell’uomo, delle sue emozioni, dei suoi sentimenti e della sua personalità.
In questa prospettiva il programma di ricerca proposto muove dall’ipotesi che gli atteggiamenti dei credenti verso la religiosità possano essere ricostruiti a partire dai tratti umani fondamentali, presenti nella natura psicofisica degli uomini. Se questa ipotesi è valida può diventare possibile comprendere gli aspetti del vissuto religioso, dal punto di vista interreligioso, e tracciare una mappa del loro senso.
Si tratta di generalizzare ad altre religioni l’espressione, contenuta nella relazione di Giacoma Limentani, “i diversi petali dell’Ebraismo”, e cioè i diversi modi in cui si realizza la religiosità nell’Ebraismo. Tali “diversi petali” non possono però essere ricondotti entro i confini della “religione naturale”, “religione popolare” o “religione tradizionale”, termini con i quali si descrive l’implementazione nel mondo sociale delle istituzioni religiose. "Non è la religione a creare la religiosità, ma la religiosità a creare la religione" argomenta George Simmel descrivendo come la religiosità venga prima della religione[2] e si attui nei mondi della vita con tutte le “profonde differenze di pensiero e di azione, di volta in volta espresse o represse, rese esplicite o implicite” che producono “riverberi sull’agire sociale del singolo” [Cipriani et alii:1999, p.141].
Le categorie della religiosità, vere e proprie “qualità” di religiosità, sono rintracciabili nel comportamento religioso del singolo come una miscela diversificata tra alcune componenti “base”; categorie idealtipiche individuabili a partire dai tratti emozionali fondamentali dell’umano.
Le miscele attuali tra i tratti base, conducono ad un processo di differenziazione esponenziale; “per certi versi nel passato si registrava pure una maggiore omogeneità, almeno all’interno delle singole appartenenze. La situazione attuale consente non solo la diversificazione già sperimentata in precedenza, ma dà luogo ad altri percorsi inusitati di ibridazione” [Cipriani et alii: 1999, p.143].
Questa estrema differenziazione è però una risorsa per il dialogo interreligioso e interculturale perché costringe alla presa d’atto delle differenze plurime, alla analisi dello somiglianze, allo sforzo di comprensione del vissuto altrui, alla oggettivazione della comunanza, alla provocazione verso il superamento della diffidenza, allo sviluppo della comprensione e della crescita di ciascuno verso la piena e solare espressione della umanità rintracciabile in ciascuno e in tutti.
La ricerca sui pellegrini del Giubileo
Gli idealtipi di religiosità sono emersi dai dati della ricerca sul pellegrinaggio giubilare, organizzata da Costantino Cipolla e Roberto Cipriani [2002], della quale è stato dato alle stampe solo il primo dei sette volumi di cui si compone.
La possibilità, offertami dai curatori di prendere visione delle storie di vita dei pellegrini ed analizzare le tipologie scaturite dalle analisi fattoriali, mi ha condotto a ridurre, in una classificazione di sette idealtipi, il campione dei soggetti intervistati e dei soggetti che hanno descritto la loro storia di vita.
Leggere le categorie della religiosità attraverso le categorie del
pellegrinaggio può apparire riduttivo di componenti della religiosità ma le
rispondenze presenti in alcune ricerche[3] dimostrano quanto
l’esperienza del pellegrinaggio sia coessenziale all’esperienza religiosa come
apogeo di una ricerca umana del sacro e di una religiosità totalizzante, in cui
“ricerca religiosa e viaggio si sommano”[4].
Anche il più basso livello di partecipazione interiore avviene comunque in un
frangente, temporale e spaziale, reso particolare dal senso del viaggio; lo
specifico del pellegrinaggio giubilare è poi un fatto sociale totale in cui
tutte le prototipiche categorizzazioni sociologiche della religiosità sono
(quasi sicuramente) compresenti, con diversi gradi di partecipazione.
La categorizzazioni presentate dai diversi autori dei saggi sui pellegrini giubilanti, hanno importanti tratti in comune. Martelli [2002][5] discute una tipologia di religiosità rituale, dottrinale, conoscitiva, esperienziale, ecclesiale, vitale e comunitaria già presentata altrove [1995], De Iorio [in stampa] individua attraverso l’interdipendenza tra le codifiche sensitivity item otto dimensioni di significato: «Impegno realistico e responsabile, Motivazioni al viaggio giubilare, Valore della partecipazione familiare, Educazione ed appartenenza, Preghiera dei giovani testimoni, Pratica religiosa gradita, Fede responsabile degli anziani, Valori e senso».
Se si accorpano le due categorie
di De Iorio centrate sull’appartenenza «Valore della partecipazione familiare, Educazione ed appartenenza» in un unico idealtipo denominato “devoto”, espressione con la quale si
individua nell’appartenenza il nucleo portante della devozione (vedremo più
avanti il perché), è possibile individuare le seguenti categorie della
religiosità: ritualista, militante,
ricercatore, emozionale, convenzionale, intimista e devoto.
Gli atteggiamenti psicologici che li contraddistinguono accomunano l’intera umanità[6] poiché sono rintracciabili, come espressione dei temperamenti psiconeurologici, nei movimenti elementari del sé. La loro universalità e la loro comunicabilità è dimostrata dalla discussione dei processi empatici proposta da E. Stein [1985], che li distingue, con rigore scientifico, dall’associazione, dall’imitazione e dall’inferenza analogica. Attraverso l’empatia è possibile cogliere ciò che l’altro vive nel momento in cui egli è di fronte a noi. Insieme al suo sentire percepiamo anche il fatto che lui esiste e che la sua coscienza è attiva. Il coglimento empatico è, infatti, la capacità di accettare e fare proprie le emozioni altrui senza confusione tra sé e l’altro: “Mentre empatizziamo, arricchiamo il nostro sentire e "noi" avvertiamo ora una gioia diversa da quella avvertita singolarmente dallo "io", dal "tu", dal "lui". Ma "io", "tu", "lui", vengono conservati nel "noi", e il soggetto dell'unipatia non è un "Io", ma un "Noi". E noi esperiamo gli altri non attraverso l'unipatia, bensì attraverso l'empatia, questa rende possibile tanto l'unipatia quanto l'arricchimento della propria esperienza vissuta" [Stein, 1985: 89].
L’oggetto dell’esperienza è dunque una dualità: la realtà di una persona altra
da noi e ciò che quella persona vive nel momento in cui è prossima a noi. Questi
due oggetti però si confondono: il soggetto può percepire ciò che l’altro vive
in ragione del fatto che la condizione umana si presenta come una comunanza di
“sentire”: tutti gli uomini percepiscono e vivono le stesse emozioni pur se le
elaborano dando vita a sentimenti complessi. Perciò vi è anche "il caso in cui
quella tendenza del vissuto empatico a diventare un'esperienza propria
originaria non può verificarsi, per il fatto che "qualcosa in me" vi si oppone:
un mio vissuto proprio momentaneamente presente oppure la costituzione della mia
personalità" [Stein, 1985: 85]. In altre parole la comunicazione empatica può
interrompersi e non dar vita ad un dialogo di comprensione reciproca qualora i
diversi “io” siano autoreferenziali e chiusi all’empatia[7].
La possibile comunanza del sentire si spezzetta allora in tanti diversi rivoli
di interpretazione e di elaborazione, si chiude in localismi culturali e
comunitari regressivi.
Il superamento dell'egocentrismo e la riapertura all’empatia, già
individuato da Dymond [1950] in climi sociali necessari e indispensabili a tale
apertura, caratterizzati da rapporti collaborativi ed affettivi, tali da
migliorare nel soggetto la capacità di comprendere aspetti di se stesso prima
sconosciuti [Greenson, 1967], empatizzando la comprensione
altrui del
proprio vissuto, può avvenire anche potenziando l’empatia cognitiva
[Gladstein, 1989][8],
nella stessa direzione proposta da Ardigò [1988] attraverso l’empatizzazione
socio-sistemica. Le vie di realizzazione di tal forma di empatia sono le
mediazioni interculturali e interreligiose; insorgono nella cognizione dell’uomo
quando riconosce come suoi i gesti e la pratiche altrui perché il velo posto di
fronte ai suoi occhi dalla autoreferenzialità o dalla incomprensibilità di un
atto altrui, dovuto alla diversità culturale, si squarcia. L’uomo dunque
riconosce come assimilabili ai propri gli atti altrui, comprendendo in
profondità, il processo emotivo che li genera.
Questa modalità di empatizzazione cognitiva è possibile attraverso eventi cognitivi che aprono alla comprensione, anche scientifica e non solo esperienziale, della comunanza umana attraverso la diffusione delle acquisizioni delle neuroscienze, in particolare la neuropsicologia delle emozioni di base. Esse sono le emozioni sperimentate dal bambino nel primo anno di vita quando il processo biologico della sensazione[9], che a loro corrisponde, si trasforma in evento psichico. Il minimo repertorio emozionale a cui fare riferimento per una discussione (si spera sintetica ma esauriente dei principali vissuti emozionali dell’uomo), è composto da:
La paura, che è prodotta dal dolore. La sensazione del dolore produce l’attenzione ad evitare il ripetersi dell’esperienza. Da questa nascono tutti i meccanismi di difesa e il processo di controllo[10] su di Sé e sulla realtà.
La rabbia
scaturisce dal processo di caricamento di energie interne. E’ reattività
“contro”. Con essa si esprime il risentimento o la stizza per non vedere
esaudito un bisogno: il bisogno di attenzione affettiva o di nutrimento in
primis. Se nella tensione verso la soddisfazione si frappone un ostacolo, la
carica si trasforma in aggressività (se poi la rabbia è rivolta al sé, in
depressione).
Il
distacco
è simmetrico all'attaccamento. Implica il riconoscimento della distanza tra sé e
l'”altro” (o tra il sé e una parte del sé, mentale o corporeo: “il bimbo scopre
il suo piede; si accorge che la mamma non c’è; ha un sussulto perché sente
sbattere una porta; si accorge che il carillon si è spento; si accorge che il
sapore che sente non è quello del latte materno;…). Si può leggere nel suo
manifestarsi l’emersione delle sensazioni di trasalimento e sorpresa, oppure può
ridifferenziarsi in accettazione (e riattaccamento) o rifiuto (il disgusto,
sensazione che precede e accompagna il vomito e, cioè, il rifiuto di
“nutrimento” insano e nocivo). La sua trasposizione simbolica nello psichismo lo
trasforma in percorso di separazione, di distanziamento e di liberazione
Il
piacere
è da intendersi più propriamente come desiderio di piacere, tensione verso il
piacere. E' intimamente connesso con la perdita di confini e la sensazione di
essere tutt’uno con l’altro. Piacere è la fusionalità assoluta nel gioco di
carezze ed effusioni con la madre. Si esprime nel sorriso endogeno del bambino,
nel sorriso sociale, nella gioia, nell’esultanza, nel giubilo.
