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Fare prevenzione in

 

comunità

 

Il percorso di prevenzione organizzato da Provveditorato agli Studi presso la comunità Casa nel Sole di Benevento  ha sperimentato uno strumento di lavoro educativo interessante portando gli a vivere una settimana di comunità. Insieme al lavoro dei gruppi di incontro questa esperienza è stata l'occasione per presentare le strategie preventive nel volume PREVENIRE E' POSSIBILE.

 

Disagio e auto-aiuto comunitario

La relazione interpersonale di comunità è lo strumento più efficace per condurre al di fuori del disagio esistenziale, relazionale e sociale. Il punto di partenza dell’intero progetto PREVENIRE E’ POSSIBILE era incentrato sul tentativo di trasferire nel contesto della prevenzione i valori, le relazioni tra persone e lo stile di vita attuato nelle comunità, modificandone ovviamente le caratteristiche. Uno dei punti di arrivo, fino a ieri impensabile nella sua realizzazione, è quello di offrire un breve periodo di residenza in comunità come strumento di formazione e di valorizzazione del sé.

Giovani ed insegnanti sono riusciti a “fare comunità” tra di loro con il semplice aiuto di un supervisore e con l’applicazione di alcune semplici regole di vita quotidiana mutuate dai contesti delle comunità per il recupero dei tossicodipendenti.

Fare comunità è semplice; è molto più difficile spiegare come avvengano gli importanti processi di interazione tra persone che riescono a modificare punti di vista e comportamenti anche consolidati. Per rendere comprensibili tali processi la spiegazione graviterà dapprima intorno al concetto di comunità ed ai metodi applicati dalle comunità di recupero, in particolare dalle comunità d’incontro, per giungere poi a descrivere quanto avviene in un breve stage residenziale per giovani e professori. La principale differenza è ovviamente legata al diverso tipo di problemi che manifesta un tossicodipendente o un giovane o adulto che già ha, invece, una personalità strutturata positivamente ed orientamento di vita su valori già acquisiti.

La differenza potrebbe, per così dire, proporsi come “quantitativa”: tanto più è acuto il disagio e la mancanza di senso della vita, tanto più intensi e lunghi debbono essere i dispositivi educativi e rieducativi posti in essere da una comunità. Oltre una certa soglia, quantità diventa qualità e dunque le differenze tra una esperienza di comunità di recupero ed una esperienza di comunità di prevenzione e formazione sono di un certo rilievo.

Il disagio diffuso che percorre trasversalmente la popolazione giovanile si accompagna ad un disagio, a volte ancor più strutturato, degli adulti.

La capacità di reazione alle condizioni di disagio esistenziale o relazionale e la capacità di gestione dei propri conflitti sono legati ai cicli di cambiamento e di adattamento di ciascuna fase della vita di un uomo; sia per ciò che concerne l’evoluzione biologica e le diverse problematiche relative all’età (infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità, età adulta, terza età, vecchiaia) sia per i diversi stadi relazionali che l’uomo attraversa (la dimensione filiale, il rapporto con il gruppo di coetanei, la costruzione di amicizie, la relazione amorosa, la realizzazione della famiglia, la responsabilizzazione nell’impegno sociale, le diverse fasi che assume il suo ruolo di educatore nelle diverse età dei figli, la fase di abbandono della casa da parte dei figli, la dimensione della coppia anziana, la gestione della propria solitudine) sia nella diversità delle scelte di vita e di orientamento esistenziale e professionale delle singole persone.

A ciascuno dei differenti stadi evolutivi corrisponde una crisi di adattamento ed una necessaria trasformazione, nel senso della crescita; la crisi implica una condizione di disagio il cui superamento è legato alle risorse interiori dei soggetti.

Un legno invecchiando può stagionarsi o marcire. Dipende dalle condizioni ambientali in cui è collocato. Per un essere umano dipende soprattutto dalle scelte su cui orienta la sua vita e dal lavoro che egli esercita su se stesso per modificarsi e migliorarsi.

Quanto detto serve per comprendere in che termini debba essere considerata la condizione di disagio, e per sfatare l’equivoco che essa riguardi solo una certa categoria di persone: è fuor di dubbio che l’adattamento alla complessità del nostro vivere sociale sia più difficile per i giovani. La loro minor esperienza di vita e di conoscenza delle complicate reti di comunicazione e relazione interpersonale tipiche del nostro modo contemporaneo di vivere non sempre si accompagna alla prudenza per via della forte attrazione a gustare i diversi aspetti e le diverse emozioni della vita. Cosicché parlando di disagio il riferimento alla condizione giovanile è immediato. Nondimeno nelle diverse età della vita si esprimono tensioni e disagi da non sottovalutare che hanno bisogno di incontrare altre persone significative in cui rispecchiarsi per superarsi in un processo di costante evoluzione verso la maturità.

Stare insieme agli altri in una condivisione di comunità è la situazione sociale naturale per meglio affrontare questi passaggi: la solitudine spesso conduce a considerare quella che è una percezione momentanea di se stessi come la struttura fondamentale del proprio “io” ed a rannicchiarsi in una visione distorta di sé e della realtà. Tale condizione può stabilizzarsi in una persona; il processo inizia quando uno stato d’animo si forma, per una qualunque causa, e viene accettato e coltivato, a volte per comodità, a volte per capriccio contro sé e contro il mondo, a volte per sfiducia, etc... La persona si accomoda in quello stato d’animo e inizia a vedere il mondo attraverso il filtro di quello stato d’animo. La sua vita diventa segnata da quello spirito che, lasciando progressivamente numerosi segni interiori, diventa lentamente il tratto dominante di quella personalità: quell’uomo sentirà e percepirà tutta la realtà attraverso il filtro di quello stato. Alla fine penserà di “essere quello stato d’animo o di coscienza”.

Egli non distingue più la differenza tra l’“io” e quel particolare stato dell’“io”, tantomeno può prendere in considerazione l’ipotesi che esista la possibilità di avere e coltivare altri stati d’animo. In più, essendo da tal stato posseduto, non può riempirsi di altro né affacciarsi su qualcos’altro. Quella condizione rimane lo sfondo di tutto il suo vivere: è come un imprinting.

Per vedere altrimenti la realtà, deve uscire da se stesso e guardare il mondo con altri occhi; già, perché, dal suo punto di vista, quello stato interiore corrisponde a lui stesso. Ma non può, sarebbe come morire. Può forse rinunciare alla logica che, da tempo, ha dato alle cose? Gli sembra di dover riscrivere il senso del mondo. Soffre perché deve accettare la terribile idea di “essere sbagliato”.

Per cambiare punto di vista ha bisogno degli altri, ha bisogno di essere tranquillizzato da qualcuno che gli dica: “Ti comprendo”, ha bisogno di essere riorientato rispetto ad alcune scelte di vita e ad alcune convinzioni errate, ha bisogno di sperimentare il fatto che anche gli altri sono simili a lui e che si dibattono, si sono dibattuti o si dibatteranno, negli stessi disagi.

Questa comprensione reciproca e l’aiuto reciproco che ne deriva si chiama relazione d’amore, ma, poiché il termine non è diffusamente gradito ed è facilmente squalificabile da molti snobismi o può esser fatto scivolare nella sola dimensione del sentimento, è preferibile denominarla relazione di comprensione e di aiuto.

Tanto più grave sarà la condizione di disorientamento e confusione dell’io, di pratica di scelte di vita dannose e pericolose per la realizzazione del proprio equilibrio e della propria felicità, tanto più intenso dovrà essere il processo di cambiamento offerto ad una persona. In ciò sta la differenza tra le diverse proposte di aiuto comunitario ove esse siano rivolte a soggetti con una crisi temporanea di senso, a soggetti in disagio esposti fortemente al rischio di devianza o di droga, o a soggetti che debbono essere accompagnati nel cammino di recupero dalla tossicodipendenza.

Prima di spiegare la struttura e l’esperienza di un processo educativo e di prevenzione in comunità, è necessario tracciare una breve descrizione del contesto comunitario per il recupero dalla emarginazione e dalla tossicodipendenza.

  

Cos’è una comunità di recupero

 Il termine “comunità” proietta nel nostro immaginario la dimensione di un vivere in comune, come può esserlo il vissuto nel contesto famigliare frutto di un legame di parentela, oppure quello di un gruppo religioso che giustifica l’aggregazione con un credo comune, via via fino ad arrivare a quelle forme di aggregazione dove non è presente l’elemento “convivenza”, ma che tuttavia costituiscono comunità, ad esempio le comunità scientifiche, le comunità sociali, etc... L’ampiezza di applicazione del termine “comunità” ha prodotto una deriva di significato e di senso poiché ha spostato anche ad altri contesti quella che è una relazione di piccolo/medio gruppo sociale che funziona sulla base del rapporto “faccia a faccia”.

La caduta di significato del termine comunità si è accompagnata con la caduta nella dimensione sociale di quei gruppi intermedi, plurifamiliari, che sono sempre stati il fondamento della vita associativa e di relazione tra uomini. Tanto che oggi l’individuo sente la mancanza di dimensioni relazionali più vaste del microgruppo familiare con un solo nucleo, ma più piccole e socializzanti degli aggregati sociali a cui fa riferimento nella sua dimensione di lavoro e di residenza.

L’importanza di essere inseriti in una pluralità di rapporti con diverse distanze relazionali tra persone, risiede negli stimoli che l’uomo può ricavare dal confronto con gli altri “legati” a lui attraverso variegati rapporti.

La comunità, infatti, non è un luogo dove stare, ma un modo di stabilire relazioni con gli altri. Naturalmente tanto più il luogo è protetto, tanto meno fragile è avvertita la propria umanità.

La dimensione della comunità tende ad offrire un contesto dove è possibile praticare un ambito di convivenza con altri più ampi della famiglia, pur se limitato alla sfera dei rapporti con gli altri che “appartengono”, anche solo temporaneamente, a quello specifico mondo della vita. La condivisione delle regole e dei principi e l’appartenenza alla comunità diventano cornice di protezione e le persone all’interno possono esprimersi portando alla luce caratteristiche di sé che non avevano mai potuto emergere.

Questo il motivo per cui la struttura e le dimensioni della comunità si propongono come ottimali per la risocializzazione e il recupero di soggetti emarginati; la comunità è dunque uno spazio sociale i cui componenti condividono un’esperienza di crescita, di maturazione, in alcuni casi di terapia, di lavoro, al fine di superare la condizione di tossicodipendenza e di emarginazione.

Un altro elemento di confusione è dato dal termine “terapeutica” in genere associato al concetto di comunità. Infatti le comunità vengono spesso, impropriamente, chiamate “comunità terapeutiche”, almeno da una parte della letteratura che si è occupata di questa forma di recupero. Tale definizione contribuisce ad ingenerare confusione: in primo luogo la terapeuticità è una caratteristica di alcune (poche) tra le comunità che sviluppano un programma di recupero, la maggioranza sono infatti o comunità educative o comunità d’incontro; in secondo luogo, l’uso del termine “terapeutica” conferisce un connotato molto tecnico/specialistico a tali strutture rendendo più difficile la comprensione diffusa del senso educativo del loro lavoro.

