Il triangolo o il cerchio
Modelli e stili di coordinamento dei gruppi di lavoro
E’ ancora possibile creare qualcosa di nuovo, anche se ogni creazione per forza di cose include sempre anche elementi già preesistenti, non nasce mai completamente dal nulla.
Keith Haring
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Sommario
Premessa
Premessa
Il presente lavoro nasce dall’idea di coniugare i concetti e le immagini raccontati dall’artista Keith Haring, protagonista degli scenari degli anni ’80, per la sua provocatoria forma di comunicazione artistica e sociale in performances metropolitane ed happenings contro la droga e l’intolleranza, con una riflessione sul ruolo del coordinatore all’interno di gruppi di lavoro considerando gli spunti forniti dall’artista sia graficamente che concettualmente pertinenti alla ricerca di modalità, stili e definizioni della collocazione umana e professionale della figura di cui trattiamo.
“I miei disegni hanno poco a che vedere e a che fare con i disegni intesi in senso classico, come ad esempio quelli nati nel Rinascimento, disegni che imitano la vita, che danno l’impressione di rispecchiare la natura. I miei disegni non tentano di imitare la vita, ma bensì di crearla, di inventarla. L’atteggiamento nei confronti del disegno è sempre lo stesso: inventare immagini.” Questa dichiarazione rappresenta proprio l’essenza di ciò che Keith Haring, ha voluto comunicare con la sua pittura; soltanto collegando ciò che è universalmente valido, all’interno di determinati simboli, alle rappresentazioni codificate nel nostro inconscio, è stato possibile per lui creare una sorta di esperanto visivo, realmente funzionante. Il mondo, per Keith Haring è come una membrana dentro la quale si ritrovano informazioni che scaturiscono dal razionale come dall’inconscio. Parla di “art in transit”, diventa l’annunciatore di un verbo che aggira il silenzio, per svelare un ‘altrove’ che affascina e spaventa, per rivendicare una lettura del mondo fondata su immagini incantevoli e inquietanti. Il passaggio da un’arte “recitata” per le gallerie e i musei ad un’arte “per tutti” attesta un diverso impegno verso il mondo, dove l’artista non disegna, scolpisce o dipinge solo per sé, ma porta le sue visioni psicologiche e segniche all’interno del sociale. Il suo obiettivo primario è la diffusione della propria arte come messaggio all’umanità. Lo scopo si ottiene abbandonandosi alla casualità del vissuto, alla sua spontaneità dinamica che portando alla deriva permettono l’integrazione tra artista e città. Haring fa sua e sviluppa questa creatività nella subway, si lascia sorprendere dalle situazioni e si immerge in esse con la sua carica inconscia ed espressiva per dare corpo a disegni che sono doni gratuiti di idee verso le masse. Il suo vivere sulle superfici della subway, nello scaricare la sua libido e le sue rimozioni, nel sollecitare conflitti e spontaneità altrui, è perciò celere e propulsivo, elastico e labirintico, perché vuol lasciare esplodere le proprie emozioni e lasciar vincere i desideri. “Un controllo totale senza alcun controllo.”
Prendendo a prestito le immagini dell’artista, nel presente lavoro si tenta di affrontare la lettura delle caratteristiche e dei processi di funzionamento dei gruppi di lavoro partendo da alcune affinità possibili rispetto alle basi concettuali che hanno costituito la miccia del lavoro artistico del pittore. Se infatti Keith Haring affronta il mondo partendo da luoghi neutri e azzeranti quali gli spazi metropolitani della sua città in cui introdurre concetti, modalità generali di pensiero, da condividere e comunicare; metaforicamente, anche all’interno di un’organizzazione di lavoro, che può divenire fredda e azzerante, il coordinatore è chiamato ad essere un po’ l’artista, così come inteso da Haring, capace di far prender corpo alle idee, di far emergere linguaggi simbolici comuni e universalmente comunicabili, di diffondere e attivare energia, di provocare presa di coscienza e innescare discussioni.
Affondando il pensiero in queste ipotesi, ci si è posti l’obiettivo di approfondire il ruolo e la funzione di coordinamento all’interno di un’organizzazione intesa quale gruppo di lavoro, considerando tale assetto quale più produttivo in termini di efficacia, efficienza ed economicità, così come evidenziato ormai da tempo da differenti studi sulle organizzazioni di successo. Si tenta poi di delineare gli stili e le strategie che la figura di coordinatore assume non soltanto a seconda delle scelte operate riferite alle variabili organizzative, ma anche, sposando la tesi avanzata da Kets de Vries[1] nei suoi studi sulla leadership, attualmente ripresa in senso più operativo ed allargato da Masini[2] con l’artigianato educativo, considerando lo stile di un coordinatore strettamente connesso al suo mondo interno, alle sue caratteristiche di personalità individuale di cui spesso ha scarsa consapevolezza e da cui, però non può prescindere nell’esercizio delle sue funzioni.
Alle riflessioni teoriche segue poi un’analisi, attraverso l’uso di diversi strumenti di indagine correlati tra loro, delle variabili e risultanze di un gruppo di lavoro del quale la sottoscritta è attualmente coordinatrice, all’interno dell’organizzazione presso cui presta servizio.
1. Organizzazione e gruppo di lavoro
Da tempo le organizzazioni che si confrontano con problemi di innovazione, cambiamento, riconversione del personale, aggiornamento delle competenze, hanno compreso che la chiave di volta di un reale apprendimento organizzativo non si attesta solamente al singolo, ma è un processo di complessità molto più elevata e di difficile gestione. Se consideriamo le organizzazioni come sistemi complessi, più o meno aperti, ma comunque dinamici, il cui dinamismo è frutto della interconnessione di nodi entro reti di amplissime proporzioni, è chiaro come un cambiamento in qualche segmento dell’organizzazione può provocare riverberi su tutto il resto della struttura. L’organizzazione più che essere fatta di cose è fatta di persone, non potrebbe esistere senza le persone, e le relazioni interpersonali fra i diversi “attori” sono caratterizzate per loro natura da un complesso intreccio di dimensioni razionali e irrazionali, di obiettivi e interessi divergenti, di “giochi” complessi che non sono in realtà così tanto determinati dalle norme e dalle procedure formali. Le differenze, nelle organizzazioni, solo apparentemente sono soprattutto differenze di posizioni e di ruoli istituzionali: l’organizzazione vive e si fonda piuttosto su molteplicità di accordi e di scambi che vanno a definire di volta in volta gli spazi decisionali e di influenzamento più forte.
Questa prospettiva dell’organizzazione come sistema di azioni strategiche, ripresa da molti studiosi non solo in campo sociologico, ma anche psicosociale e psicologico, ha, tra i suoi pregi, quello di avere svelato che dietro l’apparente immutabilità e determinismo dell’organizzazione immaginata, esiste in realtà una mobilità e una serie di spazi vuoti in cui tutti possono giocare le loro carte, e di fatto sempre lo fanno; anzi la strutturazione ”solida” dell’organizzazione (le regole, le procedure, le prescrizioni…) è concepita essa stessa come la risultante degli intrecci di azioni umane non previste, non sempre programmabili, dotate di intenzionalità, e che hanno la caratteristica intrinseca di essere parziali, divergenti, unilaterali, talvolta conflittuali. In questa ottica bisogna prendere atto di alcuni elementi che di fatto stanno caratterizzando il lavoro organizzato, primo tra tutti il passaggio da forme di organizzazioni piramidali, a strutture organizzative maggiormente appiattite.
La struttura piramidale costituisce una modalità organizzativa che ha esempi antichissimi e che, per certi versi, è profondamente inserita nel nostro immaginario collettivo come prototipo di organizzazione. Essa presenta infatti alcune proprietà quali ad esempio la possibilità di integrazione ordinata degli individui e dei gruppi, la chiara regolazione degli scambi, la relativa semplicità dell’esercizio dell’autorità basato su regole formalizzate, che, in astratto sembrano rispondere bene ad esigenze di ordine, regolazione sociale ed efficienza. La traduzione empirica di questo prototipo si è rivelata assai problematica man mano che il rapporto tra gruppi interni ha implicato processi decisionali di natura negoziale o veri e propri conflitti sociali. Nuovi prototipi di lavoro organizzato sono individuabili sulla base dei seguenti principi:
Ø
Partecipazione e modifica delle
interazioni tra capi e subordinati;
Ø
Aumento dell’autonomia e degli spazi di
discrezionalità degli operatori;
Ø Riconoscimento della specificità dei gruppi operativi e quindi correzione dei modi di integrazione previsti dal modello piramidale.
Il nuovo modo di pensare l’organizzazione è soprattutto legato al riconoscimento dell’utilità di superare il modello tradizionale di organizzazione ampia, centralizzata, autarchica e completa di tutte le funzioni, con alta concentrazione dei sistemi di controllo per indirizzarsi verso un’organizzazione sociale snella, flessibile in cui prevale il decentramento dei flussi informativi, delle decisioni e in cui si operi per gruppi di lavoro .
Un gruppo che opera in un’organizzazione di lavoro è sempre nella condizione di dover necessariamente evolvere in gruppo di lavoro, perché da questo dipendono il suo successo e la sua sopravvivenza, così come la sua possibilità di fornire una prestazione qualitativamente e quantitativamente significativa, di darsi un’identità come soggetto, di garantire la soddisfazione dei membri, che è legata al piacere di appartenere e di realizzare qualcosa di più grande di quello che ciascuno può produrre individualmente.
La dimensione sociale ripropone costantemente al gruppo il problema del rapporto con il resto dell’organizzazione che l’ha istituito. Anche nel momento di virtualizzazione delle pluriappartenenze, che consente l’utilizzo delle differenze per lo sviluppo individuale e del gruppo, resta pur sempre il problema di integrazione tra il gruppo di lavoro che rappresenta una parte e l’organizzazione che si presenta come un tutto. L’integrazione si gioca nel difficile equilibrio tra la tendenza all’uniformità e alla vicinanza e la tendenza alla differenziazione e alla lontananza: se il gruppo di lavoro finisce con il conformarsi all’organizzazione rinuncia alla possibilità di darsi un’identità, che garantisca autonomia alla struttura. Se si differenzia troppo viene isolato come estraneo e perde di vista gli scopi per i quali è stato riconosciuto. D’altro canto se tra i membri prevale l’appartenenza organizzativa e non si crea quindi appartenenza verso il gruppo, la sua struttura sarà troppo fragile per avere un’identità che li motivi ad un lavoro di alta qualità. In tutti questi casi il vantaggio dato dall’esistenza reciproca del gruppo e dell’organizzazione viene perso insieme all’efficacia nella realizzazione dei progetti. L’equilibrio tra individui, gruppo e organizzazione, si ricerca e si realizza nel momento in cui si distingue tra quello che è il mandato conferito dall’organizzazione, il problema identificato dal gruppo e il compito primario da svolgere per arrivare a una soluzione del problema.
