Fare prevenzione in
comunità
Il percorso di prevenzione organizzato da Provveditorato agli Studi presso la comunità Casa nel Sole di Benevento ha sperimentato uno strumento di lavoro educativo interessante portando gli a vivere una settimana di comunità. Insieme al lavoro dei gruppi di incontro questa esperienza è stata l'occasione per presentare le strategie preventive nel volume PREVENIRE E' POSSIBILE. |
Disagio e auto-aiuto comunitario
La relazione interpersonale
di comunità è lo strumento più efficace per condurre al di fuori del disagio
esistenziale, relazionale e sociale. Il punto di partenza dell’intero progetto
PREVENIRE E’ POSSIBILE era incentrato sul tentativo di trasferire nel contesto
della prevenzione i valori, le relazioni tra persone e lo stile di vita attuato
nelle comunità, modificandone ovviamente le caratteristiche. Uno dei punti di
arrivo, fino a ieri impensabile nella sua realizzazione, è quello di offrire un
breve periodo di residenza in comunità come strumento di formazione e di
valorizzazione del sé.
Giovani ed insegnanti sono
riusciti a “fare comunità” tra di loro con il semplice aiuto di un supervisore e
con l’applicazione di alcune semplici regole di vita quotidiana mutuate dai
contesti delle comunità per il recupero dei tossicodipendenti.
Fare comunità è semplice; è
molto più difficile spiegare come avvengano gli importanti processi di
interazione tra persone che riescono a modificare punti di vista e comportamenti
anche consolidati. Per rendere comprensibili tali processi la spiegazione
graviterà dapprima intorno al concetto di comunità ed ai metodi applicati dalle
comunità di recupero, in particolare dalle comunità d’incontro, per giungere poi
a descrivere quanto avviene in un breve stage residenziale per giovani e professori. La principale
differenza è ovviamente legata al diverso tipo di problemi che manifesta un
tossicodipendente o un giovane o adulto che già ha, invece, una personalità
strutturata positivamente ed orientamento di vita su valori già acquisiti.
La differenza potrebbe, per
così dire, proporsi come “quantitativa”: tanto più è acuto il disagio e la
mancanza di senso della vita, tanto più intensi e lunghi debbono essere i
dispositivi educativi e rieducativi posti in essere da una comunità. Oltre una
certa soglia, quantità diventa qualità e dunque le differenze tra una esperienza
di comunità di recupero ed una esperienza di comunità di prevenzione e
formazione sono di un certo rilievo.
Il disagio diffuso che
percorre trasversalmente la popolazione giovanile si accompagna ad un disagio, a
volte ancor più strutturato, degli adulti.
La capacità di reazione
alle condizioni di disagio esistenziale o relazionale e la capacità di gestione
dei propri conflitti sono legati ai cicli di cambiamento e di adattamento di
ciascuna fase della vita di un uomo; sia per ciò che concerne l’evoluzione
biologica e le diverse problematiche relative all’età (infanzia, adolescenza,
giovinezza, maturità, età adulta, terza età, vecchiaia) sia per i diversi stadi
relazionali che l’uomo attraversa (la dimensione filiale, il rapporto con il
gruppo di coetanei, la costruzione di amicizie, la relazione amorosa, la
realizzazione della famiglia, la responsabilizzazione nell’impegno sociale, le
diverse fasi che assume il suo ruolo di educatore nelle diverse età dei figli,
la fase di abbandono della casa da parte dei figli, la dimensione della coppia
anziana, la gestione della propria solitudine) sia nella diversità delle scelte
di vita e di orientamento esistenziale e professionale delle singole persone.
A ciascuno dei differenti
stadi evolutivi corrisponde una crisi di adattamento ed una necessaria
trasformazione, nel senso della crescita; la crisi implica una condizione di
disagio il cui superamento è legato alle risorse interiori dei soggetti.
Un legno invecchiando può
stagionarsi o marcire. Dipende dalle condizioni ambientali in cui è collocato.
Per un essere umano dipende soprattutto dalle scelte su cui orienta la sua vita
e dal lavoro che egli esercita su se stesso per modificarsi e migliorarsi.
Quanto detto serve per
comprendere in che termini debba essere considerata la condizione di disagio, e
per sfatare l’equivoco che essa riguardi solo una certa categoria di persone: è
fuor di dubbio che l’adattamento alla complessità del nostro vivere sociale sia
più difficile per i giovani. La loro minor esperienza di vita e di conoscenza
delle complicate reti di comunicazione e relazione interpersonale tipiche del
nostro modo contemporaneo di vivere non sempre si accompagna alla prudenza per
via della forte attrazione a gustare i diversi aspetti e le diverse emozioni
della vita. Cosicché parlando di disagio il riferimento alla condizione
giovanile è immediato. Nondimeno nelle diverse età della vita si esprimono
tensioni e disagi da non sottovalutare che hanno bisogno di incontrare altre
persone significative in cui rispecchiarsi per superarsi in un processo di
costante evoluzione verso la maturità.
Stare insieme agli altri in
una condivisione di comunità è la situazione sociale naturale per meglio
affrontare questi passaggi: la solitudine spesso conduce a considerare quella
che è una percezione momentanea di se stessi come la struttura fondamentale del
proprio “io” ed a rannicchiarsi in una visione distorta di sé e della realtà.
Tale condizione può stabilizzarsi in una persona; il processo inizia quando uno
stato d’animo si forma, per una qualunque causa, e viene accettato e coltivato,
a volte per comodità, a volte per capriccio contro sé e contro il mondo, a volte
per sfiducia, etc... La persona si accomoda in quello stato d’animo e inizia a
vedere il mondo attraverso il filtro di quello stato d’animo. La sua vita
diventa segnata da quello spirito che, lasciando progressivamente numerosi segni
interiori, diventa lentamente il tratto dominante di quella personalità:
quell’uomo sentirà e percepirà tutta la realtà attraverso il filtro di quello
stato. Alla fine penserà di “essere quello stato d’animo o di coscienza”.
Egli non distingue più la
differenza tra l’“io” e quel particolare stato dell’“io”, tantomeno può prendere
in considerazione l’ipotesi che esista la possibilità di avere e coltivare altri
stati d’animo. In più, essendo da tal stato posseduto, non può riempirsi di
altro né affacciarsi su qualcos’altro. Quella condizione rimane lo sfondo di
tutto il suo vivere: è come un imprinting.
Per vedere altrimenti la
realtà, deve uscire da se stesso e guardare il mondo con altri occhi; già,
perché, dal suo punto di vista, quello stato interiore corrisponde a lui stesso.
Ma non può, sarebbe come morire. Può forse rinunciare alla logica che, da tempo,
ha dato alle cose? Gli sembra di dover riscrivere il senso del mondo. Soffre
perché deve accettare la terribile idea di “essere sbagliato”.
Per cambiare punto di vista
ha bisogno degli altri, ha bisogno di essere tranquillizzato da qualcuno che gli
dica: “Ti comprendo”, ha bisogno di essere riorientato rispetto ad alcune scelte
di vita e ad alcune convinzioni errate, ha bisogno di sperimentare il fatto che
anche gli altri sono simili a lui e che si dibattono, si sono dibattuti o si
dibatteranno, negli stessi disagi.
Questa comprensione
reciproca e l’aiuto reciproco che ne deriva si chiama relazione d’amore, ma,
poiché il termine non è diffusamente gradito ed è facilmente squalificabile da
molti snobismi o può esser fatto scivolare nella sola dimensione del sentimento,
è preferibile denominarla relazione di comprensione e di aiuto.
Tanto più grave sarà la
condizione di disorientamento e confusione dell’io, di pratica di scelte di vita
dannose e pericolose per la realizzazione del proprio equilibrio e della propria
felicità, tanto più intenso dovrà essere il processo di cambiamento offerto ad
una persona. In ciò sta la differenza tra le diverse proposte di aiuto
comunitario ove esse siano rivolte a soggetti con una crisi temporanea di senso,
a soggetti in disagio esposti fortemente al rischio di devianza o di droga, o a
soggetti che debbono essere accompagnati nel cammino di recupero dalla
tossicodipendenza.
Prima di spiegare la
struttura e l’esperienza di un processo educativo e di prevenzione in comunità,
è necessario tracciare una breve descrizione del contesto comunitario per il
recupero dalla emarginazione e dalla tossicodipendenza.
Cos’è una comunità di recupero
Il termine “comunità”
proietta nel nostro immaginario la dimensione di un vivere in comune, come può
esserlo il vissuto nel contesto famigliare frutto di un legame di parentela,
oppure quello di un gruppo religioso che giustifica l’aggregazione con un credo
comune, via via fino ad arrivare a quelle forme di aggregazione dove non è
presente l’elemento “convivenza”, ma che tuttavia costituiscono comunità, ad
esempio le comunità scientifiche, le comunità sociali, etc... L’ampiezza di
applicazione del termine “comunità” ha prodotto una deriva di significato e di
senso poiché ha spostato anche ad altri contesti quella che è una relazione di
piccolo/medio gruppo sociale che funziona sulla base del rapporto “faccia a
faccia”.
La caduta di significato
del termine comunità si è accompagnata con la caduta nella dimensione sociale di
quei gruppi intermedi, plurifamiliari, che sono sempre stati il fondamento della
vita associativa e di relazione tra uomini. Tanto che oggi l’individuo sente la
mancanza di dimensioni relazionali più vaste del microgruppo familiare con un
solo nucleo, ma più piccole e socializzanti degli aggregati sociali a cui fa
riferimento nella sua dimensione di lavoro e di residenza.
L’importanza di essere
inseriti in una pluralità di rapporti con diverse distanze relazionali tra
persone, risiede negli stimoli che l’uomo può ricavare dal confronto con gli
altri “legati” a lui attraverso variegati rapporti.
La comunità, infatti, non è
un luogo dove stare, ma un
modo
di stabilire relazioni con gli altri. Naturalmente tanto più il luogo è
protetto, tanto meno fragile è avvertita la propria umanità.
La dimensione della
comunità tende ad offrire un contesto dove è possibile praticare un ambito di
convivenza con altri più ampi della famiglia, pur se limitato alla sfera dei
rapporti con gli altri che “appartengono”, anche solo temporaneamente, a quello
specifico mondo della vita. La condivisione delle regole e dei principi e
l’appartenenza alla comunità diventano cornice di protezione e le persone
all’interno possono esprimersi portando alla luce caratteristiche di sé che non
avevano mai potuto emergere.
Questo il motivo per cui la
struttura e le dimensioni della comunità si propongono come ottimali per la
risocializzazione e il recupero di soggetti emarginati; la comunità è dunque uno
spazio sociale i cui componenti condividono un’esperienza di crescita, di
maturazione, in alcuni casi di terapia, di lavoro, al fine di superare la
condizione di tossicodipendenza e di emarginazione.
Un altro elemento di
confusione è dato dal termine “terapeutica” in genere associato al concetto di
comunità. Infatti le comunità vengono spesso, impropriamente, chiamate “comunità
terapeutiche”, almeno da una parte della letteratura che si è occupata di questa
forma di recupero. Tale definizione contribuisce ad ingenerare confusione: in
primo luogo la terapeuticità è una caratteristica di alcune (poche) tra le
comunità che sviluppano un programma di recupero, la maggioranza sono infatti o
comunità educative o comunità d’incontro; in secondo luogo, l’uso del termine
“terapeutica” conferisce un connotato molto tecnico/specialistico a tali
strutture rendendo più difficile la comprensione diffusa del senso educativo del
loro lavoro.
