23° CONVEGNO PREPOS

Comunità di Nomadelfia

Grosseto

13 e 14 febbraio 2016

 PER EVOLVERE LA FRATERNITÀ

 

1) DOCUMENTO INTRODUTTIVO CONVEGNO

2) ARCHETIPI E RELAZIONI EVOLUTE

3) QUESTIONARIO FRATELLANZA FRATERNITÀ

4) QUESTIONARIO LE PAROLE DELLA FRATERNITÀ

5) VIDEO DELLA RELAZIONE DI VINCENZO MASINI

6) AUDIO PRESENTAZIONE NOMADELFIA E RELAZIONE INTRODUTTIVA DI VINCENZO MASINI

 

 

1) PER EVOLVERE LA FRATERNITÀ

 Fratellanza o fraternità?

Il programma di lavoro sulle qualità relazionali tocca, quest’anno, il tema della distinzione tra fratellanza e fraternità.

La fratellanza può essere consanguinea o famigliare oppure essere un criterio etico (Dichiarazione dei diritti dell’uomo) e si struttura in processi associativi chiusi: fratellanze religiose, nazionali, di classe che hanno espresso l’universalismo mutuandolo in solidarietà verso altri sistemi associativi.

La fraternità è invece un sentimento che si sviluppa nella relazione tra fratelli, tra amici, tra colleghi, tra parenti: meglio essere fraterni senza dirlo, che dirlo senza esserlo.

 

La fratellanza biologico/famigliare[1]

Gelosia e Invidia:

Il maggiore è sempre geloso del minore e il minore è sempre invidioso del maggiore.

Il bambino scopre di non essere più l’unico centro di interesse dei genitori, deve dividere l’affetto e deve lasciare il posto di privilegiato al nuovo nato. L’ex figlio unico interpreta come “preferenze” gli atteggiamenti di cura verso il fratello che gli appare come rivale e concorrente. Tale rivalità tra fratelli è attuata per attirare l’attenzione dei genitori.

Marcel Rufo: “i rapporti tra fratelli si costruiscono sulla base di relazioni affettive imposte, non ci scegliamo né fratelli né sorelle, ci sono imposti dai genitori”. Si è fratelli per nascita ma non tutti riescono ad essere fraterni, così come non tutti i genitori riescono a diventare padri e madri.

Ai genitori spetta il compito di fare in modo che tali relazioni affettive diventino armoniche attraverso un uso intelligente dell’affettività. “La mano destra non sappia cosa fa la sinistra” significa moderare l’affettività, i complimenti e le effusioni in presenza dei diversi figli per trasmetterle invece nel rapporto a due. Le madri invece si considerano sempre imparziali nell’amore e tendono a sottovalutare del tutto la gelosia e l’invidia che i figli hanno tra di loro. Alle madri sembra impossibile che i figli possano nutrire sentimenti negativi per i fratelli. In genere i genitori pensano che i figli si amino tra di loro e considerano la gelosia un difetto senza pensare che ”la gelosia non è un difetto ma una sofferenza”  come afferma M. Porot.

Rivalità:

I sentimenti di rivalità possono essere modulati dal comportamento adottato dai genitori. Hellinger afferma che c’è un ordine gerarchico “dell’appartenenza alla famiglia regolato dalla sequenza temporale dell’appartenenza. Nel sistema familiare il primogenito ha la precedenza sul secondogenito.”

Adler chiama dramma della detronizzazione le frustrazioni subite dal primogenito/a: cambio di stanza, di posto a tavola, allontanamento presso nonni e parenti, ecc. Per evitare l’eccesso di frustrazioni bisogna saper preparare il bambino all’arrivo del fratello/sorella.

Il primogenito percepisce il cambiamento del suo posto: ”voglio un fratello o una sorella ma vorrei restare sempre la più piccola”. (M. Rufo)

Il maggiore manifesta rivalità diverse a seconda:

18 mesi di differenza: rivalità minima perché i fratelli si mescolano, possono però sorgere problemi di differenziazione di identità come tra gemelli.

3 o 4 anni di differenza: il primogenito si adatta con difficoltà per le richieste di responsabilità da parte dei genitori (autosufficienza, buon comportamento a casa e a scuola).

6 anni di differenza: può diventare protettivo e assumere il ruolo di vice genitore.

Privilegi:

I figli maggiori accusano i genitori di avere delle preferenze perché vedono accordati al cocco di mamma privilegi che a lui vengono negati.

Le preferenze dei genitori ci sono quasi sempre ma sono inconsapevoli. Le principali sono rivolte al  figlio primogenito che rappresenta la prova di riproduzione superata ed a cui vengono dedicate molte più attenzioni che verso i figli cadetti. Proprio per questo motivo i primogeniti sono in genere più ansiosi.  Anche le aspettative dei genitori determinano atteggiamenti privilegiati spesso legati a somiglianze fisiche e tratti caratteriali che determinano pregiudizi oppure insorgono in ragione di problemi di salute, o difetti, che  generano ansia ed iperattenzione verso un figlio. Anche le capacità fisiche, l’intelligenza e il rendimento scolastico sono fattori che inducono preferenze

Qualità dell’amore materno e paterno:

Lo squilibrio affettivo produce nel bambino la sensazione di essere poco amato, se rappresenta un fallimento, o troppo amato, se soddisfa le aspettative. Le valutazioni della madre e del padre influenzano moltissimo la percezione di sé perché le valutazioni non meritevoli tendono ad essere escluse dal sé del bambino: egli tende ad essere ciò che gli altri vogliono che egli sia e non quello che in realtà è.

Ove egli sperimenti gelosia o invidia tende a negarla anche a se stesso per non far scoprire questa negatività ai genitori. Proprio perché tali sentimenti negativi possono essere superati solo se vengono verbalizzati, la negazione ne impedisce la metabolizzazione. Gelosia e invidia tendono così a trasformarsi in disturbi del carattere e in disadattamento scolastico ed aumentano la rivalità fraterna psicologicamente inibita.