In gioco è allora la possibilità di adottare una visione di coordinamento come attitudine generale a promuovere e governare costanti processi di comunicazione e relazione, attraverso la gestione di momenti di co-costruzione congiunta di significati condivisi e la negoziazione di convergenze sul senso di ciò che si fa, delle letture assunte ed utilizzate, degli orientamenti seguiti, delle azioni realizzate.
Il gruppo di lavoro è soggetto diverso dal gruppo. A livello definitorio la differenza più consistente risiede nel fatto che, mentre un gruppo è una pluralità in interazione, un gruppo di lavoro è una pluralità in integrazione. Per meglio dire una pluralità che tende progressivamente all’integrazione dei suoi legami psicologici, all’armonizzazione delle uguaglianze e differenze che si manifestano nel collettivo.
Il passaggio tra interazione e integrazione avviene attraverso
fasi intermedie. Nell’interazione
un gruppo sviluppa quel fenomeno definito
coesione
che corrisponde all’emergere delle uguaglianze, consentendo ai membri di
riconoscere il gruppo stesso come proprio, permettendo di fissare legami, e
orientando alla percezione dei vantaggi correlati all’aggregarsi di un
collettivo. L’interazione produce un essere dentro alla situazione del gruppo,
un percepire gli altri come amici o come rivali, un avere coscienza
dell’esistenza di un insieme, tuttavia non è sufficiente
a definire un gruppo di lavoro. Infatti, lo sviluppo della
membership, dell’essere cioè parte di un gruppo, può condurre al
soddisfacimento dei propri bisogni, produce benessere, ma non garantisce
autonomia e capacità di sopravvivenza al gruppo come soggetto sociale. Nella
costruzione di un gruppo di lavoro il passaggio successivo all’interazione è l’interdipendenza, cioè l’acquisizione della consapevolezza dei membri
di dipendere gli uni dagli altri, di essere in rete di relazione con gli altri e
di costituire un’unità basata sulla differenza. Nell’interdipendenza comincia a
configurarsi il gruppo di lavoro nella direzione della
groupship
come rappresentazione di un soggetto diverso dai singoli individui e
della leadership come funzione
equilibratrice tra loro.
In questa fase si sviluppano le molteplici facce della dipendenza: dipendenza dell’uno dall’altro, dipendenza di tutti dal gruppo, e dipendenza del gruppo dall’ambiente. L’interdipendenza quindi si fonda sulla percezione della necessità reciproca portando così allo scambio. L’accettazione della dipendenza all’interno del gruppo e della dipendenza dall’esterno costituisce uno dei passaggi più delicati e critici verso il gruppo di lavoro, implica la sofferta elaborazione dei confini del gruppo e dei limiti che impone agli individui. L’interdipendenza come necessità di legame e opportunità di scambio è il tramite vincolante per la maturazione del gruppo di lavoro verso lo stato dell’integrazione. Per esso si intende la virtualizzazione del rapporto tra uguaglianze e differenze, l’equilibrio tra la soddisfazione dei bisogni individuali e dei bisogni del gruppo, la formazione di un soggetto sociale autonomo che si attribuisce significato e restituisce energia e risultati all’ambiente nel quale si è costituito.
I vantaggi e i costi dell’integrazione sono distribuiti tra tutti i soggetti coinvolti. La negoziazione è il processo centrale per la collaborazione: si traduce nell’identificare il proprio punto di vista, nel confrontarlo con gli altri, e nel coniugare il punto di vista degli altri con il proprio. La condivisione è l’esito della negoziazione ed è la condizione che vede l’intero gruppo impegnato per rendere operative le decisioni prese e per raggiungere gli obiettivi. La condivisione stabilisce un contratto psicologico nel gruppo, che fornisce significato al lavoro svolto e permette agli individui di riconoscere il risultato ottenuto dal gruppo come il proprio risultato. Gli individui arricchiscono la propria identità e possono esprimere le loro uguaglianze e differenze sulla base di un’attività realistica di lavoro; il gruppo di lavoro è, a questo punto, un soggetto che ha la possibilità reale di emergere e di esprimere nei risultati la propria esistenza. L’integrazione sviluppa la collaborazione, che definisce un’area di lavoro comune, di partecipazione attiva di tutti i membri. La collaborazione si fonda su relazioni di fiducia tra i membri, sulla negoziazione continua di obiettivi, metodi, ruoli, leadership e sulla condivisione di decisioni ed esiti del lavoro. Le relazioni di fiducia si esprimono nella capacità di affidarsi alle idee e alle proposte degli altri come nella sicurezza della bontà delle proprie. Fiducia è anche la convinzione che nel gruppo di lavoro non sono in conflitto né le idee né gli individui, ma sono in competizione diverse ipotesi in rapporto con un obiettivo definito
Quando si affronta un gruppo si incontra una nuova realtà, sconosciuta tanto al singolo quanto agli altri membri: ciò genera ansia circa il mantenimento della propria identità e la soddisfazione dei bisogni che la colorano. Ciascun membro usa il gruppo come oggetto per la soddisfazione dei propri bisogni e per l’equilibrio delle proprie esigenze, ma i bisogni individuali sono spesso incompatibili, mutualmente escludentisi e talvolta narcisistici. Da qui il paradosso dell’emergenza psicologica perché la possibilità di ciascuno di soddisfare i suoi bisogni deriva dalla capacità di mediare, negoziare con gli altri la soddisfazione dei loro bisogni. Il legame con gli altri membri è contemporaneamente la risorsa e il vincolo per trovare soddisfazione alle proprie esigenze. Il fare insieme si configura come attività dinamica nella quale prevale l’azione come mezzo per soddisfare bisogni. Il gruppo esiste solo in quanto fa, si incontra, impegna tempo ed energie, e in mezzo a questo fare interattivo ciascuno per sé ricerca la soddisfazione dei suoi bisogni. Se il gruppo vuole porsi come gruppo di lavoro, occorre ricercare la realizzazione del risultato collettivo di tale interazione, muovere dal livello dello scambio a quello dell’integrazione. Pertanto l’analisi non può ridursi a quella dei bisogni individuali ma richiede necessariamente un’articolazione a più livelli. Il primo è rappresentato dal rapporto tra bisogno individuale e ricerca di soddisfazione in gruppo, gli altri configurano i bisogni del gruppo e il bisogno di equilibrio del gruppo stesso.
· I bisogni individuali: la membership. E’ essere membro, avere, cioè, una rappresentazione mentale che permetta di identificare il gruppo come opportunità per la soddisfazione dei bisogni. I bisogni individuali che il gruppo può ragionevolmente soddisfare sono sostanzialmente quelli connessi alla stima e all’autostima, all’identità, alla sicurezza degli individui, oltre al loro bisogno di contribuzione; più in generale sono i bisogni di ciascuno di essere, di avere un valore, di fare.
·
I bisogni del
gruppo: la groupship. L’essere gruppo è la
rappresentazione mentale dei membri che lo identificano come nuovo soggetto, con
bisogni originali, diversi da quelli dei singoli, con manifestazioni diverse da
quelle di ciascuno: è il noi al quale essi si riferiscono e del quale
contribuiscono a soddisfare i bisogni. La membership e la groupship sono
interrelate e contemporanee, a volte spesso in competizione. Il bisogno
fondamentale che i gruppi esprimono come unità sovraindividuale, e che i membri
soddisfano è anzitutto quello di esistere, e viene soddisfatto attraverso la
loro appartenenza. Il senso di appartenenza è il sentimento comune dei membri di
un gruppo, che si riconoscono come unità in norme, valori, cultura che essi
stessi hanno generato, con i processi di comunicazione. Il bisogno di esistere
di un gruppo, che viene soddisfatto dagli individui che sentono di appartenervi
alimenta la vita interna, differenzia il gruppo rispetto agli altri gruppi e
individui, e mette il gruppo in comunicazione con l’esterno.
·
Il bisogno di
equilibrio: la leadership. E’ la funzione che
garantisce e presidia sia la soddisfazione dei bisogni individuali sia quelli
del gruppo. E’ la necessità di una funzione di armonizzazione e mantenimento del
gruppo come sistema. La leadership è la funzione che fornisce la risposta capace
di integrare il bisogno individuale con il bisogno del gruppo, permette alle
forze che spingono alla differenziazione e all’omologazione di formare un
insieme armonico, una risultante positiva, con un equilibrio che non può essere
che quasi stazionario. Costituisce un essere con, che ha il significato di
integrazione tra individuo/gruppo/ambiente.
Il processo di team building è attività concreta e modalità di intervento che il gruppo stesso adotta per costruirsi e per porsi come soggetto sociale. Al tempo stesso è lo spazio di intervento sul gruppo che deve tener conto di alcuni fattori principali individuabili in sette variabili cruciali per la lettura e l’intervento di team building nei gruppi di lavoro.
1. Obiettivo. Nessun gruppo di lavoro può essere efficace se l’obiettivo che deve raggiungere non è chiaro e ampiamente condiviso dai suoi membri. In questa linea si può definire l’obiettivo come l’espressione del risultato atteso dal gruppo di lavoro coerente con i risultati attesi dall’organizzazione. L’obiettivo e il risultato che descrive, contengono in forma sintetica lo scopo che si vuole perseguire e, in definitiva, le ragioni che hanno condotto alla formazione del gruppo. La chiarezza dell’obiettivo non può considerarsi come una condizione facile da ottenersi né tanto meno come scontata. L’obiettivo non è un “dato” acquisito all’inizio del lavoro del gruppo per diverse ragioni: in primo luogo perché ciascun individuo porterà con sé nel lavoro un insieme più o meno definito di competenze, stili di pensiero, aspettative personali, bisogni; in secondo luogo perché ciascun membro del gruppo tenderà a dare un’interpretazione personale all’obiettivo assegnato, mantenendola, anche in modo inconsapevole, il più tenacemente possibile. E’ quindi indispensabile che, nella fase di costituzione del gruppo, ciascun componente conosca con precisione quali obiettivi esso debba raggiungere e che sia possibile una forma di identificazione dei membri con l’obiettivo comune, che permetta a ciascuno di appropriarsene e di inserirlo nel contesto delle mete individuali da perseguire e dei bisogni da soddisfare. La descrizione accurata dell’obiettivo e l’interpretazione univoca stanno alla base del contratto tra i membri del gruppo. Condividere l’obiettivo significa impegnare il proprio sistema di competenze per raggiungerlo e per far funzionare al meglio il gruppo, accettando i vincoli imposti dalla presenza e dai bisogni degli altri membri. In definitiva l’obiettivo di un gruppo di lavoro efficace deve rispondere alle seguenti caratteristiche: definito in termini di risultato, costruito sui fatti, sui dati osservabili e le risorse disponibili, finalizzato in modo esplicito, chiarito e articolato in compiti, perseguibile, valutato.