Le rende più estranee e lontane alla gente e le riveste di un alone di mistero che non giova né alla comprensione della semplicità del loro funzionamento, né alla diffusione delle scoperte educative che in questi anni sono state prodotte al loro interno.

Invece che rifarsi al filone psicoterapeutico, è molto meglio andare a ritrovare le radici delle moderne comunità di recupero per tossicodipendenti, oltre che nella invarianza del bisogno umano di relazione sociale a medio raggio, nelle caratteristiche delle esperienze comunitarie a matrice religiosa quali quelle dei Francescani, dei Benedettini, dell’Opera Don Orione o di Don Bosco o dei molti educatori che hanno dato vita a strutture di accoglienza e di assistenza.

La religiosità dell’esperienza comunitaria si fonda sul “legame” interpersonale necessario a stimolare il senso di appartenenza. Il “legame” si rivela indispensabile proprio perché la qualità e l’intensità dei rapporti rende necessaria una cornice normativa sacralizzante al fine di difendere, come in un guscio protettivo, i sentimenti e le emozioni che i soggetti vivono ed esprimono, che li aiutano nella loro crescita interiore, ma che, per la loro fragilità, hanno bisogno di non essere derisi e squalificati. (Chi fosse interessato ad una analisi più dettagliata delle diverse comunità, cfr. la recente ricerca svolta dallo scrivente per il LABOS “I processi di lavoro nelle comunità residenziali”).

Come avviene all’interno del gruppo di comunità il processo di recupero

 Il processo di recupero in comunità va visto essenzialmente nella dinamica del gruppo come continuo superamento della omeostasi.

Il gruppo di comunità vive un equilibrio dinamico, tende cioè sempre a nuovi equilibri attraverso il superamento delle crisi determinate dall’ingresso dei nuovi e dall’uscita dei residenti anziani. La presenza del residente nelle comunità d’incontro è infatti transitoria e temporanea e ciò garantisce il costante rinnovamento delle persone e della struttura di relazioni che si intessono - nell’arco dei due o tre anni della durata del programma - e la perpetuazione della struttura comunitaria come cornice capace di riorientare i residenti verso catarsi rigenerative e verso strade di crescita e cambiamento della personalità.

L’esperienza della comunità è fondata sulla transitorietà e sul conseguente rinnovamento continuo del gruppo.

La “noodinamica” del gruppo è data sia dalla accoglienza che dalla dinamica di crescita dei soggetti che progressivamente si assumono responsabilità nel gruppo. La progressiva crescita di ogni residente verso una maggiore responsabilità fa crescere anche la capacità operativa della comunità, la quale a sua volta fa crescere un numero maggiore di persone che aumentano ancor più la dinamica di crescita, etc., in un circolo virtuoso che ha consentito la moltiplicazione delle strutture e del numero di persone aiutate.

La fase dell’accoglienza corrisponde all’apertura verso l’ultimo arrivato intorno al quale si riorganizza tutto il gruppo e si rimescola la struttura consolidata di relazioni. Il compito di chi dirige una comunità è quello di far innescare il numero più alto possibile di rapporti tra persone.

Tale processo sviluppa il senso di appartenenza alla comunità e stabilizza il nuovo entrato nella scelta di proseguire nel suo programma.

La fase di crescita insiste sul processo di responsabilizzazione crescente che porta i residenti ad investire sempre più le proprie capacità e motivazioni nel percorso di cambiamento individuale e nella crescita del gruppo.

Oltre che sui nuovi entrati, il meccanismo di dinamica sociale si realizza anche attraverso coloro che “escono”. L’uscita dalla comunità si presenta come esito finale delle modificazioni del gruppo. Il membro anziano che ha ricevuto orientamento dalla comunità e che ha dato ad essa impegno nell’aiuto verso i nuovi entrati, quando ha ultimato il suo percorso di recupero inizia la fase del reinserimento, segnata anch’essa da dinamiche relazionali con la realtà esterna (territorio, famiglia, istituzioni).

I residenti usciranno dalla comunità quando avranno imparato a costruire comunità nella propria famiglia, tra i colleghi di lavoro, nel loro ambiente, nel proprio quartiere... Per fare ciò, occorre aver interiorizzato chiarezza nello stabilire rapporti con gli altri, consapevolezza di quanto possa essere difficile e di quanto si potrà essere criticati e derisi nel proporsi con i propri ideali ed il proprio stile di vita.

  

Cos’è il cambiamento e la crescita di una persona

 Dal contesto delle metodologie di recupero messe in atto nelle comunità, viene alla luce un processo di cambiamento che sembra molto più legato al gruppo che non alle caratteristiche della singola persona.

Ciò dipende dalla somiglianza dei tratti comportamentali dei giovani tossicodipendenti che nelle comunità approdano; prima che affiorino le diverse personalità è necessario sia lo svezzamento dalla sostanza che l’allontanamento dallo stile di vita dell’emarginazione e della tossicodipendenza. Avvenuto questo, si può intraprendere l’intervento mirato alla specifica crescita della singola persona. Inoltre la rilevanza che in comunità è data dal lavoro di gruppo, dal lavoro sul gruppo e nel gruppo richiede di porre grande attenzione al fatto che differenti trattamenti possono essere scambiati come situazioni di privilegio.

La personalizzazione del programma di recupero è esito delle interazioni complesse tra gruppo ed educatori e non un piano educativo o terapeutico personalizzato stabilito a priori. La metodologia di lavoro è in tal modo estremamente flessibile nelle tappe e nelle fasi ed, al contempo, estremamente determinata rispetto ai fini educativi ultimi.

Gli obiettivi educativi privilegiati in comunità sono le forme concrete di condotta, in termini di comportamento.

L’avvenuto cambiamento di comportamento e di atteggiamento deve essere chiaro e visibile, senza incertezze, con la possibilità di coglierlo sia da parte dell’educatore che da parte del residente.

Gli obiettivi da raggiungere debbono essere utili per il conseguimento di obiettivi successivi, secondo la regola di fare un passo per volta.

Debbono poi essere fondati su un sistema di valori espresso attraverso principi posti a fondamento del vivere in comunità e realizzabili non in astratto ma nella concreta vita quotidiana.

Debbono, da ultimo, produrre un cambiamento nella percezione di se stessi e la tensione verso la realizzazione del sé ideale mediante il raggiungimento della coscienza di sé come soggetto, come essere unico, originale; la capacità di equilibrio tra le diverse tensioni interiori per una organizzazione del sé coerente, con aumento della dignità personale, della autostima, della accettazione, della capacità di entrare in relazione con gli altri, di saper amare e di sentirsi amato. Sono verificabili attraverso la maggior consapevolezza della propria identità personale e dalla capacità di rivestire ruoli sociali.

  

Valori e autovalutazione 

Nelle comunità l’obiettivo dell’autovalutazione si realizza in alcuni atti molto concreti quali il confronto individuale e in gruppo sui lavori svolti, sul proprio cammino in comunità, sulla realizzazione dei propositi assunti.

L’onestà nelle comunità è posta come valore indispensabile per il cambiamento; il ragazzo che individua nell’agire onesto la svolta per uscire dai suoi meccanismi di “tossico” trova la chiave di lettura per comprendere ed affrontare la realtà. L’onestà così concepita non lascia spazio a scuse e ad inganni; ciò che si fa, ciò che si dice ha un unico esito: l’onestà, la verità; non ci sono le vie di mezzo.

Il valore dell’onestà consente, inoltre, la chiarificazione dei propri stati d’animo poiché si fonda sul beneficio interiore che deriva dall’aver sospeso le critiche negative, le contorsioni interiori e i sensi di colpa.

L’agire onesto infatti conduce allo “stare in pace con se stessi”, senza dover nascondere le proprie mancanze o giustificarsi, come sempre il tossico ha fatto, mediante scuse o bugie. Ecco che la capacità di autovalutazione - che è anche capacità di ammettere la propria disonestà - diventa un passaggio obbligato ai fini del cambiamento.

I principi che funzionano da riferimento valoriale nelle diverse comunità vengono scritti e proposti in molti modi, a seconda della cultura specifica di ogni comunità, ma, in linea di massima, sono simili e contengono gli stessi obiettivi educativi.

I principi della Comunità Incontro, che sono applicati nel contesto formativo e preventivo della “Casa nel Sole”, sono:          

        1.         Onestà e lealtà.

        2.         Responsabilità e sacrificio (quello che fai, lo fai per il tuo bene).

        3.         Amore e interessamento responsabile.

        4.         Agisci come se fossi quello che vorresti essere.

        5.         Chi non lavora non mangia.

        6.         Quello che dai ricevi.

        7.         Abbi fiducia nel tuo gruppo e in chi si occupa di te.

        8.         Cerca di capire più che di essere capito.

        9.         E’ meglio dare che ricevere.

      10.         Non puoi fare progressi, se non rendi partecipi gli altri del tuo progresso.

 

Tali principi si trasformano in valori acquisiti e gestiti solo se vengono vissuti dai residenti: la comunità propone un contesto dove è facile e concreto realizzare tali obiettivi educativi, sta a ciascun residente farli propri e ricevere da essi l’appagamento a cui conducono. Un principio si valorizza solo se è vissuto, altrimenti resta lettera morta.

Responsabilizzazione crescente

 La responsabilità non è la fine del cammino comunitario ma è il punto di partenza per dare, e contemporaneamente gustare, il senso della vita. Dal punto di vista individuale l’agire responsabile significa iniziare a conoscere la concretezza dei risultati delle proprie azioni e delle proprie scelte. Il mondo non appare più così inspiegabile ed enigmatico, ma più trasparente e comprensibile. Il destino non è più capriccioso ed imprevedibile, ma diventa la risposta di oggi a quanto abbiamo fatto ieri. Il tempo acquista il suo vero significato. Il presente non viene più percepito come un momento piccolissimo attraverso cui il futuro diventa passato ed invece si dilata. Ciascuno impara a conoscere il suo tempo; impara a volgere gli occhi al futuro, costruendolo con il lavoro di oggi. Il cambiamento diventa così cosciente ed indirizzato. Le persone non cercano più momenti magici o rituali per cambiare improvvisamente, ma si proiettano con intenzionalità verso il futuro.

C’è un momento nella vita di comunità in cui non è più possibile proseguire il proprio cammino appoggiandosi ad altri, ma diventa indispensabile, per crescere, essere un punto di riferimento per gli altri. E’ questa la fase evolutiva comune ad ogni esperienza di vita e di crescita; in comunità essa assume un significato molto più chiaro, poiché questa crescita deve essere attenta e risoluta. Non è possibile perdere altro tempo da parte di chi ha sciupato anni preziosi vivendo da emarginato una vita contraddistinta da superficialità ed angoscia.