Il cerchio negativo si stringe ancora di più se i genitori commettono l’ulteriore errore di fare paragoni. Non solo in funzione dell’aumento della rivalità ma anche perché l’eccesso di paragoni positivi determina lo sviluppo del narcisismo egocentrico, l’eccesso di paragoni negativi determina il complesso di inferiorità. Ambedue ritardano l’accertamento della personale identità che si sviluppa solo con rinforzi positivi delle personali qualità.

Inoltre nei figli si infiltra il dubbio sull’amore genitoriale (specie materno). Tale dubbio, che quasi mai giunge ad essere espresso, si trasforma in non accettazione di sé e sfiducia nella proprie capacità. Oppure in iper responsabilizzazione, ansia e fissazione al fine di essere amati per quello che si fa o per gli obiettivi che si raggiungono e non per quello che si è. Ciò determina la confusione tra amore e stima. Se manca la fiducia in se stessi è compromesso il successo nella vita perché non ci si sente riconosciuti come degni d’amore o perché si pensa di aver deluso e scontentato i genitori.

La fratellanza universale

I due termini “fratellanza” e “fraternità” tendono ad essere considerati sinonimi mentre in realtà essi non lo sono sia nell’etimologia che nella storia.

La fratellanza politica risale allo slogan della Rivoluzione francese del 1789 "Liberté, Egalité, Fraternité" che non si traduce in dispositivi giuridici concreti almeno fino al 1848. Per di più essa  assumerà sfumature nazionalistiche (fratelli erano solo coloro che appartenevano alla stessa nazione o classe sociale). La fratellanza religiosa si traduce in associazioni come le confraternite formate soprattutto da laici che s'impegnano in opere di carità e soccorso, nella sepoltura dei morti, nella beneficenza per i poveri e gli emarginati. Anche nelle comunità monastiche, ove è in uso il termine fraternità, si intende un rapporto affettivo, particolare e privilegiato nel condividere lo stesso ideale di vita ma così si confonde l’idea della fraternità con quella della perfezione della amicizia.

Con il marxismo il principio di fratellanza si concretizza in quello di solidarietà all'interno di quelle classi che condividono le difficoltà e gli strumenti di lotta per superarle.

La forma giuridica definitiva della risoluzione alla fraternità è contenuta nell’art.1 della DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI che recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

La fratellanza universale fa appello alla condizione che accomuna tutti gli uomini tale da condividere la stessa sorte di vita e di morte e si realizzi nella solidarietà verso popoli in particolari difficoltà per malattie, carestie, mancanza d'acqua, malnutrizione. A questo concetto si ispirano molte Organizzazioni non governative come l'UNESCO, la FAO, l'UNICEF, l'OMS, l'ILO, l'UNHCR.

La fratellanza universale è un concetto contenuto in molte associazioni culturali, religiose, massoniche ed esoteriche e si manifesta come ideale da perseguire e realizzare tra esseri umani, figli dello stesso Dio o dello stesso DNA nucleare o anche tra esseri viventi che siano umani, animali o piante, giacché figli della stessa madre terra.

La fratellanza si è tradotta in numerosi riti che ricalcano l'adelphopoiesis (dal greco "farsi fratelli") praticata principalmente dalla Chiesa cristiana ortodossa. Questo rito sarebbe stato utilizzato per molti scopi, ad esempio per concludere un patto permanente tra i leader di due nazioni o tra "fratelli religiosi", come sostituto della "fratellanza di sangue", della “fratellanza di armi” tra cavalieri che si giuravano reciproca fedeltà e aiuto, della simbologia di fratellanza biologica per cui due individui tramite una ferita mescolano il loro sangue realizzando così una parentela fittizia ed anche nei cerimoniali malavitosi.

 

La fraternità

La costruzione relazionale della fraternità è un processo intenzionale affettivo costruito intorno alle modulazioni relazionali di riconoscimento e dialogicità. Fraternità è un ideale che si fonda sul riconoscimento relazionale (che rende superflua la lotta per l’affermazione del sé) e sulla dialogicità (che limita la competizione perché fa capire le ragioni dell’altro).

La fraternità non è un vincolo parentale ma un valore esistenziale realizzabile solo se si individuano le caratteristiche relazionali affini in grado di contenere le pulsioni di concorrenza, competizione e rivalità che insorgono spontaneamente dall’espressione delle relazioni primitive.

La fraternizzazione è un obiettivo di molti tipi di relazioni e, se posta sotto giusta osservazione nel suo modo di manifestarsi, può essere tipica di rapporti di amicizia, di colleganza, anche di relazioni genitori figli e non solo di relazione tra fratelli.

Il modo di concepire la fraternità è infatti esclusivamente relazionale.

La comprensione di questa relazione passa attraverso le sostanze relazionali che produce: trasparenza e chiarezza.

Queste realizzazioni nel rapporto hanno una valenza di miglioramento della fraternizzazione ma non sono tipizzazione di base di tale rapporto. Spesso per raggiungere questi obiettivi che appaiono sentimentalmente appaganti e eticamente distintivi, si trascurano altri processo che individuano la base concreta e solida della fraternità.

Le difficoltà nel produrre la relazione di fraternità sono infatti spesso dovute al fatto che da questa relazione si pretendono aspetti e caratteristiche che sono tipiche di altri modelli relazionali.

In primo luogo non si può vivere la fraternità se non vi è esplicito riconoscimento dell’identità dell’altro. Ogni forma di collusione, o di complicità, o di vincolo segreto o di patteggiamento nascosto è nemico della fraternità perché la dimensione fiduciale che essa sottintende può sgretolarsi con estrema facilità.

La fraternità intensa in senso relazionale non è un valore in sé ma un processo che costruisce un certo tipo di relazione tra tensioni e difficoltà. Innanzitutto essa va compresa giacché è assolutamente insufficiente far ricorso a suggestioni quali il “vivere da fratelli” ove non si sappia cosa tale espressione voglia dire.