Le rende più estranee e
lontane alla gente e le riveste di un alone di mistero che non giova né alla
comprensione della semplicità del loro funzionamento, né alla diffusione delle
scoperte educative che in questi anni sono state prodotte al loro interno.
Invece che rifarsi al
filone psicoterapeutico, è molto meglio andare a ritrovare le radici delle
moderne comunità di recupero per tossicodipendenti, oltre che nella invarianza
del bisogno umano di relazione sociale a medio raggio, nelle caratteristiche
delle esperienze comunitarie a matrice religiosa quali quelle dei Francescani,
dei Benedettini, dell’Opera Don Orione o di Don Bosco o dei molti educatori che
hanno dato vita a strutture di accoglienza e di assistenza.
La religiosità
dell’esperienza comunitaria si fonda sul “legame” interpersonale necessario a
stimolare il senso di appartenenza. Il “legame” si rivela indispensabile proprio
perché la qualità e l’intensità dei rapporti rende necessaria una cornice
normativa sacralizzante al fine di difendere, come in un guscio protettivo, i
sentimenti e le emozioni che i soggetti vivono ed esprimono, che li aiutano
nella loro crescita interiore, ma che, per la loro fragilità, hanno bisogno di
non essere derisi e squalificati. (Chi fosse interessato ad una analisi più
dettagliata delle diverse comunità, cfr. la recente ricerca svolta dallo
scrivente per il LABOS “I processi di lavoro nelle comunità residenziali”).
Come avviene all’interno del gruppo di comunità il processo di recupero
Il processo di recupero in
comunità va visto essenzialmente nella dinamica del gruppo come continuo
superamento della omeostasi.
Il gruppo di comunità vive
un equilibrio dinamico, tende cioè sempre a nuovi equilibri attraverso il
superamento delle crisi determinate dall’ingresso dei nuovi e dall’uscita dei
residenti anziani. La presenza del residente nelle comunità d’incontro è infatti
transitoria e temporanea e ciò garantisce il costante rinnovamento delle persone
e della struttura di relazioni che si intessono - nell’arco dei due o tre anni
della durata del programma - e la perpetuazione della struttura comunitaria come
cornice capace di riorientare i residenti verso catarsi rigenerative e verso
strade di crescita e cambiamento della personalità.
L’esperienza della comunità
è fondata sulla transitorietà e sul conseguente rinnovamento continuo del
gruppo.
La “noodinamica” del gruppo
è data sia dalla accoglienza che dalla dinamica di crescita dei soggetti che
progressivamente si assumono responsabilità nel gruppo. La progressiva crescita
di ogni residente verso una maggiore responsabilità fa crescere anche la
capacità operativa della comunità, la quale a sua volta fa crescere un numero
maggiore di persone che aumentano ancor più la dinamica di crescita, etc., in un
circolo virtuoso che ha consentito la moltiplicazione delle strutture e del
numero di persone aiutate.
La fase dell’accoglienza
corrisponde all’apertura verso l’ultimo arrivato intorno al quale si riorganizza
tutto il gruppo e si rimescola la struttura consolidata di relazioni. Il compito
di chi dirige una comunità è quello di far innescare il numero più alto
possibile di rapporti tra persone.
Tale processo sviluppa il
senso di appartenenza alla comunità e stabilizza il nuovo entrato nella scelta
di proseguire nel suo programma.
La fase di crescita insiste
sul processo di responsabilizzazione crescente che porta i residenti ad
investire sempre più le proprie capacità e motivazioni nel percorso di
cambiamento individuale e nella crescita del gruppo.
Oltre che sui nuovi
entrati, il meccanismo di dinamica sociale si realizza anche attraverso coloro
che “escono”. L’uscita dalla comunità si presenta come esito finale delle
modificazioni del gruppo. Il membro anziano che ha ricevuto orientamento dalla
comunità e che ha dato ad essa impegno nell’aiuto verso i nuovi entrati, quando
ha ultimato il suo percorso di recupero inizia la fase del reinserimento,
segnata anch’essa da dinamiche relazionali con la realtà esterna (territorio,
famiglia, istituzioni).
I residenti usciranno dalla
comunità quando avranno imparato a costruire comunità nella propria famiglia,
tra i colleghi di lavoro, nel loro ambiente, nel proprio quartiere... Per fare
ciò, occorre aver interiorizzato chiarezza nello stabilire rapporti con gli
altri, consapevolezza di quanto possa essere difficile e di quanto si potrà
essere criticati e derisi nel proporsi con i propri ideali ed il proprio stile
di vita.
Cos’è il cambiamento e la crescita di una persona
Dal contesto delle
metodologie di recupero messe in atto nelle comunità, viene alla luce un
processo di cambiamento che sembra molto più legato al gruppo che non alle
caratteristiche della singola persona.
Ciò dipende dalla
somiglianza dei tratti comportamentali dei giovani tossicodipendenti che nelle
comunità approdano; prima che affiorino le diverse personalità è necessario sia
lo svezzamento dalla sostanza che l’allontanamento dallo stile di vita
dell’emarginazione e della tossicodipendenza. Avvenuto questo, si può
intraprendere l’intervento mirato alla specifica crescita della singola persona.
Inoltre la rilevanza che in comunità è data dal lavoro di gruppo, dal lavoro sul
gruppo e nel gruppo richiede di porre grande attenzione al fatto che differenti
trattamenti possono essere scambiati come situazioni di privilegio.
La personalizzazione del
programma di recupero è esito delle interazioni complesse tra gruppo ed
educatori e non un piano educativo o terapeutico personalizzato stabilito a
priori. La metodologia di lavoro è in tal modo estremamente flessibile nelle
tappe e nelle fasi ed, al contempo, estremamente determinata rispetto ai fini
educativi ultimi.
Gli obiettivi educativi
privilegiati in comunità sono le forme concrete di condotta, in termini di
comportamento.
L’avvenuto cambiamento di
comportamento e di atteggiamento deve essere chiaro e visibile, senza
incertezze, con la possibilità di coglierlo sia da parte dell’educatore che da
parte del residente.
Gli obiettivi da
raggiungere debbono essere utili per il conseguimento di obiettivi successivi,
secondo la regola di fare un passo per volta.
Debbono poi essere fondati
su un sistema di valori espresso attraverso principi posti a fondamento del
vivere in comunità e realizzabili non in astratto ma nella concreta vita
quotidiana.
Debbono, da ultimo,
produrre un cambiamento nella percezione di se stessi e la tensione verso la
realizzazione del sé ideale mediante il raggiungimento della coscienza di sé
come soggetto, come essere unico, originale; la capacità di equilibrio tra le
diverse tensioni interiori per una organizzazione del sé coerente, con aumento
della dignità personale, della autostima, della accettazione, della capacità di
entrare in relazione con gli altri, di saper amare e di sentirsi amato. Sono
verificabili attraverso la maggior consapevolezza della propria identità
personale e dalla capacità di rivestire ruoli sociali.
Valori e autovalutazione
Nelle comunità l’obiettivo
dell’autovalutazione si realizza in alcuni atti molto concreti quali il
confronto individuale e in gruppo sui lavori svolti, sul proprio cammino in
comunità, sulla realizzazione dei propositi assunti.
L’onestà nelle comunità è
posta come valore indispensabile per il cambiamento; il ragazzo che individua
nell’agire onesto la svolta per uscire dai suoi meccanismi di “tossico” trova la
chiave di lettura per comprendere ed affrontare la realtà. L’onestà così
concepita non lascia spazio a scuse e ad inganni; ciò che si fa, ciò che si dice
ha un unico esito: l’onestà, la verità; non ci sono le vie di mezzo.
Il valore dell’onestà
consente, inoltre, la chiarificazione dei propri stati d’animo poiché si fonda
sul beneficio interiore che deriva dall’aver sospeso le critiche negative, le
contorsioni interiori e i sensi di colpa.
L’agire onesto infatti conduce allo “stare in pace con se stessi”,
senza dover nascondere le proprie mancanze o giustificarsi, come sempre il
tossico ha fatto, mediante scuse o bugie. Ecco che la capacità di
autovalutazione - che è anche capacità di ammettere la propria disonestà -
diventa un passaggio obbligato ai fini del cambiamento.
I principi che funzionano
da riferimento valoriale nelle diverse comunità vengono scritti e proposti in
molti modi, a seconda della cultura specifica di ogni comunità, ma, in linea di
massima, sono simili e contengono gli stessi obiettivi educativi.
I principi della Comunità
Incontro, che sono applicati nel contesto formativo e preventivo della “Casa nel
Sole”, sono:
1.
Onestà e lealtà.
2.
Responsabilità e sacrificio (quello che fai, lo fai per il tuo bene).
3.
Amore e interessamento responsabile.
4.
Agisci come se fossi quello che vorresti essere.
5.
Chi non lavora non mangia.
6.
Quello che dai ricevi.
7.
Abbi fiducia nel tuo gruppo e in chi si occupa di te.
8.
Cerca di capire più che di essere capito.
9.
E’ meglio dare che ricevere.
10.
Non puoi fare progressi, se non rendi partecipi gli altri del tuo
progresso.
Tali principi si
trasformano in valori acquisiti e gestiti solo se vengono vissuti dai residenti:
la comunità propone un contesto dove è facile e concreto realizzare tali
obiettivi educativi, sta a ciascun residente farli propri e ricevere da essi
l’appagamento a cui conducono. Un principio si valorizza solo se è vissuto,
altrimenti resta lettera morta.
Responsabilizzazione crescente
La responsabilità non è la
fine del cammino comunitario ma è il punto di partenza per dare, e
contemporaneamente gustare, il senso della vita. Dal punto di vista individuale
l’agire responsabile significa iniziare a conoscere la concretezza dei risultati
delle proprie azioni e delle proprie scelte. Il mondo non appare più così
inspiegabile ed enigmatico, ma più trasparente e comprensibile. Il destino non è
più capriccioso ed imprevedibile, ma diventa la risposta di oggi a quanto
abbiamo fatto ieri. Il tempo acquista il suo vero significato. Il presente non
viene più percepito come un momento piccolissimo attraverso cui il futuro
diventa passato ed invece si dilata. Ciascuno impara a conoscere il suo tempo;
impara a volgere gli occhi al futuro, costruendolo con il lavoro di oggi. Il
cambiamento diventa così cosciente ed indirizzato. Le persone non cercano più
momenti magici o rituali per cambiare improvvisamente, ma si proiettano con
intenzionalità verso il futuro.
C’è un momento nella vita
di comunità in cui non è più possibile proseguire il proprio cammino
appoggiandosi ad altri, ma diventa indispensabile, per crescere, essere un punto
di riferimento per gli altri. E’ questa la fase evolutiva comune ad ogni
esperienza di vita e di crescita; in comunità essa assume un significato molto
più chiaro, poiché questa crescita deve essere attenta e risoluta. Non è
possibile perdere altro tempo da parte di chi ha sciupato anni preziosi vivendo
da emarginato una vita contraddistinta da superficialità ed angoscia.