La quiete
è, in prima spiegazione, l'assenza di emozioni percepite. Essa stessa diventa
però un movimento emozionale teso a spegnere tutto ciò che disturba la quiete.
La
vergogna
è connessa alla sensazione di essere “gettato nel mondo” e, dunque, alla
disposizione al percepire l’intorno con forte sensibilità. Implica un senso di
forte esposizione ai segnali del mondo da cui si sente la necessità di ritrarsi,
scomparire, fuggire e nascondere la propria esistenza[11].
L’attaccamento è la base biologica sui cui si è sviluppata l’affettività; il bimbo si sente riconosciuto e amato nel momento in cui incontra il seno, e sente un sapore che appartiene al mondo in cui era e percepisce l’attenzione affettiva nel connettersi della sua bocca al seno. La spinta biologica ad esistere lo conduce a succhiare e nel succhiare incontra l’altro. L’attenzione di attaccamento materno empatizzata diventa “voglia di essere oggetto di attenzione”, “bisogno di attenzione”, “bisogno di nutrimento”. La spinta contenuta in ciascuna di queste tendenze all’azione è un moto emozionale primario, quasi mai “puro”, sempre miscelato con infinite sfumature a ciascuna delle altre tendenze.
Nel nostro modello il punto di vista è il sottile filo logico che collega le sensazioni, diversamente vissute a seconda della psicofisiologia del temperamento[12], alle emozioni prototipiche. La sensazione è ben diversa dall’emozione poiché in quest’ultima appare la coscienza del vissuto; (la differenza tra la paura in un uomo o in un cane è determinata dal fatto che, pur avendo tutti e due paura (magari l’uno dell’altro) l’uomo è cosciente di avere paura, il cane sente la paura e basta (e magari la potenzia empatizzando la paura dell’uomo). E’ la coscienza che consente all’uomo di modulare la sua paura, intenzionalmente, miscelandola con altre emozioni. Così come le emozioni sono prodotte dalle sensazioni attraverso l’emersione progressiva nella coscienza, i sentimenti sono costruiti sulle emozioni attraverso i valori.[13]
Con una modellistica di sociologia delle emozioni si può collegare la spinta emozionale ai diversi copioni di comportamento in cui si elicita la fenomenologia religiosa, ciascuno dei quali misurabile come un continuum di assenza assoluta o di presenza massima di uno specifico tratto[14]. I copioni di comportamento religioso che si leggono in controluce nei fattori individuati da De Iorio, e che corrispondo a copioni centrati sulle emozioni di base, sono: impegno realistico e responsabile presente nel ritualista; motivazioni al viaggio giubilare nel militante; valori e senso nel ricercatore; pratica religiosa gradita nell’emozionale; fede responsabile degli anziani nel convenzionale; preghiera dei giovani testimoni nell’intimista; valore della partecipazione familiare, educazione ed appartenenza nel devoto.
Lo sforzo concettuale di descrivere il diverso sentimento religioso dei pellegrini in funzione dell’atteggiamento complessivo della personalità verso la religiosità, che contempla, principalmente, lo stile di vita, la motivazione, l’orientamento morale ed i valori riconosciuti, e si esprime in gesti, abitudini, linguaggio, percezioni e relazioni preferenziali, trova un riscontro ancora più significativo nella precedente ricerca di De Iorio sulle risposte alle domande aperte del questionario ai pellegrini[15].
Focalizzando l’analisi sulle cinque domande aperte[16] De Iorio fa uso “di una strategia di categorizzazione sistematica a due stadi, il primo consente di individuare degli aggregati di primo livello con operazioni univoche replicabili e di quantificarne la rilevanza in termini di ricorrenza di lemmi, il secondo stadio si avvale dell’analisi fattoriale per inferire categorie di contenuto dalla quantificazione degli aggregati di primo livello” [De Iorio L., 2002: 127]. L’analisi fattoriale individua quattordici dimensioni di significato che ampliano la riflessione sui tipi di religiosità introducendo un connotato valoriale ad ogni tipo di vissuto religioso. Questa operazione di ricerca è feconda di significati: può infatti condurre a dare risposta a questioni quali: dove finisce l’ardore e dove comincia il fanatismo? Dove finisce la devozione e comincia la dipendenza? Qual’è il punto di non ritorno del dubbio metodico ma creativo e inizia il relativismo nichilista? Dove la tranquillità e la serenità confinano con l’apatia e il disimpegno? Quando l’etica del sacrificio si trasforma in rassegnazione autodistruttiva? Come mai l’eccesso di ritualità impedisce di pervenire a stadi contemplativi del vissuto religioso? Quando questi ultimi rischiano di allontanare dalla razionalità e condurre a visioni magiche? La risposta a questi temi è di tipo morale e psicologico, dal punto di vista dell’analisi sociologica si può ricavare un concetto guida: ciascun tipo presenta una ambivalenza. Il vissuto religioso può mostrarsi con sentimenti equilibrati e maturi o scivolare in eccessi di manicheismo, intolleranza, individualismo, fanatismo, chiusura, autoreferenzialità, integralismo.
Reclutare all’interno dell’analisi idealtipica il riferimento alle 14 dimensioni di significato, espresse nei raggruppamenti dei lemmi, apre dunque ad un visione più problematica della religiosità nei risvolti di ambivalenza che ogni idealtipo contiene. La successiva tabella 1 pone, accanto ad ogni dimensione di significato, un idealtipo e la sua dimensione ambivalente.
Tabella 1
Dimensioni di significato |
Raggruppamenti concettuali |
Idealtipo
|
Ambivalenza dell’idealtipo |
Celebrazione e festa della Chiesa |
Celebrazione – Festa – Chiesa – Cattolicità |
Ritualista |
|
Rinnovamento spirituale |
Anima – Rinnovamento – Convertirsi |
|
Ritualista verso dottrinale |
Straordinario evento religioso e mondiale |
Religione – Evento – Troppo commerciale |
Militante |
|
Responsabilità personale del destino eterno |
Preparare – Morire- Vita Eterna |
|
Militante verso depresso |
Momento di riflessione spirituale |
Pensare – Riflettere – Bilancio |
Ricercatore |
|
Valutazione critica dell’emarginazione dei poveri |
Emarginazione poveri - Valutazione negativa |
|
Ricercatore verso criticismo relativistico |
Felicità dell’essere opposta all’avere |
Essere – Felicità – Non avere |
Emozionale |
|
Visitare Roma città bella ma con i barboni |
Occasione - Visitare Roma |
|
Emozionale verso turista disimpegnato |
Pellegrinaggio simbolo dell’identità cristiana |
Pellegrinaggio – Cristianità |
Convenzionale |
|
Riconciliazione e perdono |
Perdono – Riconciliazione – Peccare |
|
Convenzionale verso automatismo dell’assoluzione |
Gradire Dio benefico |
Accadere – Dio – Beneficiare - Indulgenza |
Intimista |
|
Intenzione di senso nel beneficare |
Annullare - Beneficiare |
|
Intimista verso annullamento di sé nel sacrificio |
Anno santo – Incontro religioso mondiale |
Terreno – Mondo – Incontrare |
Devoto |
|
Rinnovamento della propria fede |
Proprio – Rivedere – Fede |
|
Devoto verso dipendenza |
Il sistema di lettura presentato nella precedente tabella collega diversi punti di vista in una visione unitaria a cui deve essere però aggiunto un ultimo importante elemento. I copioni derivati dalle sette emozioni di base e gli idealtipi religiosi mostrano un certo grado di coerenza, sufficiente a connotare i tipi traendo spunto dalle storie di vita, ma vi è una ultima ragione a cui affidarsi per giustificare questo repertorio di vissuti religiosi e cioè la concordanza trovata tra le idealtipicità delle personalità psicologiche e i modelli di descrizione dell’umano all’interno della cultura cristiana[17], in particolare nel manifesto del Cristianesimo, quel discorso sulle beatitudini che Gesù rivolge alla folla dall’alto di una montagna in prossimità di Cafarnao:
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i
perseguitati per la giustizia, perché di loro è il Regno dei Cieli.
Questa pagina del Vangelo di Matteo sembra voglia indicare all’uomo una invarianza della condizione umana e della religiosità. Nella consapevolezza di operare un intervento di connessione tra livelli di lettura arbitrariamente collegati tra di loro, ma anche di ricavare da tal arbitrarietà un forte stimolo alla creatività descrittiva, si può porre esplicitamente una ultima questione circa le ambivalenze dei tipi. La prima frase del discorso alla montagna “Beati i poveri di spirito perché di loro è il Regno dei cieli” annulla le ambivalenze che possono però essere ritrovate nelle indicazioni di Giovanni alle sette Chiese di Efeso, di Smirne, di Pergamo, di Tiatira, di Sardi, di Filadelfia, di Laodicea. Una ulteriore connessione che porta tutto il discorso all’interno della cultura e della religiosità cristiana. Questo può essere un limite per una classificazione interculturale ed interreligiosa ma può anche essere letto come una autentica proposta a sondare, insieme ad altri, le variegate pieghe del sentire e dell’agire religioso.
Tutte le categorie hanno, infatti, un implicito rischio di riduzione e di
compressione della diversità. L’obiettivo che qui si persegue è “una
comprensione di ciò che accomuna e di ciò che si distingue come valore della
diversità: non essere più stranieri”[De Vita, 2002: 30] con il rischio di non
ottemperare, per i limiti della nostra angusta comprensione, al pieno rispetto
della alterità altrui che chiede, nell’incontro, “non uccidermi e, con
insistenza, non ridurmi, non ridurre nessuno a un tuo racconto“ [id]. Il
desiderio che anima questa ricerca è il rispetto del pluralismo che “non elimina
l’aspirazione all’universale ma lo ridefinisce. L’universalità è una capacità
comunicativa che un messaggio possiede, cioè la capacità di farsi intendere da
coloro che ad essa non appartengono, pur continuando a parlare la propria
lingua. I particolari possono trovare una convergenza in un universale.
L’universalità pertanto è un obiettivo da raggiungere piuttosto che un principio
di partenza” [id. p. 31].
3. Le categorie delle religiosità
La riflessione sociologica sui pellegrinaggi valida questo evento come un luogo rilevante per l’analisi della religiosità: il pellegrinaggio, infatti, è un fenomeno comune a molte religioni, in esso si esprime una dinamica apicale della religiosità. Le caratteristiche di “movimento” del pellegrinaggio consentono una partecipazione interiore al fenomeno collettivo che rende possibile la presenza simultanea nell’evento anche da parte di persone molto diverse, con visioni della vita e atteggiamenti lontani tra di loro e con un’ampia oscillazione tra le gradazioni delle loro scale di valori.
I personaggi individuati tra i pellegrini del giubileo sono: il ritualista, il militante, il ricercatore, l’emozionale, il convenzionale, l’intimista e il devoto. In ciascuno dei pellegrini si può ipotizzare un diverso grado di compresenza di tali atteggiamenti[18]. Proviamo a studiarne l’essenza.