E’ necessario divenire responsabili, che significa profondi ed attenti e, allo stesso tempo, sereni. La responsabilità non è quindi un incarico, ma un nuovo atteggiamento personale e interiore nei confronti della vita quotidiana. Essere responsabili significa “avere cura”, svolgere con cura i propri compiti, porre attenzione nei confronti di se stessi, degli altri del mondo. Essere prudenti e non frettolosi. Avere cura significa innanzi tutto smettere di scappare ed accettare la chiamata verso l’impegno. L’accettazione della responsabilità è il momento in cui un uomo diventa pienamente uomo: non ricerca più mani a cui aggrapparsi ma, pur nella consapevolezza dei propri limiti, diventa le mani a cui gli altri si possono aggrappare.

Ciò significa proporsi come persona cosciente che nell’aiuto agli altri trova la risposta per se stesso.

Assumersi la responsabilità di qualcuno produce come conseguenza immediata diventare importanti per qualcuno, impegnarsi, darsi da fare, sacrificarsi per qualcuno porta a sentirsi ricchi ed a gustare la sensazione dell’eroismo.

Inoltre, questa modalità di relazione tipica del contesto comunitario ha il duplice effetto di accrescere il senso di accettazione in chi è seguito e promuovere in chi “segue” sentimenti di auto stima.

Il processo di responsabilizzazione ha delle tappe, su cui non mi dilungo. Le graduali responsabilità che vengono affidate ai residenti nel loro programma di recupero sono funzionali alla crescita dell’immagine di sé: riuscire a portare a termine un lavoro, provare la soddisfazione di aver costruito un muro, di preparare una buona cena, sono il principale rinforzo per chi aveva perso ogni fiducia.

Il lavoro è una esperienza importante: il lavoro dà equilibrio e rende consapevoli della nostra identità e della nostra esistenza; il lavoro è lo strumento attraverso il quale i progetti prendono vita, si concretizzano. Il lavoro dà infatti sicurezza, soddisfazione ed importanti conferme sulle capacità.

Oltre al lavoro la cura del corpo, della immagine estetica, sono tra i primi passi che il ragazzo compie nell’iter di recupero, riscoprendo innanzi tutto la sua dignità di persona.

  

L’apertura verso gli altri

 Attraverso i processi di aiuto e la condivisione comunitaria, il residente è costantemente impegnato nello sforzo di comprensione dell’altro e di quanto egli vive. Ciò favorisce la riapertura verso il coglimento empatico con la conseguente capacità di interpretare e gestire emozioni e sentimenti.

L’emarginato ha interiorizzato nel corso della sua esperienza una molteplicità di sentimenti che gli sono stati trasmessi dal contesto di vita in cui era collocato: toccato profondamente da atti devianti altrui, egli ha fatto proprie tali modalità di comportamento.

Un evento intenso emotivamente come compiere un atto deviante, determina nel soggetto il ricordo di tale tensione emotiva che ha riempito, per un breve lasso di tempo, il suo vuoto interiore. Ora, se il soggetto in questione non trova altre vie per riempire il grigiore della sua esistenza, sarà spinto a vivere nuovamente tale frangente perché almeno per un attimo e pur se negativamente, tale esperienza lo ha posto nel “vivido presente” che normalmente manca alla sua coscienza sonnolenta.

Ecco che la vita di comunità deve proporsi con atti e scelte particolarmente intense affinché la loro ricchezza possa riorientare le scelte di vita delle persone. Altrimenti l’emarginato non troverà mai la forza per uscire dall’abisso in cui si trova.

Nella vita dell’emarginato sono spesso presenti centinaia di momenti in cui si è ripromesso di cambiare; apparentemente sono esperienze tangibili: sono le varie promesse ad amici e parenti profferite con sincerità momentanea, sono le lettere solenni, sono gli impegni non mantenuti, sono i tatuaggi di cui si è ricoperto per incidere un ricordo o una promessa sulla pelle indelebilmente, visto che non riusciva a conservarne una traccia nella mente e nel cuore.

“L’emarginato ha l’impressione di non poter essere amato nel suo profondo, di essere incapace di riuscire nelle sue attività. Questa immagine frantumata di se stesso, tra ciò che fa e ciò che è la sua persona profonda, genera in lui un mare di disgusto e di tristezza, un’impressione di dar fastidio, di essere rifiutato, una reale disperazione [...]. Ci si sente male nella propria pelle, si è in una specie di stato interiore in cui ci si immagina che le persone intorno a noi guardino sempre e solo “Il brutto” che è dentro di noi; e questo sguardo delle persone è intollerabile.

Questa angoscia insopportabile può costringere a fuggire nel mondo dei sogni e, al limite affondare nella malattia mentale, perché è più confortevole. Almeno nel sogno c’è il proprio mondo e non si è disturbati. Ma quando egli ritorna al mondo reale è un inferno, si sente sempre rifiutato, escluso”, dice J. Vanier, in “La paura di amare”.

“Da questa condizione è praticamente impossibile uscire da soli; è necessario sentirsi finalmente amati ed accettati per come si è, ed incoraggiati a intraprendere un cammino di cambiamento.

Non si tratta di guarire qualcuno, come se fosse affetto da una malattia, ma ridargli una qualità di vita in cui egli possa amare e lavorare e condurre una esistenza che corrisponde alla dignità del suo essere”, prosegue J. Vanier. “In questo lavoro è di fondamentale importanza il gruppo; l’emarginato, o la persona con grosse difficoltà, o il tossicodipendente, o l’alcoolista, o il malato di mente richiede di essere circondato da un gruppo di persone attente ai suoi problemi ed in grado di reggere il suo disequilibrio interiore. Non servono a nulla i colloqui individuali o le psicoterapie d’appoggio quando si ha a che fare con meccanismi di conflitto interiore tanto profondi da non essere più percepiti, nemmeno come malessere, dall’interessato. Un rapporto di semplice discussione a due non riuscirà mai a smuovere l’angoscia del profondo dell’anima a volte così buia da non apparire nemmeno sulla superficialità della coscienza. E’ necessaria la condivisione di vita per arrivare a vedere i primi segni di cambiamento interiore ed è necessario un gruppo forte ed unito per orientare il disequilibrio verso una vita più cosciente e serena.

Il rapporto di aiuto richiede una grande pazienza senza la quale rischia di essere controproducente. Sempre più frequentemente entrano in contatto con la comunità persone con situazioni molto difficili che vivono pesanti meccanismi di difesa, chiudendosi in psicosi da cui sono incapaci poi di uscire.

Per loro una “mano tesa può essere qualcosa di molto bello o di molto pericoloso, può succedere che colui che tenda la mano non sia fedele o non sia vero, che dica “Ti amo” ma che non ami veramente, che lo dica semplicemente perché lo ha imparato sui libri o perché si crede autorizzato a dirlo. Se una persona dà ad un’altra una falsa speranza, allora la mano tesa diventa una realtà molto pericolosa” (J. Vanier, La paura di amare).

Infatti una persona profondamente ferita fa una grande fatica ad avere fiducia in chi la vuole aiutare, poiché uscire dalla sua solitudine vuol dire rinunciare alle sue difese. Quando questo avviene, la persona si manifesta nella naturalità della sua sofferenza ed, apparentemente, sembra che il suo comportamento peggiori: questo è il momento critico più importante di tutta la relazione di aiuto.

Una persona fortemente disturbata quando entra in un contesto che la accetta e che la aiuta, circondandola di affetto, avrà sicuramente una regressione a comportamenti peggiori ed a comunicazioni più difficili di quelli che manifestava all’inizio del rapporto. In pratica succede che, dopo un primo momento di progressivo miglioramento, appaia, a volte anche all’improvviso, un radicale peggioramento durante il quale si manifestano ripetuti rifiuti per l’aiuto che riceve, tensioni, scontri o chiusure, tentativi di inganno e manipolazione, ecc. Ciò perché si mettono in atto due processi: prima di tutto la persona esce “al naturale” dalla sua sofferenza e, liberandosi dei meccanismi di paura che costituiscono il primo strato di difese che lega la sua psiche, mostra violentemente la base lacerante dei suoi disturbi. In secondo luogo perché, non appena si accorge di avere intorno soggetti che le consentono di esprimersi, scarica su di loro tutta la sua frustrazione e la aggressività compressa, quasi a verificare fino a che punto gli altri la accettino egualmente. Sembra che egli faccia tutto il possibile per rendersi odioso, per snervare, per provocare.

La intensità della relazione di aiuto si offre come contesto per la nascita di esperienze significative, forti e cariche di umanità che riescono a segnare profondamente in senso positivo chi vive immerso in una qualità di rapporti non superficiali. Lo sforzo di comprensione dell’altro produce in tutti una riapertura alla comprensione di sé estremamente ricca, poiché ciascuno rivede nell’altro quelle parti di sé che ancora fanno male e che ancora non sono sotto controllo.

Inoltre consente di acquisire autonomia di fronte alle pressioni sociali ed imparare a liberarsi dalle relazioni invischianti. Le relazioni invischianti sono quelle trappole in cui cascano le persone non ancora capaci di gestire i rapporti con gli altri; sono vincoli da cui è difficile uscire poiché si fondano sulla dipendenza reciproca, su ricatti affettivi, sulla condivisione di segreti e non consentono un rapporto libero fondato sulla chiarezza ma sulla complicità.

Le relazioni fondate sulla complicità invischiante hanno alla base interessi economici, sessuali, di protezione. Le relazioni di amicizia sono confuse spesso con le relazioni di complicità.

Il rapporto più semplice di complicità è la comunicazione di un segreto. Spesso avviene attraverso la usuale frase “Ti dico una cosa... ma non devi dirla a nessuno”.

Così facendo si stabilisce un rapporto di potere con l’altra persona che viene legata dal segreto ad una relazione invischiante. La trasmissione di un segreto, spesso banale e semplice (ma che magari riguarda la natura di un certo rapporto tra le persone, come nel caso del propagarsi del pettegolezzo), produce immediatamente un vincolo tra chi riceve il segreto e chi questo segreto ha trasmesso. L’ambiguità è alla base di questo legame che contiene la doppia caratteristica di attirare le persone in un contatto di falsa intimità e di impedire, successivamente, alle persone di lasciare il contatto.

Il modo per liberarsi da tali condizionamenti è connesso con la comprensione empatica dell’autentico vissuto dell’altra persona, con l’esperienza di nuove modalità di rapporto interpersonale e con l’acquisizione di nuove capacità relazionali. Tra queste: il confronto continuo e diretto, la regola che non permette alle persone di appartarsi, il valore dell’onestà, l’aiuto responsabile, basato sulla solidarietà, sul dono gratuito e non manipolatorio e fondato sulla trasparenza, la denuncia aperta di fronte alle irresponsabilità e alla trasgressione, la rinuncia all’omertà.

Questi nuovi modi di relazionarsi rappresentano un grande passo avanti nella capacità di autonomia, avere il coraggio di dire responsabilmente ad un amico “hai sbagliato” è l’espressione di un cambiamento che è avvenuto.