E’ necessario divenire
responsabili, che significa profondi ed attenti e, allo stesso tempo, sereni. La
responsabilità non è quindi un incarico, ma un nuovo atteggiamento personale e
interiore nei confronti della vita quotidiana. Essere responsabili significa
“avere cura”, svolgere con cura i propri compiti, porre attenzione nei confronti
di se stessi, degli altri del mondo. Essere prudenti e non frettolosi. Avere
cura significa innanzi tutto smettere di scappare ed accettare la chiamata verso
l’impegno. L’accettazione della responsabilità è il momento in cui un uomo
diventa pienamente uomo: non ricerca più mani a cui aggrapparsi ma, pur nella
consapevolezza dei propri limiti, diventa le mani a cui gli altri si possono
aggrappare.
Ciò significa proporsi come
persona cosciente che nell’aiuto agli altri trova la risposta per se stesso.
Assumersi la responsabilità di qualcuno produce come conseguenza immediata
diventare importanti per qualcuno,
impegnarsi, darsi da fare, sacrificarsi per qualcuno porta a sentirsi ricchi ed a gustare la
sensazione dell’eroismo.
Inoltre, questa modalità di
relazione tipica del contesto comunitario ha il duplice effetto di accrescere il
senso di accettazione in chi è seguito e promuovere in chi “segue” sentimenti di
auto stima.
Il processo di
responsabilizzazione ha delle tappe, su cui non mi dilungo. Le graduali
responsabilità che vengono affidate ai residenti nel loro programma di recupero
sono funzionali alla crescita dell’immagine di sé: riuscire a portare a termine
un lavoro, provare la soddisfazione di aver costruito un muro, di preparare una
buona cena, sono il principale rinforzo per chi aveva perso ogni fiducia.
Il lavoro è una esperienza
importante: il lavoro dà equilibrio e rende consapevoli della nostra identità e
della nostra esistenza; il lavoro è lo strumento attraverso il quale i progetti
prendono vita, si concretizzano. Il lavoro dà infatti sicurezza, soddisfazione
ed importanti conferme sulle capacità.
Oltre al lavoro la cura del
corpo, della immagine estetica, sono tra i primi passi che il ragazzo compie
nell’iter di recupero, riscoprendo innanzi tutto la sua dignità di persona.
L’apertura verso gli altri
Attraverso i processi di
aiuto e la condivisione comunitaria, il residente è costantemente impegnato
nello sforzo di comprensione dell’altro e di quanto egli vive. Ciò favorisce la
riapertura verso il coglimento empatico con la conseguente capacità di
interpretare e gestire emozioni e sentimenti.
L’emarginato ha
interiorizzato nel corso della sua esperienza una molteplicità di sentimenti che
gli sono stati trasmessi dal contesto di vita in cui era collocato: toccato
profondamente da atti devianti altrui, egli ha fatto proprie tali modalità di
comportamento.
Un evento intenso
emotivamente come compiere un atto deviante, determina nel soggetto il ricordo
di tale tensione emotiva che ha riempito, per un breve lasso di tempo, il suo
vuoto interiore. Ora, se il soggetto in questione non trova altre vie per
riempire il grigiore della sua esistenza, sarà spinto a vivere nuovamente tale
frangente perché almeno per un attimo e pur se negativamente, tale esperienza lo
ha posto nel “vivido presente” che normalmente manca alla sua coscienza
sonnolenta.
Ecco che la vita di
comunità deve proporsi con atti e scelte particolarmente intense affinché la
loro ricchezza possa riorientare le scelte di vita delle persone. Altrimenti
l’emarginato non troverà mai la forza per uscire dall’abisso in cui si trova.
Nella vita dell’emarginato
sono spesso presenti centinaia di momenti in cui si è ripromesso di cambiare;
apparentemente sono esperienze tangibili: sono le varie promesse ad amici e
parenti profferite con sincerità momentanea, sono le lettere solenni, sono gli
impegni non mantenuti, sono i tatuaggi di cui si è ricoperto per incidere un
ricordo o una promessa sulla pelle indelebilmente, visto che non riusciva a
conservarne una traccia nella mente e nel cuore.
“L’emarginato ha
l’impressione di non poter essere amato nel suo profondo, di essere incapace di
riuscire nelle sue attività. Questa immagine frantumata di se stesso, tra ciò
che fa e ciò che è la sua persona profonda, genera in lui un mare di disgusto e
di tristezza, un’impressione di dar fastidio, di essere rifiutato, una reale
disperazione [...]. Ci si sente male nella propria pelle, si è in una specie di
stato interiore in cui ci si immagina che le persone intorno a noi guardino
sempre e solo “Il brutto” che è dentro di noi; e questo sguardo delle persone è
intollerabile.
Questa angoscia
insopportabile può costringere a fuggire nel mondo dei sogni e, al limite
affondare nella malattia mentale, perché è più confortevole. Almeno nel sogno
c’è il proprio mondo e non si è disturbati. Ma quando egli ritorna al mondo
reale è un inferno, si sente sempre rifiutato, escluso”, dice J. Vanier, in “La
paura di amare”.
“Da questa condizione è
praticamente impossibile uscire da soli; è necessario sentirsi finalmente amati
ed accettati per come si è, ed incoraggiati a intraprendere un cammino di
cambiamento.
Non si tratta di guarire
qualcuno, come se fosse affetto da una malattia, ma ridargli una qualità di vita
in cui egli possa amare e lavorare e condurre una esistenza che corrisponde alla
dignità del suo essere”, prosegue J. Vanier. “In questo lavoro è di fondamentale
importanza il gruppo; l’emarginato, o la persona con grosse difficoltà, o il
tossicodipendente, o l’alcoolista, o il malato di mente richiede di essere
circondato da un gruppo di persone attente ai suoi problemi ed in grado di
reggere il suo disequilibrio interiore. Non servono a nulla i colloqui
individuali o le psicoterapie d’appoggio quando si ha a che fare con meccanismi
di conflitto interiore tanto profondi da non essere più percepiti, nemmeno come
malessere, dall’interessato. Un rapporto di semplice discussione a due non
riuscirà mai a smuovere l’angoscia del profondo dell’anima a volte così buia da
non apparire nemmeno sulla superficialità della coscienza. E’ necessaria la
condivisione di vita per arrivare a vedere i primi segni di cambiamento
interiore ed è necessario un gruppo forte ed unito per orientare il
disequilibrio verso una vita più cosciente e serena.
Il rapporto di aiuto
richiede una grande pazienza senza la quale rischia di essere controproducente.
Sempre più frequentemente entrano in contatto con la comunità persone con
situazioni molto difficili che vivono pesanti meccanismi di difesa, chiudendosi
in psicosi da cui sono incapaci poi di uscire.
Per loro una “mano tesa può
essere qualcosa di molto bello o di molto pericoloso, può succedere che colui
che tenda la mano non sia fedele o non sia vero, che dica “Ti amo” ma che non
ami veramente, che lo dica semplicemente perché lo ha imparato sui libri o
perché si crede autorizzato a dirlo. Se una persona dà ad un’altra una falsa
speranza, allora la mano tesa diventa una realtà molto pericolosa” (J. Vanier,
La paura di amare).
Infatti una persona
profondamente ferita fa una grande fatica ad avere fiducia in chi la vuole
aiutare, poiché uscire dalla sua solitudine vuol dire rinunciare alle sue
difese. Quando questo avviene, la persona si manifesta nella naturalità della
sua sofferenza ed, apparentemente, sembra che il suo comportamento peggiori:
questo è il momento critico più importante di tutta la relazione di aiuto.
Una persona fortemente
disturbata quando entra in un contesto che la accetta e che la aiuta,
circondandola di affetto, avrà sicuramente una regressione a comportamenti
peggiori ed a comunicazioni più difficili di quelli che manifestava all’inizio
del rapporto. In pratica succede che, dopo un primo momento di progressivo
miglioramento, appaia, a volte anche all’improvviso, un radicale peggioramento
durante il quale si manifestano ripetuti rifiuti per l’aiuto che riceve,
tensioni, scontri o chiusure, tentativi di inganno e manipolazione, ecc. Ciò
perché si mettono in atto due processi: prima di tutto la persona esce “al
naturale” dalla sua sofferenza e, liberandosi dei meccanismi di paura che
costituiscono il primo strato di difese che lega la sua psiche, mostra
violentemente la base lacerante dei suoi disturbi. In secondo luogo perché, non
appena si accorge di avere intorno soggetti che le consentono di esprimersi,
scarica su di loro tutta la sua frustrazione e la aggressività compressa, quasi
a verificare fino a che punto gli altri la accettino egualmente. Sembra che egli
faccia tutto il possibile per rendersi odioso, per snervare, per provocare.
La intensità della
relazione di aiuto si offre come contesto per la nascita di esperienze
significative, forti e cariche di umanità che riescono a segnare profondamente
in senso positivo chi vive immerso in una qualità di rapporti non superficiali.
Lo sforzo di comprensione dell’altro produce in tutti una riapertura alla
comprensione di sé estremamente ricca, poiché ciascuno rivede nell’altro quelle
parti di sé che ancora fanno male e che ancora non sono sotto controllo.
Inoltre consente di
acquisire autonomia di fronte alle pressioni sociali ed imparare a liberarsi
dalle relazioni invischianti. Le relazioni invischianti sono quelle trappole in
cui cascano le persone non ancora capaci di gestire i rapporti con gli altri;
sono vincoli da cui è difficile uscire poiché si fondano sulla dipendenza
reciproca, su ricatti affettivi, sulla condivisione di segreti e non consentono
un rapporto libero fondato sulla chiarezza ma sulla complicità.
Le relazioni fondate sulla
complicità invischiante hanno alla base interessi economici, sessuali, di
protezione. Le relazioni di amicizia sono confuse spesso con le relazioni di
complicità.
Il rapporto più semplice di
complicità è la comunicazione di un segreto. Spesso avviene attraverso la usuale
frase “Ti dico una cosa... ma non devi dirla a nessuno”.
Così facendo si stabilisce
un rapporto di potere con l’altra persona che viene legata dal segreto ad una
relazione invischiante. La trasmissione di un segreto, spesso banale e semplice
(ma che magari riguarda la natura di un certo rapporto tra le persone, come nel
caso del propagarsi del pettegolezzo), produce immediatamente un vincolo tra chi
riceve il segreto e chi questo segreto ha trasmesso. L’ambiguità è alla base di
questo legame che contiene la doppia caratteristica di attirare le persone in un
contatto di falsa intimità e di impedire, successivamente, alle persone di
lasciare il contatto.
Il modo per liberarsi da
tali condizionamenti è connesso con la comprensione empatica dell’autentico
vissuto dell’altra persona, con l’esperienza di nuove modalità di rapporto
interpersonale e con l’acquisizione di nuove capacità relazionali. Tra queste:
il confronto continuo e diretto, la regola che non permette alle persone di
appartarsi, il valore dell’onestà, l’aiuto responsabile, basato sulla
solidarietà, sul dono gratuito e non manipolatorio e fondato sulla trasparenza,
la denuncia aperta di fronte alle irresponsabilità e alla trasgressione, la
rinuncia all’omertà.