Il ritualista. Vive nel bisogno di definire, difendere, ordinare e gestire l’ordine della legge. Il rapporto tra paura e nascita delle istituzioni, come bastioni contro la malvagità degli uomini [Dahrendorf, 1972: 332] è un classico della sociologia: sta nella capacità di gestione della paura l’innesco dei processi di razionalizzazione; per difendersi dall’incertezza gli uomini sanciscono norme finalizzate a contenere le pulsioni. La norma si fonda sulla ripetizione consapevole dei comportamenti socialmente accettati che si incarnano più marcatamente in taluni individui piuttosto che in altri. Costoro interiorizzano fortemente il valore della responsabilità, che si traduce nel bisogno di rendere stabili le acquisizioni ed i comportamenti più efficaci ed importanti per l’uomo.
La
religiosità ritualista si rivolge al Deus absconditus che ha dominato per
secoli l’immaginario religioso con punti di contatto con la tradizione
dualistica manichea (Dio non è onnipotente ma limitato dalla potenza del
male). Il Dio giustiziere imprigiona il ritualista con la paura del Giudizio e
lo conduce al senso di colpa, al bisogno di espiazione, ai rituali, al controllo
di sé e degli altri. Il suo compito interiore è difendere le conquiste della
religiosità e renderle chiare, ordinate, comprensibili e praticabili,
sacralizzandole e istituzionalizzandole con tutti gli strumenti possibili[19]. Vive la paura che le
acquisizioni della fede possano essere perdute e le difende dai nemici, dalla
corrosione, dal dubbio e cerca di renderle salde, certe, inequivocabili,
razionali. Il ritualista è un difensore della fede, conservatore, che vive il
suo essere nel mondo con il senso razionale ed ordinato del dovere, incline al
dogmatismo come necessità di preservare la verità anche quando essa è difficile
da spiegare. Per il ritualista il cambiamento è sempre problematico ed è
diffidente rispetto ai cambiamenti. Egli ha fame e sete di giustizia
nelle piccole e grandi questioni della vita. Il senso della responsabilità
conduce il ritualista a farsi carico dei problemi ed a manifestare un grande
bisogno di giustizia. Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché
saranno saziati. Qui sta l’ambivalenza: accettare il suo bisogno di
giustizia, senza perdersi nella paura e nell’ansia del controllo e considerarlo
un bisogno[20],
tra i tanti della condizione umana, oppure sentirlo come un imperativo
categorico a cui obbedire per partito preso, per missione o dovere. La
religiosità è imprescindibile dalla ritualità, pur se essa può essere
ambivalente: è infatti fondamento e conferma della fede, sostiene nei momenti di
incertezza ed impedisce le regressioni verso stadi più primitivi, dubbiosi,
evanescenti della condivisa conquista del rapporto con Dio. Ma può anche essere
totalizzante, inclusiva per pochi ed esclusiva per molti, priva di senso del
limite, di innovazione, di ricerca e di evoluzione verso altri stadi, più
complessi e maturi, della conquista di religiosità da parte dell’uomo[21].
Questa condizione è specificamente presente quando religione e cultura si
fondono e diventano identità “definita anche dalle sue manifestazioni del
“sacro” e del rito”, garantisce una appartenenza ad un gruppo preciso, etnico,
nazionale, sociale, che fornisce in cambio una certa stabilità sociale, uno
statuto, una visione del mondo, una maniera di pensare, in breve, come si è
detto, una cultura, ma che può caratterizzare quello che alcuni definiscono
“nuovo tribalismo” per indicare il riemergere dei localismi, delle identità di
gruppo etniche e, più in generale, un nuovo rapporto tra territorialità della
religione e identità” [De Vita R., 2001: 41].
Il militante
La
persecuzione, agita e subita, è l’aspetto più inquietante della espressione
della religiosità: l’uomo che agisce volendo realizzare la giustizia nell’ordine
delle cose, spesso perseguita o viene perseguitato per il suo impegno. Beati
i perseguitati per la giustizia, perché di loro è il Regno dei Cieli. Chi è
il militante? é
colui che è spinto dalla sua energia a dare il massimo dell’impegno, che è
energia, spesso nella forma sublimata dell’ardore, e rappresenta il lato
virtuoso della rabbia, applicato alla trasformazione del mondo. Il militante non
è contemplativo, non è convenzionale, non si ferma di fronte alle difficoltà.
Tira dritto verso la sua impresa senza lasciarsi distogliere da dubbi e
incertezze. Costruisce e difende le sue costruzioni dai predatori, dai
mistificatori e dai falsificatori. Nel suo costruire si sente perseguitato
perché, in solitudine di fronte ad una impresa, non può opporre, di fronte alle
critiche ed alle squalifiche, nessuna altra certezza che la dottrina. Non riesce
a capire perché gli altri non capiscono. Il militante è un membro attivo, un
combattente, un estremista, un crociato, un fondamentalista. Attraverso il suo
impegno si realizza e, fino a quando è orientato nelle realizzazione delle opere
e della loro contingente concretezza, riesce a dare il meglio di sé ed a
realizzare imprese eccezionali[22].
Quando il suo impegno incontra ostacoli diventa pericoloso perché scivola sul
piano della lotta, dottrinale, logica, oppositiva, armata. La tipologia
sociologica di questo gruppo è assimilabile a quella della “religione vitale”
[Canta, 1995] espressione che ha un significato ben diverso da quello attribuito
da Martelli [1995] di “un fedele che si riconosce nella Chiesa senza riserva
alcuna”, “praticante assiduo e fervoroso…ligio nella osservanza di
tutto…Manifesta di avere alle spalle una buona preparazione religiosa, dovuta
anche ad una vicinanza all’istituzione ecclesiastica, nei confronti della quale
mostra un atteggiamento positivo e di fiducia incondizionata. Per questo motivo
ritiene che non siano da introdurre novità nella vita e nell’organizzazione
della Chiesa” [Canta, 1995: 246]. Il militante è, però, dimentico dell’amore[23]
poiché la sua dottrina esalta l’azione. Diventa autoreferenziale ed abbandona la
principale proprietà della ricerca religiosa: il senso del limite. Egli ha
bisogno di scoprire entro sé l’orientamento della sua energia, altrimenti
diventa del tutto simile a ciò che combatte. Sul piano psicologico gli esiti
pericolosi sono quelli del paranoico o del depresso: deve trovare a tutti i
costi dei nemici o finisce per rivolgere l’aggressività verso se stesso. Tutte
le religioni hanno militanti: se orientati dalla scoperta dentro di sé del loro
senso del limite ed impegnati a implementare nella realtà i valori, attraverso
la costruzione di opere, diventano indispensabili costruttori del futuro
dell’umanità; se sono confermati dal gruppo a cui appartengono nel loro bisogno
di sentirsi eroi, diventano pericolosi distruttori della pace e della
convivenza. Invece di costruire il futuro verso il quale si sentono chiamati,
inducono lo sviluppo umano verso la regressione.
Il ricercatore. È rappresentabile sociologicamente nella categoria del “conoscitivo” [Martelli, 1995]. Egli vuole sapere la verità. Questo desiderio lo spinge verso il nuovo, lo sconosciuto, con un approccio a metà tra il mistico e lo scienziato[24]. La motivazione culturale di ricerca ha, in sé, il senso della promessa che sarà esaudita: tutte le contraddizioni dell’esistente saranno ridotte e la beatitudine del ricercatore sarà giungere all’esito[25]. Se la sua fatica mentale, di analisi, di ricerca e di azione sarà svolta con onestà, franchezza, pulizia interiore e purezza di cuore, allora, addirittura, vedrà Dio. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. È questa la promessa che ogni sincero ricercatore sente dentro di sé. La ricerca di verità può diventare estenuate giacché rende costantemente divergente il pensiero; in questo processo c’è il rischio della contaminazione giacché nulla della certezza di conoscenza è consolidato. Tutto può sempre essere messo in discussione, anche le acquisizioni più semplici e banali. Il ricercatore, elevato alle altezze eteree della comprensione, perde di vista la semplicità della vita quotidiana e il suo sapere è una lama a doppio taglio. “Alla chiesa di Pergamo scrivi: so che abiti dove satana ha il suo trono; tuttavia conservi fedelmente il mio nome e non mi hai rinnegato…Ma ho da rimproverarti alcune cose:… lì ci sono alcuni che fanno scandalo, mangiano carni sacrificate agli idoli e fornicano e alcuni che hanno l'insegnamento dei Nicolaiti. Ravvediti dunque altrimenti verrò presto da te e combatterò contro di loro con la spada della mia bocca… al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve (Apocalisse, 2,12)”.
L’aspirazione umana alla conoscenza ed alla verità, senza logica e verifica del senso del percorso, può giungere a contaminarsi perdendo la purezza dell’intenzione del suo cuore[26]. Il ricercatore ha in sé questa complessa ambivalenza: partecipa all’esperienza della fede ma, al contempo, la studia e la valuta. Fin qui esprime una saggia sintesi ma il suo passo successivo è un ulteriore distacco: l’esperienza vissuta diventa solo il pretesto per il suo ragionamento e il ragionamento spegne la sua attività quando la tentazione di seguire “l’idea che spiega il significato” è prevalente. Nel suo orizzonte mentale ha rilevanza solo l’insieme di dati percettivi raccolti ed egli oscilla tra la costruzione di una visione totalizzante e l’angoscia del relativismo, sempre dietro l’angolo, inquietante e gravida di qualche possibile parto nichilista. Egli ha bisogno di calarsi nella concretezza della vita giacché la verità pura è accecante ed abbagliante e, se non diventa passo passo realtà della vita quotidiana, diventa superbia e perdita di sé. “Questi soggetti si ritengono religiosi ma non attivi, riconoscono l’importanza e la funzione della religione senza però che costituisca un elemento vincolante per la propria vita…sono reduci da una crisi religiosa o la stanno vivendo” [Canta, 1995: 248].
Questo approdo è conseguenza della luce abbagliante di una verità solo mentale e non esistenziale. L’esperienza di questa religiosità è spesso drammatica poiché, ove il “ricercatore” perseveri nel suo “chiamarsi fuori” dalla realtà, può rischiare di perdersi nel nulla.
L’emozionale è facilmente descrivibile nella ricerca sul pellegrinaggio giubilare. Egli è, per antonomasia, il turista del Giubileo. Il viaggio turistico è un’occasione per trasferirsi in un altro luogo ma manifesta già in sé alcuni connotati di apertura legati alla sua occasionalità ed alla possibilità di modificare il ritmo della vita quotidiana e di essere, e sentirsi, diversi. “Il viaggio… è, invero, anche un processo di identificazione progressiva con l’essere superiore a cui il pellegrino si rapporta. La simbiosi finale è raggiunta quando i due elementi (il viandante e la divinità, o la sua rappresentazione), entrano in contatto, talora anche diretto, tra di loro: è il momento dell’indianazione, del trasecolamento, del superamento del tempo e dello spazio, del continuum umanità-divinità che per i cristiani ha nella figura del Cristo una personificazione manifesta (ma anche Buddha e Maometto, come parametri assoluti di riferimento per il pellegrino, rivestono caratteri abbastanza simili e perciò comparabili)” [Canta C., Cipriani R., Turchini D., 1999: 43]. Questo tipo di pellegrino è animato da una religiosità centrata sulla esperienza delle emozioni.