Ribaltando i luoghi comuni della naturale affettività tra fratelli occorre comprendere che la fraternizzazione è essenzialmente un processo cognitivo e dinamico con una precisa irradiazione dell’affettività. Il rispetto tra fratelli è infatti il primo ed essenziale obiettivo educativo da raggiungere, prima ancora del coinvolgimento reciproco, della disponibilità e della solidarietà.

Trasparenza

Giungere alla verità relazionale passa attraverso la chiarificazione del riconoscimento dell’identità altrui. La trasparenza è il contatto che si stabilisce tra sensibilità ed intuizione: l’una si verifica nell’altra. Ciò che uno pensa è “sentito” dall’altro e viceversa.

In pratica l’identità dell’altro è percepita sensitivamente (a pelle) ma anche intellettivamente (appare evidente). Il riconoscimento dell’altro avviene sia  attraverso la comprensione delle sue forme di pensiero che dei suoi modi corporei e dei suoi flussi emozionali.

La chiarificazione relazionale ha tempi lunghi perché si muove per aggiustamenti, ricomprensioni, interpretazioni delle sfumature della sensibilità o assaporamenti delle intuizioni sulle forme mentali.

“Capisco la tua commozione e la spiego come un’inclinazione romantica della gioia che provi…” “Sento che la tua idea di passione è esattamente ciò che io intendo per commozione…”.

Ciò che caratterizza il riconoscimento è la distanza cui si pongono gli attori; è questo il distanziamento tipico della meditazione condivisa, in altre parole di una scena relazionale in cui sia l’interferenza dinamica che quella emozionale sono gestite dal controllo. Prende forma nei momenti successivi all’incontro, o al termine di un processo di disponibilità, in cui gli attori stanno assorti in silenzio meditativo, distanziato dalla situazione, e rielaborano il vissuto altrui e proprio.

Per fraternizzare occorre conoscere l’altro per quello che è. Non si può fraternizzare con superficialità o con slancio emotivo. In genere lo slancio emotivo, anche generoso e disponibile, conduce o alla delusione o all’equivoco o all’incomprensione.

Alla delusione quando gli esiti non sono conformi alle aspettative (Io pensavo che tu, mi avresti dato un aiuto viste le mie difficoltà…) e al fastidio quando i comportamenti altrui danno allergia epidermica. Esiti ulteriormente negativi conducono  all’equivoco quando si scopre che le azioni comuni non sono indirizzate allo stesso fine o sono condotte con modi e tempi diversi (pensavo che tu volessi stare un po’ di tempo con me in città e invece volevi solo comperarti un nuovo paio di scarpe…) o  all’incomprensione quando non si riesce a capire il motivo del comportamento dell’altro (possibile che non capisca che….?).

Il riconoscimento richiede un tempo di meditazione e di riflessione sull’altro. Il distanziamento meditativo deve avere come oggetto la realtà vissuta con il fratello senza incanalarsi su usuali processi primitivi ripetitivi e senza rinforzare fissazioni, ossessioni o pregiudizi.

Lo stato di trance meditativa è focalizzato ed attivo (non è un’ipnosi regressiva perché potenzia ed accelera i ritmi cerebrali ma va verso onde superbeta, Gamma o addirittura Lambda, e non Theta o addirittura Delta nel dialogo tra emisferi).

Nella meditazione focalizzata l’emisfero destro assorbe le valutazioni riflessive dell’emisfero sinistro e quest’ultimo si apre al contatto con i contenuti della mente affettiva ed emotiva e la purifica dai copioni e dai pregiudizi. L’uso della parola meditazione può apparire eccessivo in questo contesto ma va ribadito sia per togliere al concetto di meditazione quei connotati “esoterici” che oggi vengono attribuiti a tal pratica sia per riconsiderare tale pratica nell’ottica normale e comune di una specifica attività del pensiero cosciente.

Spesso l’attività del pensiero sfugge di mano e le persone considerano normale “stare soprappensiero”, ovvero lasciar liberamente fluire l’attività mentale senza dare ad essa una specifica destinazione, ma tale modalità è primitiva ed auto ipnotizzante. Le conseguenze sono espressioni e reattività disordinate e impulsive.

Meditare significa chiarificare dentro di sé e, nel caso del riconoscimento nella fraternizzazione, chiarificare la sostanza relazionale. Ogni relazione ha il suo limite ed il riconoscimento che deborda e perde l’oggetto su cui verte, si degrada in delusione (se i contenuti emotivi non corrispondono alle attese) o in fastidio (se la dinamica travalica le attese). Nasce la necessità di esprimere nel dialogo i propri vissuti.

Le tecniche della trasparenza

Intuire le forme mentali: velocità, forma e contenuto del pensiero altrui

Sentire empaticamente i flussi emozionali altrui

Osservare la dinamica della corporeità altrui

La chiarezza

Il dialogo serve a rendere chiare le questioni oscure. La sua sostanza è chiara nell’intuizione, nell’immaginazione e nella decisione e mantiene stabile il rapporto tra persone. Inoltre lo ricarica di attenzione e lo struttura. E’ antidoto dell’evitamento perché copre anche le distanze incolmabili dell’indifferenza. Il dialogo deve essere comprensibile e non logorante perché, nel primo caso, diventa oscuro, nel secondo, diventa chiacchiera inutile.

Il dialogo ricentra i codici con cui definiamo le cose; un eccessivo attaccamento alle proprie convinzioni e la strenua vigilanza delle proprie opinioni trasformano la dialogicità in dialettica. E spesso la dialettica in disputa e conflitto verbale. E’ questo il caso dell’incomprensione.