Questi nuovi modi di
relazionarsi rappresentano un grande passo avanti nella capacità di autonomia,
avere il coraggio di dire responsabilmente ad un amico “hai sbagliato” è
l’espressione di un cambiamento che è avvenuto.
Esito della
responsabilizzazione e dell’apertura verso gli altri è una aumentata capacità di
comprensione e di valutazione di sé. La persona diventa infatti in grado di
entrare in contatto con se stessa, con il mondo dei suoi sentimenti. E’ capace
di “sentire” e quindi di riconoscere le proprie esperienze interne, che sono
fatte di pensieri, reazioni, impulsi ed emozioni; può percepire i vari
significati, le divergenze e i conflitti dei suoi bisogni e può scegliere in
modo libero le modalità di azione.
In alcuni programmi
comunitari vengono esplicitamente indicate anche le cinque emozioni cosiddette
di base del “sentire”, secondo la teorizzazione di Kooyman: ira, dolore,
piacere, amore e paura. I residenti vengono educati a riconoscerle in sé ed a
prendere decisioni in base alla percezione dei conflitti interni e ad
individuare le modalità di azione più adeguate.
A qualcuno potrà apparire
semplicistico ridurre la complessità del vissuto a qualità emozionali così
scarne, ma l’esperienza dell’emarginazione è talvolta così acuta che la persona
non è più in grado di distinguere il dolore dal piacere (come in tutti i
comportamenti autolesionisti, masochisti ed autodistruttivi), vive il dolore
della propria inadeguatezza, il dolore della vergogna e dell’invidia per il
successo altrui chiudendosi nella sfiducia e nella paura, ribalta la paura
attraverso l’ira, ha paura dell’amore perché lo considera una debolezza quando
si esprime sotto forma di tenerezza o di gentilezza, tenderà dunque a confondere
l’amore con il piacere, tenderà a possedere ingordamente il piacere e non
riuscirà mai a gustare nulla, dislocando alla fine il piacere nell’esercizio
della rabbia distruttiva e nella violenza, e così via.
L’apertura verso gli altri
impone il riconoscimento delle proprie ed altrui emozioni, la verifica dei
sentimenti, la loro conversione e la accettazione di quello che sono nella forma
originaria; cioè senza scivolamenti in altre forme di sentire. E soprattutto
senza manipolazioni verso il sentire altrui che, in un contesto di chiarezza e
di relazione con numerosi altri soggetti, non può più essere mistificato come
precedentemente accadeva nei confronti di ogni singola persona che il tossico e
l’emarginato incontrava.
La maturità psichica e l’equilibrio
L’educazione ad ascoltare i
propri sentimenti, a riconoscerli, ad esprimerli senza paura ed a gestirli
favorisce la costruzione o la riformulazione di un chiaro ideale di sé,
consapevole delle proprie capacità, della propria personalità. L’obiettivo
educativo successivo è quello di aiutare il formarsi della capacità di proporsi
mete a lungo termine, attraverso l’esercizio della costanza e della perseveranza
di portare a termine i propri compiti e a sostenere le scelte che tendono verso
la realizzazione di una meta futura concreta come la professione, o altre scelte
di vita, anche se non necessariamente irreversibili.
Le metodologie educative
utilizzate in Comunità per favorire la maturità psichica e l’equilibrio passano
necessariamente attraverso lo sviluppo dell’autostima. L’autostima è la molla
che spinge la persona verso nuovi traguardi, è lo strumento interiore che
consente il superamento del bisogno di costanti conferme e gratificazioni
esterne, da cui per lungo tempo era dipendente. Chi ha bassa stima di sé, non
crede di poter cambiare e di conseguenza non vede nemmeno mete future, non si
azzarda ad esprimere chiari obiettivi. Vive nel dubbio di riuscire a portare a
termine il programma comunitario, ha la tendenza ad aspettarsi il peggio, sta
alla finestra a guardare quello che succede in modo passivo.
Sfiducia nelle proprie
capacità e scarsa autostima vengono ribaltate attraverso la disciplina che la
comunità propone; la possibilità di scoprire, attraverso la applicazione di
alcune semplici regole, di essere in grado di dirigere se stessi serve a far
emergere e consolidare la autostima.
La personalità di chi ha
poca stima di sé può dipendere dalla fragilità o dalla debolezza interiore.
La persona fragile è colei
che ritiene di non essere in grado di fare e che si tira indietro di fronte alle
difficoltà. E’ una persona che ha bisogno di sfidarsi per riconoscere la sua
forza.
Le regole più indicate per
questa personalità sono di tipo impositivo, ad esempio gli orari che
stabiliscono i tempi di realizzazione delle varie attività, i turni in cucina
nei quali la persona deve preparare il pranzo per la comunità, l’importanza di
riuscire a rendere produttivo l’orto. Cose semplici ma quasi impossibili per chi
ha rinunciato ad agire per paura di non riuscirci, di essere deriso di fallire.
Le persone deboli sono
invece coloro che hanno bisogno di regole limitative perché non hanno imparato a
rinunciare, indulgono nei propri difetti e vivono nella paura di cadere
in tentazione.
Per costoro sapere che nel
contesto in cui vivono ci sono dei limiti è un aiuto a rinforzare la volontà. La
regola che non permette di fumare più di dieci sigarette al giorno è un esempio
concreto di “limite”. Le regole rappresentano per i residenti saldi punti di
riferimento per la loro crescita, prima in termini di disciplina, che significa
concretamente dover fare alcune cose e non poter farne delle altre, poi in
termini di valore quando la persona scopre nella regola un significato per la
sua vita. La regola delle dieci sigarette in se stessa non produce cambiamento
finché egli non vede il legame tra la sua debolezza e la sua precedente continua
insoddisfazione che lo portava a non avere più rispetto per niente e per nessuno
per poter soddisfare i propri desideri.
Le principali regole di
vita interna nella comunità d’incontro hanno le funzioni educative su esposte e
sono:
1. Niente droga, niente
farmaci né denaro personale.
2. Niente alcoolici - caffè
e vino due volte a settimana.
3. Pochissimo tabacco: non
più di dieci sigarette al giorno.
4. Niente violenza, né
prepotenza, né eccezioni.
5. Nessuna forma di
isolamento, né da solo né con altri.
La realizzazione di sé
L’esperienza comunitaria
educa all’autorealizzazione dell’io-ideale sia all’interno della comunità che
nel contesto sociale in cui dovrà reinserirsi.
Il gruppo di persone al
quale la persona si sente affine, perché ne condivide gli spazi, le emozioni, i
bisogni, i desideri e le ambizioni è un contesto di appartenenza che produce
motivazione al cambiamento e che dà sicurezza. Fin dal momento della accoglienza
il residente si trova a contatto con altri giovani che hanno storie analoghe
alla sua: egli si rispecchia negli atteggiamenti dell’altro ed i trucchi sono
inutili. I responsabili che lo accolgono hanno percorso lo stesso cammino a loro
tempo: ora sono in grado di offrirgli aiuto con generosità, con lucidità e
distacco.
La comunità alla quale la
persona si rivolge per risolvere un problema, si trasforma da realtà esterna a
realtà interna, diventa un modo di essere e di vivere.
Il reinserimento è la fase
in cui il ragazzo è chiamato a vagliare il cammino fatto, la sua crescita, ma è
soprattutto la fase della progettualità; l’esperienza residenziale rappresenta
il distacco dalla tossicodipendenza, il cammino di crescita e di strutturazione
della personalità.
L’autorealizzazione di sé
nel mondo è il compito a cui il residente si prepara in modo concreto anche
attraverso lo studio, l’apprendimento di mansioni lavorative, la qualificazione
professionale in determinati settori. Tale bagaglio di informazioni permetterà
alla persona di orientarsi nella complessità del vivere che caratterizza la
nostra società.
Il vissuto comunitario
contiene quella gamma di valori che entrano a far parte di un progetto di vita
quando sono interiorizzati, quando la persona ne coglie l’importanza per il suo
progetto di vita. Chi avrà imparato a fare comunità tenderà a promuovere questa
modalità di relazione anche nella società in cui ritorna. Il motivo di questa
trasposizione di valori dalla comunità di recupero alla comunità di appartenenza
trova giustificazione nel benessere che quei valori hanno portato alla persona
che li ha sperimentati.
Intorno a questo nucleo
valoriale si gioca tutta la possibilità di pervenire ad un efficace
reinserimento nella società. L’ex tossicodipendente che si reinserisce nella
società non è diventato un superuomo come molti pretendono che egli sia,
mantiene la sua debolezza di fondo e le sue difficoltà non sono poche. Ha in più
solo la capacità acquisita di fare scelte responsabili in base ai valori ed allo
stile di vita che la comunità gli ha proposto.
Tali scelte debbono essere
svincolate dalle norme contraddittorie e dalla pluralità di pressioni ed opzioni
presenti nel contesto sociale. Ciò implica una componente di autonomia da quegli
aspetti da cui arriva un giudizio sociale.
Ciò significa che il
soggetto trova la soluzione dei suoi conflitti interni in base al giudizio della
coscienza e ai valori dell’io-ideale, sa scegliere i mezzi migliori ed ha una
capacità di valutazione autonoma nell’orientamento della propria vita.
Il raggiungimento di questi
obiettivi educativi porta alla realizzazione di persone libere e critiche, con
le caratteristiche individuali che le distinguono una dall’altra.
Il soggetto recuperato
dalla tossicodipendenza può riuscire così a portare con sé e immettere nella
società in cui rientra la ricchezza di un’esperienza comunitaria fatta di amore
responsabile, di ordine e impegno, di calore, sicurezza e fiducia, di vitalità,
creatività e allegria, di coesione di gruppo e di apertura verso gli altri.
Orientamento, educabilità nella comunità di formazione e prevenzione
Il processo educativo che
viene offerto all’interno di una esperienza comunitaria di prevenzione non è
così forte e complesso come quello organizzato in una esperienza di recupero.
Pochi giorni in una comunità, che abbia regole calibrate al bisogno di
formazione di soggetti che non hanno un bagaglio negativo alle spalle come
l’emarginato, costituiscono comunque una esperienza importante e intensa
finalizzata ad alcune mete educative indispensabili per comprendere e ribaltare
una condizione di disagio.
Gli obiettivi educativi che
si propone uno stage in comunità, del
tutto simili a quelli dei gruppi di incontro, sono la scoperta e la presa in considerazione del proprio disagio, la miglior
comprensione di sé e l’apertura verso gli altri.
Questi obiettivi sono
parziali e mirati e non possono corrispondere alla completezza di un piano
educativo globale rivolto alla miglior organizzazione della vita di un soggetto.
Occorre saper operare nel contingente, con le persone che si hanno di fronte,
prevedendo le connessioni con strategie educative di lungo termine, ma senza
trasformarle in meccanismi implacabili che si ripetono. Sul piano educativo vuol
dire ripetere l’errore di pensare alla pianificazione rigida del processo di
crescita di un uomo per adattarlo alla astratta struttura della società, il
futuro della educazione sarà arrendersi all’impossibilità di reperire educandi
disponibili. Adoperare poi la mancanza di un “piano educativo globale” per
evitare sistematicamente l’incontro con i giovani (o averlo dentro schemi aridi
di ruolo) è solo una buona scusa per non operare mai.