“Un caleidoscopio di sensazioni, impressioni emozioni pervade il visitatore: la contemplazione della bellezza diventa anelito interiore, innalzamento spirituale, arricchimento culturale. La scelta di questa modalità risulta maggiormente correlata a coloro che sono andati a Roma spinti da motivazioni «turistiche»… il fatto di appartenere alla Chiesa cattolica qui non risulta così discriminante (se non) per i fedeli più impegnati…(che) sono stati colpiti dalle basiliche minori o dalle catacombe, dove forse sono possibili un maggior raccoglimento e un diretto contatto con la reliquia del martire: in questo caso l’ossimoro il «corpo dello spirito» si rivela molto efficace per descrivere l’esperienza” [Berzano R., Teagno D., Il pellegrino giubilante, in Cipolla C., Cipriani R., 2002: 54].
Siamo su un punto di confine tra l’atteggiamento esperienziale e turistico e quello penitenziale. In questo modello idealtipico “emozionale” è contenuto il motore dell’emozione di base della “fusionalità del piacere”, intesa, come già detto, nel senso di un movimento desiderante verso vissuti intensi e coinvolgenti e di nostalgia nell’allontanamento da tali vissuti. Il desiderio di piacere non è “possedere” il piacere ma farne esperienza (essere posseduti dal piacere) in modo totalizzante. Il termine fusione è efficace per esprimere l’abbandono alla sensazione di piacere per lasciarsi coinvolgere in esso con una perdita di confini.[27] Il tema è difficile poiché, nel riferimento al piacere, si costeggia il modello di piacere più intenso che possa essere sperimentato sul piano psicobiologico, e cioè il piacere sessuale, la cui intensità è seconda sola all’estasi mistica. In ambedue, nel piacere mistico e in quello sessuale, v’è fusionalità ed esaltazione, tanto da farli sembrare simili o, almeno, rassomiglianti; chi è orientato in modo critico verso la religiosità sottolinea frequentemente tale rassomiglianza. La letteratura psicoanalitica ed antropologica[28] sull’argomento è nota, al punto da aver costruito una specifica cultura “diffidente” verso l’esperienza del misticismo con un processo di inibizione e di distanziamento che, per l’effetto paradossale della secolarizzazione contemporanea, lo rende ancor più desiderabile. Non è un caso che l’inibizione attuale nelle religioni rivelate[29] (che contemplano un "fondersi" solo relativo e, in un certo senso metaforico, con Dio) abbia condotto allo scivolamento verso il misticismo New Age[30], che mescola diversi tipi e piani dell’esperienza emozionale con l’esperienza mistica, senza tener conto della fondamentale distinzione ontologica uomo-Dio.
I pellegrini “emozionali” sono anche coloro che hanno provato maggiore “pena”, “tristezza”,”sconforto”, “compassione”, alla vista della presenza dei poveri intorno alle basiliche romane. L’emozionale risponde alla beatitudine della misericordia: Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Esposta al desiderio e al rischio di contaminazione, la religiosità emozionale è anche, contemporaneamente, esposta alla forte percezione del dolore altrui ed al moto interiore di generosità.
Il convenzionale può rientrare “nel gruppo «religione della memoria» (in cui) possiamo ritrovare i soggetti che rientrano nella «religione diffusa come condizione». Confluiscono qui i soggetti con una religiosità «passiva e indifferente» ma non mancano i critici nei confronti della Chiesa” [Canta C., 1995: 256]. L’esito è “un sostanziale disimpegno che si traduce in assenza di militanza” [Cipriani R., 1992: 175]. Berzano e Teagno discutono così dei pellegrini secolari: “é il gruppo più individualista e secolarizzato che non aderisce pienamente alla religione di appartenenza e che si identifica parzialmente nei valori religiosi: ha una pratica saltuaria e occasionale” [Berzano L., Teagno D., in Cipolla C., Cipriani R., 2000].
La prima connotazione di questa tipologia è il disimpegno ma una osservazione attenta alle storie di vita mostra un secondo risvolto, assimilabile, con un certo sforzo, a quello che Martelli [in C. Cipolla, R Cipriani, 2002] individua, pur se in termini problematici, nella tipologia “coscienziale-ecclesiale”.
Se, infatti, osserviamo più in profondità il significato di
“convenzionale”, purificandolo dalla nota di biasimo che, per la maggior parte
degli usi, tale espressione contiene (con i connotati di passività,
artificiosità, mancanza di originalità e naturalezza), si perviene ad un
concetto di pacifica esperienza di religiosità mistica. Per tal forma di
religiosità i valori non sono da ricercare nel mondo della relazione
intersoggettiva, nella cultura e nella storia (pur essendo quelli i luoghi in
cui si esprimono) ma nell’intimo dell’uomo. Così facendo l’uomo trova in se
stesso l’essenza che possiede il massimo di significato: il contatto e il
possesso della sua anima.
Tale convenzionalità appare così in un’altra luce, come ricerca di quiete.
In questa tipologia del convenzionale è più significativa che altrove
l’ambivalenza, che, peraltro, rende evidente il problema della avalutatività di
una indagine sulla religiosità[31].
Si osservino i diversi poli dell’ambivalenza: il vissuto del convenzionale può derivare dal bisogno di rimuovere problemi
della vita quotidiana e scivolare in una sorta di oblio facendosi trasportare
dal flusso della folla e dal trascorrere del tempo. Oppure essere espressione di
una consapevolezza pacifica e tollerante nel contatto con il mondo e
manifestarsi come un processo di incantamento e contemplazione.
Si può diventare convenzionali apatici a seguito di lutti, abbandoni o
dolori, oppure quando non si siano ricevuti sufficienti stimoli e spinte alla
motivazione o quando le azioni, o i propositi, o gli impegni assunti siano stati
ripetutamente squalificati; l’apatico si avvolge nei suoi pensieri e fantastica
di compiere le azioni che dovrebbe fare nella realtà.
Il convenzionale contemplativo si manifesta, invece, con la dote di essere un portatore di pace. La sua capacità di fare calma, di non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni e dai conflitti, lo rende in grado di spegnere le tensioni e raggiungere la pace interiore. Il saggio capace di quiete e contemplazione è un soggetto estremamente vivo ed attivo dentro di sé; il suo rapporto con il mondo è di partecipazione ottimistica e amorosa. In tal caso ha una grande capacità di coscienza e riesce a rimanere, senza drammi, crisi e criticismi, all’interno della dimensione ecclesiale, conoscendone ed accettandone i limiti in ragione del contatto profondo con la sua personale umanità. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Il significato che assume la accettazione della personale umanità è proprio quello di questa figliolanza che sa accettare l’etica dell’alterità, e cioè la fratellanza con l’altro. Il risvolto critico dell’indifferente è il messaggio alla Chiesa di Sardi. “Sei vivo di nome e invece sei morto” (Apocalisse, 3) e continua dicendo: se ti non svegli verrò da te come un ladro. Pochi di voi camminano in me con vesti bianche. Il vincitore avrà vesti bianche e non cancellerò il suo nome dal libro della vita (riassunto). Nel tipo convenzionale l’ambivalenza è radicale perché gravita intorno al problema se quel soggetto “convenzionale” sia spiritualmente vivo o morto.
L’intimista “avverte una Presenza superiore” ed è il più incline al processo penitenziale, al sacrificio ed alla purificazione. “Il bisogno di purificazione è espresso sia attraverso la confessione dei peccati, sia attraverso l’ottenimento dell’indulgenza. La penitenza è il momento necessario per la remissione delle pene” [D’Agostino F., Vespasiano F., Il processo rituale e l’esperienza penitenziale, in Cipolla C., Cipriani R., 2002: 82]. Il modello dell’incontro con Dio dell’intimista è nel silenzio, nella solitudine e nel dolore. “Potremmo dire che l’esperienza del divino è più frequente e forte nei momenti in cui l’uomo è più creatura. In questi momenti… l’uomo si trova di fronte all’immensità del creato e alla difficoltà della vita… disperatamente solo di fronte alle potenze esteriori. Quando la solitudine non viene riempita dalla divinità, si trasforma nell’esperienza del vuoto, in disperazione, appunto in loneliness. La solitudine è l’esperienza dell’uomo inserito nel cosmo sacralizzato, mentre l’esperienza della loneliness è quella dell’uomo disperatamente solo nel mondo, disperso ed errante nella foresta dei simboli” [D’Agostino F., Vespasiano F., Il processo rituale e l’esperienza penitenziale, in Cipolla C., Cipriani R., 2002: 82]. La distinzione tra solitudine e loneliness è centrale per comprendere l’ambivalenza dell’intimista nel suo modo psicologico o spirituale di affrontare la sofferenza. Il significato del messaggio a Smirne (alla Chiesa di Smirne: Conosco la tua tribolazione e la tua povertà – tuttavia sei ricco –... Non temere ciò che stai per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova e avrete una tribolazione di dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita… Il vincitore non sarà colpito da seconda morte Apocalisse 2,8) è che la ricchezza spirituale (tuttavia sei ricco!) ripaga le sofferenze e conduce al di là della sofferenza e del sacrificio. Dal punto di vista antropologico il sacrificio, che è metafora della rinuncia a qualcosa data a un Dio in cambio della sua benevolenza, cambia la sua natura da quando Dio ferma il braccio di Abramo nell’atto di sgozzare il figlio Isacco, sostituendo a lui il capro espiatorio.
Nello sviluppo della religiosità si è dapprima sostituito il sacrificio umano con quello di animali che poi, progressivamente, è stato dismesso[32]. Il sacrificio è diventato interiore e si è costituito come una specificità mistica. Per affrontare la tipologia dell’intimista può essere utile comparare la concezione buddista, che non attribuisce valore alla sofferenza, e la concezione cristiana. La dottrina buddista conduce ad una saggezza che mette a nudo i sentimenti negativi e che conduce all’anestesia dalle passioni: una sorta di ipnosi che permette un controllo mirato dell’attenzione senza perdita di coscienza[33]. La dottrina cristiana, che eleva il valore della sofferenza a simbolo della redenzione, propone la preghiera interiore fondandola nella povertà, nell’umiltà e nella sofferenza dello spirito e del cuore. Ambedue si ritrovano nella tipologia dell’intimista, la cui ambivalenza si dispone sui due poli, psicologico e spirituale, dell’atto meditativo. Nel concreto del vissuto del singolo possono essere rintracciati aspetti che appartengono all’una o all’altra categoria, contemplata, con maggiore o minore enfasi, dalle diverse religioni.La meditazione è una concentrazione (in sanscrito dhyana) dello spirito, comune all’induismo e al buddismo, e si manifesta nella sua natura di processo psicologico elevandosi alla presa di coscienza della vacuità (sunyata). Nell’ebraismo la psicologia mistica conduce all’abbattimento delle barriere che lo separano l’uomo dalla consapevolezza del significato che “Dio è Tutto”[34]. “La considerazione e la meditazione cristiana possono cominciare, scrive André Dodin, dall’inventario e dall’analisi dell’io, dei suoi limiti e delle sue manchevolezze. Ma questo punto di partenza non può essere un traguardo. L’orazione mentale non consiste in un perenne sondaggio psicologico o psicoanalitico. In questo caso sarebbe solo un pio egoismo e un masochismo spirituale”[35].