2. Metodo. Si può rintracciare in tale termine una duplicità di accezioni fondamentali: da un lato i principi e i criteri che orientano, informano, guidano l’attività del gruppo, dall’altro le modalità che strutturano, organizzano, articolano l’attività stessa. Da un lato il metodo è la specificazione delle norme che governano la vita di un gruppo, in particolare ha come riferimento le norme operative, istituisce e ordina il lavoro del gruppo, prevede il rispetto di procedure e una sequenza di comportamenti predeterminati, di azioni definite. Agisce da regolatore delle diverse modalità e logiche che i membri applicano nell’affrontare e risolvere un problema, uniforma le differenti strategie e le indirizza verso un unico obiettivo, incanala gli orientamenti personali e gli stili di pensiero in un’unica direzione, riconduce alla sistematicità l’iniziativa e l’intuito personale. Il metodo richiede adeguamento continuo e riconoscimento di una forma di pensiero sovraindividuale. Possiamo identificare il metodo come una serie di azioni, operazioni, modalità che permettono di procedere con efficacia, mantenendo in evidenza il percorso di lavoro che il gruppo sta sviluppando, e ottimizzando le risorse dei singoli componenti. Rispetto al metodo diventa necessario ragionare su:
· Analisi delle risorse e dei vincoli, intendendo il momento in cui il gruppo esamina e verifica ciò di cui dispone in termini di conoscenze e strumenti per il raggiungimento degli obiettivi , individuando contemporaneamente i limiti e gli ostacoli cui far fronte;
· Discussione, ponendo la questione non in termini “conversazionali”, quanto piuttosto pragmatici, di metodo, affinché sia finalizzata a ottenere la più ampia partecipazione attiva dei membri del gruppo in modo che le informazioni, opinioni, idee, conoscenze e dubbi, possano essere espressi e confrontati con tutti;
· Decisione, il cui rischio è quello del consenso apparente, dell’inadeguatezza al problema o del basso livello di condivisione;
· Pianificazione dell’uso del tempo, senza la quale si mettono in luce le difese rispetto al raggiungimento del compito, non essendo esso stesso una risorsa reintegrabile.
In conclusione, i vantaggi che derivano dalla definizione del metodo sono pertanto riassumibili in: sicurezza di poter affrontare le difficoltà del compito, maggiore disponibilità a coinvolgersi nelle attività del gruppo, maggiore realismo e concretezza nelle decisioni basate sui fatti e il confronto, maggiore efficienza e ottimizzazione dell’uso delle risorse.
3. Ruoli. L’utilizzo e la valorizzazione delle differenze all’interno di un gruppo di lavoro è presupposto di base non solo per il conseguimento degli obiettivi che il gruppo si prefigge ma soprattutto per la possibilità di affrontare ogni volta tali obiettivi puntando a realizzare innovazione e creatività e consentendo quindi al gruppo di passare dall’essere rete di relazioni all’essere rete di idee. I ruoli rappresentano pertanto all’interno di un gruppo di lavoro, le parti assegnate a ciascuno in funzione del riconoscimento più o meno esplicito delle specificità e in vista dell’ottimizzazione più o meno decisiva delle differenze. Si considera ruolo quindi l’insieme dei comportamenti che ci si aspetta da chi occupa una posizione all’interno del gruppo stesso. Il modo di ricoprire il ruolo è influenzato da molti fattori: dalla conoscenza che l’individuo ha del ruolo, dalla motivazione a ricoprirlo, dalla consapevolezza che possiede in merito al suo sistema di competenze, dalle modalità di relazione con le altre persone. Qualunque ruolo all’interno di un gruppo si propone come risultato di un confronto e di un accordo tra i singoli membri del gruppo stesso. In sintesi le caratteristiche dei ruoli nei gruppi di lavoro possono essere riassunte in: interdipendenza cioè ogni ruolo viene definito in funzione agli altri; complessità di aspettative che coinvolgono motivazioni, aspettative, opinioni, sentimenti, atteggiamenti e valori; flessibilità poiché non si possono predeterminare mai completamente le possibilità connesse all’interpretazione individuale. Inoltre la qualità dei ruoli in un gruppo di lavoro è correlata ad alcuni importanti fattori quali: l’identificazione dei ruoli in relazione con le aree chiave del lavoro, l’assegnazione in relazione al sistema di competenze dei membri, e la finalizzazione alla valorizzazione del sistema di competenza dei membri che individualmente sono portatori oltre che di capacità professionali anche di capacità logico-strategiche, relazionali, gestionali, organizzative, sociali e soggettive.
4.
Leadership.
La leadership va in ogni caso intesa come funzione di
equilibrio tra membership e groupship e in tal senso il leader è anzitutto un
professionista di relazioni. L’esigenza di leadership nei gruppi si origina
prima di tutto da esigenze di sviluppo del gruppo stesso e non da una qualunque
necessità degli individui di essere guidati. Tanto più forte è tale bisogno,
tanto più esso è ricco e vitale, perché grandi sono le sue richieste di
sopravvivenza e di crescita. La leadership efficace in un gruppo è dunque
l’esito dell’incontro tra le aspettative del gruppo stesso per ciò che concerne
i comportamenti di leadership, i ruoli che vengono assegnati, le capacità di
leadership degli individui che contribuiscono ad esprimere uno stile adeguato
alle aspettative. In questa prospettiva di ragionamento si può quindi definire
la leadership di un gruppo di lavoro come leadership di servizio esprimendo così
una visione di insieme, nella quale il leader e il gruppo sono indistinguibili
all’interno del processo relazionale e delle scelte operative, e non correlati
in modo direttamente proporzionali (buon leader = buon gruppo). L’ottica che si
propone è che il gruppo produce il suo stile di leadership e il suo leader o
meglio i suoi leader, attraverso una negoziazione continua di ruoli e funzioni.
La leadership di servizio si configura quindi come
situazionale
cioè delegata a seconda della situazione a chi, in quel momento è in grado di
condurre con maggiore efficacia il lavoro;
trasparente, cioè con chiarezza e definizione dei ruoli nella fase di
costituzione del gruppo; flessibile
cioè orientata a coordinare le capacità e i contributi dei membri del gruppo più
che a ribadire quelle del leader;
pragmatica, cioè ancorata ai fatti e ai dati provenienti dalla realtà e
dall’ambiente; orientata al compito
cioè indirizzata al presidio dell’obiettivo, alla sua definizione,
implementazione e chiarificazione;
orientata alle relazioni per garantire il riconoscimento dei bisogni
individuali e delle capacità di sviluppare cultura e valori condivisi
all’interno del gruppo.
5.
Comunicazione.
E’ il processo chiave, fa il gruppo e si presenta, pertanto, come un processo
interattivo cioè legato alle reciproche posizioni dei membri del gruppo e
vincolato ai rispettivi ruoli; la condizione temporale entro cui si svolge la
comunicazione nella sua direzione interattiva è dunque il presente. Forte è in
questo senso l’evidenza della componente simbolica: la comunicazione come
scambio di contenuti operativi è al contempo veicolo di significati molteplici
che hanno come oggetto primario la relazione. Ciò consente di riconoscere a
questo livello la comunicazione non soltanto come dialogo ma anche come
contratto. A livello informativo invece il processo di comunicazione rinvia ai
materiali di conoscenza riferiti sia al lavoro sia alle relazioni. La
comunicazione ha inoltre un carattere di trasformazione che rinvia alla
creatività e al cambiamento.
6.
Clima.
Si intende quell’insieme di elementi, opinioni, sentimenti, percezioni dei
membri che colgono la qualità dell’ambiente del gruppo, la sua atmosfera. Il
clima si ancora a un campo di attribuzioni soggettive che possono essere rivolte
alla dimensione collettiva del gruppo, ma che non cessano di possedere valenze
sostanzialmente individuali. E’ l’insieme delle qualità dell’ambiente
relazionale percepite dai membri ed è certamente correlato alla cultura che il
gruppo sviluppa durante la sua attività nel senso degli orientamenti dei membri
condivisi dalla maggioranza e consolidati in principi aggreganti. In un gruppo
ogni membro influenza il clima in senso sia positivo che negativo: ciascuno
immette nel gruppo tensioni, ostilità, soddisfazione, fiducia che derivano dai
bisogni individuali e, spesso, sono l’esito dello stesso bisogno che motiva
all’appartenenza al gruppo. Il contrasto tra i diversi bisogni e le strategie di
soddisfazione messe in atto dai membri determina, da una parte l’apporto che
ciascuno dà alla formazione dell’atmosfera del gruppo, e, dall’altra, la
percezione reciproca degli eventi che accadono e del loro significato.
7.
Sviluppo.
E’ una variabile che si innesta trasversalmente
rispetto alle altre di ordine più strutturale (obiettivo, metodo, ruoli).
Focalizzato sul gruppo di lavoro, lo sviluppo identifica pertanto la costruzione
del sistema di competenze del gruppo di lavoro e la parallela crescita del
sistema di competenze individuali. Il processo di sviluppo del sistema di
competenze del gruppo è autonomo e complementare, è la testimonianza della
formazione e della trasformazione in qualcosa di diverso dalla somma
degli individui che vi fanno parte.
La scelta di strutturare il sistema organizzativo in un insieme diversificato di sottosistemi, comporta, secondo gli studi di Bertin[3], la necessità di una chiara identificazione sia dei confini fra le singole unità, sia dei livelli di dipendenza-indipendenza in quanto l’obiettivo finale che regola l’intero sistema è realizzabile solo se esiste una congruenza interna alle strategie implementate dai singoli sottosistemi.
Tale situazione è realizzabile attraverso una precisazione dei vincoli posti dal sistema ai subsistemi ed attraverso la precisazione e il coordinamento degli ambiti di sovrapposizione dei subsistemi. A questo proposito, riportando gli studi di Scharpf, Bertin precisa che il procedere ad una segmentazione decisionale permette una riduzione degli ambiti di consenso da ricercare, in quanto un disaccordo in un ambito del sistema non provoca un conflitto generale ma ristretto e quindi più facilmente risolvibile attraverso accordi su decisioni parziali. Intervenire poi su segmenti ristretti permette anche di individuare aree di per sé omogenee e quindi meno conflittuali. Segmentazione e autonomia impongono però una riflessione sulle strategie di coordinamento che come individua Scharpf si può distinguere in “coordinamento positivo” in cui il decisore ha contemporaneamente presenti tutti i livelli e le alternative decisionali; ed un “coordinamento negativo” in cui ogni singolo ambito tratta degli aspetti decisionali che lo coinvolge direttamente e realizza il coordinamento attraverso negoziazioni bilaterali. Questa seconda posizione presenta minor tensione ad una razionalità assoluta e permette di ridurre sensibilmente la complessità decisionale ed i problemi di consenso ad essa legati. Il modello di Bertin riproponendo i processi dell’azienda a rete, è quello di un coordinamento dal basso che investa i livelli decisionali ricostruendo una coerenza tra momento decisionale ed esecutivo.