L’esperienza di una
comunità di formazione è un orientamento solo temporaneo ma può costituire
l’innesco di una dinamica interiore e relazionale che, nella continuità
successiva del lavoro di gruppo, fornisce ai soggetti capacità e strumenti per
vivere meglio nel mondo.
Orientamento è un termine
coniato dalle scienze pedagogiche per superare lo stallo della crisi
dell’educazione e dei suoi tradizionali indirizzi (personalista, marxista e
laico). A liberare la pedagogia da questa crisi intervengono i due concetti di
“educabilità” e di “orientamento”. Il primo non si basa sulla quantità di
educazione da introdurre nel soggetto, ma si propone di riconoscere i bisogni
educativi delle differenti persone. Muove dalla realtà oggettiva che la persona
si trova a vivere e su questa costruisce quanto riesce, a seconda delle
circostanze e delle occasioni.
Orientamento è indirizzare
verso la maturazione psicologica e spirituale ogni fase critica del vissuto dei
soggetti per spingerli a scoprire la loro concreta possibilità e capacità di
scelta. In un processo di orientamento a lungo termine significa insegnare a
individuare la vocazione personale, e incoraggiare a rispondere ad essa.
Il modello di comunità di
orientamento è dunque concepito come un processo educativo che riapre il
soggetto verso orizzonti e possibilità di vita che egli non conosceva e non
aveva previsto proprio perché non aveva vissuto la pratica di alcuni stati
d’animo, di alcune modalità di relazione e di alcuni valori.
La finalità di tal tipo di
orientamento educativo non è quella di costruire persone da inserire nel mondo
ma solo di offrire qualche strumento in più per imparare a vivere nella
complessità contraddittoria del mondo che ci circonda.
L’Associazione “Casa nel Sole”
L’attività
dell’associazione risale al 1980 e prende il via dal lavoro di Padre Vittorio
Balzarano nell’accoglienza di tossicodipendenti. Nel corso degli anni i
volontari di “Casa nel Sole” si sono dedicati a costruire diverse esperienze di
aiuto nella difficile realtà della Campania aprendo numerose sedi di intervento.
Tra queste, una comunità
per il recupero di tossicodipendenti, a Faicchio (BN) (1983). In seguito alla
collaborazione con la Comunità Incontro, l’intervento di “Casa nel Sole” si è
sviluppato e perfezionato. La sinergia tra queste due realtà ha prodotto una
notevole espansione della capacità di lavoro nel territorio. Le regole, i
principi e il metodo della Comunità Incontro hanno consentito l’apertura di
numerosi centri di recupero in Campania. Attualmente 6 centri, con più di
centocinquanta residenti, la cui conduzione è affidata a responsabili formati
nella Comunità Incontro di Don Pierino Gelmini.
Intanto i volontari di
“Casa nel Sole” hanno continuato a svolgere le seguenti attività: colloqui di
orientamento e di preparazione dei ragazzi tossicodipendenti all'ingresso in
comunità, sostegno alle famiglie attraverso incontri individuali e gruppi di
auto-aiuto, prevenzione e formazione, reinserimento.
Per tali obiettivi hanno a
disposizione le sedi di Faicchio, Benevento, Circello, Avellino, Napoli, San
Martino, Succivo, Piedimonte Matese, Mondragone e Pontecagnano (sedi associate).
Dal 1991 nel centro di
Circello, Casolare Santa Margherita,
è stata concepita e realizzata una singolare ed efficace esperienza di
formazione-prevenzione. La sua originalità sta nell’ospitare gruppi di persone
(studenti, docenti e volontari) per brevi
stage
residenziali, chiamati corsi, per offrir loro l’opportunità di un momento di
riflessione, di incontro e apertura verso gli altri e di orientamento verso i
valori proposti dalla vita comunitaria.
Negli anni 1992-’93 hanno
partecipato ai corsi circa 900 persone.
Le regole della comunità di formazione e prevenzione
Si tratta di offrire una
esperienza di comunità breve, dieci giorni, a chi voglia costruire insieme e
vivere il clima di comunità per imparare a conoscere meglio se stesso e gli
altri.
La comunità funziona sulla
base di semplici regole che “servono ad armonizzare la vita comunitaria
garantendo il rispetto di tutti e di ciascuno. L’attenzione all’altro e la
maturazione di ogni persona sono il motivo iniziale e l’obiettivo finale di ogni
regola.
1. Siamo tutti uguali: non
cerchiamo favoritismi o particolarità (le eccezioni possibili sono quelle per
motivi di salute).
2. Evitiamo atteggiamenti
che possono creare sottogruppi o situazioni di coppia (ciò vale anche per gli
sposi).
3. Rispettiamo le persone
rispettandone le responsabilità.
4. Atteniamoci
scrupolosamente agli orari e al suono della campana.
5. Osserviamo il silenzio
durante la meditazione, prima delle riunioni, prima dei pasti e, nelle camere,
durante il riposo e dopo la buonanotte.
6. Il lavoro, a cui tutti
siamo tenuti, va svolto con amore e secondo lo spirito comunitario. Gli attrezzi
vanno manovrati con cura e ripuliti prima di metterli a posto.
7. In riferimento al cibo
ricordiamo che non si mangia fuori dai pasti, non si lascia nulla nel piatto e
niente va sciupato. Il vino, le bibite, il caffè e gli alcoolici sono limitati.
8. Ai fumatori ricordiamo
che prima di colazione non si fuma; in casa non si fuma; non si buttano
mozziconi per terra.
9. Nel telefonare e nel
ricevere telefonate limitiamoci a brevi comunicazioni e ai casi di effettivo
bisogno.
10. Ogni giorno seguiamo
insieme il telegiornale e la domenica, ancora insieme, ascoltiamo la musica”.
Oltre al lavoro in gruppo,
finalizzato a creare momenti di confronto interpersonale (i gruppi di lavoro
sono in genere formati da 3 o 4 persone e si occupano di attività di
giardinaggio, orto, manutenzione della casa, preparazione del pranzo, pulizie,
artigianato etc.), ogni giornata è scandita da momenti plurimi di riunione di
gruppo: al mattino per una breve riunione tecnica ed organizzativa della
giornata, al pomeriggio per un incontro di formazione di circa un’ora, ed alla
sera da una riunione di verifica sulla giornata.
Le regole proposte sono
piuttosto semplici anche se, per chi non ha mai fatto esperienza di comunità,
appaiono una imposizione antipatica e di difficile realizzazione. L’impressione
che suscitano nelle persone è quella di ritrovarsi privi delle solite vie di
fuga con cui in genere vengono surrogate le necessità e traslate in soluzioni
compensatorie e vicarianti le tensioni vissute nella vita quotidiana.
In genere, dopo un momento
di tensione all’interno della famiglia, è sempre possibile chiudersi in se
stessi davanti al televisore, telefonare ad un amico, allontanarsi dal lavoro,
piantar tutto lì ed uscire di casa, e così via. Si può decidere di lasciare a
metà un lavoro e cominciarne un altro, lasciare in disordine gli attrezzi, non
lavare i piatti, etc... appartarsi con qualcuno ed ignorare gli altri che ci
circondano, chiudendo i rapporti scomodi... affogare nei cioccolatini o
nell’alcool un dispiacere e poi non riuscire a mangiare a pranzo o a cena...
Le regole della comunità
hanno la funzione di far vivere il confronto reale e concreto con le persone con
cui si convive senza le solite fughe. La vita di relazione diventa dunque
impegnativa ed è bene che chi voglia fare l’esperienza di comunità sia
preventivamente informato dello stile di vita che in essa viene praticato.
Altrimenti può accadere che alcuni, trovandosi di fronte a tali regole
improvvisamente, scelgano di andarsene, con un danno di frustrazione per se
stessi ed un danno per il gruppo che deve metabolizzare l’abbandono da parte di
qualcuno.
L’abbandono non è comunque
mai avvenuto per l’insopportabilità delle regole (per nulla impegnative e di
facile applicazione) ma per la difficoltà di frenare l’orgoglio ed accettare
alcuni limiti al proprio comportamento. Infatti i rari abbandoni avvengono
sempre all’inizio di ogni corso.
Alcune altre
caratteristiche organizzative della vita di comunità di formazione-prevenzione
concernono la necessità di aprirsi al rapporto di conoscenza con tutti i
partecipanti alla esperienza; per questo motivo è obbligatorio cambiare posto a
tavola ogni volta e i gruppi di lavoro cambiano composizione ogni giorno,
oltreché per il necessario ricambio nelle diverse responsabilità e nelle
mansioni della cucina, del rigovernare, della preparazione della colazione per
tutti, etc.
Un particolare risalto ha
l’accoglienza; sia nel momento di arrivo in comunità, quando le persone, in
cerchio, dopo un momento di silenzio si presentano reciprocamente gli uni agli
altri, sia nel rapporto con chiunque si presenti in comunità. Simbolo di questa
accoglienza è preparare sempre un piatto in più, per l’eventuale ospite che può
arrivare all’ultimo minuto.
In genere il clima di
comunità si instaura dopo appena tre giorni di convivenza e si fa subito sentire
attraverso l’apertura che le persone mostrano nei confronti degli altri.
Un momento importante della
presentazione è la riunione dei pregi e difetti in cui ciascuno si descrive con
le caratteristiche di sé che conosce e le mette in discussione insieme agli
altri.
Questo rapporto, che
diventa di conoscenza immediatamente profonda, ha il suo esito nella riunione
dell’ultimo giorno in cui ciascuno dice all’altro cosa pensa di lui. Spesso è
una riunione interminabile (in un corso particolarmente intenso è durata dalle
nove di sera alle sei di mattina, senza che nessuno accusasse la stanchezza o la
voglia di smettere per dormire) e molto ricca umanamente, poiché tutti vogliano
sapere la percezione che l’altro ha avuto di lui e si sentono oggetto di
attenzione come persona.
La curiosità sul punto di
vista altrui e la sensazione di avere intorno gente che si occupa di te è spesso
per molti una esperienza davvero insolita e piacevole.
Altri aspetti delle regole
sono quelli che riguardano l’ordine e la pulizia che debbono essere mantenuti
scrupolosamente, così come il resto dei lavori svolti sempre con la massima
cura. Il motivo è quello di concentrare le persone su ciò che fanno, evitando il
più possibile distrazioni, fughe mentali o viaggi nella fantasia.
La responsabilizzazione di
ciascuno è prodotta attraverso il particolare compito che gli viene affidato: il
responsabile della campana dovrà far rispettare gli orari a tutto il gruppo, il
responsabile dell’ordine della casa dovrà far notare la mancanza di attenzione o
il disordine prodotto da qualcuno, etc. L’aspetto centrale di tali regole,
decisamente forzate rispetto alla normale e consueta vita di relazione, è quello
di far notare caratteristiche espresse nel comportamento da parte di tutti i
partecipanti alla esperienza. Chi diventa ossessionante nel rimprovero agli
altri dimostra, di fronte a tutto il gruppo, che deve imparare la tolleranza,
chi reagisce male di fronte ad una osservazione dimostra le caratteristiche del
suo essere fragile e permaloso, chi ignora i suggerimenti degli altri mostra la
sua superficialità, etc.
Inoltre la disposizione a
svolgere bene i propri compiti e la approvazione del gruppo serve a trar
soddisfazione dalla attività intrapresa e liberarsi di dubbi e incomprensioni.