L’intimista percorre le tappe dell’analisi del sé, della sofferenza
interiore, conosce e pratica il dolore del sacrificio di sé (in qualsivoglia
chiave possa intendersi il sacrificio[36])
per comprendere il senso del dolore. L’intimista è colui che percorre la strada
della ricerca del significato del dolore e se ne appropria mediante il
sacrificio. Per l’intimista il dolore è originario poiché risale alla primaria
vergogna di esistere di fronte all’onnipotenza di Dio: tutti i passaggi
intermedi sono tappe. La sensibilità accentua il dolore, il dolore accettato è
sacrificio, il sacrificio è innalzamento, l’innalzamento è vacuità, la vacuità è
vergogna. Il dolore primario è dunque percezione della propria esistenza,
ed esistenzialità, sentita come inutile:
imbarazzo, pudore, inizibizione si accompagnano alla sensazione di
sentirsi “gettato nel mondo”, nudo,
disarmato e vulnerabile, senza scorza e senza maschere, pronto e disposto a
ricevere gli urti dell’esistenza in modo come colpi, laceranti.
Meno emerge il sé, meno è consistente il luogo in cui si ascolta il dolore. L’intimista ha grande capacità di sopportazione del dolore, egli ne è permeabile e si lascia trapassare per le basse difese e per la scarsa consistenza del sé. Valuta talmente poco se stesso che non attribuisce grande importanza nemmeno al dolore acuto, da cui si lascia trafiggere senza rifiutarlo, evitando così la metabolizzazione del dolore in sofferenza continua e sfibrante. In questo passaggio si può osservare la profondità della possibile ambivalenza dell’intimista: bersaglio del dolore in ragione del senso di inutilità della sua esistenza (e dunque masochista che gode della propria condizione psicologica di eterno penitente) oppure asceta che accetta spiritualmente il dolore e lo supera. Beati gli afflitti perché saranno consolati. In questa visione egli possiede il valore dell’umiltà: è parte della terra, del dolore, delle difficoltà, della fatica che regge nonostante (o in ragione di) una sensibilità sensitiva[37].
Il devoto[38]. “Vi sono pellegrini che si sono lasciati trascinare nel viaggio giubilare per appartenenza ad un gruppo famigliare, parentale, amicale. Per loro le spinte motivazionali possono essere rintracciate nel desiderio di stare insieme” [D’Agostino F., Vespasiano F., Il processo rituale e l’esperienza penitenziale, in Cipolla C., Cipriani R., 2002: 81]. “La religione è un forte agente di coesione per le società e le culture: essa costituisce quello che viene indicato come “capitale sociale” cioè quell’amalgama di bontà, fedeltà, comunità, famiglia valori e norme morali che ci lega strettamente insieme in una società” [De Vita, 2002: 24].
Caratteristica emblematica del devoto è la ricerca di attaccamento, che si trasforma in appartenenza al gruppo per rispondere ad esigenze affettive ed ottenere la grazia della vicinanza e della prossimità agli altri, alla comunità ed a Dio. Il continuo bisogno di attaccamento deriva dalla rottura di questa grazia a seguito della separazione o della perdita (o della deprivazione) e si manifesta nella dipendenza. Il devoto per attaccamento si fa oggetto di se stesso e sente, come conseguenza, che, se non è unito con qualcuno, il suo sé è un involucro vuoto senza valore. Spesso disloca l’attaccamento verso oggetti “sacri” (dagli ex voto ai più comuni souvenirs) per naturale conseguenza del bisogno di attenzione: per lui sono vivi, li anima, dialoga con loro e li considera una estensione del sé. Il devoto è condiscendente, accetta ordini e proposte, non cerca di far prevalere la sua opinione purché vi sia accordo tra le persone e non avvenga nessuna separazione o allontanamento.
La sua proiezione verso gli altri lo rende riconoscibile per la sua
dedizione agli altri. Altre due sue caratteristiche sono l'imitazione e la
sottomissione. Egli imita le persone o i personaggi da cui si sente attratto e
si sottomette loro per condiscendenza.
“Le appartenenze possono essere soffocanti, abolendo la differenza e la
creatività dei membri non disponibili alla conformità. L’appartenenza diventa un
luogo chiuso che divide “noi” da “loro”. Le identità di gruppo sono
profondamente ambivalenti: sono tanto rifugi di appartenenza quanto ricettacoli
di aggressività, sono tanto soffocanti recinti quanto basi di un potere di
liberazione” [De Vita R., 2001: 41]. Il processo sociale in corso di
neocomunitarismo religioso si caratterizza sovente con questi fenomeni di
inclusività caratteristici delle sette. “Diversamente dalle sette
concettualizzate da Weber e da Troeltsch, che si riferivano alle denominazioni
protestanti proliferate dalla Riforma, le nuove sette si caratterizzano per una
ossificazione psicologico-culturale e per una pressione finalizzata ad annullare
l’identità individuale e a consentirne l’assorbimento nel gruppo”.[39]
La religiosità del devoto diventa invece un volo
libero se il suo bisogno di essere
oggetto di attenzione è saziato. L’attenzione, che è la forma più elementare
dell’amore, sazia il suo bisogno di attaccamento e lo rende non più petulante,
ma affettuoso, sensibile, affezionato e premuroso[40].
Beati i miti perché
erediteranno la terra. Il devoto praticante diventa allora il cardine della
comunità: la sua grande capacità di coltivare relazioni, ricordarsi gli anniversari, farà sentire la sua presenza con continuità
alle persone vedendolo sempre presente nelle situazioni difficili come persona
su cui si può contare. Per questo sa tenere insieme persone molto differenti tra
di loro accontentando i loro gusti e preferenze, in ragione della sua capacità
di individuare le diverse modulazioni della propensione all’attaccamento
presenti in ciascuno. Sa stare nei gruppi ed è in grado di mantenerli compatti;
è un ottimo gregario perché ciò che maggiormente gli interessa è il successo di
tutti, dell’insieme, del gruppo e non il suo personale.
La fedeltà che impersonifica non è ritualismo meccanico ma il modello di amore agape: amore fedele che si sviluppa nell'amore fraterno e nell'amore per il prossimo a cui l'uomo può pervenire attraverso la fiducia e la fede. Solo colui che è fedele a se stesso può essere fedele agli altri. Tale fedeltà innesca sia il processo dell'unione che quello della fiducia, virtù fortemente interconnesse tra di loro, che producono tre importanti conferme: la conferma dell'identità personale di ogni essere, la conferma dell'originalità di ogni tipo spirituale e la conferma del senso dell'amore di Dio per ciascuna delle sue creature.
L'appartenenza è esclusiva e tiepida, l'unione è inclusiva ed accogliente.
L'appartenenza è settaria, l'unione è tollerante. L'appartenenza è un vincolo
idealistico, l'unione è oggettivata nelle persone a cui si è legati. È il
sentimento dell'unione che contribuisce allo sviluppo della fiducia e della fede[41].
4 Conclusione
L’analisi della tipologia degli atteggiamenti religiosi si è avvalsa dei dati raccolti sui pellegrini del Giubileo, cogliendo questa manifestazione del Cattolicesimo come un’occasione particolare per proporre idealtipi che, seppur connessi con la cultura cattolica, hanno possibilità di generalizzazione in altre esperienze di religiosità. Si è cercato di far intravedere alcune possibili piste di riflessione comuni, proprio per invogliare ad una indispensabile ricerca psicosociologica della religiosità studiosi appartenenti ad altre culture ed ad altre religioni. Le categorie idealtipiche individuate non intendono essere un canone ma presentarsi, attraverso la teoria delle emozioni di base, come un possibile canovaccio per consentire l’espressione di un linguaggio di ricerca con potenzialità interculturali. Nel riconoscere le possibili radici emozionali comuni di un comportamento religioso, diverso da quelli della propria cultura, prende forma e si rafforza una nuova apertura empatica che contribuisce ad alimentare una nascente, universale, empatizzazione socio-sistemica.
In tutte le esperienze religiose mature appare comunque una teoria condivisibile, quella dell’equilibrio: non basta una sola forma di religiosità, occorre raggiungere un equilibrio tra tutte le forme, poiché l’eccesso di un modello di religiosità, non mitigato dalle altre, rende evidenti i limiti dell’umano e preclude all’armonia psicologica. Questa affermazione è interculturale e interreligiosa: nella Parabola dell’Elefante, Jalâl ad-Dîn Rûmî riferisce della disputa intorno alla sua descrizione ed alla sua forma[42] da parte di chi di esso ha una visione parziale, senza la comprensione dell’articolazione delle parti. Nel Sefer ha-Zòhar (Libro dello Splendore) è ripetutamente enunciata una teoria dell’equilibrio armonico di Dio[43] tra le Sue diverse manifestazioni o Sefiròth. Nella prima frase detta da Gesù nel discorso della Montagna e cioè: Beati i poveri di spirito perché di essi è il Regno dei Cieli c’è un potente richiamo alle proprietà dell’anima. Indipendentemente dalla sazietà dei bisogni umani, psicologici e religiosi, a cui non riescono a pervenire i Poveri di Spirito, tale condizione conduce a percepire, di per sé, l’essenza dello Spirito perché si fonda su di essa la scoperta più importante: l’accertamento stesso dell’esistenza della propria anima.
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[1]
Solo negli anni novanta, grazie al lavoro di Turnaturi (1995), e più
recentemente di Cattarinussi (2000) si è affacciata nel paradigma
sociologico italiano una attenzione alla realtà emozionale attraverso la
quale vengono riletti i processi relazionali e sociali. Il paradigma è
fecondo in ragione del fatto che apre ad una rilettura dei classici
attraverso questa angolazione, inevitabilmente interdisciplinare. Il
fondamento epistemologico di questo approccio verte sul ruolo delle emozioni
e dei sentimenti nella vita sociale, distinguendo tra le prime, prototipi
del sentire e dell’agire sociale, e i secondi, prodotti dall’empatizzazione
delle prime e dalla loro oggettivazione in legami sociali (o assenza di
legami), reali o simbolici, all’interno dei quali emergono valori. Primo tra
tutti il “sentimento di valore”.