L’esercizio della funzione di coordinamento nell’ambito delle diverse situazioni organizzative preposte alla realizzazione di interventi socio-educativi si presenta oggi come particolarmente complesso ed attraversato da fattori differenziati ed articolati. I gruppi di lavoro nei servizi sono al centro di un sempre più elevato grado di richieste di produttività e adeguato funzionamento. E’ lo stesso lavoro sociale a sollecitare una prospettiva di lavoro integrato, dove la pluralità dei singoli punti di vista possa diventare ricchezza e risorsa per un più mirato esercizio di lettura e comprensione delle problematiche. Il coordinamento diventa in tal modo uno snodo nevralgico per conseguire condizioni di efficacia lavorativa, realizzando un compito organizzativo indispensabile relativo alla regolazione ed integrazione delle diverse risorse esistenti in funzione all’individuazione e alla realizzazione degli obiettivi perseguiti.
Uno studio sull’esercizio della funzione di coordinamento implica alcune riflessioni di base che pare opportuno riportare schematicamente di seguito:
·
Coordinamento e
leadership
Come sostenuto da più parti, quella del coordinamento e quella della leadership sono due posizioni separate o comunque non sempre interdipendenti. Infatti se è pur vero che il coordinatore di un gruppo di lavoro deve essere riconosciuto e stimato dal gruppo nelle sue funzioni, non è sempre vero che egli abbia le risorse umane e personali per essere il leader laddove per tale, si intende chi, per sue qualità, si pone al centro dell'attenzione del gruppo percependone i movimenti e rimandando simultaneamente dei feedback. D’altra parte come già esposto in precedenza, in un gruppo i leader possono essere più d’uno e si manifestano a seconda dell’emergenza situazionale.
·
Coordinamento e identità
del gruppo
Come ben osserva Luigi Regoliosi[4], tutti abbiamo resistenze al coordinarci. E' come se il confrontarsi con gli altri, divenisse perdita della propria identità, rinunzia a qualcosa che ci protegge, spersonalizzazione. E ancora, perché dovrei spendermi e lavorare generosamente in qualcosa che, infine, appartiene al coordinatore? Il problema è che il senso di appartenenza va costruito, e non è così immediato e formale come talvolta ci illudiamo di definirlo attraverso l'inclusione burocratica o affettiva. Non si può costruire quindi un coordinamento solo sul fare, é necessario soffermarsi sul conoscersi. Solo se si dà espressione alle diverse identità, solo se una persona si sente riconosciuta può uscire fuori dall'ansia di essere cancellata o manipolata dal gruppo.
·
Coordinamento e
direttività
In un gruppo di lavoro è necessario che ciascuno abbia la possibilità di esprimersi ed essere valorizzato nelle sue risorse. E' fondamentale quindi che ci sia una cornice chiara e stabile entro cui tutti possano ritrovarsi per non perdere di vista gli obiettivi e per non perdersi nel senso di vuoto e di vaghezza dell'indefinito. Il coordinatore ha il compito della regia: più riesce a stimolare e condurre nel rispetto della creatività degli attori, più facile sarà la realizzazione dei risultati.
·
Coordinamento e
complessità
“Siamo in una società pluralista. Non c'é più una sola verità, ci sono verità plurali, soggetti plurali, istituzioni plurali, professionalità plurali. Dimenticarlo produce sempre violenza, l'imperativo è dialogare con altri valori ed altre certezze”. Se non è confutabile quanto sostiene il prof. De Leo[5], è necessario che in un gruppo di lavoro il coordinatore si assuma la responsabilità di mediatore per fare in modo che il dialogo funzioni, per creare una certezza “meta” (oltre me,oltre te).
Il coordinatore si trova pertanto in una posizione interstiziale orientata alla ricerca di un equilibrio e regolazione tra istanze gruppali, conseguenti all’incontro tra le diverse identità personali/professionali degli operatori, e compiti di produzione, derivanti dagli obiettivi e dalle esigenze progettuali.
Molteplici sono le sollecitazioni che intervengono a definire un profilo professionale poliedrico e difficile da gestire: al coordinatore spetta, nell’ambito del suo gruppo di lavoro, il compito di rappresentare il servizio nel rapporto con altre agenzie esterne, a lui compete il raccordo con le dimensioni sovraordinate, l’impostazione del lavoro in coerenza con linee e indirizzi operativi del servizio, deve esercitare aspetti di controllo e facilitazione, mantenendo però una vicinanza operativa ed una circolarità comunicativa funzionale a generare e promuovere costanti processi di confronto, di elaborazione comune, di progettazione condivisa.
Risulta comprensibile quindi, come a fronte di tali variabili , il ruolo del coordinatore si presenti a volte gravoso e faticoso, spesso attraversato da sentimenti di demotivazione e tentazioni di abbandono, per quanto superati e contenuti da atteggiamenti diffusi di attivazione e dedizione al compito.
A ciò si aggiunge l’intrinseca problematicità legata all’essere autorità per altri, con l’inevitabile serie di dinamiche che descrivono i rapporti tra individui, il divenire punti di riferimento autorevoli, il giocarsi all’interno di interazioni gruppali ed istituzionali. La figura del coordinatore è inevitabilmente fatta bersaglio di attacchi, di comportamenti contraddittori, di sentimenti ambivalenti da parte degli interlocutori ed è frequentemente al centro di conflitti, di richieste ed aspettative più o meno congruenti. Chi ricopre all’interno di una organizzazione un ruolo di autorità mobilita infatti in ciascuno emozioni e fantasie sulle proprie relazioni con gli altri e si trova per così dire esposto ad una serie di sollecitazioni e dinamiche che lo coinvolgono massicciamente.
Al coordinatore è dunque richiesta una specifica competenza
affettiva e culturale per tenere insieme un collettivo organizzato, orientato a
far sì che i diversi attori in gioco, conoscano ed interagiscano sulla base dei
loro punti di vista e progettino risposte adeguate ai problemi rilevati.
Coordinare significa allora creare le condizioni per rendere comunicabili,
intellegibili e coerenti, informazioni complesse e nuove, aprendo possibili
interazioni strategiche tra i vari nodi della rete relazionale. Il confronto e
la negoziazione diventano le modalità peculiari di un lavoro per connettere
azioni, soluzioni possibili, diversi tasselli di una realtà dinamica e mutevole.
Non si tratta di ricercare l’unità a tutti i costi, ma di perseguire processi
continui di attribuzione di significato, alimentando contatti e scambi
informativi che restituiscano riconoscibilità e rilevanza alle zone di implicito
che tengono insieme, tra stabilità e disordine, le diverse persone del gruppo.
L’assunzione e l’espressione della funzione di coordinamento si attua attraverso la gestione e regolazione di una serie di variabili, che possiamo concepire come altrettanti nodi da affrontare, per gli aspetti di criticità e la rilevante valenza che rappresentano.
v Il nodo della regolazione delle differenze esistenti. Riconoscere le diverse risorse esistenti, precisarle e tutelarle per una loro effettiva valorizzazione ed utilizzo comporta l’attivazione di azioni ed interventi che non riguardano solamente un livello personale e comunicazionale, ma anche organizzativo ed istituzionale. La diversità delle risorse umane si salvaguarda e si promuove marcando gli aspetti di distinzione che inevitabilmente esistono tra gli operatori e rendendoli riconoscibili attraverso attribuzioni di ruoli e compiti, delega di responsabilità e funzioni, riconoscimento e sollecitazione ad esprimere competenze e capacità particolari. In chiave più psico-sociale la regolazione delle differenze attiene alla necessità di individuare condizioni e luoghi di mediazione dei conflitti e di riconoscimento delle identità, tenendo insieme le differenti risorse senza annullarle.
v Il nodo del connettere - promuovere – sostenere. Si tratta per il coordinatore di assumere la consapevolezza e di gestire le conseguenze del fatto che il gruppo di lavoro si situa dentro un’organizzazione al cui interno i soggetti sperimentano dinamiche di ridefinizione, conferma e messa in discussione dell’identità personale e collettiva. Da queste considerazioni emerge la crucialità delle dinamiche relazionali e comunicative che attraversano l’esercizio della funzione di potere e la conseguente opportunità di istituire momenti e spazi di lavoro per poterle riconoscere e approfondire. L’essere coordinatore solleva infatti delle fantasie sia in chi è coordinatore, sia in chi è coordinato (da che parte sta ? ). Gli aspetti soggettivi connessi al tema dell’autorità rimandano al suo esercizio come mezzo per raggiungere l’obiettivo, o come posizione personale. Nel primo caso la funzione del coordinatore è limitata nel tempo e nell’intensità, nell’altro si collude con l’attesa del coordinatore senza macchia e senza paura, che non sbaglia e non può sbagliare, che non ha dubbi e non va in depressione. Al di là delle forzature descrittive, in gioco è la necessità di regolare e coniugare, da parte del coordinatore, l’esercizio della propria autorità tenendo insieme aspetti di composizione e aspetti di scomposizione.
v Il nodo del controllo. E’ un’esigenza imprescindibile e può giocarsi a diversi livelli (controllo dei processi, dei risultati, di efficacia, di efficienza). Vi sono associate due valenze compresenti, quella più coercitiva e vincolante, collegata ad un’accezione burocratico- formalistica del termine, che evoca immagini di controlli fiscali e procedurali, temuti e invisi, quella più emancipativa e facilitante che enfatizza gli aspetti di aiuto e monitoraggio delle azioni e dei processi che portano al raggiungimento degli obiettivi fissati. Si tratta di due preoccupazioni congiunte che devono trovare opportuna attenzione da parte del coordinatore e che rinviano a modelli personali e organizzativi interiorizzati e praticati.
v
Il nodo del
conflitto che rimanda ad una riflessione sulle
modalità decisionali dei gruppi di lavoro. All’interno del processo interattivo
attraverso cui si giunge alla presa di decisione, possono verificarsi le
seguenti situazioni: chi fa parte di un gruppo posto di fronte ad un
problema si sente vincolato in modo preminente ad una moralità interna al gruppo
che lo spinge a non valutare con accuratezza le conseguenze morali più ampie
della decisione stessa; ogni membro del gruppo sente di essere sottoposto ad una
pressione sociale che gli fa capire che ogni tipo di dissidenza e obiezione è
contraria a ciò che tutti i membri leali del gruppo devono fare; l’autocensura
che si è portati ad esercitare dà luogo ad un consenso apparente che rassicura
tutti; l’illusione di unanimità costruita socialmente fa ritenere a ciascuno di
essersi conformato all’opinione maggioritaria. In pratica in molti gruppi di
lavoro l’obiettivo che ci si pone non sembra sia quello di trovare una buona
soluzione al problema affrontato ma piuttosto quello di proteggere il gruppo dal
rischio del dissenso, del conflitto al proprio interno. A tal proposito viene
utilizzata la nozione connotata negativamente di “group thinking” che designa il
processo di pensiero gruppale, delegato ad altri nel gruppo in cui prendono
forma modelli condivisi di ragionamento. Il passaggio a processi di “team
thinking” avviene innanzi tutto liberandosi dagli stereotipi citati,
incoraggiando il pensiero divergente, riconoscendo i valori originali di cui
ogni membro è portatore e impegnandosi a praticare logiche non stereotipate. In
ogni situazione di presa di decisione si crea un conflitto fra opinioni, giudizi
e proposte diverse di soluzione. Se non c’è diversità di punti di vista, cioè
conflitto, non c’è bisogno di scegliere o di decidere. Tutto dipende da come
viene affrontato il conflitto. Se si cerca di evitarlo si riducono al minimo le
discussioni e le interazioni fra gli individui; se invece lo si ammette
facilitando l’espressione di tutti i punti di vista, anche dei dissidenti, si
crea una situazione in cui tutti interagiscono fra loro, esprimendo argomenti, e
stati d’animo, confrontandosi reciprocamente in modo esplicito e sentito,
esponendo se stessi in modo intenso. Poiché lo scambio sino al conflitto
esplicito, è più agevole a realizzarsi in un gruppo egualitario, è necessario
che in un gruppo di lavoro pur composto da attori con ruoli gerarchicamente
diversi, sia possibile un confronto paritetico. Lo scambio di idee e argomenti
fra gli attori implicati facilita ciò che Palmonari (1995) individua come la
polarizzazione, il che vuol dire il cambiamento dei punti di vista iniziali di
un gruppo.