Il tutto volto alla ricerca di maggior equilibrio personale tra le sensazioni
sperimentate ed il comportamento messo in atto.
Un altro strumento di
confronto importante è il diario quotidiano della giornata; esso viene compilato
alla sera, a turno da uno dei residenti e deve contenere la relazione di quanto
ha vissuto sia il gruppo che lui personalmente nel corso della giornata. Viene
letto il mattino successivo ed apre l’attività del giorno dopo ricollegandola al
precedente. Da questi diari, conservati presso il centro comunitario di Santa
Margherita, è possibile ricavare gli obiettivi formativi della comunità
realizzati nel concreto dei diversi stage.
Il valore del lavoro come momento di unione
Il corso di 10 giorni di
metà agosto ha visto la partecipazione di 20 persone, tra cui una bambina di 6
anni e due ragazzi di 12. Un giovane ha lasciato la comunità al secondo giorno.
Il gruppo non riusciva ad amalgamarsi per la presenza di numerose tensioni nelle
persone e nelle coppie presenti; è sfilacciato con molti elementi di
disgregazione. Al terzo giorno i tentativi di confronto e di discussione
sembrano evitati definitivamente. Al quarto giorno, dopo l’arrivo di Padre
Vittorio, viene proposta una gita per distrarre le persone dalla tensione che
però sembra funzionare relativamente. Il gruppo si forma decisamente al quinto
giorno quando vengono proposti alcuni importanti lavori di sistemazione di casa.
Il gruppo prende forma e si
anima; in parte il lavoro diventa valvola di sfogo delle tensioni, in parte
diventa una occasione per far emergere l’entusiasmo e contagiarlo negli altri. A
sera emerge la sensazione di aver pochi giorni ancora a disposizione per
utilizzare al massimo il corso in comunità. L’atmosfera diventa intensa. Le
energie positive che circolano nel gruppo sono tali che c’è chi accusa problemi
fisici per uno strappo muscolare, ma riesce in un obiettivo più importante e
cioè ad aprire un dialogo sereno e tenero con la moglie.
Le osservazioni degli
ultimi giorni scritte sul diario fanno comprendere la profonda riflessione che
si è aperta, a tutti i livelli, tra le persone, al punto che (leggendo l’ultima
riflessione di Rosalba) il gruppo che ha vissuto l’ultimo giorno sembra un altro
gruppo rispetto ai primi contatti interpersonali.
Annamaria al primo giorno
di comunità scrive:
“Oggi, per essere il primo
giorno del corso è stato abbastanza positivo anche se poteva andare meglio,
infatti non si è ancora creata la vera atmosfera di Comunità. Ho notato che
alcune persone non sono disponibili e, in alcuni turni di lavoro, c’erano
persone che non si sforzavano minimamente a parlare... ho notato qualcuno che se
ne andava per i fatti suoi, certo non si può pretendere che da un giorno
all’altro ci si possa adattare all’esperienza, è però importante sforzarsi per
superare queste difficoltà, senza nascondersi. Altrimenti è inutile stare qui...
Mi è dispiaciuto che Fabio se ne sia andato anche perché non è entrato
nell’ottica della comunità ma ha guardato solo alle cose materiali. Io oggi sono
stata abbastanza soddisfatta perché sono riuscita a parlare di me senza
diffidenza ed ho capito che i miei problemi li hanno anche gli altri”.
Loredana, al terzo giorno
di corso, scrive: “Nel pomeriggio, durante la riunione di formazione, si è
parlato di responsabilità e sacrificio, del senso che ha per ciascuno di noi. Mi
sono resa conto che al riguardo ho ancora molto da imparare, penso che non ci si
possa considerare persone responsabili fino a quando non si è disposti ad
assumersi le proprie responsabilità fino in fondo, a qualunque costo. Al
pomeriggio c’è stato un momento difficile con Nicola a cui piace sempre
scherzare e parlare pochissimo di sé e con Flora, che conosco da tempo, e con
cui per questo motivo non mi sono aperta. Ho alzato la mie barriere con Beppe
perché ho incontrato in lui una persona che scavava dentro di me e non ero, al
solito, io a fare ciò con qualcun altro”.
Tiziana al 5° giorno:
“Questa giornata è
trascorsa all’insegna del costruire. Abbiamo creato un muro di pietre, un nuovo
piazzale per le macchine, stiamo lavorando per una fontana, ma soprattutto
alcuni di noi stanno provando a posare una pietra per costruire la loro vita.
Francesco sta tentando di costruire l’amicizia di cui ora sta conoscendo il
valore e di cui si è scoperto privo e bisognoso. Pina e Salvatore hanno avuto
una spinta per rivedere il loro rapporto ed è trasparsa la necessità di un
maggior dialogo e di andarsi maggiormente incontro. Annamaria ha finalmente
scoperto che la sua pigrizia scaturiva dalla sensazione che non le fosse data
fiducia e si sta sforzando di reagire; io, Tiziana, ho deciso di impegnarmi ad
accettare i miei limiti e a conquistarmi il coraggio di non nasconderli.
Ha caratterizzato il
pomeriggio un clima di allegria e di soddisfazione per quanto si stava facendo,
gioia che traspariva dalla bella immagine del cantiere come lo ha definito
Beppe, in cui tutti noi in movimento continuo lavoravamo per contribuire ad
abbellire la nostra casa. Ed è proprio di come il lavoro faccia sentire il
legame tra persone ed i luoghi per i quali si opera e dia la bella sensazione di
aver realizzato insieme qualcosa, che si è parlato nella riunione... C’è un
altro aspetto che ho notato: la sensazione di avere ancora tanto da fare e da
acquisire e che il corso finisca troppo presto.”
Roberto nella penultima
giornata dirà:
“Ho conosciuto persone
meravigliose che con i loro problemi e qualche certezza mi hanno aiutato molto a
leggermi dentro. Ho scoperto che per ognuno di loro rappresentavo qualcosa di
diverso. Per alcuni ero simpatico e spigliato; per altri divertente e sapevo
instaurare un dialogo, per altri ancora disponibile ad ascoltare. Qualità questa
che mi fa molto piacere sentire. Ma, come al solito, per molti la solita nota
dolente era quel mio modo molto diretto di propormi a loro; il mio inserimento
quasi forzato nelle situazioni e nei dialoghi che di volta in volta andavano
instaurandosi. La mia cruda sincerità non per tutti va bene. Ho capito che anche
donando qualcosa a qualcuno, questo dono, proprio in quanto tale, deve essere
donato con dolcezza e garbo per poter essere apprezzato a pieno da chi lo
riceve, e non buttato ai suoi piedi come un oggetto senza valore.
La cosa che mi ha più fatto
riflettere è che adolescenti di 12 anni possono partecipare attivamente in tutti
i sensi alla vita di gruppo. Dare il loro contributo concreto sul lavoro
giornaliero e, quello che più conta, il giudizio obiettivo ed innocente su come
hanno visto le persone ruotare e vivere accanto a loro”.
Rosalba scrive sul diario
all’ultimo giorno:
“Il gruppo che si è formato
ha raggiunto un clima stupendo, soprattutto per l’amore e l’attenzione che l’uno
ha verso l’altro e anche per l’affiatamento che ci ha condotto a trascorrere
questi giorni in modo piacevole, sereno e tranquillo. Proprio quella
tranquillità che io cercavo quando mi sono proposta di fare questo corso. Una
serenità che ho raggiunto giorno per giorno con l’aiuto di tutti... Purtroppo
dieci giorni sono pochi per scoprire i miei pregi e i miei difetti, soprattutto
perché quando si crea il clima di comunità parlare diventa una cosa spontanea e
meravigliosa”.
Lo spirito di sacrificio, l’unità del gruppo e l’apertura verso l’altro
Il corso conta 18
partecipanti provenienti dall’Istituto Professionale per il Commercio di Cava
dei Tirreni; arrivati senza una adeguata preparazione vivono alcune difficoltà
nell’adattarsi alle regole e due di essi decidono di sospendere l’esperienza
dopo il primo e secondo giorno.
Il gruppo prende forma
lentamente; e comincia a funzionare quando scopre l’importanza del sacrificio.
Accettare le regole è dapprima vissuto come delusione per le difficoltà
incontrate e per le speranze di poter riprodurre le proprie abitudini: andare in
giro, vedere la TV, poter mangiare le cose preferite, etc... Poi diventa una
importante riflessione collettiva sul senso del sacrificio. Una constatazione è
d’obbligo: quanto poco la famiglia oggi proponga impegni e responsabilità ai
giovani, quanto poco chieda di fare e di essere. Al punto che la debolezza di
fronte a qualcosa da mangiare che sia al di fuori dalle proprie abitudini
provoca il rifiuto di una esperienza.
Dopo che il gruppo ha preso
consapevolezza del senso delle regole e del senso del sacrificio, comincia ad
aprirsi e molti scoprono la bellezza dello stare in un gruppo unito. Il dialogo
va in profondità e si trasforma in una occasione di aiuto per molti ragazzi.
Felicita al primo giorno
parla della accoglienza. “Ci hanno accolto a braccia aperte e ci hanno aiutato a
superare il primo impatto in questo nuovo ambiente molto diverso da come me lo
ero immaginato. Qui ci sono alcune regole da rispettare (e bisogna rispettarle
severamente e con serietà), ognuno ha le proprie responsabilità e i propri
doveri da eseguire. E pensare che io immaginavo di ritrovarmi in un paese per
poter uscire ed andare in giro! Ma sono lo stesso felice perché avevo sempre
sognato una esperienza simile: vivere a contatto con la natura senza il caos
quotidiano della mia città, conoscere altre persone e soprattutto riuscire a
conoscere meglio me stessa. Uno dei primi sacrifici che ho dovuto affrontare è
stato quello di dover mangiare i pomodori cotti e con le bucce (cosa mai
fatta!)”.
Palmina, al secondo giorno:
“Il sacrificio che ho dovuto fare è stato quello di mangiare le cipolle. Mi
manca un po’ la mia città, la mia abitudine a vedere la TV”.
Marianna al terzo giorno
nota l’affiatamento del gruppo e scrive: “Nella riunione di oggi ho capito una
cosa fondamentale: che cos’è veramente il sacrificio e cioè quel prezzo che si
deve pagare per il raggiungimento di un determinato scopo ed ho anche capito che
se qui su alcune cose mi sacrifico è per me stessa e basta; dopo averlo fatto mi
sento bene e realizzata”.
Massimiliano al quarto
giorno racconta della difficoltà che i suoi amici hanno trovato nel rispettare
le regole. “Mi è dispiaciuto solo un fatto, quello che due miei amici sono
andati via poiché non hanno accettato le regole che hanno trovato: erano proprio
quelli a cui questa esperienza faceva particolarmente bene”.
Daniele nota “cambiamenti
nel mio carattere e con grande felicità li accetto. Anche se non ho avuto con
tutti un grande rapporto di confidenza. Ma la cosa più importante è che ho
scoperto l’unità di gruppo che fino ad ora non conoscevo. In questi giorni ho
notato l’aumento di sincerità che si è instaurato tra di noi”.