[2]
Una bella distinzione sintetica è proposta da A. Scivoletto: “Una premessa
conoscitiva dalla quale è indispensabile che il sociologo prenda le mosse è
la nozione non equivoca di religione e religiosità. Con “religione” egli
intende l’insieme delle verità che promanano da un Principio, immanente o
naturale, trascendentale o soprannaturale, e che danno senso alla realtà
dell’universo nel quale l’uomo nasce, vive e muore; con religiosità egli
intende l’insieme dei moti interiori dell’io, correlati al Principio, che
sono esternati in gesti di culto o in relazioni che l’io intesse con altri
io per testimoniare la comune credenza” [Scivoletto, Nota di metodo su
sociologia, religione e religioni, in Berti F., De Vita R. (2001), La
religione nella società dell’incertezza, Angeli, Milano, p. 154].
[3]
Cfr., Canta C.
[1995], La religiosità in Sicilia, Sciascia, Roma-Caltanissetta;
Canta C., Cipriani R., Turchini D., [1999], Il viaggio, Sciascia,
Roma-Caltanissetta.
[4]
Acquaviva S. [1995], In Italia, il fattore C., in “Adista”
[5] Martelli S., Appendice 2 in Cipolla C., Cipriani R., cur, (2002), Pellegrini del Giubileo, Angeli, Milano.
[6]
C’è concordanza di massima nei diversi autori nell’identificare le emozioni
primarie o di base, in ragione della loro riconoscibilità nella mimica
facciale e del loro presentarsi nello sviluppo emotivo del bambino:
meraviglia, odio, amore, desiderio, gioia e tristezza erano per Descartes
(1649) le passioni primitive; gioia, tristezza, sorpresa, paura, disgusto,
rabbia vengono individuate tra le espressioni facciali di emozioni
fondamentali nelle diverse culture [Ekman e Frisien 1969(a), 1969(b)];
felicità, sorpresa, paura, tristezza, collera, disgusto, interesse [Argyle
1975; Chance 1980]; felicità, paura, tristezza, collera, interesse [Campos
Barret, 1984]; amore, dolore, ira, piacere, paura [Casriel, 1979]; felicità,
tristezza, paura, rabbia, disgusto vengono proposte come le cinque modalità
semantiche fondamentali da Johnson-Laird e Oatley.
Le emozioni secondarie e complesse si realizzano in configurazioni emotive [Izard, Buechler 1980] che non sono la semplice mescolanza di due o più emozioni ma sono le risultanti di un particolare modo di combinarsi di un’emozione primaria con altre emozioni variabili. La distinzione è teoricamente rilevante perché spiega come un’emozione possa essere il motore di una seconda che viene caratterizzata dalla pregnanza della prima.
Vergogna e rabbia possono
produrre “invidia”, se il motore è la vergogna nei suoi addentellati di
scarsa autostima e di inferiorità rispetto agli altri oppure, se l’emozione
dominate è la rabbia e la variabile la vergogna, possono essere elicitate in
colpa o senso di colpa per aver agito, o pensato di agire, sotto il dominio
della rabbia. La descrizione dei processi emozionali si è arricchita
attraverso la posizione assunta da Campos e Barrett [1984] che non
considerano l’emozione in sé ma la famiglia di emozione a cui un tratto
corrisponde ed ai modelli circumplessi di Feher e Russel [1984] in cui i
concetti sottostanti alle emozioni sono assorbiti in copioni con sequenze
prototipiche per ciascuna emozione.
Le emozioni di base che sono condivise dai diversi autori sono la paura e la
rabbia in ragione della loro facile comprensibilità perché connesse ad una
esplicita attivazione della psiche; meno unanimi sono la felicità, il
piacere, l’amore e la gioia poiché contengono elementi e sfumature leggibili
con diversa sensibilità e con diverso controllo morale. La soluzione
plausibile proposta a questo dilemma è ridurre a due emozioni di base le
connotazioni di queste aree emozionali: il piacere e l’attaccamento. Il
piacere riguarda l’insieme di sensazioni cosiddette “fusionali” (dal
cosiddetto “sorriso degli angeli” o endogeno nel bimbo fino allo statu
nascenti della coppia o del gruppo) e l’attaccamento, istituzionalizzato
nelle scienze umane da Bowlby, che spiega la fedeltà, la dipendenza e
l’appartenenza (come bisogno e come valore).
Quelle più complesse sono la tristezza, la sorpresa, la vergogna e il
disgusto poiché sono descritte con un riferimento più articolato alla
consapevolezza di sé. Queste dimensioni possono ridursi a due emozioni: la
vergogna (intesa come l’esposizione di sé alla percezione altrui, dunque
sensibilità al vissuto altrui che interpreta il nostro) e il distacco (che
ricomprende sorpresa e trasalimento o disgusto, come reazione alle
precedenti).
A queste sei emozioni di base occorre aggiungere la quiete, solitamente dimenticata, ad eccezione dell’attento Allport, intesa come mancanza di emozioni. Dunque sette emozioni di base. Per una discussione più completa del tema cfr. il mio [2001], Dalle emozioni ai sentimenti, Prevenire è possibile, Caltagirone.
[7]
Già da decenni è stata rilevata
(cfr.
Meharabian ed Epstein, 1972) la diminuzione della capacità empatica
in soggetti con caratteristiche
nevrotiche, di introversione, di aggressività o di eccessiva
estroversione, o
comunque soggetti centrati su sé stessi. Gladstein (1989) analizza riprende
quello studio e propone la misura dell’empatia mettendo
in comparazione i rislutati di ben 6 scale (Hogan
Empathy Scale, Kagan
Affective Sensitivity Scale,
Barrett-Lennard Relationship
Inventory,
Truax Accurate Empathy
Scale,
Carkhuff Empathic
Understanding Scale, Truax
relationship Questionnaire, Gladstein
Nonverbal Empathy Scale).
[8]
Gladstein propone tre dimensioni dell'empatia: empatia affettiva, empatia cognitiva ed
empatia
affettiva-cognitiva.
[9]
La sensazione è generata dal contatto tra il soggetto ed i fenomeni del
mondo: il corpo del soggetto, le cose e le persone intorno a lui.
[10]
La sensazione di dolore più comune, sperimentata fin dai primi giorni di
vita, è il dolore intestinale, che precede e accompagna lo svuotamento
dell’alvo. La perdita delle feci e la sensazione di vulnerabilità che tale
condizione determina innescano il processo di formazione della paura.
[11]
La sensazione di “essere gettato nel mondo” precede la consapevolezza del
sé e con questa interpretazione è possibile por fine alla questione “la
vergogna promuove la consapevolezza di sé (Izard, 1971) o per provare
vergogna occorre la consapevolezza di sé (Lewis e Brooks, 1978).
[12]
Tratto caratteristico delle condotte emozionali è il loro accompagnarsi ad
attivazioni funzionali più o meno importanti del sistema nervoso vegetativo,
come l'insieme di eventi psicofisiologici (frequenza cardiaca, respirazione,
pressione arteriosa, ecc.) sta a dimostrare.
Sherer [1982 e 1983] distingue tre Controlli Valutativi dello Stimolo (CVS),
ovvero sistemi attraverso cui l'organismo prende atto dei segnali esterni ed
interni che, nella psiche, prendono la forma di emozioni: controlli circa la
novità dello stimolo (che corrispondono alle emozioni della sorpresa, del
trasalimento e della noia), controlli sulla piacevolezza dello stimolo
(piacere, dolore, paura, vergogna), controlli circa l'attivazione di
risposta allo stimolo (rabbia e attaccamento). L'interpretazione può trovare
ulteriori argomenti sia nella teoria di Hebb [1980] delle emozioni come
organizzazione/disorganizzazione degli assembramenti cellulari e dei loro
circuiti riverberanti, sia nelle scoperte neurofisiologiche di Pribram e
McGuinnes [1975] sull'esistenza di almeno due tipi di risposte nei circuiti
neurali: le fasiche (eventi nuovi ed inaspettati) per le quali
definitivamente attribuirono il nome di arousal e le toniche, che dispongono alla risposta a segnali
positivi o negativi (a cui venne dato il nome di attivazione). A queste due categorie Gray [1982] aggiunge la
categoria dell'inibizione (o
controllo) esercitata sulle tendenze di risposta allo stimolo o sull'azione
volontaria di autocontrollo che conduce, ad esempio, alla concentrazione.
La combinazione tra inibizione (controllo), attivazione ed arousal (eccitazione autonomica che produce aumento del battito cardiaco, della pressione sanguigna, dilatazione pupillare, risposta galvanica epidermica, pallore, movimenti viscerali) conduce a sette possibilità: arousal puro = piacere, attivazione pura = carica e rabbia, controllo puro = paura, arousal + attivazione = attaccamento, arousal + controllo (inibizione) = vergogna, attivazione + controllo = distacco. L'assenza dei tre modelli di risposte = quiete. La presenza contemporanea dei tre modelli di risposta potrebbe condurre ad una frenesia instabile (non qualificabile dunque come emozione) con conseguente svuotamento di energia, irritabilità ed astenia e descrivere così la base fisiologica dello stress. La ricognizione neurofisiologica getta luce anche sullo studio del temperamento, nuovamente al centro dell'interesse dopo le ricognizioni sulla vita intrauterina mediante l'ecografia tridimensionale, che sembra essere già tipico del feto. Le osservazioni hanno mostrato i feti esprimersi con atteggiamenti emotivi di arousal, attivazione, inibizione o quiete, direttamente corrispondenti al temperamento melanconico, collerico, sanguigno (tipo atletico) o flemmatico (tipo picnico). Le combinazioni tra i temperamenti ci conducono di nuovo al numero di sette.
[13] I due processi sono molto più complessi. Rimando, ancora una volta a Masini V., [2001], Dalle emozioni ai sentimenti, Prevenire è Possibile, Caltagirone
[14]
Nella prefazione di C. Cipolla a Pellegrini del Giubileo [Cipolla C.,
Cipriani R., cur., 2002, Pellegrini del Giubileo, Angeli, Milano] le
dicotomie sono puntualizzate con precisione. Ne riporto le principali:
Appartenenza/autodirezione; intolleranza/tolleranza; unità/pluralità;
integralismo/laicità; sacro/mondano; chiusura/apertura;
azione/comunicazione; dogma/critica; ortodosso/eterodosso;
manicheismo/ecumenismo; opposizione/mediazione; ricchezza/povertà;
secolarizzazione/solipsismo; analogia /empatia.
[15]
De Iorio L. [2002], Le parole del Giubileo, in Cipolla C., Cipriani
R., (cur.) [2002], Pellegrini del Giubileo, Angeli, Milano.
[16]
«Se dovesse scegliere parole sue, come descriverebbe il Giubileo?; che cos’è
per lei l’indulgenza plenaria?; che impressione le hanno fatto (i barboni)?;
per lei qual è in significato della vita?; c’è qualcosa d’altro che vuole
aggiungere? »
[17]
In altre religioni l’operazione non sarebbe così
rispettosa del codice culturale. I Sufi, ad esempio,
concettualizzano nove tratti di personalità nell’enneagramma.