Esito della responsabilizzazione e dell’apertura verso gli altri è una aumentata capacità di comprensione e di valutazione di sé. La persona diventa infatti in grado di entrare in contatto con se stessa, con il mondo dei suoi sentimenti. E’ capace di “sentire” e quindi di riconoscere le proprie esperienze interne, che sono fatte di pensieri, reazioni, impulsi ed emozioni; può percepire i vari significati, le divergenze e i conflitti dei suoi bisogni e può scegliere in modo libero le modalità di azione.

In alcuni programmi comunitari vengono esplicitamente indicate anche le cinque emozioni cosiddette di base del “sentire”, secondo la teorizzazione di Kooyman: ira, dolore, piacere, amore e paura. I residenti vengono educati a riconoscerle in sé ed a prendere decisioni in base alla percezione dei conflitti interni e ad individuare le modalità di azione più adeguate.

A qualcuno potrà apparire semplicistico ridurre la complessità del vissuto a qualità emozionali così scarne, ma l’esperienza dell’emarginazione è talvolta così acuta che la persona non è più in grado di distinguere il dolore dal piacere (come in tutti i comportamenti autolesionisti, masochisti ed autodistruttivi), vive il dolore della propria inadeguatezza, il dolore della vergogna e dell’invidia per il successo altrui chiudendosi nella sfiducia e nella paura, ribalta la paura attraverso l’ira, ha paura dell’amore perché lo considera una debolezza quando si esprime sotto forma di tenerezza o di gentilezza, tenderà dunque a confondere l’amore con il piacere, tenderà a possedere ingordamente il piacere e non riuscirà mai a gustare nulla, dislocando alla fine il piacere nell’esercizio della rabbia distruttiva e nella violenza, e così via.

L’apertura verso gli altri impone il riconoscimento delle proprie ed altrui emozioni, la verifica dei sentimenti, la loro conversione e la accettazione di quello che sono nella forma originaria; cioè senza scivolamenti in altre forme di sentire. E soprattutto senza manipolazioni verso il sentire altrui che, in un contesto di chiarezza e di relazione con numerosi altri soggetti, non può più essere mistificato come precedentemente accadeva nei confronti di ogni singola persona che il tossico e l’emarginato incontrava.

  

La maturità psichica e l’equilibrio

 L’educazione ad ascoltare i propri sentimenti, a riconoscerli, ad esprimerli senza paura ed a gestirli favorisce la costruzione o la riformulazione di un chiaro ideale di sé, consapevole delle proprie capacità, della propria personalità. L’obiettivo educativo successivo è quello di aiutare il formarsi della capacità di proporsi mete a lungo termine, attraverso l’esercizio della costanza e della perseveranza di portare a termine i propri compiti e a sostenere le scelte che tendono verso la realizzazione di una meta futura concreta come la professione, o altre scelte di vita, anche se non necessariamente irreversibili.

Le metodologie educative utilizzate in Comunità per favorire la maturità psichica e l’equilibrio passano necessariamente attraverso lo sviluppo dell’autostima. L’autostima è la molla che spinge la persona verso nuovi traguardi, è lo strumento interiore che consente il superamento del bisogno di costanti conferme e gratificazioni esterne, da cui per lungo tempo era dipendente. Chi ha bassa stima di sé, non crede di poter cambiare e di conseguenza non vede nemmeno mete future, non si azzarda ad esprimere chiari obiettivi. Vive nel dubbio di riuscire a portare a termine il programma comunitario, ha la tendenza ad aspettarsi il peggio, sta alla finestra a guardare quello che succede in modo passivo.

Sfiducia nelle proprie capacità e scarsa autostima vengono ribaltate attraverso la disciplina che la comunità propone; la possibilità di scoprire, attraverso la applicazione di alcune semplici regole, di essere in grado di dirigere se stessi serve a far emergere e consolidare la autostima.

La personalità di chi ha poca stima di sé può dipendere dalla fragilità o dalla debolezza interiore.

La persona fragile è colei che ritiene di non essere in grado di fare e che si tira indietro di fronte alle difficoltà. E’ una persona che ha bisogno di sfidarsi per riconoscere la sua forza.

Le regole più indicate per questa personalità sono di tipo impositivo, ad esempio gli orari che stabiliscono i tempi di realizzazione delle varie attività, i turni in cucina nei quali la persona deve preparare il pranzo per la comunità, l’importanza di riuscire a rendere produttivo l’orto. Cose semplici ma quasi impossibili per chi ha rinunciato ad agire per paura di non riuscirci, di essere deriso di fallire.

Le persone deboli sono invece coloro che hanno bisogno di regole limitative perché non hanno imparato a rinunciare, indulgono nei propri difetti e vivono nella paura di cadere in tentazione.

Per costoro sapere che nel contesto in cui vivono ci sono dei limiti è un aiuto a rinforzare la volontà. La regola che non permette di fumare più di dieci sigarette al giorno è un esempio concreto di “limite”. Le regole rappresentano per i residenti saldi punti di riferimento per la loro crescita, prima in termini di disciplina, che significa concretamente dover fare alcune cose e non poter farne delle altre, poi in termini di valore quando la persona scopre nella regola un significato per la sua vita. La regola delle dieci sigarette in se stessa non produce cambiamento finché egli non vede il legame tra la sua debolezza e la sua precedente continua insoddisfazione che lo portava a non avere più rispetto per niente e per nessuno per poter soddisfare i propri desideri.

Le principali regole di vita interna nella comunità d’incontro hanno le funzioni educative su esposte e sono:

1. Niente droga, niente farmaci né denaro personale.

2. Niente alcoolici - caffè e vino due volte a settimana.

3. Pochissimo tabacco: non più di dieci sigarette al giorno.

4. Niente violenza, né prepotenza, né eccezioni.

5. Nessuna forma di isolamento, né da solo né con altri.

  

La realizzazione di sé

 L’esperienza comunitaria educa all’autorealizzazione dell’io-ideale sia all’interno della comunità che nel contesto sociale in cui dovrà reinserirsi.

Il gruppo di persone al quale la persona si sente affine, perché ne condivide gli spazi, le emozioni, i bisogni, i desideri e le ambizioni è un contesto di appartenenza che produce motivazione al cambiamento e che dà sicurezza. Fin dal momento della accoglienza il residente si trova a contatto con altri giovani che hanno storie analoghe alla sua: egli si rispecchia negli atteggiamenti dell’altro ed i trucchi sono inutili. I responsabili che lo accolgono hanno percorso lo stesso cammino a loro tempo: ora sono in grado di offrirgli aiuto con generosità, con lucidità e distacco.

La comunità alla quale la persona si rivolge per risolvere un problema, si trasforma da realtà esterna a realtà interna, diventa un modo di essere e di vivere.

Il reinserimento è la fase in cui il ragazzo è chiamato a vagliare il cammino fatto, la sua crescita, ma è soprattutto la fase della progettualità; l’esperienza residenziale rappresenta il distacco dalla tossicodipendenza, il cammino di crescita e di strutturazione della personalità.

L’autorealizzazione di sé nel mondo è il compito a cui il residente si prepara in modo concreto anche attraverso lo studio, l’apprendimento di mansioni lavorative, la qualificazione professionale in determinati settori. Tale bagaglio di informazioni permetterà alla persona di orientarsi nella complessità del vivere che caratterizza la nostra società.

Il vissuto comunitario contiene quella gamma di valori che entrano a far parte di un progetto di vita quando sono interiorizzati, quando la persona ne coglie l’importanza per il suo progetto di vita. Chi avrà imparato a fare comunità tenderà a promuovere questa modalità di relazione anche nella società in cui ritorna. Il motivo di questa trasposizione di valori dalla comunità di recupero alla comunità di appartenenza trova giustificazione nel benessere che quei valori hanno portato alla persona che li ha sperimentati.

Intorno a questo nucleo valoriale si gioca tutta la possibilità di pervenire ad un efficace reinserimento nella società. L’ex tossicodipendente che si reinserisce nella società non è diventato un superuomo come molti pretendono che egli sia, mantiene la sua debolezza di fondo e le sue difficoltà non sono poche. Ha in più solo la capacità acquisita di fare scelte responsabili in base ai valori ed allo stile di vita che la comunità gli ha proposto.

Tali scelte debbono essere svincolate dalle norme contraddittorie e dalla pluralità di pressioni ed opzioni presenti nel contesto sociale. Ciò implica una componente di autonomia da quegli aspetti da cui arriva un giudizio sociale.

Ciò significa che il soggetto trova la soluzione dei suoi conflitti interni in base al giudizio della coscienza e ai valori dell’io-ideale, sa scegliere i mezzi migliori ed ha una capacità di valutazione autonoma nell’orientamento della propria vita.

Il raggiungimento di questi obiettivi educativi porta alla realizzazione di persone libere e critiche, con le caratteristiche individuali che le distinguono una dall’altra.

Il soggetto recuperato dalla tossicodipendenza può riuscire così a portare con sé e immettere nella società in cui rientra la ricchezza di un’esperienza comunitaria fatta di amore responsabile, di ordine e impegno, di calore, sicurezza e fiducia, di vitalità, creatività e allegria, di coesione di gruppo e di apertura verso gli altri.

 

Orientamento, educabilità nella comunità di formazione e prevenzione

 Il processo educativo che viene offerto all’interno di una esperienza comunitaria di prevenzione non è così forte e complesso come quello organizzato in una esperienza di recupero. Pochi giorni in una comunità, che abbia regole calibrate al bisogno di formazione di soggetti che non hanno un bagaglio negativo alle spalle come l’emarginato, costituiscono comunque una esperienza importante e intensa finalizzata ad alcune mete educative indispensabili per comprendere e ribaltare una condizione di disagio.

Gli obiettivi educativi che si propone uno stage in comunità, del tutto simili a quelli dei gruppi di incontro, sono la scoperta e la presa in considerazione del proprio disagio, la miglior comprensione di sé e l’apertura verso gli altri.

Questi obiettivi sono parziali e mirati e non possono corrispondere alla completezza di un piano educativo globale rivolto alla miglior organizzazione della vita di un soggetto. Occorre saper operare nel contingente, con le persone che si hanno di fronte, prevedendo le connessioni con strategie educative di lungo termine, ma senza trasformarle in meccanismi implacabili che si ripetono. Sul piano educativo vuol dire ripetere l’errore di pensare alla pianificazione rigida del processo di crescita di un uomo per adattarlo alla astratta struttura della società, il futuro della educazione sarà arrendersi all’impossibilità di reperire educandi disponibili. Adoperare poi la mancanza di un “piano educativo globale” per evitare sistematicamente l’incontro con i giovani (o averlo dentro schemi aridi di ruolo) è solo una buona scusa per non operare mai.

L’esperienza di una comunità di formazione è un orientamento solo temporaneo ma può costituire l’innesco di una dinamica interiore e relazionale che, nella continuità successiva del lavoro di gruppo, fornisce ai soggetti capacità e strumenti per vivere meglio nel mondo.