Francesca racconta “Oggi
Carmela è riuscita a parlare con me e con Beppe di una sua esperienza piuttosto
drammatica che l’ha portata a tentare il suicidio per ben due volte [...].
Ringrazio Cristina perché mi ha fatto notare che appena mi si dice una cosa
cerco subito di giustificarmi, però penso che ammettendolo ho già fatto un
grosso passo nel cercare di abbattere questo mio difetto”.
“Questo ultimo giorno è
stato bellissimo, scrive Carmela, perché sono riuscita ad aprirmi e a parlare
quasi con tutti. La cosa più bella è stata la riunione che ha concluso la
giornata. In questa riunione ognuno esprimeva il proprio giudizio sugli altri
mettendone in evidenza pregi e difetti, e la cosa più bella è che tutti hanno
parlato sinceramente, senza timore di dover colpire qualcuno nel suo animo.
Quando siamo arrivati al mio turno temevo che tutti avrebbero espresso su di me
un giudizio negativo per il mio carattere chiuso, ma sono stata felicissima che
tutti hanno invece espresso il contrario e che quindi anch’io sono degna di
complimenti. Dopo di ciò ho capito che la mia vita non è del tutto inutile come
pensavo quando ho fatto quella cosa orrenda”.
Conoscere la gente per quello che è
Il gruppo che ha fatto
esperienza del corso di fine luglio è composto da 9 persone, di cui 2 bambine di
6 e 8 anni e un ragazzo con un handicap psicofisico. Tale corso viene realizzato
dopo due rinvii per le molte rinunce da parte delle persone che si erano
prenotate. Rivolto ad adulti, con famiglia, unisce in comunità persone che già
si conoscevano precedentemente; cinque di loro avevano già partecipato
all’esperienza di comunità di formazione l’anno precedente. Il contesto di
formazione del gruppo non è dunque facile.
In primo luogo le persone
conoscendosi già hanno maggiori difficoltà a formulare un punto di vista attuale
sul vissuto dell’altro e sono portate ad interpretare negli schemi abituali
l’altrui comportamento. L’esperienza di comunità servirà proprio a modificare
questo. Non si tratta di cambiare radicalmente punto di vista su chi si conosce
da tempo, cosa del resto impossibile, ma di consentire ad una immagine nuova
dell’io attuale di una persona di formarsi, cogliendo dalla somma di tante
sfumature aspetti dell’altro (e di se stessi) mai presi in considerazione.
In secondo luogo l’aver già
sperimentato un corso in comunità può costituire sia vantaggio che svantaggio.
Vantaggio perché è più facile adattarsi alle condizioni ambientali ed alle
regole, svantaggio perché diminuisce la forza di coesione determinata dalla
novità di un evento relazionale.
Dunque le condizioni di
partenza erano fortemente critiche; dal diario non si comprende bene quando si
instaura il clima di comunità; presumibilmente quando le bambine presenti
inscenano un teatrino che rappresenta i modi di comportamento degli adulti
presenti. Una sorta di psicodramma che mostra ai partecipanti al corso che è
inutile mascherarsi ancora. Qualcosa a quel punto cambia. Il tono del diario si
fa più vivo e vengono alla luce riflessioni che scrutano più in profondità le
situazioni in cui si trovano i partecipanti.
Non si raggiungono vette di
intensità emotiva, tranne un momento di commozione una delle ultime sere durante
la cena, ma l’atmosfera si fa pacata e, il giorno della partenza, tutti se ne
vanno con una maggiore serenità.
In questo caso l’esperienza
sembra sia stata importante perché ha indotto le persone a fermarsi e a
riflettere; la comunità è stata un momento di pausa durante la quale dimenticare
le tensioni e, a poco a poco, emergere dalle proprie chiusure per ricominciare a
guardare gli altri con occhi nuovi.
Teresa scrive sul diario
del primo giorno: “Da parte mia non c’era tanto entusiasmo nel venire, anzi poca
volontà perché il pensiero di vivere un’esperienza comunitaria per tanti giorni
mi spaventava un po’; quindi fino all’ultimo momento sono stata indecisa, ma poi
mi sono imposta di venire nonostante tutto e soprattutto nonostante la
depressione e lo stress mentale che vivo in questo periodo... Dopo i saluti e le
presentazioni ho avuto la sensazione che forse non dovrei essere qui, mi sento
troppo depressa per desiderare di stare con gli altri. Mano a mano che Vittorio
ci comunicava la mancanza di qualche persona che aveva rinunciato a venire, ci
siamo tutti sentiti sconcertati... Tutti avrebbero preferito trovarsi in un
gruppo più grande perché questo avrebbe dato la possibilità di conoscere più
persone ed arricchirsi maggiormente...
Proprio per questo stato
d’animo poco aperto agli altri e troppo preso dalle mie tensioni trovo molte
difficoltà a descrivere questa giornata e ad esprimere come l’ho vissuta io e
come l’hanno vissuta gli altri. Ho accettato poco volentieri l’impegno del
diario perché non mi sento per niente in grado di farlo come si dovrebbe”.
“E’ toccato a me fare il
diario, scrive Cristina al secondo giorno. Sinceramente non ne ho nessuna voglia
ma so che questo è un momento importante ed è forse l’occasione per tirar fuori
quello che ho vissuto in questi giorni... Sono già stata in comunità e non mi
ero mai sentita come ora... Adoro questo posto e l’aria che si riesce a
respirare qui, adoro la possibilità di fare comunità e di costruire legami con
persone che pochi giorni prima non conoscevo... Eppure questa volta non è così.
Sono partita un po’ male. Non ero entusiasta nel venire, poi sono arrivata ed ho
incontrato persone che già conoscevo... Ho vissuto un alternarsi di alti e bassi
a livello di umore senza però mai raggiungere la piena felicità di essere qui.
Questo mi addolora. Io ho
una profonda fiducia nel bene che può fare un’esperienza del genere, so
perfettamente quanto profonde possano essere le riflessioni che vengono fuori
qui e so anche che quei sacrifici che si possono fare all’inizio vengono poi
ripagati ampiamente con quel qualcosa che arricchisce l’anima. E sono proprio
questi i sentimenti che mi spingono a rimanere; è quella sfida con me stessa che
prima o poi dovrò vincere.
Giuseppe scrive al quarto
giorno: “Finito di pranzare abbiamo fatto quattro chiacchiere. Poi alle 4 è
iniziato il teatrino organizzato da Terry e Mariangela. I personaggi eravamo
tutti noi. Il teatrino è stato molto bello ed ha dimostrato grande spirito di
osservazione e di intelligenza”.
Luisa scrive al quinto
giorno: “Oggi è stata una giornata a dir poco favolosa per il clima di amicizia
e di collaborazione che ci ha uniti tutti. Stamattina ho lavorato con Vittorio
alla dispensa che ora è più ordinata e più pulita. Teresa e Giuseppe sono stati
fantastici in lavanderia perché hanno fatto una “colata” come ai tempi della
nonna. Stefano, Emilio con Mariangela e Terry sono andati a fare la legna per il
forno. Finalmente Cristina mostra apertamente la gioia di essere qui con tutti
noi.
Questa sera abbiamo avuto
ospiti e per riceverli come si deve abbiamo lavorato tutto il pomeriggio...
siamo diventati tutti pizzaioli. Il momento più intenso della serata è stato
quando Anna si è commossa per la felicità di ricevere da Vittorio e da noi tutti
bellissimi auguri per la sua vita futura insieme ad Emilio”.
Stefano nel diario il
giorno dopo scrive: “Questa mattina negli animi e nei volti delle persone si
leggeva la stanchezza del giorno prima perché ci aveva impegnato in modo non
indifferente: la riunione tecnica ha avuto un confronto teso tra Vittorio e
Mariangela per un comportamento sbagliato di quest’ultima... Ho lavorato con
Emilio e in certi momenti l’ho visto pensieroso per i problemi collegati alla
vita esterna alla comunità. Personalmente con Emilio sto instaurando un buon
rapporto e spero di riuscire a consolidare con lui la nostra amicizia. Il gruppo
in generale ha fatto un notevole passo avanti e il clima comunitario comincia a
farsi sentire nell’aria e questo sicuramente non per caso. Chi più chi meno ha
posto il suo granello di arena... La giornata si è conclusa con un momento di
gioco, semplice ma bello, che ci ha coinvolti tutti, e per me questi momenti
possono essere interpretati in senso positivo, come lo specchio del nostro stato
d’animo”.
“E’ arrivato l’ultimo
giorno, scrive Emilio. Da poco è finita la riunione di confronto. Il corso era
cominciato poco bene. Tutti i componenti del gruppo erano arrivati con tensioni
e problemi: io per primo non ero sereno. Nei primi due giorni abbiamo vissuto un
clima a dir poco pesante, esso è cambiato dopo che Vittorio ci ha fatto capire,
a modo suo, alcune cose. Il corso è scivolato via con semplicità, tra mille cose
da fare e mille difficoltà; abbiamo creato un clima famigliare, grazie anche
alla presenza di due bambine indimenticabili: Mariangela e Terry. I momenti
emozionanti sono stati tanti.
Questo luogo dà la
possibilità di scoprire le cose semplici della vita, cose che non avevi mai
conosciuto o che avevi dimenticato. Qui impari a conoscere la gente per quello
che è, ed è qui che ho conosciuto persone stupende, semplici come Giuseppe che
mi ha sconvolto per la sua semplicità e la sua gioia; oppure come Teresa con
tutti i suoi “se”; o Luisa “la mammina”; o le due bambine; ho conosciuto Stefano
con cui ci siamo sentiti sintonizzati sulla stessa frequenza e spero che da
questo possa nascere un bel rapporto di amicizia. Ho finalmente imparato a
capire l’amica Cristina. Ed anche Vittorio.
Il clima di comunità
Ventiquattro
partecipanti tra i quali 6 studenti di Istituti Superiori di Benevento, 12
studenti di Istituti Superiori di Aversa, 6 volontari, trascorrono insieme il
periodo dal 10 al 20 luglio 1993.
Il corso è un crescendo,
anche perché il gruppo non ha molte difficoltà ad affiatarsi e ad assumere le
responsabilità che vengono affidate. Quasi subito emergono riflessioni
importanti sulla educazione e sui principi. Alcune critiche agli adulti genitori
che non hanno insegnato a vivere l’onestà. A metà settimana i rapporti tra
persone sono più profondi ed inizia un processo di apertura verso gli altri. Le
pagine del diario diventano più concrete ed iniziano la descrizione dei momenti
vissuti e delle persone.
Il clima di comunità che si
forma tra persone non deve essere frainteso con una dimensione stucchevole di
serenità ma come un clima vitale dove esistono contemporaneamente due
dimensioni: un legame che si forma tra
le persone, attraverso momenti di condivisione degli stessi sentimenti. In
ragione di tale legame le persone riescono ad aprirsi perché percepiscono in
modo immediato la straordinarietà della esperienza. L’aria si fa effervescente,
i contatti si moltiplicano e ciascuno prova ad esprimere con ritrovato coraggio
qualche parte di sé. L’analogia più facile per comprendere il clima e l’apertura
delle persone è quella con ciò che avviene in un coro: quando molte voci si
esprimono e cantano, anche la persona più contratta e che ha maggior paura di
stonare riesce a liberarsi ed a cantare e, aiutato da altre voci, non stona. Se
avesse provato ad intonare quella canzone da solo non ci sarebbe certamente
riuscito. Oppure con il ballo. La scarsa capacità di scendere in pista è
determinata dalla vergogna di mostrarsi con i propri movimenti un po’ goffi; se
però il ballo diventa un momento collettivo e tutti trovano il coraggio di
esprimersi con le loro diverse figure, anche il più timido ed insicuro riesce a
liberarsi del suo impaccio ed inizia a muoversi, scoprendo così una parte di sé
che non conosceva. Il merito di questa scoperta sta nei legami che ha
instaurato; la loro consistenza dà a lui la garanzia che nessuno lo deriderà e
che sarà accettato per quello che è, pur con i suoi movimenti, forse goffi.