Mutuando le analisi esperite in ambienti aziendali quali esempi di organizzazioni di lavoro sempre più centrate sulla progettazione organizzativa possiamo rintracciare i seguenti modelli:
ü
modello
meccanicista centrato sulla ricerca di motivazioni
esterne ed incentivi per massimizzare l’efficacia.
Il coordinatore ha la mission di guidare il sistema operativo attraverso il
recupero di incentivi esterni che tengano i membri legati all’organizzazione;
ü
modello
psico-sociologico suppone che i membri
dell’organizzazione siano mossi ad agire non solo verso motivi esterni
(incentivi), ma anche per cercare di raggiungere motivazioni interne. Così
l’organizzazione ha due fini da raggiungere simultaneamente: un grado minimo di
efficacia e un grado di attrattività
cioè il grado di soddisfazione dei motivi interni. La mission del coordinatore è
quindi quella di garantire queste condizioni minime di sopravvivenza;
ü
modello
antropologico distingue tra i motivi interni delle
persone, motivi di tipo intrinseco il cui raggiungimento dipende da ciò che si
fa e motivi di tipo trascendente il cui raggiungimento dipende dal perché si fa
ciò che si sta facendo. Questo nuovo fine detto
unità, esprime il grado di soddisfazione dei motivi trascendenti e quindi la
misura in cui il raggiungimento dell’efficacia è interiorizzato dai membri
dell’organizzazione. La mission del coordinatore è quella di garantire un grado
minimo di efficacia e attrattività in modo che l’organizzazione sopravviva, e,
dentro queste condizioni, porre i mezzi perché cresca il più possibile l’unità.
A questo proposito può risultare utile anche l’analisi di Mintzberg (1985)[6] che individua cinque modalità di coordinamento, ciascuna delle quali presenta dei pro e dei contro e va adattata quindi in base alle situazioni.
a) Adattamento reciproco. Permette una notevole flessibilità in quanto tutti sono indotti a cercare un accordo con gli altri adattandosi alle necessità mediante un processo di aggiustamento continuo. Può funzionare quando la strategia non è in discussione, c’è una buona intesa sulle cose da fare, il clima è disteso e gli operatori possono affidarsi gli uni agli altri dividendosi il lavoro secondo le circostanze;
b) Supervisione diretta. E’ quella forma di coordinamento in cui c’è un coordinatore che dice di volta in volta, a ciascuno cosa deve fare e ne controlla personalmente l’esecuzione. Il collegamento all’interno del gruppo e tra le varie fasi di lavoro è garantito dal coordinatore che sovrintende a tutto il processo.
c)
Standardizzazione
delle competenze. Si realizza attivando un percorso
che porta ogni operatore a interiorizzare lo stesso quadro concettuale di
riferimento, a pensare le cose nello stesso modo e a impiegare le stesse
metodiche operative. In altre parole gli operatori acquisiscono un unico stile
professionale e garantiscono uno standard qualitativo omogeneo.
d)
Standardizzazione
del processo. Gli operatori si mettono d’accordo su
una sequenza da seguire e cercano di adottare tutti le stesse procedure. Questa
forma è utile quando vari operatori ruotano all’interno della stessa funzione e
si vuole garantire il rispetto di un percorso standard.
e) Standardizzazione dei risultati. Gli operatori si mettono d’accordo sul risultato da raggiungere e poi ciascuno è autonomo nella scelta del modo, del percorso e dei mezzi per ottenerlo. Tale forma di coordinamento funziona quando i soggetti a cui è richiesto il compito hanno tutte le conoscenze e le risorse per svolgerlo.
“...i miei disegni vogliono attivare una superficie e diffondere energia. E trasformare una superficie neutra, anonima, dandole una personalità.”
Keith Haring
A questo punto della nostra analisi è necessario cercare di rispondere ad alcune tra le domande più ricorrenti: su cosa si basa la capacità di essere un buon coordinatore? Tutti possono farlo? In base a degli studi condotti su caratteristiche personali di coordinatori efficaci (Sarchielli 1996), le qualità più spesso riscontrate sono ad esempio:intelligenza, capacità verbali, originalità, grado di conoscenza, bisogno di riuscita, socievolezza, adattabilità, popolarità, estroversione, cooperazione, perseveranza, spirito di iniziativa, assunzione di rischio e responsabilità, fiducia in se stessi, controllo emotivo, integrità ed onestà, ecc. Come si può notare si tratta di attributi positivi che, in realtà, possono essere posseduti da chiunque, occorre però rimarcare la necessità di collegare il set motivazionale con le abilità potenziali e gli elementi specifici della situazione capace di attivarlo concretamente.
Occorre però rimarcare, come riprendono Quaglino (1995) e Kets de Vries (1993) nei loro studi che il punto di confluenza di tutte le questioni è là dove la funzione di coordinamento si salda inestricabilmente e ineludibilmente al tema del potere, là dove conquistare, occupare, conseguire una funzione di coordinatore (leader formale, capo,..) significa immediatamente confrontarsi con la dinamica del potere. Se ci si riferisce alla rappresentazione soggettiva, alla geografia psicologica, essa non può che corrispondere a due tratti fondamentali: alla geografia del centro e del sopra. L’essere sopra definisce il coordinamento da un lato come il guardare dall’alto e anche il guardare lontano, dall’altro come il guardare sotto di sé. Il primo è il tema della visione, il secondo è il tema della dipendenza. Accanto a questa condizione psicologica dell’essere sopra si impone l’altra di essere al centro. Condizione per la quale anziché di guardare, come per la prima, si tratta di essere guardati: visibilità, esposizione, pubblico. La condizione di essere al centro implica altri risvolti: come può sfuggire allora il coordinatore al gioco di mostrarsi come il migliore attraverso l’esibizione di un’immagine esemplare di sé, in modo da mostrare un’immagine “senza macchia e senza paura”? Il leader che pretende di sostenere la sua estraneità a ogni lato nascosto, a ogni difetto o mancanza, il leader che si vuole senz’ombra ha già trasformato il suo sogno in incubo. Da un lato si candiderà all’impossibilità di non cedere all’inganno e alla menzogna, dall’altro si impegnerà, difensivamente, a rimuovere e negare ogni area di ambivalenza dentro di sé, ogni conflitto, ogni incertezza, ogni umano chiaroscuro avviandosi verso un processo di allontanamento dal mondo delle emozioni e dei sentimenti, da ogni contatto con la dimensione più profonda della propria soggettività. D’altro canto all’interno delle organizzazioni, i sentimenti sono un tratto debole del carattere: essere persone vere, con le proprie paure, con le proprie incertezze, con le proprie ambivalenze è dis-efficiente. Così il lato umano dell’impresa è in realtà un lato piuttosto disumano, la finzione è assicurata e ciò che resta di vero, deificando l’organizzazione nei suoi comportamenti, è il tratto antipatico, sgradevole ma frequentemente esibito dell’ingratitudine: gli uomini rinunciano a sé per tutta una vita in organizzazione e pochissimi hanno il privilegio di essere per questo, ringraziati.
Questi leader/coordinatori/capi e queste organizzazioni/servizi/imprese, ci comunicano in definitiva quanto lontano sia ancora lo stato di “adultità” della vita organizzativa, intendendo con questo la possibilità di un’esperienza consapevole non soltanto delle condizioni esterne dettate dalle regole e tradotte dai comportamenti, ma piuttosto delle condizioni interne della soggettività dettate dalle dinamiche dei sentimenti e in questo caso, in particolare, dalle vicissitudini legate al tema del potere. Da qui il rischio di stress sotto la spinta di una pressione che è al tempo etica (la decisione giusta in base alle informazioni di cui si dispone) ed estetica (la necessità di comparire, di farsi vedere). E quindi la ricerca di risposte adattive che inevitabilmente sfociano nell’espressione di un bisogno di semplificazione: o di qua o di là, il vero e il falso. La semplificazione aiuta a durare ma porta con sé rischi di altra natura: il rischio di irrigidimento, (“non ci sono alternative”), il rischio della sordità (“si sente solo ciò che si vuol sentire”). Ma la minaccia più forte in questo scenario problematico giunge dall’interno, da quel luogo inconscio in cui la figura del potere si è insediata dentro di noi. La dinamica del potere è vissuta in modo tanto più problematico quanto più assolve dentro di noi a funzioni compensatorie e di esse è anzitutto espressione. In questo senso la ricerca del potere e il potere stesso assumono le sembianze della dipendenza e dell’assuefazione da una droga di cui Kets de Vries ha tracciato i contorni. L’io si espande, le immagini di grandiosità prendono il largo e tutto viene trascinato con sé: la certezza e l’indiscutibilità dell’obiettivo, l’imperativo dell’azione, l’assoluto del risultato. E viene trascinato con sé anche il bisogno di piacere, di essere ascoltato, di aver seguito, di essere amato, il più amato. Paradossalmente chi ha avuto esperienze di conferma, di affetto, di stima di sé, rischia il dubbio, la sospensione del giudizio, il bisogno dell’analisi. Ecco quindi da un lato i sicuri di sé al punto da interrogarsi continuamente e dall’altro gli insicuri di sé al punto da interrogare continuamente gli altri. Ma sono i secondi i candidati alla battaglia del potere, convinti come sono che essere fino in fondo se stessi non consenta di conseguire né stima né affetto né riconoscimento, e che il prezzo pagato per assumere un modello e poter essere apprezzato sia la regola del gioco di potere: la regola della maschera e la necessità della bugia.
In altre parole, l’analisi della figura del coordinatore non può prescindere dalle vicende personali della storia dello stesso e quindi dalla sua rappresentazione interna, in larga misura inconscia, che giunge sino alle prime esperienze infantili. Per cui occorre riconoscere che la prima cosa da chiedere a un coordinatore non è altro che una piena, profonda, maturata consapevolezza del proprio mondo interno e di queste vicende, una piena consapevolezza di ciò che è in ombra, nascosto, reso invisibile o comunque oscuro.