Orientamento è un termine coniato dalle scienze pedagogiche per superare lo stallo della crisi dell’educazione e dei suoi tradizionali indirizzi (personalista, marxista e laico). A liberare la pedagogia da questa crisi intervengono i due concetti di “educabilità” e di “orientamento”. Il primo non si basa sulla quantità di educazione da introdurre nel soggetto, ma si propone di riconoscere i bisogni educativi delle differenti persone. Muove dalla realtà oggettiva che la persona si trova a vivere e su questa costruisce quanto riesce, a seconda delle circostanze e delle occasioni.

Orientamento è indirizzare verso la maturazione psicologica e spirituale ogni fase critica del vissuto dei soggetti per spingerli a scoprire la loro concreta possibilità e capacità di scelta. In un processo di orientamento a lungo termine significa insegnare a individuare la vocazione personale, e incoraggiare a rispondere ad essa.

Il modello di comunità di orientamento è dunque concepito come un processo educativo che riapre il soggetto verso orizzonti e possibilità di vita che egli non conosceva e non aveva previsto proprio perché non aveva vissuto la pratica di alcuni stati d’animo, di alcune modalità di relazione e di alcuni valori.

La finalità di tal tipo di orientamento educativo non è quella di costruire persone da inserire nel mondo ma solo di offrire qualche strumento in più per imparare a vivere nella complessità contraddittoria del mondo che ci circonda.

  

L’Associazione “Casa nel Sole”

L’attività dell’associazione risale al 1980 e prende il via dal lavoro di Padre Vittorio Balzarano nell’accoglienza di tossicodipendenti. Nel corso degli anni i volontari di “Casa nel Sole” si sono dedicati a costruire diverse esperienze di aiuto nella difficile realtà della Campania aprendo numerose sedi di intervento.

Tra queste, una comunità per il recupero di tossicodipendenti, a Faicchio (BN) (1983). In seguito alla collaborazione con la Comunità Incontro, l’intervento di “Casa nel Sole” si è sviluppato e perfezionato. La sinergia tra queste due realtà ha prodotto una notevole espansione della capacità di lavoro nel territorio. Le regole, i principi e il metodo della Comunità Incontro hanno consentito l’apertura di numerosi centri di recupero in Campania. Attualmente 6 centri, con più di centocinquanta residenti, la cui conduzione è affidata a responsabili formati nella Comunità Incontro di Don Pierino Gelmini.

Intanto i volontari di “Casa nel Sole” hanno continuato a svolgere le seguenti attività: colloqui di orientamento e di preparazione dei ragazzi tossicodipendenti all'ingresso in comunità, sostegno alle famiglie attraverso incontri individuali e gruppi di auto-aiuto, prevenzione e formazione, reinserimento.

Per tali obiettivi hanno a disposizione le sedi di Faicchio, Benevento, Circello, Avellino, Napoli, San Martino, Succivo, Piedimonte Matese, Mondragone e Pontecagnano (sedi associate).

Dal 1991 nel centro di Circello, Casolare Santa Margherita,  è stata concepita e realizzata una singolare ed efficace esperienza di formazione-prevenzione. La sua originalità sta nell’ospitare gruppi di persone (studenti, docenti e volontari) per brevi stage residenziali, chiamati corsi, per offrir loro l’opportunità di un momento di riflessione, di incontro e apertura verso gli altri e di orientamento verso i valori proposti dalla vita comunitaria.

Negli anni 1992-’93 hanno partecipato ai corsi circa 900 persone.

  

Le regole della comunità di formazione e prevenzione

 Si tratta di offrire una esperienza di comunità breve, dieci giorni, a chi voglia costruire insieme e vivere il clima di comunità per imparare a conoscere meglio se stesso e gli altri.

La comunità funziona sulla base di semplici regole che “servono ad armonizzare la vita comunitaria garantendo il rispetto di tutti e di ciascuno. L’attenzione all’altro e la maturazione di ogni persona sono il motivo iniziale e l’obiettivo finale di ogni regola.

 

1. Siamo tutti uguali: non cerchiamo favoritismi o particolarità (le eccezioni possibili sono quelle per motivi di salute).

2. Evitiamo atteggiamenti che possono creare sottogruppi o situazioni di coppia (ciò vale anche per gli sposi).

3. Rispettiamo le persone rispettandone le responsabilità.

4. Atteniamoci scrupolosamente agli orari e al suono della campana.

5. Osserviamo il silenzio durante la meditazione, prima delle riunioni, prima dei pasti e, nelle camere, durante il riposo e dopo la buonanotte.

6. Il lavoro, a cui tutti siamo tenuti, va svolto con amore e secondo lo spirito comunitario. Gli attrezzi vanno manovrati con cura e ripuliti prima di metterli a posto.

7. In riferimento al cibo ricordiamo che non si mangia fuori dai pasti, non si lascia nulla nel piatto e niente va sciupato. Il vino, le bibite, il caffè e gli alcoolici sono limitati.

8. Ai fumatori ricordiamo che prima di colazione non si fuma; in casa non si fuma; non si buttano mozziconi per terra.

9. Nel telefonare e nel ricevere telefonate limitiamoci a brevi comunicazioni e ai casi di effettivo bisogno.

10. Ogni giorno seguiamo insieme il telegiornale e la domenica, ancora insieme, ascoltiamo la musica”.

 

Oltre al lavoro in gruppo, finalizzato a creare momenti di confronto interpersonale (i gruppi di lavoro sono in genere formati da 3 o 4 persone e si occupano di attività di giardinaggio, orto, manutenzione della casa, preparazione del pranzo, pulizie, artigianato etc.), ogni giornata è scandita da momenti plurimi di riunione di gruppo: al mattino per una breve riunione tecnica ed organizzativa della giornata, al pomeriggio per un incontro di formazione di circa un’ora, ed alla sera da una riunione di verifica sulla giornata.

Le regole proposte sono piuttosto semplici anche se, per chi non ha mai fatto esperienza di comunità, appaiono una imposizione antipatica e di difficile realizzazione. L’impressione che suscitano nelle persone è quella di ritrovarsi privi delle solite vie di fuga con cui in genere vengono surrogate le necessità e traslate in soluzioni compensatorie e vicarianti le tensioni vissute nella vita quotidiana.

In genere, dopo un momento di tensione all’interno della famiglia, è sempre possibile chiudersi in se stessi davanti al televisore, telefonare ad un amico, allontanarsi dal lavoro, piantar tutto lì ed uscire di casa, e così via. Si può decidere di lasciare a metà un lavoro e cominciarne un altro, lasciare in disordine gli attrezzi, non lavare i piatti, etc... appartarsi con qualcuno ed ignorare gli altri che ci circondano, chiudendo i rapporti scomodi... affogare nei cioccolatini o nell’alcool un dispiacere e poi non riuscire a mangiare a pranzo o a cena...

Le regole della comunità hanno la funzione di far vivere il confronto reale e concreto con le persone con cui si convive senza le solite fughe. La vita di relazione diventa dunque impegnativa ed è bene che chi voglia fare l’esperienza di comunità sia preventivamente informato dello stile di vita che in essa viene praticato. Altrimenti può accadere che alcuni, trovandosi di fronte a tali regole improvvisamente, scelgano di andarsene, con un danno di frustrazione per se stessi ed un danno per il gruppo che deve metabolizzare l’abbandono da parte di qualcuno.

L’abbandono non è comunque mai avvenuto per l’insopportabilità delle regole (per nulla impegnative e di facile applicazione) ma per la difficoltà di frenare l’orgoglio ed accettare alcuni limiti al proprio comportamento. Infatti i rari abbandoni avvengono sempre all’inizio di ogni corso.

Alcune altre caratteristiche organizzative della vita di comunità di formazione-prevenzione concernono la necessità di aprirsi al rapporto di conoscenza con tutti i partecipanti alla esperienza; per questo motivo è obbligatorio cambiare posto a tavola ogni volta e i gruppi di lavoro cambiano composizione ogni giorno, oltreché per il necessario ricambio nelle diverse responsabilità e nelle mansioni della cucina, del rigovernare, della preparazione della colazione per tutti, etc.

Un particolare risalto ha l’accoglienza; sia nel momento di arrivo in comunità, quando le persone, in cerchio, dopo un momento di silenzio si presentano reciprocamente gli uni agli altri, sia nel rapporto con chiunque si presenti in comunità. Simbolo di questa accoglienza è preparare sempre un piatto in più, per l’eventuale ospite che può arrivare all’ultimo minuto.

In genere il clima di comunità si instaura dopo appena tre giorni di convivenza e si fa subito sentire attraverso l’apertura che le persone mostrano nei confronti degli altri.

Un momento importante della presentazione è la riunione dei pregi e difetti in cui ciascuno si descrive con le caratteristiche di sé che conosce e le mette in discussione insieme agli altri.

Questo rapporto, che diventa di conoscenza immediatamente profonda, ha il suo esito nella riunione dell’ultimo giorno in cui ciascuno dice all’altro cosa pensa di lui. Spesso è una riunione interminabile (in un corso particolarmente intenso è durata dalle nove di sera alle sei di mattina, senza che nessuno accusasse la stanchezza o la voglia di smettere per dormire) e molto ricca umanamente, poiché tutti vogliano sapere la percezione che l’altro ha avuto di lui e si sentono oggetto di attenzione come persona.

La curiosità sul punto di vista altrui e la sensazione di avere intorno gente che si occupa di te è spesso per molti una esperienza davvero insolita e piacevole.

Altri aspetti delle regole sono quelli che riguardano l’ordine e la pulizia che debbono essere mantenuti scrupolosamente, così come il resto dei lavori svolti sempre con la massima cura. Il motivo è quello di concentrare le persone su ciò che fanno, evitando il più possibile distrazioni, fughe mentali o viaggi nella fantasia.

La responsabilizzazione di ciascuno è prodotta attraverso il particolare compito che gli viene affidato: il responsabile della campana dovrà far rispettare gli orari a tutto il gruppo, il responsabile dell’ordine della casa dovrà far notare la mancanza di attenzione o il disordine prodotto da qualcuno, etc. L’aspetto centrale di tali regole, decisamente forzate rispetto alla normale e consueta vita di relazione, è quello di far notare caratteristiche espresse nel comportamento da parte di tutti i partecipanti alla esperienza. Chi diventa ossessionante nel rimprovero agli altri dimostra, di fronte a tutto il gruppo, che deve imparare la tolleranza, chi reagisce male di fronte ad una osservazione dimostra le caratteristiche del suo essere fragile e permaloso, chi ignora i suggerimenti degli altri mostra la sua superficialità, etc.

Inoltre la disposizione a svolgere bene i propri compiti e la approvazione del gruppo serve a trar soddisfazione dalla attività intrapresa e liberarsi di dubbi e incomprensioni. Il tutto volto alla ricerca di maggior equilibrio personale tra le sensazioni sperimentate ed il comportamento messo in atto.