Nella maggior parte delle occasioni la libertà nella espressione, garantita
dalla accettazione degli altri, è strettamente connessa con l’armonia del
sentire e, dunque, anche i suoi movimenti non saranno più goffi. Saranno “suoi”
ed egli riuscirà a riconoscersi in questi, perfezionarli e piacersi.
Oltre al legame il
confronto. Proprio in ragione della presenza del legame diventa anche
possibile esprimere critiche ed osservazioni nei confronti delle diverse persone
che compongono la rete di relazioni comunitarie. Non saranno critiche laceranti
lanciate su un vuoto di rapporti, potranno essere accettate, sempre con
sofferenza, ma con la consapevolezza che l’altro non sta rifiutandoti, non ti
sta dicendo “sei sbagliato”, ma esprime il suo punto di vista su “una parte di
te”. Inoltre il confronto in comunità è sempre fondato sulle cose concretamente
fatte o subite dalle persone; nella discussione di gruppo non emerge una idea
astratta della persona ma quanto la persona ha manifestato visibilmente e
concretamente con il suo comportamento.
Luca, al secondo giorno del
corso scrive sul diario: “Dopo un impatto freddo, naturale in persone che si
vedono per la prima volta, è bastato soltanto lavorare un po’ insieme per creare
un clima diverso tra noi. Il modo stesso in cui ognuno, entusiasticamente, ha
assunto la sua responsabilità è testimonianza di qualcosa che è alla base e che
accomuna un po’ tutti. Sono questi i presupposti ideali per riuscire ad arrivare
a qualcosa di concreto, per costruire una buona amicizia, attraverso il
confronto con gli altri. I principi della comunità non sono validi soltanto qui,
ma ovunque: sarebbe opportuno che ognuno trasmetta anche ad altri, parenti o
amici che siano, quello che si apprende qui.”
Silvia, al terzo giorno è
ancora più esplicita: “Ho potuto notare che si sta instaurando un rapporto di
fratellanza che tende a rafforzarsi con l’andare dei giorni verso la formazione
di una famiglia, di una comunità.
Stiamo scoprendo i veri
valori della vita, assaporando quelle piccole sensazioni di onestà e lealtà che
sono state dimenticate dai nostri e che da parte nostra non sono state mai
conosciute. Procedendo con questo ritmo, rispettando le regole e soprattutto il
principio fondamentale, Onestà e Lealtà, potremo giungere alla formazione di una
vera famiglia e venire a conoscenza del vero senso della vita, non formato da
cose materiali ma da cose spirituali che contribuiscono ad incidere sul
cambiamento psicologico di ogni individuo, rendendolo pieno di bontà e
saggezza”.
Vania rileva che le
giornate trascorse in comunità sono più lunghe perché più intense: “Inoltre sono
riuscita ad instaurare un buon rapporto con gli altri anche se con un po’ di
difficoltà a causa del mio carattere chiuso. Voglio aggiungere che ho scoperto
la soddisfazione che si prova nel parlare con gli altri, nel regalare un
sorriso, nell’ascoltare gli altri e questo penso che sia una delle cose più
belle che possono esistere”.
Domenico, il giorno successivo compila una lunghissima pagina di diario e
propone una descrizione dettagliata di tutti i volontari e i responsabili. Poi
dice: “Quasi dimenticavo. Lunedì è arrivata anche Netta, per gli amici, anche se
prima si discuteva se lei poteva influire o meno sulle nostre discussioni dato
che è la nostra professoressa di Italiano. Da quanto ho visto non ci siamo per
niente condizionati anzi ci fa piacere scoprire il suo carattere perché si è
dimostrata una persona di cuore”.
“Oggi,
giovedì, è stata una giornata molto particolare, scrive Leo. Con molta forza di
volontà sono riuscito a dire a tutti i problemi che mi opprimevano... Vorrei
ringraziare Netta che in questi giorni è stata una madre per me e vorrei
ringraziare Annamaria per avermi ascoltato nel momento del bisogno”.
“Voglio cominciare subito
dicendo che quando siamo arrivati qui, otto giorni fa, scrive Antonietta, siamo
stati presi dal panico vedendo il posto così tanto isolato. Quando poi ci hanno
spiegato le regole della comunità io, come qualcun altro, ho pensato di andar
via, di non potercela fare. Ma poi mi sono detta: vabbè, rimango, tanto sono
solo dieci giorni!”. Dopo i primi due giorni abbiamo cominciato a fare amicizia,
prima scherzando poi aprendoci liberamente parlando con sincerità e fiducia dei
nostri problemi, della nostra vita privata. Ora i dieci giorni che prima pensavo
interminabili sono diventati pochissimi, vorremmo tutti che si moltiplicassero
come per magia. Una cosa voglio dire in particolare: solo oggi mi sono sentita
veramente bene, come se mi fossi tolta qualcosa di pesante dall’anima. Grazie ad
una persona stupenda che forse ieri avrei considerato come un nemico, arrivando
persino a pensare che quando sarei andata via non lo avrei nemmeno salutato. E
invece posso dire che è la persona che rimpiangerò di più, per tutto il tempo
perso a cercare di stare contro di lui e non avendo impiegato questo tempo a
cercare di instaurare questa splendida amicizia che è nata solo oggi”.
Marianna nell’ultimo
giorno: “Abbiamo noi tutti scoperto principi sani e utili che possono essere un
punto di partenza per una nuova vita. La cosa più bella è che tanta gente così
diversa riesce a formare una famiglia e riesce a tenerla unita... Qui abbiamo
imparato che il lavoro è molto importante dandoci soddisfazioni e la possibilità
di comunicare con chi, come noi, lavora; che la colazione, il pranzo e la cena
sono dei momenti in cui si possono scambiare opinioni e il silenzio è il momento
in cui si può scoprire se stessi”.
Capare la cicoria
Un momento interessante
per cogliere il senso del clima di comunità è avvenuto in occasione del Corso
per Docenti Referenti e per Operatori del pubblico e del volontariato.
Il clima di comunità
realizzato si è reso ancor più palpabile quando un gruppo di docenti, al ritorno
da una passeggiata in campagna per raccogliere la cicoria, si è messo in cerchio
per pulirla. “Capare la cicoria” insieme, ha insegnato molto sul senso di fare
gruppo.
La piacevolezza dello stare
insieme, del parlare senza fretta ascoltando quanto qualcuno aveva da dire e poi
rispondendo senza alcuna pretesa di avere ragione o di affermare le proprie
idee, ma per parlare, discutere ed essere utili l’uno all’altro, ha fatto
comprendere qual è l’obiettivo dello stare in comunità. Un momento di pace e di
riflessione collettiva.
Discutendo dell’esperienza,
alcuni docenti hanno raccontato che quell’episodio ha loro ricordato momenti
della loro infanzia quando l’intera famiglia, con parenti ed amici, stava
all’aperto e “capava la cicoria” o svolgeva altre attività manuali di casa
(sbucciava i fagioli, toglieva le code ai fagiolini verdi, ecc.) e si creava
quell’aria dello “stare insieme” carica di pacifica intensità e di benessere.
La considerazione finale
intorno a questo clima è stata che nei nostri modi contemporanei di vivere non
ci sono occasioni per trasmettere ai giovani queste sensazioni e questo clima di
pace e di unione, e che, dunque, i giovani crescono senza apprendere dalla
esperienza vissuta questa qualità dello stare insieme indispensabile per gustare
l’armonia dello stare con gli altri.
L’inizio di un impegno
Venti alunni dell’Istituto
Tecnico Commerciale Rampone di Benevento hanno partecipato ad un corso
sperimentale per formare gli studenti a diventare animatori e punti di
riferimento per l’intero istituto. Nella relazione finale i ragazzi dell’I.T.C.
Rampone scrivono:
“Il corso si è articolato
in tre fasi: la prima informativa che ci ha permesso di meglio comprendere il
problema sotto l’aspetto tecnico-teorico, seguito dalla seconda formativa, che
ha richiesto un personale confronto sulle tematiche trattate, propedeutica per
la terza costituita da una fase residenziale... Già dalle prime fasi si è
delineato un rapporto diverso tra persone basato principalmente sulla sincerità
ed amicizia. Gli incontri sono stati caratterizzati da un continuo confronto
diretto e personale. Tali caratteristiche sono state meglio esplicitate nei
dieci giorni trascorsi insieme in comunità.
Infatti situazioni
puramente teoriche non sono sufficienti a fornire una adeguata risposta al
problema. Quindi è necessario passare all’esperienza di vita comunitaria, come
luogo del riconoscimento dei problemi in rapporto agli altri, da affrontare con
la verifica dei singoli comportamenti...
Fino a poco tempo fa
nessuno di noi aveva il minimo concetto di cosa fosse realmente la comunità.
Oggi siamo consapevoli del fatto che essa è basata principalmente su di una
solida struttura quale il principio dell’amicizia, i principi dell’onestà e
lealtà. Altri principi sono la responsabilità e la partecipazione, intesi l’uno
come la capacità di sapersi autogestire, l’altro come vivo interesse da parte di
ognuno alla vita comunitaria...
Ci siamo resi conto con lo
scorrere dei giorni che gli impegni da noi assunti hanno messo in discussione il
nostro modo di essere e di vedere le cose. E proprio attraverso il lavoro, che
inizialmente vedevamo solo come sforzo fisico, siamo riusciti ad instaurare un
equilibrato rapporto di dialogo che ci ha permesso di confrontarci e scoprirci
come persone...
Grazie al confronto
delineatosi anche attraverso gli incontri-dibattito tenuti quotidianamente si è
creato un clima basato sulla spontaneità e sulla reciproca fiducia, valori molto
difficili da ritrovare nella società odierna...
Un altro particolare che ha
colpito tutti noi è stato il momento di silenzio che scandiva la vita
comunitaria...
Giungiamo alla conclusione
dicendo che per quanto ci siamo sforzati, ci è risultato difficile descrivere le
nostre sensazioni perché ciò che abbiamo provato sono emozioni troppo profonde
da poter esprimere a parole...
Riteniamo che questa
esperienza debba servire all’intero Istituto, per cui proponiamo di portare la
nostra testimonianza agli alunni, alle famiglie ed ai docenti dello stesso...
Proprio per riuscire in
questo nostro intento chiediamo la possibilità di poter disporre di un’aula dove
poter organizzare il nostro lavoro con la collaborazione del personale docente,
che abbia dichiarato la propria disponibilità. A tal proposito ci appelliamo
allo stesso articolo di legge che ci permette di poter indicare docenti a
collaborare con noi...