Proseguendo nell’approfondimento di queste ipotesi di base, possiamo individuare differenti tipologie di stili di coordinamento a seconda delle caratteristiche di personalità individuale disegnate da Masini nel modello dell’artigianato educativo. L’individuazione di sette tipi ideali rispondenti alle modulazioni dei movimenti dell’io in relazione all’emozione di base (grappoli di emozioni) prevalente, ci consente di dipingere alcune caratteristiche di comportamento più ricorrenti nell’espletare e incarnare il ruolo di coordinatore.
“…Le persone tendono
a controllare tutto questo vivendo secondo uno schema completamente opposto. E’
come sovrapporre una griglia su un
prato vivo, in perpetuo cambiamento, e cercare di far corrispondere l’erba alla
forma predefinita della griglia.”
Keith Haring
Il coordinatore come capo esecutivo, programmatore, fonte delle direttive, esperto, controllore delle relazioni interne, dispensatore di ricompense e punizioni, assuntore delle responsabilità, rappresentante esterno del gruppo. Sa dosare oculatamente il grado di vicinanza/distanza dal gruppo, considera molto attentamente la natura dei problemi di cui si occupa la sua organizzazione e le ricadute che gli stessi hanno sul gruppo di cui si occupa. Garantisce la solidità e l’efficienza dell’organizzazione interna, ha un ruolo centrale nel garantire il raccordo tra conservazione e cambiamento, tra bisogni di sicurezza e stabilità, e bisogno di pervenire a risultati efficaci. Ha la capacità di influenzare la condotta degli altri superandone le resistenze con vari mezzi al fine di conseguire un obiettivo. Accentratore, sa indirizzare l’aggregazione e la comunicazione verso l’efficienza ed il conseguimento dell’obiettivo.
Si tratta di una personalità individuale centrata sull’emozione della paura affrontata circondandosi di difese costruite affinché nulla, dall’esterno, possa penetrare dentro la persona, ferendola. Una delle forme più tipiche dei suoi processi di difesa è quella di non mostrare i suoi punti deboli, che equivale a mantenersi chiusi e non esprimere i propri sentimenti, considerati alla stregua di debolezze. Non tollera l’indecisione, il disordine e il dubbio, ogni cosa deve trovare la sua collocazione, senza indugi o scrupoli che diano inquietudine fuori e dentro di lui.
Persona dotata di forte senso di responsabilità di attenzione e cura con cui sa occuparsi di cose e persone. Possiede una grande capacità organizzativa, senso del limite e di concretezza.
Frasi tipiche del coordinatore “manager”: “Bravi, anche se , se non fosse stato per me, non saremmo mai giunti all’obiettivo.”
“…Una volta che ho deciso di essere “visibile” invece che
intrattenere meramente me stesso (masturbandomi) con i miei dipinti, in quel
momento sono entrato nel gioco.”
Keith Haring
Si tratta di uno stile partecipativo, che promuove la partecipazione tra gli individui come valore irrinunciabile: se i membri del gruppo maturano consapevolezza circa la compatibilità tra obiettivi e interessi personali, diventano capaci di autocontrollo e di autodirezione. Se questo atteggiamento consente a volte di liberare modalità più diffuse e trasversali di realizzare la funzione di coordinamento, che viene in parte assunta da ognuno e non unicamente delegata all’addetto-coordinatore come se fossero solo fatti suoi; evidenzia tuttavia una eccessiva enfasi sulle istanze di cooperazione e convergenza a scapito delle componenti di conflitto e differenziazione. E’ il coordinatore che tratta i membri del gruppo da adulti, che li incoraggia a dare suggerimenti riguardo al lavoro e che prende in considerazione le loro proposte anche se non corrispondono esattamente alle sue. Si sforza di ottenere la cooperazione volontaria di tutti, è essenzialmente un facilitatore, provvede a che il gruppo proceda nel migliore dei modi e si centra su processi di motivazione che vengono alimentati in continuazione. Si sforza di compiere tutte le mansioni che gli vengono richieste, è intraprendente e ricerca il consenso del gruppo nello svolgimento del suo ruolo. Nell’esercizio della sua funzione deve saper dosare le energie contrastando l’accumulo di energie critiche ed il conseguente bisogno di chiarimento per dominare le tensioni che inevitabilmente accende sia in senso positivo che negativo.
Si tratta di una personalità individuale centrata sull’emozione di base della rabbia che consiste nell’atto ripetuto di caricarsi interiormente cioè ripetere dentro di sé la tensione facendola crescere progressivamente. La rabbia può esplicitarsi in azione aggressiva attraverso lo sfogo, o autoaggressiva trasformandosi in depressione. La sua natura di trascinatore lo propone come un leader motivatore del gruppo, rendendolo in grado di costruire processi di cambiamento e di sviluppo. E’ però di estrema importanza che conosca i suoi limiti, che sappia riconoscere l’effetto delle sue azioni e riesca ad evitare di continuare a sfondare porte che sono già aperte.
Frasi tipiche del coordinatore “energico”: “Ce la possiamo fare, nervi saldi e occhio al nemico!”.
“…Spesso è difficile isolare l’effetto concreto degli
artisti sul mondo fisico della “realtà”: il loro effetto fa parte sia della
realtà sia dell’interpretazione o esperienza della “realtà” stessa.”
Keith Haring
Creativo, abile a procedere senza esitazioni, sfugge a qualsiasi limitazione. Ambiguamente sospeso tra la natura dell’obiettivo da raggiungere e la varietà dei messaggi, si avventa contro il limite, ne esce, ma per riproporsi dall’altra parte, o per alimentarsi di nuovi apporti.
Il coordinatore come moltiplicatore dei punti di vista, come agente di cambiamento partecipato. Riconosce un ruolo attivo ai collaboratori, stimola processi, fornisce input differenti e variegati. Si differenzia costruendo i suoi schemi interpretativi della realtà senza saper rinunciare ad alcun punto di vista. Rischia di diventare inconcludente e di disperdersi senza riuscire a raggiungere l’obiettivo nei tempi prefissati. Manifesta l’esigenza di ammirazione e consenso per una concezione di sé grandiosa, narcisistica, tende ad avanzare di continuo grandi progetti, senza curare il modo di ottenere risultati concreti.
Si tratta di una personalità individuale centrata sul distacco, capace di distanziarsi a sufficienza dalle cose, dalle persone e dagli eventi in modo da averne una visione d’insieme, ma, spesso, difetta nell’analisi dei particolari, si riferisce costantemente a schemi di interpretazione personale, non verificati nel dialogo con altri, e preferisce le intuizioni rapide e sommarie, piuttosto che un lavoro meticoloso in profondità.
C’è sempre quel qualcosa in più che gli altri non considerano, che gli consente di non mettere in discussione il suo modo di essere e di pensare.
Al positivo, è una persona capace di comprendere se stessa nella
propria unicità, ha un forte senso di libertà, autosufficienza ed intuito.
Aguzza l’ingegno e sviluppa con destrezza i suoi processi mentali.
Frasi tipiche del coordinatore “funambolo”: “Non è colpa mia se
ho sempre ragione!” “Tutto quello che abbiamo deciso va benissimo, però mi viene
in mente un’altra idea…”.
“…Sentire la gente che cammina e tratta come spazzatura quello che a me pare una grande impresa mi riempie di disgusto al punto che a volte vorrei dire qualcosa e di solito ridacchio e me ne vado.”
Keith Haring
E’ lo stile dello smile-man, sorrisi, pacche sulle spalle, informalità e soprattutto ottimismo. Comunica tutta la sua sicurezza di sé: che non ha paura, che non vede ombre, tanto meno dentro di sé; l’assurgere a una posizione di leadership corrisponde all’acquisizione di una maggiore libertà espressiva. Usa l’umorismo come elemento equilibratore del potere.
Nel ruolo di coordinatore induce trasformazioni dicendo scherzosamente la verità, bravo mediatore e riequilibratore dei conflitti, riesce a creare una certa atmosfera emotiva. Narcisista, sicuro di sé e indipendente, spesso viene idealizzato dai membri del gruppo che si rispecchiano in lui. Purtroppo però spesso diventa incostante e non riesce a focalizzare il raggiungimento degli obiettivi, vanificando l’efficacia del lavoro. Diventa il guardiano della realtà impedendo paradossalmente decisioni insensate. Sa utilizzare assai bene le risorse dell’umorismo come forma di metacomunicazione, ridimensiona i problemi, contribuisce a far ritrovare il senso delle proporzioni, aiuta a capire le situazioni fornendo senso di concretezza e di realtà e diventa pertanto uno strumento di cambiamento. Ridere insieme contribuisce a rendere saldamente unito un gruppo e promuove la cordialità dei rapporti. E’ disponibile e rivolto alla ricerca di soluzioni creative per il raggiungimento dell’obiettivo e, per la sua vivacità e disponibilità, favorisce l’emergere delle differenziazioni all’interno del gruppo. Tollerante, generoso, si sa godere le emozioni. E’ una personalità individuale centrata sul piacere e l’assunzione di responsabilità corrisponde alla sensazione di essere importante per qualcuno.
Frasi tipiche del coordinatore “giullare”: “Armiamoci e partite
!!”
“…Le cose
semplicemente si mettono al loro posto senza alcuno sforzo. Il “magico” è molto
reale.”
Keith Haring
Espleta la sua funzione di coordinamento in modo convenzionale, involontario. A volte sembra denunciare la propria impotenza a fronteggiare una situazione deteriorata da forze ed eventi che lo sovrastano e che non è in potere di modificare. Per le sue alte capacità di assorbimento del conflitto e delle tensioni contrastanti funziona da regolatore e riequilibratore. Concepisce il gruppo di lavoro all’interno dell’organizzazione, come dimensioni costantemente attraversate da processi di cooperazione e di conflitto, che si tratta di riconoscere, assumere e regolare, acquisendo attitudini e funzioni di tipo genitoriale, capaci di modulare codici materni e paterni per consentire percorsi di crescita del gruppo e dei suoi componenti. Calmo, imperturbabile e fiducioso in sé, rimanda costantemente le scelte, in attesa che sia il gruppo ad operarle senza una sua necessaria assunzione di responsabilità.
E’ un temporeggiatore, deve imparare a organizzare e strutturare le proprie attività in maniera più stringente e a non deviare dagli obiettivi che si è prefissato. Rischia di irrigidirsi ed è facilmente condizionabile. Funziona sull’emozione di base della quiete intesa non come assenza di attività, ma come apatia cioè un vissuto di spegnimento delle emozioni.
Non accetta di tener dietro a più cose contemporaneamente poiché dovrebbe cambiare ritmo al suo lavoro e, soprattutto al suo pensiero. Di contro la sua capacità di fare calma e di non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni e dai conflitti, lo rende in grado di insegnare a spegnere le tensioni e di indicare la via per raggiungere la pace.
Frasi tipiche del coordinatore “pacifico”: “Vediamo, non ne vedo l’urgenza.”