Un altro strumento di confronto importante è il diario quotidiano della giornata; esso viene compilato alla sera, a turno da uno dei residenti e deve contenere la relazione di quanto ha vissuto sia il gruppo che lui personalmente nel corso della giornata. Viene letto il mattino successivo ed apre l’attività del giorno dopo ricollegandola al precedente. Da questi diari, conservati presso il centro comunitario di Santa Margherita, è possibile ricavare gli obiettivi formativi della comunità realizzati nel concreto dei diversi stage.

  

Il valore del lavoro come momento di unione

 Il corso di 10 giorni di metà agosto ha visto la partecipazione di 20 persone, tra cui una bambina di 6 anni e due ragazzi di 12. Un giovane ha lasciato la comunità al secondo giorno. Il gruppo non riusciva ad amalgamarsi per la presenza di numerose tensioni nelle persone e nelle coppie presenti; è sfilacciato con molti elementi di disgregazione. Al terzo giorno i tentativi di confronto e di discussione sembrano evitati definitivamente. Al quarto giorno, dopo l’arrivo di Padre Vittorio, viene proposta una gita per distrarre le persone dalla tensione che però sembra funzionare relativamente. Il gruppo si forma decisamente al quinto giorno quando vengono proposti alcuni importanti lavori di sistemazione di casa.

Il gruppo prende forma e si anima; in parte il lavoro diventa valvola di sfogo delle tensioni, in parte diventa una occasione per far emergere l’entusiasmo e contagiarlo negli altri. A sera emerge la sensazione di aver pochi giorni ancora a disposizione per utilizzare al massimo il corso in comunità. L’atmosfera diventa intensa. Le energie positive che circolano nel gruppo sono tali che c’è chi accusa problemi fisici per uno strappo muscolare, ma riesce in un obiettivo più importante e cioè ad aprire un dialogo sereno e tenero con la moglie.

Le osservazioni degli ultimi giorni scritte sul diario fanno comprendere la profonda riflessione che si è aperta, a tutti i livelli, tra le persone, al punto che (leggendo l’ultima riflessione di Rosalba) il gruppo che ha vissuto l’ultimo giorno sembra un altro gruppo rispetto ai primi contatti interpersonali.

Annamaria al primo giorno di comunità scrive:

“Oggi, per essere il primo giorno del corso è stato abbastanza positivo anche se poteva andare meglio, infatti non si è ancora creata la vera atmosfera di Comunità. Ho notato che alcune persone non sono disponibili e, in alcuni turni di lavoro, c’erano persone che non si sforzavano minimamente a parlare... ho notato qualcuno che se ne andava per i fatti suoi, certo non si può pretendere che da un giorno all’altro ci si possa adattare all’esperienza, è però importante sforzarsi per superare queste difficoltà, senza nascondersi. Altrimenti è inutile stare qui... Mi è dispiaciuto che Fabio se ne sia andato anche perché non è entrato nell’ottica della comunità ma ha guardato solo alle cose materiali. Io oggi sono stata abbastanza soddisfatta perché sono riuscita a parlare di me senza diffidenza ed ho capito che i miei problemi li hanno anche gli altri”.

Loredana, al terzo giorno di corso, scrive: “Nel pomeriggio, durante la riunione di formazione, si è parlato di responsabilità e sacrificio, del senso che ha per ciascuno di noi. Mi sono resa conto che al riguardo ho ancora molto da imparare, penso che non ci si possa considerare persone responsabili fino a quando non si è disposti ad assumersi le proprie responsabilità fino in fondo, a qualunque costo. Al pomeriggio c’è stato un momento difficile con Nicola a cui piace sempre scherzare e parlare pochissimo di sé e con Flora, che conosco da tempo, e con cui per questo motivo non mi sono aperta. Ho alzato la mie barriere con Beppe perché ho incontrato in lui una persona che scavava dentro di me e non ero, al solito, io a fare ciò con qualcun altro”.

Tiziana al 5° giorno:

“Questa giornata è trascorsa all’insegna del costruire. Abbiamo creato un muro di pietre, un nuovo piazzale per le macchine, stiamo lavorando per una fontana, ma soprattutto alcuni di noi stanno provando a posare una pietra per costruire la loro vita. Francesco sta tentando di costruire l’amicizia di cui ora sta conoscendo il valore e di cui si è scoperto privo e bisognoso. Pina e Salvatore hanno avuto una spinta per rivedere il loro rapporto ed è trasparsa la necessità di un maggior dialogo e di andarsi maggiormente incontro. Annamaria ha finalmente scoperto che la sua pigrizia scaturiva dalla sensazione che non le fosse data fiducia e si sta sforzando di reagire; io, Tiziana, ho deciso di impegnarmi ad accettare i miei limiti e a conquistarmi il coraggio di non nasconderli.

Ha caratterizzato il pomeriggio un clima di allegria e di soddisfazione per quanto si stava facendo, gioia che traspariva dalla bella immagine del cantiere come lo ha definito Beppe, in cui tutti noi in movimento continuo lavoravamo per contribuire ad abbellire la nostra casa. Ed è proprio di come il lavoro faccia sentire il legame tra persone ed i luoghi per i quali si opera e dia la bella sensazione di aver realizzato insieme qualcosa, che si è parlato nella riunione... C’è un altro aspetto che ho notato: la sensazione di avere ancora tanto da fare e da acquisire e che il corso finisca troppo presto.”

Roberto nella penultima giornata dirà:

“Ho conosciuto persone meravigliose che con i loro problemi e qualche certezza mi hanno aiutato molto a leggermi dentro. Ho scoperto che per ognuno di loro rappresentavo qualcosa di diverso. Per alcuni ero simpatico e spigliato; per altri divertente e sapevo instaurare un dialogo, per altri ancora disponibile ad ascoltare. Qualità questa che mi fa molto piacere sentire. Ma, come al solito, per molti la solita nota dolente era quel mio modo molto diretto di propormi a loro; il mio inserimento quasi forzato nelle situazioni e nei dialoghi che di volta in volta andavano instaurandosi. La mia cruda sincerità non per tutti va bene. Ho capito che anche donando qualcosa a qualcuno, questo dono, proprio in quanto tale, deve essere donato con dolcezza e garbo per poter essere apprezzato a pieno da chi lo riceve, e non buttato ai suoi piedi come un oggetto senza valore.

La cosa che mi ha più fatto riflettere è che adolescenti di 12 anni possono partecipare attivamente in tutti i sensi alla vita di gruppo. Dare il loro contributo concreto sul lavoro giornaliero e, quello che più conta, il giudizio obiettivo ed innocente su come hanno visto le persone ruotare e vivere accanto a loro”.

Rosalba scrive sul diario all’ultimo giorno:

“Il gruppo che si è formato ha raggiunto un clima stupendo, soprattutto per l’amore e l’attenzione che l’uno ha verso l’altro e anche per l’affiatamento che ci ha condotto a trascorrere questi giorni in modo piacevole, sereno e tranquillo. Proprio quella tranquillità che io cercavo quando mi sono proposta di fare questo corso. Una serenità che ho raggiunto giorno per giorno con l’aiuto di tutti... Purtroppo dieci giorni sono pochi per scoprire i miei pregi e i miei difetti, soprattutto perché quando si crea il clima di comunità parlare diventa una cosa spontanea e meravigliosa”.

 

Lo spirito di sacrificio, l’unità del gruppo e l’apertura verso l’altro

 Il corso conta 18 partecipanti provenienti dall’Istituto Professionale per il Commercio di Cava dei Tirreni; arrivati senza una adeguata preparazione vivono alcune difficoltà nell’adattarsi alle regole e due di essi decidono di sospendere l’esperienza dopo il primo e secondo giorno.

Il gruppo prende forma lentamente; e comincia a funzionare quando scopre l’importanza del sacrificio. Accettare le regole è dapprima vissuto come delusione per le difficoltà incontrate e per le speranze di poter riprodurre le proprie abitudini: andare in giro, vedere la TV, poter mangiare le cose preferite, etc... Poi diventa una importante riflessione collettiva sul senso del sacrificio. Una constatazione è d’obbligo: quanto poco la famiglia oggi proponga impegni e responsabilità ai giovani, quanto poco chieda di fare e di essere. Al punto che la debolezza di fronte a qualcosa da mangiare che sia al di fuori dalle proprie abitudini provoca il rifiuto di una esperienza.

Dopo che il gruppo ha preso consapevolezza del senso delle regole e del senso del sacrificio, comincia ad aprirsi e molti scoprono la bellezza dello stare in un gruppo unito. Il dialogo va in profondità e si trasforma in una occasione di aiuto per molti ragazzi.

Felicita al primo giorno parla della accoglienza. “Ci hanno accolto a braccia aperte e ci hanno aiutato a superare il primo impatto in questo nuovo ambiente molto diverso da come me lo ero immaginato. Qui ci sono alcune regole da rispettare (e bisogna rispettarle severamente e con serietà), ognuno ha le proprie responsabilità e i propri doveri da eseguire. E pensare che io immaginavo di ritrovarmi in un paese per poter uscire ed andare in giro! Ma sono lo stesso felice perché avevo sempre sognato una esperienza simile: vivere a contatto con la natura senza il caos quotidiano della mia città, conoscere altre persone e soprattutto riuscire a conoscere meglio me stessa. Uno dei primi sacrifici che ho dovuto affrontare è stato quello di dover mangiare i pomodori cotti e con le bucce (cosa mai fatta!)”.

Palmina, al secondo giorno: “Il sacrificio che ho dovuto fare è stato quello di mangiare le cipolle. Mi manca un po’ la mia città, la mia abitudine a vedere la TV”.

Marianna al terzo giorno nota l’affiatamento del gruppo e scrive: “Nella riunione di oggi ho capito una cosa fondamentale: che cos’è veramente il sacrificio e cioè quel prezzo che si deve pagare per il raggiungimento di un determinato scopo ed ho anche capito che se qui su alcune cose mi sacrifico è per me stessa e basta; dopo averlo fatto mi sento bene e realizzata”.

Massimiliano al quarto giorno racconta della difficoltà che i suoi amici hanno trovato nel rispettare le regole. “Mi è dispiaciuto solo un fatto, quello che due miei amici sono andati via poiché non hanno accettato le regole che hanno trovato: erano proprio quelli a cui questa esperienza faceva particolarmente bene”.

Daniele nota “cambiamenti nel mio carattere e con grande felicità li accetto. Anche se non ho avuto con tutti un grande rapporto di confidenza. Ma la cosa più importante è che ho scoperto l’unità di gruppo che fino ad ora non conoscevo. In questi giorni ho notato l’aumento di sincerità che si è instaurato tra di noi”.

Francesca racconta “Oggi Carmela è riuscita a parlare con me e con Beppe di una sua esperienza piuttosto drammatica che l’ha portata a tentare il suicidio per ben due volte [...]. Ringrazio Cristina perché mi ha fatto notare che appena mi si dice una cosa cerco subito di giustificarmi, però penso che ammettendolo ho già fatto un grosso passo nel cercare di abbattere questo mio difetto”.