Al contrario se il dialogo non si eleva al livello raffinato di simultaneo scambio di idee e di intuizioni si può rimanere delusi. Se la concordanza non è perfetta, se la velocità di comprensione da parte dell’altro non è istantanea, se i contenuti sono scarsamente efficaci, se l’astrazione non è al livello adeguato. Se invece progressivamente si attua la chiarezza delle idee, il cui esame è visto in una prospettiva di ricerca che ha come bersaglio il miglioramento dell’affettività, allora il dialogo ha un suo fulcro e la relazione evolve. Altrimenti la ricerca dell’intesa è una ricerca che si perde nel vuoto delle astrazioni.

Nel corso del dialogo, fatto di parole che esprimono emozioni, i vissuti traspariscono con quei significati che non erano in precedenza noti. Ad ogni passaggio di presa di turno si dissolvono oscurità e molte questioni investigate si rivelano sotto un’altra luce.

Nel dialogo occorre una cornice che impedisca le interferenze esterne ai dialoganti e consenta di stare insieme con unione. Non si tratta solo di formale pacatezza dell’eloquio (che comunque non guasta) perché può anche esprimersi con alta intensità emotiva che può essere controbilanciata proprio dalla fraternizzazione.

L’effetto finale della ricomprensione, dopo il dialogo, è la contemplazione del vissuto che, spesso, si accompagna a vere e proprie rappresentazioni visive di quanto emerso nel dialogo. Queste rappresentazioni inducono a guardare ciò che è stato reso chiaro con altri occhi. Nasce spesso la necessità di agire, di riparare agli errori, di condividere, di dare qualcosa di sé quando il dialogo ci ha fatto imparare qualcosa di più sull’altro.

Le tecniche della chiarezza

Prese di turno: esposizione problematica del confidante, anche sottoforma di sfogo (primo turno); risposta supportiva del confidente (secondo turno); reazione del confidante (terzo turno)

Atteggiamenti relazionali: comprensione e partecipazione emotiva.

Allineamenti tra gli interagenti: parlare di sé, raccontare la vita, sostegno emotivo, dare consigli,  scaricare la tensione, far emergere le richieste implicite, dare informazioni.

 

Vincenzo Masini

 

 2) ARCHETIPI E RELAZIONI EVOLUTE

ARCHETIPI E RELAZIONI EVOLUTE

di Vincenzo Masini

 

Il progetto di lavorare sulle relazioni tra persone per migliorarle assume una importanza straordinaria proprio in questa fase della storia umana in cui gli archetipi relazionali vanno lentamente sgretolandosi sotto i colpi della modernità.

L’archetipo è l’immagine originale, l’esemplare di riferimento, l’idea del prototipo su cui si costituisce la norma, la forma primitiva di un pensiero. In chiave relazionale l’archetipo è il modello inconscio di riferimento predeterminato circa il significato di una relazione.

Infatti noi diamo per scontato il significato della relazione di maternità di paternità, di parentela, ecc. sulla base di idee innate che non investighiamo, dando per scontata la comprensione universale di quella relazione e del suo contenuto affettivo.

Diventare soggetti relazionali significa interrogarsi sulla natura e sul senso delle relazioni, a partire da quelle archetipiche che si stanno trasformando sotto i nostri occhi: l’idea di coppia e di famiglia, di maschile e di femminile, di paterno e materno, di fraterno, di amico, di parente, di collega sono luoghi di scontro politico tra modi di vedere e di pensare la modernità nella sua evoluzione verso il postmoderno.

Con uno sforzo di forte astrazione possiamo cominciare a pensare agli archetipi come “canali” relazionali attraverso i quali sono state veicolate specifiche forme di irradiazione affettiva. In senso generale e filosofico le forme archetipiche del matrimonio, della paternità e della maternità, le più antiche e fondative dell’identità umana, possono anche essere considerate relative. Queste, ed altre, figurazioni relazionali archetipiche non sarebbero altro che i canali relazionali di particolari forme di amore, rispettivamente quello coniugale, quello paterno e quello materno. Dalla pulsione sessuale l’irradiazione affettiva evolve nell’innamoramento coniugale, dall’attaccamento biologico verso il figlio la madre evolve verso l’affettività materna e dalla scoperta della propria continuità genetica nei figli, il maschio evolve nella realizzazione relazionale della paternità.

Questi canali dell’affettività sono prototipi che, nelle svariate combinazioni delle culture, prendono forme specifiche pur continuando ad avere come base l’archetipo specifico. Gli archetipi sono inconsci e ci hanno guidato nel comportamento sociale e nella costruzione della nostra identità. Gli archetipi di base della paternità, della maternità ed anche della fraternità sono pilastri inconsci che ci guidano nello stabilire le prime forme di relazione affettiva.

 

L'archetipo della madre

L’evoluzione della vita che ha condotto alla riproduzione sessuata e alla meiosi (la ricombinazione dell'informazione genetica proveniente dalle cellule di due individui differenti -maschio e femmina- che produce risultati ogni volta diversi, e naturalmente diversi anche dai due genitori) giunge ad un salto qualitativo senza precedenti nella nascita della affettività materna e nel conseguente sviluppo della coscienza. Per sintetizzare quanto descritto in “L’irradiazione affettiva” il processo coscienziale avviene nell’Eva Africana, chiamata anche Eva mitocondriale[1], che Luigi Cavalli Sforza descrive come la madre che ha amato il suo piccolo anche dopo la fine dell’allattamento.

Il fatto che per meiosi il figlio sia un individuo differente ed il fatto che l’allattamento è un periodo in cui i flussi ormonali nel corpo della donna siano totalmente indirizzati al puerperio con l’obiettivo di tenere in vita quel cucciolo appena nato, determina la progressiva dissoluzione della simbiosi e la scoperta della identità del figlio. Il figlio dell’uomo è un “tu” che viene accudito anche alla fine dell’allattamento perché se non è accudito rischia di morire. L’attaccamento biologico si trasforma dunque in preoccupazione affettiva. L’Eva africana è dunque la prima donna che sceglie di guardare con amore il figlio anche dopo la fine dell’allattamento: i suoi neuroni motori si attivano intenzionalmente verso il figlio e le sensazioni affettive diventano coscienti perché il figlio è altro da sé. Il superamento delle pulsioni istintuali determina la nascita della coscienza. Nella madre e poi nel figlio che empatizza nei neuroni mirror vicinanza ed allontanamento affettivo sperimentando così la possibilità dell’esistenza del proprio io.