“…Quanto ingenuo da parte mia anche solo pensare che l’arte fosse un’isola di
purezza in questo vasto caos di affari e realtà.”
Keith Haring
E’ uno stile di coordinamento fondato sulla sensibilità rispetto ai climi, ai vissuti, alle realtà dei membri del gruppo. Il coordinatore coglie quanto succede all’interno dell’interazione gruppale e, attraverso un sistema di attribuzioni e di deleghe, guida il gruppo verso il raggiungimento dell’obiettivo. Diventa un coordinatore invisibile, sia all’interno del gruppo che, certamente, all’esterno. Svolge il proprio lavoro con diligenza, è un osservatore ed estimatore del lavoro altrui convinto che ci sia sempre qualcuno interno o esterno al gruppo che potrebbe svolgere le sue funzioni meglio di lui. L’essere al centro dell’attenzione gli comporta delle difficoltà e tale atteggiamento favorisce una gestione democratica e poco centrata sul potere, sull’apparenza e sulla visibilità. E’ uno stile di coordinamento orientato verso i dipendenti, sensibile ai problemi dei membri del gruppo, centrato sulla fiducia e sulla responsabilità, sulla valorizzazione dei contributi personali e sul fornire direttive di massima. Tuttavia non sempre è però in grado di difendere il gruppo dagli imput negativi esterni, delegando e non riuscendo a prendere una posizione chiara e definita.
Tali persone vivono quale emozione prevalente quella della vergogna, intendendo per tale una gamma di emozioni che variano tra l’imbarazzo, il pudore e l’inibizione. Il soggetto si sente da meno degli altri, ha una scarsa autostima, e attribuisce il suo successo alla fortuna e non alla sua preparazione.Un aspetto estremamente interessante di questo tipo di personalità è lo sviluppo della capacità di coglimento empatico, acuto al punto di riconoscere la sofferenza altrui anche quando è nascosta e mascherata.
Frasi tipiche del coordinatore “antenna”: “E’ una bella idea, ma non so se possiamo proporla…”
“…Per qualche ragione mi sembra sempre di cercare di “convertire” la gente e portarla dalla mia. Sono un “missionario” ? Certamente sono in “missione”
Keith Haring
Stile di coordinamento in cui si attua una sorta di direzione di rimessa che evita l’assunzione di responsabilità in favore di generici incoraggiamenti e pacche sulle spalle per evitare fastidi e appianare spiacevoli conflitti. Utilizza modalità centrate soprattutto sulla relazionalità quale forma regolativa dei processi di partecipazione. Centra la sua attenzione sulle funzioni di appartenenza sollecitando la costruzione di relazioni, del clima e dei valori del gruppo. Nel facilitare l’attenuazione di sentimenti giudicanti e nel tollerare un certo livello di trasgressione nel gruppo, garantisce la protezione dei suoi membri e la protensione verso il risultato e il successo. Mette in atto comportamenti orientati al riconoscimento e alla valorizzazione delle competenze, raggiungendo così condizioni elevate di collaborazione e integrazione. Considera parte integrante del suo compito stimolare l’emersione di altri leader, attraverso una negoziazione col gruppo sulle altre funzioni da svolgere.
Si tratta di una personalità individuale centrata sul desiderio di sperimentare la sensazione dell’attaccamento di cui è continuamente in attesa come di una promessa ancora non mantenuta.
Tende a richiamare l’interesse degli altri su di sé, si pone a bassa distanza dalle persone, chiunque siano, le tocca, le richiama a sé. Condiscendente, imitativo, ottimista, si sente minacciato dalle separazioni di qualsiasi natura. Fa sentire la sua presenza con continuità alle persone, è un generoso, portatore di aiuto, si può contare su di lui. Sa stare nei gruppi ed è in grado di mantenerli compatti ed in accordo, mediando tra le diverse posizioni. Ciò che maggiormente gli interessa è il successo di tutti, dell’insieme, del gruppo e non il suo personale.
Frasi tipiche del coordinatore “fratello maggiore”: “Stiamo molto
bene tra di noi.”, “Siamo tanto bravi e ci basta.”, ”L’importante è mantenere
l’unità”
5.8
Una questione di equilibrio
“Più leader conosco, più trovo difficile indicare uno stile di leadership veramente efficace.” Così esordisce Kets de Vries ad apertura del volume in cui raccoglie i suoi saggi da noi già menzionati in questo percorso espositivo. La miglior risposta è probabilmente: dipende. Naturalmente la diversità delle situazioni giustifica la presenza di diversi stili di leadership, ma anche la diversità del mondo interno e della strutturazione di personalità del coordinatore non può non influenzare, come abbiamo visto, lo stile e i comportamenti adottabili e corrispondenti all’emergere di una stessa situazione. Probabilmente l’ipotesi più praticabile che è al contempo conclusione e punto di partenza della attuale ricerca scientifica in questo campo, è quella della ricerca dell’equilibrio, prima di tutto interno al soggetto e poi nelle manifestazioni pertinenti al suo ruolo.
Chi può essere considerato una persona equilibrata? Kets de Vries attraversando il pensiero psicologico e psicanalitico, a partire da Freud, afferma che la salute mentale si riduce alla capacità di scegliere, di evitare di lasciarsi definitivamente invischiare in un ciclo di comportamenti ripetitivi. Dallo stesso punto di vista prende le mosse il modello dell’artigianato educativo che sviluppa il concetto di comportamenti ripetitivi individuando i “copioni” di comportamenti in cui l’io si fissa assecondando l’emozione di base in sé prevalente. I copioni personali sono generati dai modi di vivere ed esprimere le emozioni, e la ricerca dell’equilibrio implica alcuni significativi passaggi: conoscenza di sé nell’individuazione della propria emozione di base prevalente e del copione in cui si standardizza (comportamenti/reazioni agli eventi); apertura agli altri nell’empatizzazione delle emozioni lontane dal proprio copione; capacità di modulare i movimenti del proprio io in altre direzioni a seconda degli interventi da sviluppare. In altre parole, un coordinatore consapevole di sé, così come da più parti auspicato, in considerazione del gruppo da coordinare dovrebbe saper riconoscere ed equilibrare i suoi interventi nel modo più appropriato. Dunque il livello di capacità di un individuo di interagire con le persone che lo circondano è strettamente legato alla qualità delle relazioni interpersonali, al possesso di un sicuro senso della propria identità, alla capacità di accettare i propri limiti e di esame di realtà. Le persone che posseggono queste qualità in quantità maggiore troveranno più facile di altre far fronte alle vicissitudini del coordinare. Hanno infatti maggior capacità di autoesame e di passare alternativamente dall’azione alla riflessione. Di conseguenza hanno minori probabilità di abusare del potere e di adottare un comportamento inadeguato alle esigenze del gruppo.
L’equilibrio del coordinatore, e la capacità di mettere in atto gli interventi più appropriati consentirà ad ogni membro del gruppo di poter dare il meglio di sé.
6. L'analisi dei gruppi di lavoro
Assumere il coordinamento di un gruppo significa sempre interrogarsi sui ruoli e sulle difficoltà della leadership quale impegno imprescindibile per la costruzione di concrete e faticose esperienze pratiche e ancor di più in un contesto di complessità quale quello dei servizi socio-educativi. Un altro vincolo o risorsa, a seconda degli aspetti di significatività da cui si osserva l’oggetto del contendere, è generalmente costituito dal carattere sperimentale che assumono le riorganizzazioni per gruppi di lavoro nell’ambito delle attività istituzionali connotandosi quindi come un nuovo territorio da esplorare e da costruire.
Risulta quindi imprescindibile adottare l’ottica della valutazione che può divenire un’occasione importante per la crescita professionale e la motivazione degli operatori psico-sociali, così come delle organizzazioni se viene realizzata innescando un processo di scambio e riflessione.
In considerazione di tali vincoli è bene sottolineare che la possibilità di valutare adeguatamente una realtà non dipende solo o prioritariamente dalla capacità di identificare indicatori e strumenti di valutazione adeguati ma dalla possibilità di sviluppare in itinere un impianto di valutazione che restituisca ai soggetti coinvolti informazioni utili per sviluppare aggiustamenti in itinere e per valutare gli esiti ottenuti.
Non ha senso intraprendere un percorso valutativo se i componenti del gruppo sono contrari alla valutazione, se si prevede che i risultati dell’azione valutativa non saranno utilizzati per nulla o lo saranno solo strumentalmente, se le risorse disponibili/attivabili per la valutazione non sono sufficienti.
In riferimento agli aspetti critici sopra citati l’esercizio della funzione di coordinamento interessa le seguenti azioni:
ü
Studio di materiale bibliografico attinente alla materia e
socializzazione dei contenuti guida del lavoro;
ü
Organizzazione e gestione di periodici incontri del
gruppo;
ü
Predisposizione di strumenti di lavoro interni al gruppo
per la gestione e la verifica del lavoro svolto;
ü
Interfaccia con gli altri sottosistemi
dell’organizzazione;
ü
Organizzazione e gestione di incontri con il responsabile
dell’Ente
per la presentazione e contrattazione del momento valutativo;
ü
Predisposizione del kit di strumenti di valutazione
adeguati ad ogni singolo oggetto;
ü
Facilitazione della circolarità di comunicazione interna
al gruppo per garantire una certa unitarietà e confrontabilità del lavoro
svolto;
ü
Contrattazione delle modalità, tempi, soggetti e oggetti
della valutazione.
Il coordinatore, anch’esso attore del processo valutativo assume una funzione di raccordo e stimolo, è colui che aggiunge il plus valore e che contemporaneamente si mette in gioco, verifica e rimodula il suo stesso ruolo in virtù degli elementi scaturiti nel contesto valutativo.
6.1 Gli strumenti per la valutazione di un gruppo di lavoro
Il più immediato e utilizzabile tra gli strumenti è quello delle verifiche verbali svolte in itinere in sede di gruppo di lavoro. Pur sembrando uno strumento poco scientifico e controllabile, quello del gruppo di discussione mirato alla valutazione degli aspetti soggettivi relativi al clima e alla relazionalità può acquisire una particolare valenza positiva se guidato dal coordinatore esperto con flessibilità ed in momenti non standardizzati. In questo senso la verifica non può essere un processo formale, se viene impostata in tal modo diventa persecutoria e costruisce i capri espiatori interni. Il gruppo di lavoro non è infatti il luogo della critica, ma quello dell’emersione delle ricompense estrinseche ed intrinseche; anche il fallimento socializzato e gestito all’interno del gruppo, va ridefinito registrando ciò che vi è di positivo. Nei momenti di verifiche verbali inoltre, il coordinatore ha modo di animare, motivare, innalzare l’energia gruppale, trasmettere entusiasmo.
Si possono invece somministrare alcuni strumenti cartacei individuali per vagliare le differenti aree di interesse valutativo. Gli assi da esaminare si possono riassumere in:
ü
L’influenza dell’organizzazione sul gruppo di lavoro;
ü
La percezione autovalutativa rispetto all’assetto
organizzativo;
ü
La personalità collettiva del gruppo;
ü
La percezione sul lavoro del gruppo.