“Questo ultimo giorno è stato bellissimo, scrive Carmela, perché sono riuscita ad aprirmi e a parlare quasi con tutti. La cosa più bella è stata la riunione che ha concluso la giornata. In questa riunione ognuno esprimeva il proprio giudizio sugli altri mettendone in evidenza pregi e difetti, e la cosa più bella è che tutti hanno parlato sinceramente, senza timore di dover colpire qualcuno nel suo animo. Quando siamo arrivati al mio turno temevo che tutti avrebbero espresso su di me un giudizio negativo per il mio carattere chiuso, ma sono stata felicissima che tutti hanno invece espresso il contrario e che quindi anch’io sono degna di complimenti. Dopo di ciò ho capito che la mia vita non è del tutto inutile come pensavo quando ho fatto quella cosa orrenda”.

 

Conoscere la gente per quello che è

 Il gruppo che ha fatto esperienza del corso di fine luglio è composto da 9 persone, di cui 2 bambine di 6 e 8 anni e un ragazzo con un handicap psicofisico. Tale corso viene realizzato dopo due rinvii per le molte rinunce da parte delle persone che si erano prenotate. Rivolto ad adulti, con famiglia, unisce in comunità persone che già si conoscevano precedentemente; cinque di loro avevano già partecipato all’esperienza di comunità di formazione l’anno precedente. Il contesto di formazione del gruppo non è dunque facile.

In primo luogo le persone conoscendosi già hanno maggiori difficoltà a formulare un punto di vista attuale sul vissuto dell’altro e sono portate ad interpretare negli schemi abituali l’altrui comportamento. L’esperienza di comunità servirà proprio a modificare questo. Non si tratta di cambiare radicalmente punto di vista su chi si conosce da tempo, cosa del resto impossibile, ma di consentire ad una immagine nuova dell’io attuale di una persona di formarsi, cogliendo dalla somma di tante sfumature aspetti dell’altro (e di se stessi) mai presi in considerazione.

In secondo luogo l’aver già sperimentato un corso in comunità può costituire sia vantaggio che svantaggio. Vantaggio perché è più facile adattarsi alle condizioni ambientali ed alle regole, svantaggio perché diminuisce la forza di coesione determinata dalla novità di un evento relazionale.

Dunque le condizioni di partenza erano fortemente critiche; dal diario non si comprende bene quando si instaura il clima di comunità; presumibilmente quando le bambine presenti inscenano un teatrino che rappresenta i modi di comportamento degli adulti presenti. Una sorta di psicodramma che mostra ai partecipanti al corso che è inutile mascherarsi ancora. Qualcosa a quel punto cambia. Il tono del diario si fa più vivo e vengono alla luce riflessioni che scrutano più in profondità le situazioni in cui si trovano i partecipanti.

Non si raggiungono vette di intensità emotiva, tranne un momento di commozione una delle ultime sere durante la cena, ma l’atmosfera si fa pacata e, il giorno della partenza, tutti se ne vanno con una maggiore serenità.

In questo caso l’esperienza sembra sia stata importante perché ha indotto le persone a fermarsi e a riflettere; la comunità è stata un momento di pausa durante la quale dimenticare le tensioni e, a poco a poco, emergere dalle proprie chiusure per ricominciare a guardare gli altri con occhi nuovi.

Teresa scrive sul diario del primo giorno: “Da parte mia non c’era tanto entusiasmo nel venire, anzi poca volontà perché il pensiero di vivere un’esperienza comunitaria per tanti giorni mi spaventava un po’; quindi fino all’ultimo momento sono stata indecisa, ma poi mi sono imposta di venire nonostante tutto e soprattutto nonostante la depressione e lo stress mentale che vivo in questo periodo... Dopo i saluti e le presentazioni ho avuto la sensazione che forse non dovrei essere qui, mi sento troppo depressa per desiderare di stare con gli altri. Mano a mano che Vittorio ci comunicava la mancanza di qualche persona che aveva rinunciato a venire, ci siamo tutti sentiti sconcertati... Tutti avrebbero preferito trovarsi in un gruppo più grande perché questo avrebbe dato la possibilità di conoscere più persone ed arricchirsi maggiormente...

Proprio per questo stato d’animo poco aperto agli altri e troppo preso dalle mie tensioni trovo molte difficoltà a descrivere questa giornata e ad esprimere come l’ho vissuta io e come l’hanno vissuta gli altri. Ho accettato poco volentieri l’impegno del diario perché non mi sento per niente in grado di farlo come si dovrebbe”.

“E’ toccato a me fare il diario, scrive Cristina al secondo giorno. Sinceramente non ne ho nessuna voglia ma so che questo è un momento importante ed è forse l’occasione per tirar fuori quello che ho vissuto in questi giorni... Sono già stata in comunità e non mi ero mai sentita come ora... Adoro questo posto e l’aria che si riesce a respirare qui, adoro la possibilità di fare comunità e di costruire legami con persone che pochi giorni prima non conoscevo... Eppure questa volta non è così. Sono partita un po’ male. Non ero entusiasta nel venire, poi sono arrivata ed ho incontrato persone che già conoscevo... Ho vissuto un alternarsi di alti e bassi a livello di umore senza però mai raggiungere la piena felicità di essere qui.

Questo mi addolora. Io ho una profonda fiducia nel bene che può fare un’esperienza del genere, so perfettamente quanto profonde possano essere le riflessioni che vengono fuori qui e so anche che quei sacrifici che si possono fare all’inizio vengono poi ripagati ampiamente con quel qualcosa che arricchisce l’anima. E sono proprio questi i sentimenti che mi spingono a rimanere; è quella sfida con me stessa che prima o poi dovrò vincere.

Giuseppe scrive al quarto giorno: “Finito di pranzare abbiamo fatto quattro chiacchiere. Poi alle 4 è iniziato il teatrino organizzato da Terry e Mariangela. I personaggi eravamo tutti noi. Il teatrino è stato molto bello ed ha dimostrato grande spirito di osservazione e di intelligenza”.

Luisa scrive al quinto giorno: “Oggi è stata una giornata a dir poco favolosa per il clima di amicizia e di collaborazione che ci ha uniti tutti. Stamattina ho lavorato con Vittorio alla dispensa che ora è più ordinata e più pulita. Teresa e Giuseppe sono stati fantastici in lavanderia perché hanno fatto una “colata” come ai tempi della nonna. Stefano, Emilio con Mariangela e Terry sono andati a fare la legna per il forno. Finalmente Cristina mostra apertamente la gioia di essere qui con tutti noi.

Questa sera abbiamo avuto ospiti e per riceverli come si deve abbiamo lavorato tutto il pomeriggio... siamo diventati tutti pizzaioli. Il momento più intenso della serata è stato quando Anna si è commossa per la felicità di ricevere da Vittorio e da noi tutti bellissimi auguri per la sua vita futura insieme ad Emilio”.

Stefano nel diario il giorno dopo scrive: “Questa mattina negli animi e nei volti delle persone si leggeva la stanchezza del giorno prima perché ci aveva impegnato in modo non indifferente: la riunione tecnica ha avuto un confronto teso tra Vittorio e Mariangela per un comportamento sbagliato di quest’ultima... Ho lavorato con Emilio e in certi momenti l’ho visto pensieroso per i problemi collegati alla vita esterna alla comunità. Personalmente con Emilio sto instaurando un buon rapporto e spero di riuscire a consolidare con lui la nostra amicizia. Il gruppo in generale ha fatto un notevole passo avanti e il clima comunitario comincia a farsi sentire nell’aria e questo sicuramente non per caso. Chi più chi meno ha posto il suo granello di arena... La giornata si è conclusa con un momento di gioco, semplice ma bello, che ci ha coinvolti tutti, e per me questi momenti possono essere interpretati in senso positivo, come lo specchio del nostro stato d’animo”.

“E’ arrivato l’ultimo giorno, scrive Emilio. Da poco è finita la riunione di confronto. Il corso era cominciato poco bene. Tutti i componenti del gruppo erano arrivati con tensioni e problemi: io per primo non ero sereno. Nei primi due giorni abbiamo vissuto un clima a dir poco pesante, esso è cambiato dopo che Vittorio ci ha fatto capire, a modo suo, alcune cose. Il corso è scivolato via con semplicità, tra mille cose da fare e mille difficoltà; abbiamo creato un clima famigliare, grazie anche alla presenza di due bambine indimenticabili: Mariangela e Terry. I momenti emozionanti sono stati tanti.

Questo luogo dà la possibilità di scoprire le cose semplici della vita, cose che non avevi mai conosciuto o che avevi dimenticato. Qui impari a conoscere la gente per quello che è, ed è qui che ho conosciuto persone stupende, semplici come Giuseppe che mi ha sconvolto per la sua semplicità e la sua gioia; oppure come Teresa con tutti i suoi “se”; o Luisa “la mammina”; o le due bambine; ho conosciuto Stefano con cui ci siamo sentiti sintonizzati sulla stessa frequenza e spero che da questo possa nascere un bel rapporto di amicizia. Ho finalmente imparato a capire l’amica Cristina. Ed anche Vittorio.

 Il clima di comunità

 Ventiquattro partecipanti tra i quali 6 studenti di Istituti Superiori di Benevento, 12 studenti di Istituti Superiori di Aversa, 6 volontari, trascorrono insieme il periodo dal 10 al 20 luglio 1993.

Il corso è un crescendo, anche perché il gruppo non ha molte difficoltà ad affiatarsi e ad assumere le responsabilità che vengono affidate. Quasi subito emergono riflessioni importanti sulla educazione e sui principi. Alcune critiche agli adulti genitori che non hanno insegnato a vivere l’onestà. A metà settimana i rapporti tra persone sono più profondi ed inizia un processo di apertura verso gli altri. Le pagine del diario diventano più concrete ed iniziano la descrizione dei momenti vissuti e delle persone.

Il clima di comunità che si forma tra persone non deve essere frainteso con una dimensione stucchevole di serenità ma come un clima vitale dove esistono contemporaneamente due dimensioni: un legame che si forma tra le persone, attraverso momenti di condivisione degli stessi sentimenti. In ragione di tale legame le persone riescono ad aprirsi perché percepiscono in modo immediato la straordinarietà della esperienza. L’aria si fa effervescente, i contatti si moltiplicano e ciascuno prova ad esprimere con ritrovato coraggio qualche parte di sé. L’analogia più facile per comprendere il clima e l’apertura delle persone è quella con ciò che avviene in un coro: quando molte voci si esprimono e cantano, anche la persona più contratta e che ha maggior paura di stonare riesce a liberarsi ed a cantare e, aiutato da altre voci, non stona. Se avesse provato ad intonare quella canzone da solo non ci sarebbe certamente riuscito. Oppure con il ballo. La scarsa capacità di scendere in pista è determinata dalla vergogna di mostrarsi con i propri movimenti un po’ goffi; se però il ballo diventa un momento collettivo e tutti trovano il coraggio di esprimersi con le loro diverse figure, anche il più timido ed insicuro riesce a liberarsi del suo impaccio ed inizia a muoversi, scoprendo così una parte di sé che non conosceva. Il merito di questa scoperta sta nei legami che ha instaurato; la loro consistenza dà a lui la garanzia che nessuno lo deriderà e che sarà accettato per quello che è, pur con i suoi movimenti, forse goffi. Nella maggior parte delle occasioni la libertà nella espressione, garantita dalla accettazione degli altri, è strettamente connessa con l’armonia del sentire e, dunque, anche i suoi movimenti non saranno più goffi. Saranno “suoi” ed egli riuscirà a riconoscersi in questi, perfezionarli e piacersi.