Esse non hanno nome ma un semplice numero che le designa e presentano una
diversa miscela di tratti emozionali: Tipo 1 Ira – Serenità; Tipo 2 Orgoglio
– Umiltà; Tipo 3 Inganno – Sincerità; Tipo 4 Invidia- Equaminità; Tipo 5
Avarizia – Imparzialità; Tipo 6 Paura – Coraggio; Tipo 7 Indulgenza –
Sobrietà; Tipo 8 Arroganza – Semplicità; Tipo 9 Indolenza – Diligenza. La
tipologia descritta dall’enneagramma propone strutture di personalità
polarizzate in scale dicotomiche di emozioni opposte. La tipologia centrata
sulle emozioni di base propone come centro ideale della personalità il
tratto emozionale specifico. La comparazione è possibile individuando: il
ritualista nei tipi 5 e 6 dove la tensione alle difese dell’Io viene divisa
dal sentimento della paura che le genera e dal controllo;.il militante nei
tipi 1, 3, 8 dove viene descritto il movimento della carica e della
motivazione, della aggressività verso gli altri e della aggressività nei
confronti di sé a seguito di senso di incompletezza, perfezionismo e cioè
laddove il militante confina con il ritualista; il ricercatore prevale nel
tipo 2 quando mette in luce il suo allontanarsi dalle cose o persone
attraverso un atteggiamento superbo; l’emozionale si trova nel tipo 7
attraverso la peculiare caratteristica che è la generosità; il convenzionale
appare con chiarezza nel 9 (la quiete); l'intimista nel 2 e nel 4, cioè nei
suoi due aspetti prevalenti: persona sensibile (umile) e persona capace di
istigare in silenzio senza farsi notare; il devoto-praticante è
rintracciabile nel tipo 8.
Un’altra modulazione dell’atteggiamento religioso è presente nei mistici dell’Islam. Ne Le Tappe degli itinerari verso Dio ‘Abdallâh al-Ansârî al-Harawî (tradotto in Chemin de Dieu da S. De Laugier de Beaurecueil, Sindbad, Paris, 1985), contempla varie categorie psicologiche e religiose nei costumi (la costanza, la soddisfazione, la gratitudine, il pudore, la veracità, la preferenza, il carattere, la modestia, la generosità, il tenersi al largo), nei principi (il proponimento, la risoluzione, la volontà, la buona creanza, la certezza, l’intimità, ricordarsi Iddio, la povertà, la ricchezza, la via passiva), nelle valli (il ben agire, la scienza, la saggezza, la chiaroveggenza, la sagacia, la reverenza, l’ispirazione, la profezia, la quiete, la preoccupazione) e negli stati mistici (l’amore, la gelosia, la nostalgia, l’ansietà, la sete, l’estasi, lo stupore, lo smarrimento, il lampo, il gusto).
[18]
Voglio proporre una ulteriore considerazione metodologica, forse ripetitiva:
gli atteggiamenti verso la religiosità hanno come fondamento i tratti delle
emozioni di base, discussi nel codice culturale della civiltà occidentale.
Tali tratti sono uno schema possibile, tra i tanti. Sono cioè relativi ad un
paradigma, relativo anch’esso. Il sistema del paradigma è più o meno valido
a seconda di quanto riesce a spiegare. Offrire una riflessione entro un
paradigma è, comunque, il gesto di aprire un dialogo ed essere disposti ad
accettare altri paradigmi.
[19]
E’ noto e discusso il ritualismo nelle religioni abramitiche mentre poco si
riflette su religioni in cui il ritualismo è l’essenza della religione
medesima. L’induismo, ad esempio, è essenzialmente incentrato sulla pratica
del rito piuttosto che su una metafisica o una escatologia. Nell’induismo
l’ordine (dharma) del rito è connesso alla appartenenza ad una casta
(varna) ed ha come unica possibilità di sottrarsi ad esso quella di
diventare shadu o yogi, intraprendendo così un percorso di
conoscenza. Anche la cerimonia taoista segue un rituale canonico e preciso,
finalizzato a muovere la posizione degli spiriti per porsi in armonia con
essi, che diventa particolarmente accurato nella setta del Talismano. In
queste visioni religiose sembra si attui il processo inverso rispetto a
canoni più occidentali: dalla ripetizione del rito scaturisce la via, la
crescita e la liberazione. In questa luce non è possibile applicare il
modello statico di ritualità di Durkheim [1982] (riti negativi: tabù,
ascesi, digiuno; riti positivi: offerte, comunione, preghiera; riti
espiatori: espiazione, propiziazione) perché l’ambivalenza della ritualità
può essere letta anche come una oscillazione dinamica tra poli, diversamente
posizionati a seconda delle religioni. Non è poi nemmeno possibile leggere
l’oscillazione tra questi poli nella distinzione tipologica di Troeltsch
[1941] di adattamento al mondo, tipico della dimensione chiesa, e di
protesta, tipico setta. Non solo perché la dicotomia istituzioni – movimenti
non è esplicativa, in quanto all’interno del concetto di movimento coesiste
una pluralità di fenomeni, ma perché la diminuzione del ritualismo può dar
vita a percorsi di ricerca e di liberazione (come nell’induismo o nel
taoismo) oppure all’insorgenza di pratiche magiche, o a processi di
misticismo intimista, ecc.
[20]
Il modello di valore (la responsabilità), di struttura mentale (l’ordine e
la legge), di religiosità (la propensione al rituale e la sacralità come
cura conservatrice della ripetizione) non è diverso dall’appello di Giovanni
in Apocalisse 3,8 alla Chiesa di Filadelfia: “Conosco le tue
opere: Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere. Per quanto
tu abbia poca forza, pure hai osservato la mia parola e non hai rinnegato il
mio nome” . Verranno a prostrarsi davanti a te e ti riconosceranno come
mia amata i falsi giudei e i malvagi perché tu hai conservato con costanza
la mia parola e così preserverò te dalla tentazione… Il vincitore sarà
colonna del mio tempio, scriverò il nome di Dio su di lui (sunto).
[21] Il concetto di ordine e la sua connessione al rituale è espresso, nella sua dimensione paradossale, dai cabalisti nella concezione dello Tzimtzùm (la creazione dell’universo è resa possibile dal ritrarsi di Dio, n.di a.) di Luria. “L’essenza del giudicare per il cabalista consiste nel tracciare limiti e nel determinare ogni cosa nel modo giusto o, come dice Cordovero, nel porre in ogni cosa la qualità del limite, affinché essa rimanga ciò che è, e possa contenersi nei suoi limiti…A guardare bene dunque la radice di tutto il male presente nel mondo, che si fonda nella categoria del potere giudiziario (Din), si trova già latente nell’atto stesso dello Tzimtzùm”, Scholem G. [1993], Le grandi correnti della mistica ebraica, Einuadi, Torino, p 273, 274.
[22]
E’ interessante osservare come nel Buddismo la leggenda di Asoka risponda ai
connotati del tipo militante. Asoka soppiantò il fratello maggiore e salì
sul trono di Pataliputra, capitale del Magadha. Fu molto crudele nel suo
regno e conquistò il Kalinga con massacri e deportazioni; preso da rimorso
ed aiutato da un monaco si dedicà con passione ed energia a diffondere la
dottrina buddista attraverso missionarità e donazioni ai monasteri.
[23]
Alla chiesa di Efeso scrivi: conosco le tue opere, la tua fatica e la tua
costanza e che non sopporti i malvagi, hai messo alla prova i falsi apostoli
e li hai trovati bugiardi. Sei costante ed hai molto sopportato per il mio
nome. Ho però da rimproverarti che hai abbandonato l’amore di prima
(riassunto da Apocalisse, 2).
[24] Una importante riflessione sul significato della religiosità e del criticismo analitico proviene dalla tradizione del misticismo Sufi. “Il solo criticismo analitico, accompagnato da una certa comprensione delle condizioni organiche delle immagini in cui la vita religiosa talvolta si è manifestata, non sembra molto suscettibile di condurci alle radici vive della personalità umana…La verità è che i processi religiosi e scientifici, benché implicanti metodi differenti, sono identici quanto allo scopo finale. Entrambi si propongono di cogliere la realtà…I processi scientifico e religioso sono in un certo senso paralleli l’uno all’altro. Entrambi sono effettivamente descrizioni del medesimo mondo, con questa sola differenza: che nel processo scientifico la posizione dell’ego è di necessità esclusiva, laddove nel processo religioso l’ego integra tendenze rivali ed elabora un’attitudine inclusiva unica, donde risulta una sorta di trasfigurazione sintetica delle sue esperienze. Uno studio attento della natura e del fine di questi processi realmente complementari mostra che entrambi sono orientati alla purificazione dell’esperienza nelle loro rispettive sfere” Muhammad Iqbal, Reconstruire la pensée religieuse de l’Islam. Adrien Maisonneuve, Paris, 1955, citato in Eva De Vitray-Meyerovitch [1991].
[25]
Il ricercatore è adiacente al militante, in funzione del suo zelo che sfocia
nelle contese dialettiche. Il mu’tazilitismo islamico è stata una corrente
di pensiero appassionata per le cause dell’unicità di Dio e per la sua
giustizia infallibile. I Mu’taziliti (coloro che si tengono da parte)
elaborarono concetti teologici raffinati per l’epoca (IX secolo) analoghi al
libero arbitrio (Dio non crea gli atti umani poiché questi sono legati alla
libera potenza degli uomini). La loro passione per la ricerca ne fece dei
fini dialettici attraverso una perseverante attività di controversia che
impegnò gli Imam a prescrivere il bene e a proibire il male.
[26]
L’eresia del sabbatianesimo dall’ebraismo ci rivela un altro aspetto
dell’ambivalenza e della depressione: Shabbetày Tzevì, che riteneva di
essere il Messia dell’ebraismo, confermato in questo da Nathàn di Gaza
(1644-1680) che lo “riconobbe” come Redentore, era probabilmente uno
psicotico maniacale con oscillazioni depressive, considerate afflizioni
inflitte dal Cielo, che lo conducevano a commettere atti contrari alla legge
religiosa, azioni strane, paradossali. Tra queste la sua apostasia finale di
conversione all’Islam. L’ antinomia del significato di tali azioni penetra
in gran parte della diaspora e costruisce, sulla base di un mito gnostico
sul Redentore che assume su di sé la colpa, per combattere i serpenti delle
profondità del male e liberare le scintille di bene disperse dalla rottura
dei vasi nella creazione, e si lascia possedere dal male per estrarvi le
santità.
La dottrine della “riassunzione delle scintille cadute” era suscettibile della pericolosa interpretazione di un Messia che deve scendere nell’impurità per costringere i gusci del male a spaccarsi dall’interno ma l’esito imprevedibile della giustificazione del marranesimo (un volontario ”entrismo” ambivalente in altre religiosità) conduce a conseguenze nichilistiche di perenne contraddizione.