Una delle fondamentali proprietà della coscienza è quella di vedersi dall’esterno senza perdersi, avere una focalizzazione esterna di sé, che è il luogo dello sguardo materno che ti osserva con amore da fuori del tuo corpo biologico.

L’archetipo materno è dunque affettività indubitabile, attaccamento sicuro, certezza di esistere. tale archetipo si modula a seconda del sesso del figlio: se maschio è tutto ciò che è benevolo, protettivo, tollerante, soccorrevole; se è figlia femmina è il trasferimento mitocondriale della capacità di nutrire mediante la consegna dei compiti della riproduzione e della cura.

 

L’archetipo paterno

Dal punto di vista evolutivo il concetto  di paternità è una costruzione culturale della specie umana giacché la paternità è stata scoperta quando divenne evidente il legame tra rapporto sessuale e procreazione.

Per millenni gli esseri umani ignorarono che era l'uomo a fecondare la donna, la quale sembrava dunque essere l'unica detentrice della capacità di procreare. Con l'avvento dell'allevamento (neolitico) si osservò che le femmine degli animali non figliavano più se le si tenevano separate dai maschi o se i maschi venivano a mancare perché macellati in quanto inutili alla riproduzione. Ciò che valeva per gli animali, doveva valere anche per l’uomo.

Dopo quel passaggio evolutivo si generò il processo della patrilinearità che determinò l'emergere dei modelli familiari tuttora in vigore, con esclusività nella coppia dell'atto sessuale e con gli archetipi della verginità (che garantisce la certezza della paternità nel concepimento con una femmina vergine) e della primogenitura, finalizzati alla trasmissione dell’eredità paterna del nome e delle ricchezze alla sua discendenza certa.

L’archetipo paterno per il figlio maschio implica la protezione, la guida, il modello, la decisione, l’autorità; per la figlia femmina implica l’idealizzazione proiettiva sul maschio, l’ammirazione, la sicurezza, il riconoscimento della femminilità.

 

L’archetipo matrimoniale

Nella variabilità culturale e storica l’arché del matrimonio sta nella legittimazione della relazione affettivo/riproduttiva fra due persone. Le motivazioni sentimentali o sessuali, economiche, patrimoniali o politiche che necessitano di legittimazione si propongono come cornice protettiva su situazioni di fatto per disciplinarle. La principale struttura normativa nel matrimonio serve alla regolazione della sessualità.

Il concetto di matrimonio è connesso a quello di famiglia, nelle diverse forme che il legame famigliare assume presso le culture e le epoche storiche: dal nucleo ristretto alla rete familiare estesa fino a comprendente persone di diverso tipo. La funzione di tali reti è protettiva sia dei legami che della incolumità dei singoli attraverso il controllo, la proprietà, l’eredità

In alcune culture il concetto di dovere coniugale stabilisce che è diritto di entrambi i coniugi avere rapporti sessuali con il proprio sposo, e che quindi è dovere di ciascuno avere rapporti sessuali con l'altro.

I contenuti archetipici più comuni sono: il marito padre, il marito madre, la moglie madre, la moglie figlia, la moglie padre, la coppia di fratelli, i complici nella sessualità, l’unione tra riproduttori, la coalizione dei produttori di cibo, di cura, di attrezzi, di servizi,…

 

L’archetipo della fratellanza

Nella configurazione originale dell’archetipo positivo tra fratelli è racchiuso il segreto dell’uguaglianza nella diversità.

Riferimento mitologico dell’archetipo sono i gemelli Castore e Polluce, presi dalla dolorosa angoscia di essere divisi e diversi: Castore è lo scatenamento istintuale e la realizzazione di tutti i sogni, Polluce simboleggia la serenità spirituale che respinge l'istintualità. I gemelli sono fratelli per eccellenza che solo mediante separazione e riconoscimenti della differenza conferiscono l’identità a ciascuno .

 

Archetipi e canali dell’affettività

Nell’esperienza umana l’affettività ha assunto molte altre svariate forme oltre a quelle contenute nei principali archetipi dell’affettività coniugale, materna, paterna e fraterna.

L’affettività può costruire molti canali relazionali attraverso cui esprimersi che si allontanano progressivamente dai passaggi obbligati della sessualità coniugale, della maternità procreatrice,  della paternità fecondatrice e della fraternità individualizzante.

I rapporti amicali, di collaborazione sul lavoro, i rapporti istituzionali o di ruolo, possono contenere valenze affettive importanti su cui viene modulato l’interessamento verso l’altro, la solidarietà, la disponibilità, il riconoscimento, l’incontro,…

Tanto più si allontanano dagli archetipi tanto più rischiano di essere canali affettivi fragili e temporanei giacché solo i primi sono un riferimento inconscio indubitabile.

Esiste però un’irradiazione affettiva che prescinde dalle forme relazionali concrete ed è la stessa che il Maestro Gesù ci insegna in Matteo 22,24:

24"Maestro, Mosè ha detto: Se qualcuno muore senza figli, il fratello ne sposerà la vedova e così susciterà una discendenza al suo fratello. 25Ora, c'erano tra noi sette fratelli; il primo appena sposato morì e, non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello. 26Così anche il secondo, e il terzo, fino al settimo. 27Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. 28Alla risurrezione, di quale dei sette essa sarà moglie? Poiché tutti l'hanno avuta". 29E Gesù rispose loro: "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio. 30Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo”.

Nella dimensione spirituale l’irradiazione affettiva non ha canali relazionali precostituiti ma può espandersi in ogni direzione. Siamo però oggi in grado di orientarci nell’affettività facendo a meno delle prime canalizzazioni che gli archetipi primari ci offrono?