Oltre al legame il confronto. Proprio in ragione della presenza del legame diventa anche possibile esprimere critiche ed osservazioni nei confronti delle diverse persone che compongono la rete di relazioni comunitarie. Non saranno critiche laceranti lanciate su un vuoto di rapporti, potranno essere accettate, sempre con sofferenza, ma con la consapevolezza che l’altro non sta rifiutandoti, non ti sta dicendo “sei sbagliato”, ma esprime il suo punto di vista su “una parte di te”. Inoltre il confronto in comunità è sempre fondato sulle cose concretamente fatte o subite dalle persone; nella discussione di gruppo non emerge una idea astratta della persona ma quanto la persona ha manifestato visibilmente e concretamente con il suo comportamento.

Luca, al secondo giorno del corso scrive sul diario: “Dopo un impatto freddo, naturale in persone che si vedono per la prima volta, è bastato soltanto lavorare un po’ insieme per creare un clima diverso tra noi. Il modo stesso in cui ognuno, entusiasticamente, ha assunto la sua responsabilità è testimonianza di qualcosa che è alla base e che accomuna un po’ tutti. Sono questi i presupposti ideali per riuscire ad arrivare a qualcosa di concreto, per costruire una buona amicizia, attraverso il confronto con gli altri. I principi della comunità non sono validi soltanto qui, ma ovunque: sarebbe opportuno che ognuno trasmetta anche ad altri, parenti o amici che siano, quello che si apprende qui.”

Silvia, al terzo giorno è ancora più esplicita: “Ho potuto notare che si sta instaurando un rapporto di fratellanza che tende a rafforzarsi con l’andare dei giorni verso la formazione di una famiglia, di una comunità.

Stiamo scoprendo i veri valori della vita, assaporando quelle piccole sensazioni di onestà e lealtà che sono state dimenticate dai nostri e che da parte nostra non sono state mai conosciute. Procedendo con questo ritmo, rispettando le regole e soprattutto il principio fondamentale, Onestà e Lealtà, potremo giungere alla formazione di una vera famiglia e venire a conoscenza del vero senso della vita, non formato da cose materiali ma da cose spirituali che contribuiscono ad incidere sul cambiamento psicologico di ogni individuo, rendendolo pieno di bontà e saggezza”.

Vania rileva che le giornate trascorse in comunità sono più lunghe perché più intense: “Inoltre sono riuscita ad instaurare un buon rapporto con gli altri anche se con un po’ di difficoltà a causa del mio carattere chiuso. Voglio aggiungere che ho scoperto la soddisfazione che si prova nel parlare con gli altri, nel regalare un sorriso, nell’ascoltare gli altri e questo penso che sia una delle cose più belle che possono esistere”.

Domenico, il giorno successivo compila una lunghissima pagina di diario e propone una descrizione dettagliata di tutti i volontari e i responsabili. Poi dice: “Quasi dimenticavo. Lunedì è arrivata anche Netta, per gli amici, anche se prima si discuteva se lei poteva influire o meno sulle nostre discussioni dato che è la nostra professoressa di Italiano. Da quanto ho visto non ci siamo per niente condizionati anzi ci fa piacere scoprire il suo carattere perché si è dimostrata una persona di cuore”.

“Oggi, giovedì, è stata una giornata molto particolare, scrive Leo. Con molta forza di volontà sono riuscito a dire a tutti i problemi che mi opprimevano... Vorrei ringraziare Netta che in questi giorni è stata una madre per me e vorrei ringraziare Annamaria per avermi ascoltato nel momento del bisogno”.

“Voglio cominciare subito dicendo che quando siamo arrivati qui, otto giorni fa, scrive Antonietta, siamo stati presi dal panico vedendo il posto così tanto isolato. Quando poi ci hanno spiegato le regole della comunità io, come qualcun altro, ho pensato di andar via, di non potercela fare. Ma poi mi sono detta: vabbè, rimango, tanto sono solo dieci giorni!”. Dopo i primi due giorni abbiamo cominciato a fare amicizia, prima scherzando poi aprendoci liberamente parlando con sincerità e fiducia dei nostri problemi, della nostra vita privata. Ora i dieci giorni che prima pensavo interminabili sono diventati pochissimi, vorremmo tutti che si moltiplicassero come per magia. Una cosa voglio dire in particolare: solo oggi mi sono sentita veramente bene, come se mi fossi tolta qualcosa di pesante dall’anima. Grazie ad una persona stupenda che forse ieri avrei considerato come un nemico, arrivando persino a pensare che quando sarei andata via non lo avrei nemmeno salutato. E invece posso dire che è la persona che rimpiangerò di più, per tutto il tempo perso a cercare di stare contro di lui e non avendo impiegato questo tempo a cercare di instaurare questa splendida amicizia che è nata solo oggi”.

Marianna nell’ultimo giorno: “Abbiamo noi tutti scoperto principi sani e utili che possono essere un punto di partenza per una nuova vita. La cosa più bella è che tanta gente così diversa riesce a formare una famiglia e riesce a tenerla unita... Qui abbiamo imparato che il lavoro è molto importante dandoci soddisfazioni e la possibilità di comunicare con chi, come noi, lavora; che la colazione, il pranzo e la cena sono dei momenti in cui si possono scambiare opinioni e il silenzio è il momento in cui si può scoprire se stessi”.

 Capare la cicoria

 Un momento interessante per cogliere il senso del clima di comunità è avvenuto in occasione del Corso per Docenti Referenti e per Operatori del pubblico e del volontariato.

Il clima di comunità realizzato si è reso ancor più palpabile quando un gruppo di docenti, al ritorno da una passeggiata in campagna per raccogliere la cicoria, si è messo in cerchio per pulirla. “Capare la cicoria” insieme, ha insegnato molto sul senso di fare gruppo.

La piacevolezza dello stare insieme, del parlare senza fretta ascoltando quanto qualcuno aveva da dire e poi rispondendo senza alcuna pretesa di avere ragione o di affermare le proprie idee, ma per parlare, discutere ed essere utili l’uno all’altro, ha fatto comprendere qual è l’obiettivo dello stare in comunità. Un momento di pace e di riflessione collettiva.

Discutendo dell’esperienza, alcuni docenti hanno raccontato che quell’episodio ha loro ricordato momenti della loro infanzia quando l’intera famiglia, con parenti ed amici, stava all’aperto e “capava la cicoria” o svolgeva altre attività manuali di casa (sbucciava i fagioli, toglieva le code ai fagiolini verdi, ecc.) e si creava quell’aria dello “stare insieme” carica di pacifica intensità e di benessere.

La considerazione finale intorno a questo clima è stata che nei nostri modi contemporanei di vivere non ci sono occasioni per trasmettere ai giovani queste sensazioni e questo clima di pace e di unione, e che, dunque, i giovani crescono senza apprendere dalla esperienza vissuta questa qualità dello stare insieme indispensabile per gustare l’armonia dello stare con gli altri.

 L’inizio di un impegno

 Venti alunni dell’Istituto Tecnico Commerciale Rampone di Benevento hanno partecipato ad un corso sperimentale per formare gli studenti a diventare animatori e punti di riferimento per l’intero istituto. Nella relazione finale i ragazzi dell’I.T.C. Rampone scrivono:

“Il corso si è articolato in tre fasi: la prima informativa che ci ha permesso di meglio comprendere il problema sotto l’aspetto tecnico-teorico, seguito dalla seconda formativa, che ha richiesto un personale confronto sulle tematiche trattate, propedeutica per la terza costituita da una fase residenziale... Già dalle prime fasi si è delineato un rapporto diverso tra persone basato principalmente sulla sincerità ed amicizia. Gli incontri sono stati caratterizzati da un continuo confronto diretto e personale. Tali caratteristiche sono state meglio esplicitate nei dieci giorni trascorsi insieme in comunità.

Infatti situazioni puramente teoriche non sono sufficienti a fornire una adeguata risposta al problema. Quindi è necessario passare all’esperienza di vita comunitaria, come luogo del riconoscimento dei problemi in rapporto agli altri, da affrontare con la verifica dei singoli comportamenti...

Fino a poco tempo fa nessuno di noi aveva il minimo concetto di cosa fosse realmente la comunità. Oggi siamo consapevoli del fatto che essa è basata principalmente su di una solida struttura quale il principio dell’amicizia, i principi dell’onestà e lealtà. Altri principi sono la responsabilità e la partecipazione, intesi l’uno come la capacità di sapersi autogestire, l’altro come vivo interesse da parte di ognuno alla vita comunitaria...

Ci siamo resi conto con lo scorrere dei giorni che gli impegni da noi assunti hanno messo in discussione il nostro modo di essere e di vedere le cose. E proprio attraverso il lavoro, che inizialmente vedevamo solo come sforzo fisico, siamo riusciti ad instaurare un equilibrato rapporto di dialogo che ci ha permesso di confrontarci e scoprirci come persone...

Grazie al confronto delineatosi anche attraverso gli incontri-dibattito tenuti quotidianamente si è creato un clima basato sulla spontaneità e sulla reciproca fiducia, valori molto difficili da ritrovare nella società odierna...

Un altro particolare che ha colpito tutti noi è stato il momento di silenzio che scandiva la vita comunitaria...

Giungiamo alla conclusione dicendo che per quanto ci siamo sforzati, ci è risultato difficile descrivere le nostre sensazioni perché ciò che abbiamo provato sono emozioni troppo profonde da poter esprimere a parole...

Riteniamo che questa esperienza debba servire all’intero Istituto, per cui proponiamo di portare la nostra testimonianza agli alunni, alle famiglie ed ai docenti dello stesso...

Proprio per riuscire in questo nostro intento chiediamo la possibilità di poter disporre di un’aula dove poter organizzare il nostro lavoro con la collaborazione del personale docente, che abbia dichiarato la propria disponibilità. A tal proposito ci appelliamo allo stesso articolo di legge che ci permette di poter indicare docenti a collaborare con noi...

Tutto questo nostro sforzo ha l’obiettivo di svolgere una vera e propria opera di prevenzione che consiste nel formare una cultura con principi e valori capaci di vincere la droga e di costituirsi come punto di riferimento per quanti vogliono evitare questa tragica ed amara esperienza”.

 

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