[27]
Nella analisi del sacro Rudolf Otto [Otto R., 1923, Das Heilige,
Gotha, Marburg, trad. it. Il sacro, Feltrinelli, Milano, 1981] ha
descritto come “numinoso” il senso di irrazionale esaltazione per Dio nel
contatto con il mysterium tremendum. L’uomo che è nello spirito (in
contrapposizione all’uomo naturale, che non si preoccupa della sua salvezza)
gode nello scoprire questa esaltazione di una qualità assolutamente speciale
che costituisce qualcosa di ineffabile. Dalla condizione di creaturalità
dipendente, l’uomo avanza verso il tremendum
(che è lo specifico della sensazione di fusionalità che cerchiamo di
descrivere) per poi giungere al mysterium ed alla beatitudine
religiosa. Qui si discute di tal processo tenendo come riferimento
l’emozione di base del desiderio della fusione (piacere). Il termine ha una
configurazione linguistica statica e riduttiva per il prevalere
dell’accezione comune. Ma non v’è altro che contenga la stessa densità
epistemologica.
[28]
In particolare Sigmund Freud vede nella religione una “nevrosi ossessiva
umana” ed una stretta connessione tra complesso di Edipo e l’origine della
religione; Malinowsky descrive gli aspetti psicologici della religiosità con
distinzione tra maschile e femminile.
[29]
La categoria di personalità collettiva centrata su tal vissuto sembra essere
quella della Chiesa di Tiatira. “Conosco le opere, la fede, il servizio,
la costanza e so che le tue opere ultime sono più grandi delle prime. Ma ho
da rimproverarti che lasci fare a Iezabele, la donna che si spaccia per
profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla
fornicazione e a mangiare carni immolate agli dei”. Le ho dato il tempo
per convertirsi e non lo vuol fare. Io getto lei in una bara e quelli che
fornicano in una gran tribolazione e farò morire i figli di lei. A voi che
li restare non getto altro peso su di voi purché non seguite
quell'insegnamento. Scettro di ferro e vasi d'argilla. Darò la stella del
mattino (riassunto).
[30] Cfr. LEARY T. (1977), Neuropolitik,
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[31]
Anche quando l’attenzione
sociologica alla religione,
nelle sue componenti di
richiamo al soprannaturale e di comportamento soggettivo che diventa fatto
sociale, utilizzi metodi di
empatizzazione del vissuto religioso, al fine di comprenderlo senza
proiettare sull’altro le proprie categorie, l’oggettivazione è comunque
problematica. Nel nostro caso, ad esempio, l’oggettivazione avviene
attraverso la categorizzazione idealtipica di una specifica fenomenologia
eppure, all’interno della stessa fenomenologia, possono presentarsi
costrutti di significato opposti e sociologicamente imperscrutabili, giacché
la spiegazione ultima è nella specifica intenzionalità del soggetto
protagonista e la sua verità non può essere oggetto di operazioni
valutative.
[32]
“All’epoca del Buddha ebbero inizio le prime reazioni contro questa
religione formalista: un po’ ovunque gli asceti iniziarono a predicare il
sacrificio interiore, la rinuncia al mondo in alternativa allo sgozzamento
di vittime innocenti. La situazione si rovesciò: gli animali divennero
oggetto di una protezione assoluta e la riforma giainista, contemporanea del
buddismo, proibì l’uccisione di qualsiasi essere vivente; ancora oggi i
guaina integralisti camminano con una maschera davanti al viso per non
rischiare di inghiottire moscerini. Il Buddha, meno intransigente, preferì
raccomandare di trattare bene gli animali” (Vallet O. [2000], Gesù e
Buddha, Dedalo, Bari, pag 67).
[33]
Non a caso la categoria del Samadi, termine che significa la totale
concentrazione dello spirito su un oggetto, tappa più elevata (l’ottava)
dello yoga, non è assimilabile all’estatsi. L’estasi infatti è uscita da se,
il samadi è invece il livello più alto di concertazione su se stessi
.
[34]
Tutti i segreti della Divinità, e dei suoi vari aspetti, e degli infiniti
mondi, acquistano un altro significato, presentati come una psicologia
mistica. Scendendo nelle profondità del suo stesso essere l’uomo attraversa
tutte le dimensioni del mondo; in se stesso abbatte tutte le barriere che
separano mondo da mondo e sfera da sfera; in se stesso trascende i limiti
dell’essere creato, li annulla, per scoprire finalmente – senza mai uscire
da sé – nel cosiddetto mondo superiore, che Dio è “tutto in tutto”, e che
non vi è nulla “al di fuori di Lui”. E in quanto in ciascuno degli infiniti
stadi del mondo teosofico scopre parimenti una condizione nuova dell’anima
umana, uno stato quindi sperimentabile, al Qabbalà diventa per lui uno
strumento psicologico e di analisi di se stesso” [G. Scholem, 1993: 346].
[35]
Dodin A.,[1988], Voce Meditazione cristiana, in Grande Dizionario delle
Religioni, Cittadella Editrice, Assisi
[36]
Dolore come indizio del male in Democrito, dolore come espiazione nella
metempsicosi, dolore come cura dell'anima e conoscenza in Platone, dolore
come passione che si oppone alla saggezza dell'apatia negli stoici,
conseguenza del peccato e della separazione da Dio per S. Agostino, un moto
dell'appetito sensitivo (una passione) per Tommaso, per il pessimismo di
Schopenhauer il dolore è essenza stessa della vita e la felicità una sorta
di temporanea liberazione dal dolore e dal bisogno. Kierkegaard vede nel
dolore un mezzo per conoscere la verità. Verità che non esiste nel
nichilismo di Nietzsche e il fatto di accettare il non senso e volere il non
senso (come la colpa o l'ideale ascetico) comporta comunque il fatto di
volere e dunque di essere qualcosa che vuole. Nella lettura del
razionalismo, dell'idealismo, della fenomenologia e dell'esistenzialismo il
dolore compare come interrogativo ricorrente e porta a discussioni sul suo
significato dischiudendo la comprensione verso l'ineffabile senso del dolore
e della sofferenza umana. Il dolore conduce alla sensibilità di sé: se
attraverso l'azione o l'apatia possiamo dimenticarci di noi stessi, il
dolore ci richiama alla coscienza dell'esistere ed al sé come luogo in cui
si percepisce il fatto di esistere. Il dolore mette l'uomo in contatto con
se stesso e gli fa misurare il grado di serietà che gli ha dato alla sua
vita.
[37]
La stessa sensibilità che è rappresentata dall’ottuplice sentiero buddista:
la retta visione, il retto atteggiamento, il retto parlare, la retta azione,
la retta occupazione, il retto sforzo, la retta consapevolezza e la retta
contemplazione. Secondo la dottrina fondamentale del buddismo è che tutto è
dolore, e la causa del dolore è il desiderio. Il sentiero è ambivalente: via
di mezzo tra ascetismo e perdizione: per il Buddha storico è una morale
intermedia tra la gioia dei potenti e l’ascesi degli eremiti; per il mistico
Nagarjuna la via di mezzo è il rifiuto dei contrari e cioè la negazione
della dialettica; per la scuola cinese della piattaforma celeste di Tien-Tai
è una sintesi che afferma la vacuità di ogni cosa e la percezione
dell’esistenza per la sottile e temporanea riconciliazione tra vuoto e
sensi.
[38]
Il motivo che ha spinto alla unificazione tra le due categorie fattoriali,
individuate dall’analisi di De Iorio [in C. cipolla, R. Cipriani, 2002] del
“Valore della partecipazione familiare” e dell”Educazione e appartenenza”
sta nell’equivalenza di queste due pulsioni nel contesto della religiosità.
La questione del legame devozionale è risolta da Simmel intendo “l’unità
come interazione…tra loro delle forze reciprocamente esercitate, dove il
destino di ognuno è in rapporto con quello di un altro. Solo questa è
l’unità che il mondo possiede per il nostro pensiero… e che si manifesta
simbolicamente e per approssimazione nell’organismo e nel gruppo sociale.
Dio inteso come unità dell’esistenza, pertanto, non può che essere il
supporto di questa connessione” [1912: 106].
[39]
Cesareo V., 2001, Ruolo della religione nel processo di globalizzazione,
in Berti F., De Vita R., 2001: 41.
[40]
"La capacità di amare, scrive Fromm E. (1886: 127) dipende dalla propria
capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento per la propria madre
e per il proprio clan; dipende dalla propria capacità di crescere, di
sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col mondo e se stessi".
[41]Si legge in Apocalisse, 3, 14 il messaggio alla Chiesa di Laodicea: conosco le tue opere e so che non sei né caldo né freddo. Tiepido. Sto per vomitarti dalla mia bocca. Sei convinto di essere ricco e di aver raggiunto il colmo della ricchezza senza aver più bisogno di nulla. E invece sei disgraziato, miserabile, povero, cieco e nudo. Cerca di comprare da me dell'oro provato al fuoco e delle bianche vesti per coprirti affinché non appaia la vergogna della tua nudità, abbi zelo e convertiti. Io sto alla porta e picchio (riassunto).
[42]
“Alcuni indù avevano portato un elefante. Lo esibirono in una casa oscura:
parecchie persone entrarono,a una a una, nel buio, per vederlo. Non potendo
vederlo con gli occhi, lo tastarono con la mano. Uno gli pose la mano sulla
proboscide; disse: “Questa creatura è come un tubo per l’acqua”. Un altro
gli toccò l’orecchio: esso parve simile a un ventaglio. Avendogli preso la
zampa, un altro dichiarò: “L’elefante ha la forma di un pilastro”. Dopo
avergli posato la mano sulla schiena, un altro affermò: “In verità questo
elefante è tal quale un trono”. Del pari, ogni qual volta qualcuno sentiva
una descrizione dell’elefante. La comprendeva in base alla parte che aveva
toccato. Le loro affermazioni variavano secondo quanto avevano percepito:
l’uno lo chiamava dâl, l’altro alif. Se ognuno di loro fosse
stato munito di una candela, le loro parole non avrebbero differito…” [da
Eva de Vitray-Meyerovitch [1978], I mistici dell’Islam, Guanda,
Parma, p.19].
[43] “Le cause ultime del male sono ancora più profonde: esse si trovano – e questo per lo Zòhar è essenziale – in una delle manifestazioni o Sefiròth di Dio stesso. Le forze divine nel loro insieme formano un tutto armonico, e ognuna di queste forze o qualità è santa e buona finché resta unita alle altre, e in un vivo rapporto con esse. Ciò vale innanzitutto per la qualità della giustizia in senso stretto, per il giudizio e per la severità – in Dio e da Dio – che è la causa più profonda del male. La collera di Dio sta, come la sua mano sinistra, in intimo rapporto con la qualità della grazia e dell’amore – la sua mano destra. L’una non può manifestarsi facendo a meno dell’altra. Questa Sefirà della severità è quindi il grande “fuoco d’ira” che avvampa in Dio, ma è continuamente addolcito e frenato dalla grazia. Se però in uno sviluppo abnorme, ipertrofico, erompe all’esterno e infrange la sua unione con la grazia, allora sfugge con violenza dal mondo della divinità, e diventa male radicale, il mondo di Satana opposto a quello divino” [Scholem, 1993: 243].