Il fatto di aver dato per scontata la loro essenza senza interrogarci su quali disposizioni relazionali si fondano pone il grande problema di individuare le loro caratteristiche ed i loro connotati sulla base delle conoscenze che la scienza relazionale propone.

La questione della analisi della modulazione relazionale della paternità, della maternità, della fraternità ecc. si pone con urgenza nel momento in cui vediamo tali archetipi a rischio di evaporazione sotto la pressione delle istanze postmoderne.

 

La destrutturazione archetipica mediante gender

La filosofia politica del modello gender (il carattere sessuato non è più biologico ma culturale ed è auto percettivo, ovvero fondato sul come una persona sente di essere, indipendentemente dalla sua biologia[2]) corrode il significato della mascolinità e della femminilità a cui si riferiscono i modelli archetipi della paternità e della maternità ma anche della coniugalità.

Ovvero delle caratterizzazioni specifiche delle modalità affettive intrafamigliari degli uomini e delle donne in base alla loro identità sessuale; la società postmoderna avvicina sempre di più i sessi tra di loro mediante omogeneità di valori e comportamenti destrutturando i modelli tradizionali di riferimento. Ciò implica quella tendenziale fine dell’identità sessuale ontologica che, nel processo di evoluzione spirituale, sembra essere il destino delle anime.

Il dibattito sociopolitico attuale sembra dimenticare la natura e la fragilità della famiglia come spazio di relazioni ed il fatto che le relazioni in essa sono agite diversamente dai due generi nell’esercizio della paternità e della maternità.

La possibile tendenziale omogeneizzazione sta agendo sulla cultura famigliare contemporanea e, anche se mossa in buonafede (?) per la liberazione dagli aspetti negativi degli archetipi, presenta problematiche di trasmissione culturale alle nuove generazioni di nativi digitali con impatto gigantesco.

 

Gli aspetti negativi degli archetipi primordiali

E’ assolutamente vero che tali archetipi debbano essere liberati dalle degenerazioni primitive: per il figlio l'archetipo materno negativo della supermamma, madre simbiotica, madre complice, madre incestuosa, madre iperprotettiva, madre anaffettiva e distaccata, iperprotettività ecc.; per la figlia l’archetipo materno negativo della rivalità femminile nel possesso del maschio e nell’esercizio del potere domestico.

L’archetipo paterno negativo per il figlio maschio implica la rivalità, la successione, la conquista e/o la consegna delle chiavi del mondo, per la figlia l'incesto affettivo, il timore della differenza, la distanza paterna, il desiderio di esclusività relazionale ed il bisogno di sentirsi la preferita.

Anche nella relazione matrimoniale intervengono gli archetipi negativi: il marito padre, il marito madre, la moglie madre, la moglie figlia, la moglie padre, la coppia di fratelli, i complici nella sessualità, …

Tutte queste variazioni relazioni, anche fisiologiche, nella coppia nascondono le crisi ricorrenti che conducono alla violenza domestica: abusi sessuali, aggressione fisica, minacce di aggressione, intimidazione, controllo, stalking, violenza psicologica, trascuratezza, deprivazione economica.

Le indagini vittimologiche quantificano la dimensione in Italia in 6.743.000 le donne da 16 a 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita di cui circa 900.000 i ricatti sessuali sul lavoro.

14,3% delle donne ha subito almeno una violenza fisica o sessuale all'interno della relazione di coppia (da un partner o da un ex partner) mentre il 24,7% da un altro uomo;

le violenze non denunciate sono stimate attorno al 96% circa se subite da un non partner, al 93% se subite da partner; la maggioranza delle vittime ha subito più episodi di violenza, nel 67,1% da parte del partner, nel 52,9% da non partner, nel 21% violenza sia in famiglia che fuori; 674.000 donne hanno subito violenze ripetute da partner e avevano figli al momento della violenza.

Le vittime sono per il 64,8% femmine, per il 33,9% maschi; gli autori sono maschi nel 68,5%, femmine nel 27,7%; la maggioranza delle vittime è di nazionalità italiana (71,6%), il 28,4% è straniera; assunzione di alcol, "futili motivi" e problemi connessi alla separazione o alla rottura della coppia sono le motivazioni delle condotte violente maggiormente esplicitate; nel 70,5% la vittima è percossa con pugni, calci ecc. per lo più al capo, al volto o al collo; oltre il 40% presenta lesività (contusioni, ecchimosi, ematomi etc..) in molteplici sedi corporee; nel 30% dei casi si tratta di “violenza reciproca”, ove entrambe le parti sono vittima e autore nel medesimo episodio o in momenti diversi.

L’insieme di questi dati presenta un universo relazionale terribile ed incrementale nel tempo, la cui interpretazione potrebbe essere quella degli esiti della destrutturazione degli archetipi nella cultura postmoderna del gender a cui fa da contrappunto la regressione verso il primitivo da parte di chi non riesce a trovare la propria collocazione relazionale in questo nuovo contesto.

 

Le modulazioni relazionali inscritte negli archetipi

Quanto accade sotto i nostri occhi crea l’urgente necessità di individuare nuovi linguaggi relazionali per far fronte ad una pericolosa involuzione sia per gli adulti contemporanei sia per le future generazioni di nativi digitali.

Gli archetipi primordiali, infatti, contengono modulazioni particolari della relazione che è necessario descrivere per indicare i sentimenti relazionali pertinenti affinché le persone non si perdano nel disorientamento e finiscano imprigionati in copioni che rendono la loro vita, e la vita delle persone intorno a loro, estremamente infelice.

Nella ricerca su “Padri Presenti” si è osservato che gli intervistati proponevano un complessivo ampliamento del personale punto di vista sulla paternità.