In merito al primo punto si possono costruire schede più o meno complesse considerando però che l’interesse valutativo implica la definizione di strumenti semplici, da somministrare nel più breve tempo possibile, facilmente comprensibili e di basso attrito rispetto agli attori da coinvolgere. Infatti poiché le associazioni di idee alla valutazione rimandano sempre al giudizio, controllo, paura, esame, è facilmente intuibile come sia più favorevole utilizzare strumenti poco costruiti o altamente standardizzati in modo da ridurre il livello di ansia e preoccupazione. Una scheda[7] facilmente utilizzabile è quella proposta da Miskell con una domanda aperta relativa all’individuazione di problemi tipici che l’operatore è chiamato ad affrontare quotidianamente sul lavoro.
Le possibili risposte fornite permettono di individuare problemi riassumibili nei seguenti punti:
ü
Problemi strutturali, relativi all’uso di strumentazioni
necessarie per lo svolgimento del lavoro (telefono, computer, sede, ecc.);
ü
Problemi organizzativi (burocratizzazione del lavoro,
rapporti con la Direzione, mancanza di autonomia, mancanza di un sistema
informativo, eccessivo controllo, disfunzionalità delle emergenze, eccessivi
disturbi, ecc);
ü
Problemi professionali (reperimento risorse, rapporti con
gli altri sottosistemi, ecc);
ü Problemi relazionali e di comunicazione (clima, motivazione, competizione, mancanza di chiarezza e circolarità delle informazioni, emotività, diffidenza, mancanza di concentrazione per lavorare, ecc.).
La percezione autovalutativa rispetto all’assetto organizzativo è invece misurabile somministrando una scheda a risposte chiuse[8] in cui la batteria delle domande tende a valutare il livello motivazionale e di impegno riguardante l’assetto e le mansioni lavorative. I risultati dei tests rivelano l’atteggiamento al risveglio, rispetto all’ambiente di lavoro, il livello di disagio in compagnia dei colleghi di lavoro e la propensione verso le riunioni di ufficio. In relazione al clima sociale si sonda la difensività dovuta anche alla consapevolezza dell’uso del pettegolezzo quale forma di comunicazione diffusa o più generalmente la propensione a comunicare all’interno dell’organizzazione. Un’altra batteria di domande sono relative alla motivazione all’attività professionale testimoniata anche dal sondaggio relativo ad annunci di ricerca di altri sbocchi professionali. La scheda si conclude con alcune domande relative alla valutazione dei sistemi di rinforzo inserendo alcuni item relativi alle rassicurazioni circa le capacità e i risultati professionali.
L’analisi della personalità collettiva di gruppo si è esperita utilizzando gli strumenti di lavoro del modello dell’artigianato educativo.
Si è quindi proceduto somministrando ad ogni membro il questionario sulla personalità individuale[9] costruito su tre batterie di item relativi alla percezione del soggetto rispetto al sé, rispetto agli altri e rispetto al mondo e sovrapponendo ed incrociando i risultati per costruire la personalità collettiva del gruppo di lavoro. I dati sono stati raccolti sui 14 assi delle disposizioni. Tali assi sono 14 perché costruiti sulle affinità e le opposizioni tra le diverse personalità individuali e indicano su quali dimensioni emozionali i soggetti del gruppo debbano crescere. Un esempio semplificativo è contenuto nella figura 2, il gruppo individuato pare aver raggiunto un buon livello di integrazione e di complementarità, mentre risulta poco sviluppata la dialogicità e quindi alto il livello di delusione ed incomprensione. Il logoramento potrebbe essere riferito al contesto organizzativo.
Figura 2, Grafo della personalità collettiva del gruppo di
lavoro esaminato.
Rispetto alla percezione
sul lavoro di gruppo in letteratura ritroviamo utilizzato un questionario
elaborato su affermazioni opposte (Varney,1989)[10]i
cui item però, alla sperimentazione sono risultati confusivi perché alternati
tra la percezione del soggetto rispetto al gruppo come qualcosa di esterno a sé,
la percezione del soggetto rispetto al suo stare nel gruppo e la percezione del
soggetto rispetto alla figura del coordinatore. Recentemente il test proposto da
Varney è stato rimodulato e
rielaborato da Masini nell’ambito della metodologia dell’artigianato educativo
riproponendolo secondo gli assi del modello interpretativo dell’artigianato
educativo in modo da rendere confrontabili i risultati.
Scrive Keith Haring: “Ciò che non finisce mai di stupirmi è come gli esseri umani costruiscano la propria vita intorno all’idea che non esistano differenze e cambiamenti. Decidono di ignorare tutto questo e cercano di programmare e controllare la propria esistenza. Fanno paini, si prendono impegni a lungo termine, costruiscono un sistema temporale e finiscono per essere controllati dai loro stessi sistemi di controllo….alcuni degli atteggiamenti che scorgo intorno a me sono:
il cambiamento è accettabile se è controllabile;
il cambiamento si può prevedere;
il cambiamento può essere pianificato e/o modificato.”
La domanda conclusiva, sulla quale probabilmente si gioca la capacità delle organizzazioni di cambiare veramente e di essere più attente alla gestione delle ampie potenzialità che si annidano spesso in formule formative ibride, potrebbe essere: siamo davvero pronti, oggi, come gestori di persone e come corresponsabili della loro formazione e del loro sviluppo, a gestire un fenomeno così entusiasmante e variegato, siamo capaci di renderlo una fonte permanente di apprendimento per aiutare gli adulti a cogliere nuove sfide, a riprogettarsi anche in età matura, a rimettersi in discussione continuamente per non perdere il contatto con una realtà che produce di continuo innovazioni, competenze e informazioni e ne richiede una tempestiva elaborazione per rimanere competitivi nel sistema dei servizi ?
Quello dell’organizzazione dei servizi per gruppi di lavoro potrebbe già divenire un passaggio ecologico nell’ottica di una migliore produttività e di una possibile ed efficace gestione delle risorse umane.
Così come esposto in precedenza, bisogna tenere in considerazione che un gruppo di lavoro cresce quando diventa più capace di convivere con i propri limiti. Non è evidentemente una condizione facile da gestire, perché si chiede a un gruppo di persone di mantenere nel tempo un atteggiamento anche di incertezza e di autocritica e di farne la base necessaria per la salute e la qualità del lavoro comune.
Il coordinatore, quindi, è chiamato all’esercizio di un ruolo complesso e delicato che costituisce parte essenziale della funzione di coordinamento: sul versante personale gli è richiesto di accettare e riconoscere la sua parzialità, di indagarla, elaborarla e riorientarla costantemente; sul versante della realtà esterna con cui si confronta è chiamato a continue prove e sperimentazioni, a cercare soluzioni e proposte di fronte alle situazioni di parzialità, limite e contraddizione che incontra.
Di conseguenza la figura del coordinatore deve prevedere l’acquisizione e lo sviluppo di competenze legate ad aspetti quali:
§ La gestione dei processi comunicativi alla luce di criteri di riferimento e paradigmi interpretativi improntati nell’ottica della teoria conversazionale e della negoziazione, funzionale alla logica di una costruzione congiunta dei significati;
§ La consapevolezza delle variabili emotivo-affettive sottese all’esercizio della funzione di autorità, per una loro più adeguata gestione;
§ La facilitazione ed il supporto ai processi di scambio ed interazione, nonché la garanzia delle condizioni di produttività rispetto agli obiettivi perseguiti.
In altre parole, nella prospettiva escatologica di una dimensione spirituale, ci si riconduce alle “Parabole coreane sulla leadership” (Harvard Business Review, 1992) che, per un coordinatore, suggeriscono i seguenti passi:
ü
È importante ascoltare ciò che è inascoltato (ciò che è
nel cuore dei seguaci, i loro sentimenti non comunicati, i disagi e le proteste
inespressi) piuttosto che ascoltare solamente le parole più superficiali;
ü
Chi svolge il proprio ruolo di leader con umiltà e con
forza interiore, producendo benessere per i seguaci, è più apprezzato ed
efficiente di chi svolge il proprio ruolo in maniera appariscente;
ü
Coinvolgersi ed impegnarsi a fianco dei propri seguaci è
un fattore determinante per la riuscita ed il successo;
ü Il leader saggio guadagna la devozione dei seguaci procurando loro posizioni che permettono di realizzare pienamente le loro potenzialità, che assicurano armonia tra loro poiché a tutti è dato credito per la loro specifica riuscita.
Bibliografia
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AA.VV., Servizio Sociale e lavoro con i gruppi, Franco Angeli
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Becciu, Colasanti, La leadership autorevole, Nis
Bellatalla Luciana, Il lavoro di gruppo, in Ricerche pedagogiche, n.112-113, 1994
Bertin G., Decidere nel pubblico, Etas Libri
Casagrande S., Quaglino G.P. et al., Gruppo di lavoro Lavoro di Gruppo, Raffaello Cortina
Castello di Rivoli, Keith Haring, ed. Charta
Ganio Mego G., La rete sociale del centro d’ascolto, in Animazione Sociale Marzo 1996
Haring K., Diari, Mondatori
Kets de Vries M., Leader, giullari e impostori, Raffaello Cortina
Leone L., Prezza M., Costruire e valutare i progetti nel sociale, Franco Angeli
Masini Vincenzo, Dalle emozioni ai sentimenti, Ed. Prevenire è Possibile
Masini Vincenzo, L’empatia nel gruppo d’incontro, Istituto di Sociologia Luigi Sturzo, Caltagirone
Miskell V, Miskell J.R., Motivare il gruppo di lavoro, McGraw-Hill
Parmeggiani Barbara, Gruppi di apprendimento e di autosviluppo, in FOR n.38/1999
Pell Arthur, Gestire un gruppo di lavoro, Tecniche Nuove
Polmonari Augusto, Consenso e dissenso nel gruppo di lavoro, in Sevizi Sociali, Fondazione Cancan
Sanicola Lia, L’intervento organizzativo nei servizi sociosanitari, Liguori
Scaratti G., Regoliosi L., Un percorso di formazione e ricerca per i centri di aggregazione giovanile, in Formazione e Servizi quaderno n.12, Prov.di Brescia
[1] Kets de Vries M., Leader, giullari e impostori, Raffaello Cortina.
[2] Masini V., Dalle emozioni ai sentimenti, Prevenire è Possibile.
[3] G.Bertin – “Decidere nel pubblico.” – Etas libri
[4] Psicopedagogista, consulente per i Progetti Giovani della Regione Lombardia.
[5] Psicologo, criminologo.
[6] H.Mintzberg, La progettazione dell’organizzazione aziendale, Il Mulino
[7] vedi allegato n.1
[8] tratto da Miskell-Miskell, Motivare il gruppo di lavoro, ed.McGraw-Hill, allegato n.2
[9] tratto da V.Masini, Dalle emozioni ai sentimenti, ed. Prevenire è Possibile, allegato n.3
[10] tratto da Becciu-Colasanti, La leadership autorevole, ed.Nis