Ciò ha consentito di accedere ad una maggiore apertura verso più ampie visioni della paternità nella dimensione più evoluta. Il modello tradizionale incentrato sul sostenere e correggere, sul far emergere le doti (protezione e guida) si è ampliato fino a contenere altre forme di affettività. In questo senso i padri si presentano assai più presenti rispetto al secolo passato anche se la loro visibilità è molto più ridotta a causa della ridefinizione dei rapporti tra le dimensioni del maschile e del femminile. Il gruppo dei padri ha anche formulato i sentimenti della paternità sotto forma di atteggiamenti, gesti e frasi da rivolgere ai figli con ampie sfaccettature: dalla protezione alla volontà di rendere libro il figlio, al mettersi in discussione ed insegnare il dubbio fino alla relatività del proprio modello proposto. I dati conclusivi sulla media delle risposte al questionario mostrano una prevalenza dell’atteggiamento di tranquillizzazione, di insegnamento e di incoraggiamento verso i figli. Ciò mostra una caratteristica molto dinamica nel modo di pensare la paternità e fa apparire le strutture relazioni adottate come quelle di mediazione e di riconoscimento. Il basso livello in percentuale della comunicazione educativa di rimprovero desta sorpresa e dipende dalla minor incisività degli atteggiamenti paterni verso i figli. Questo elemento caratterizza un nuovo modello di paternità che si propone decisamente molto meno autoritario che nel passato e lontano dal sapore originariamente attribuito a tale archetipo. Probabilmente ciò implica una trasformazione di grande portata, assai probabilmente irreversibile nella direzione della tolleranza e in senso contrario al contenimento ed alla correzione mediante autorevolezza implicita. Le conseguenze della mancanza di costruzione del senso del limite sui nativi digitali, esposti ad una pluralità di comunicazioni contraddittorie, possono essere imprevedibili.

Anche i modelli di maternità e di relazione coniugale e famigliare sono fortemente in trasformazione sia nelle loro forme giuridiche che nelle modalità di realizzazione. A tal fine può essere utile una riflessione sull’istituto dell’adozione.

 

Un esempio di superamento dell’archetipo materno e paterno: l’adozione

In epoca moderna una delle realizzazioni sociali a vasta scala del principio di fratellanza universale è sicuramente quello della adozione internazionale.

L’istituto della adozione, ovvero l’inserimento di un figlio in una altra famiglia, è un istituzione estremamente antica, conosciuta dalle società che precedettero i Romani, da questi perfezionato ed universalizzato. Nel diritto romano erano presenti due diverse forme di adozione: l'adrogatio (passaggio sotto la patria potestà dell’adottante con piena successione ereditaria) e l’adoptio (passaggio dalla soggezione da una patria potestà a un’altra, senza successione). L’adozione militare è un altro istituto sviluppatosi presso gli antichi Germani per garantire alleanze stabili tra guerrieri ma solo per adottati che avessero raggiunto la maggiore età.

L’idea cristiana dell’adoptio spiritualis modifica la concezione dell’adozione, che in epoca feudale metteva in discussione la trasmissione dell’eredità, e si adatta alla necessità delle comunità religiose per espandersi.

Dopo la rivoluzione francese, nel diritto moderno, l’adozione viene accolta in tutte le legislazioni come un contratto sottostante alle discipline del regime giuridico della famiglia. Se ne accentuerà il carattere affettivo e i debiti di riconoscenza verso l’adottante ma è istituita anche al fine di proteggere i patrimoni, la continuazione del casato, la perpetuazione dei titoli e dei terreni delle famiglie, qualora fossero assenti figli legittimi o naturali.

Solamente a partire dal codice civile del 1942, fu introdotta per la prima volta la possibilità di adottare minori di età. In tal caso l’adozione legittima una motivazione affettiva ed etica, già presente nel corso della storia umana pur se messa in secondo piano negli istituti giuridico normativi.

In correlazione con il riconoscimento giuridico nascono anche le difficoltà burocratiche del processo di adozione, specie internazionale, che viene impostato sulle caratteristiche della coppia adottiva e non sui bisogni dell’adottato. Senza il supporto della scienza relazionale non è infatti possibile porsi il problema di “quale famiglia per quale bambino” ovvero un’adozione incentrata sui bisogni educativi del minore in ragione della sua cultura e dei suoi problemi e sui bisogni di realizzazione genitoriale della coppia adottante. Raramente viene fatta compiutamente una analisi relazionale della famiglia adottante, ancor meno viene fatta una analisi del percorso di formazione della personalità del bambino e praticamente non viene mai fatta una previsione relazionale sul loro incontro.

Tutto ciò a volte si risolve nel dramma del fallimento dell’adozione medesima, miracolosamente contenuto per la grande disponibilità al cambiamento ed alla modulazione relazionale di molte famiglie adottanti. Quando però il fallimento adottivo determina nel minore un nuovo abbandono per una relazione diventata ingestibile e la sua restituzione ad un istituto, ci si interroga su quanto si poteva fare di meglio.

Spesso ciò dipende da erronee motivazioni all’adozione: ad es. la sostituzione del proprio figlio biologico deceduto, adozioni narcisistiche, orientamenti altruistici, dare compagnia al proprio figlio biologico che si sente solo ma anche dalla presenza di altri figli al momento dell’adozione (sia biologici della coppia, sia altri figli adottivi).

Spesso i genitori adottivi si percepiscono come coloro che hanno salvato il figlio da una sorte avversa, dalla trascuratezza, dalla violenza, dalla povertà e dalla fame ed il figlio adottato rischia di rimanere imprigionato nella figura di debitore e sviluppare invidia e risentimento verso i fratelli.

Certo i fallimenti educativi non riguardano solo i bambini in adozione ma la generalità dei figli, nel caso dell’adozione hanno però un dolore più specifico sia nel vissuto dei genitori e, soprattutto, nel vissuto del minore.

Nei genitori s’insinua il terribile sospetto di “aver fatto un danno”; inizia un processo di autocolpevolizzazione da parte della coppia adottiva che si pente di “non averlo lasciato dove era”; non si riesce a trovare la ragione del fallimento e si instaura un conflitto di attribuzione di responsabilità nella coppia. Sul minore il doppio abbandono grava come un senso di indegnità con rifiuto aggressivo verso la normalità del vivere sociale da cui egli è escluso e spesso si costruiscono in lui vere e proprie scelte oppositive se non criminali.

Queste esperienze debbono muovere la riflessione analitica sui modelli di relazione e di incontro e stanno a dimostrare come non sia così immediato il superamento di un archetipo come la genitorialità.

 

Dissoluzione degli archetipi e nativi digitali

La caduta di riferimenti nella cultura postmoderna non riguarda solo gli archetipi messi in discussione ma il complessivo stile di vita che, accanto alla sensazione apparente aumento di libertà, riduce invece le sicurezze e le possibilità di scelta, in ragione della scarsa trasparenza degli obiettivi e della complicazione nelle strategie da intraprendere. Intendo dire che la scelta di un percorso scolastico, di un lavoro o di una professione, di una abitazione è centrata quasi esclusivamente sull’immagine che si ha e non sulla sostanza effettiva. L’unica meta su cui verte l’interesse è il benessere e il successo. Quest’ultimo è focalizzato anche sui più piccoli momenti della vita quotidiana: il successo nel dire una battuta, i “mi piace” ottenuti su facebook, la gloria nel segnare un goal o prendere un buon voto.

La forma mentale attuata per ottenere la sensazione di successo è quella di essere  “ON” che si contrappone all’essere “OUT”. Non si tratta più dell’”INgroup” del passato ma di essere “su”, “accesi”, “connessi” nell’esaltazione di aver ottenuto successo.

La vita personale è postata  per accendere tali sensazioni ed i rapporti con gli altri sono valutati sulla base del ritorno di successo che danno. La fatica per raggiungere mete ed obiettivi non è apprezzata in sé ma solo in funzione dei benefici di successo che ritornano. Lo stesso vale per la vita di relazione che si riduce progressivamente a sistemi di comunicazione in entrata e in uscita privi di sostanza relazionale ma funzionali solo alla soddisfazione psicologica immediata.

Anche negli adulti la vita relazionale è sconvolta dai cambiamenti in atto, ma la qualità della vita nelle nuove generazioni di nativi digitali può volgere verso un tendenziale disastro, giacché è il senso stesso della relazione ad essere messo in discussione.

Così come negli anni ’70 la problematica dell’esposizione emozionale veicolava una grande quantità di disagi per i giovani, oggi l’esposizione ai modelli mentali della rivoluzione informatica ne propone di nuovi ed inediti.

Gli anni della liberazione delle emozioni, a partire dall’uso di sostanze psicotrope e psicoattive, fino ai problemi emozionali dell’umore ed alla copertura con antidepressivi, hanno rappresentato un rischio di deriva verso la destrutturazione dei sentimenti, più fragili e rari delle emozioni, con la correlata caduta di valori a cui abbiamo assistito. Il privilegio di altri valori, indirizzati alla crescita personale ed all’individuazione soggettiva, hanno aperto possibilità e proposto stimoli innovativi .

La rivoluzione digitale verte su altri aspetti dell’umano e, seppur proponendo un ancor più ampio consumo emozionale, incide maggiormente sulle forme del pensiero.

Il cyberspazio è un contenitore in cui le persone possono comunicare attraverso identità che sono limitate solo dalla loro immaginazione. Tale realtà virtuale, “cyberdelic”, nasce da personaggi che provengono dalla rivoluzione psichedelica della beat generation degli anni 60-70 e probabilmente senza la cultura alternativa i computer non sarebbero esplosi nello scenario mondiale.

L’informatica e la realtà virtuale propongono stati mentali che amplificano l’esperienza sensoriale e le caratteristiche specifiche della comunicazione, consentono l’anonimato e la assunzione di altre identità, parificano lo status sociale, ampliano i limiti spaziali e temporali, consentono relazioni multiple, favoriscono la trasgressione e riducono le capacità empatiche.

Il pensiero orizzontale è tipico delle generazioni dei nativi digitali; tale pensiero ha una forma circolare e senza limiti definiti poiché il modello digitale del web, pur essendo paradossalmente di assoluto rigore matematico nella sua programmazione, riesce ad apparire assolutamente analogico nelle sue espressioni.

Analogico perché l’amplificazione delle rappresentazioni per immagini giunge a simulare la realtà con grande efficacia mobilitando l’attivazione sensoriale ed il pensiero intuitivo. Ipertesti dapprima, link, e finestre (windows) si aprono una dentro l’altra costruendo una forma di pensiero lineare che non gerarchizza i contenuti e non consente la formazione di alcuna mappa. Come una navigazione a vista che ha perso l’obiettivo e la meta.

Questa condizione mentale, che si configura sotto la soglia di un disturbo della forma del pensiero, è anche il punto di arrivo della didattica creativa. A tale forma didattica vanno i meriti di aver destrutturato la rigidità dei saperi ma anche il demerito di essere andata ben oltre le intenzioni e gli obiettivi iniziali diventando autoritaria nel proporsi come l’unica forma di didattica , indipendentemente dalle caratteristiche dell’allievo. La spinta al cambiamento, conflittuale con gli eccessi regolativi della didattica premoderna, continua infatti a persistere senza rendersi conto che gli obiettivi prefissi sono già stati raggiunti e che oggi è invece necessaria una nuova  prospettiva incentrata sulla semplificazione e sulla ridefinizione dei modelli relazionali e cognitivi di base. La prima conseguenza nelle forme del pensiero dei nativi digitali è la mancanza di mappe di riferimento e di limiti concreti nella cognizione, nelle emozioni e nel comportamento. Inoltre poiché la velocità del pensiero si propone come sfida alle velocità delle connessioni digitali, è anche necessario un puntuale lavoro sui ritmi del pensiero. Il rapporto con le connessioni è contradditorio: tanto sono percepite come esasperatamente lente nel tempo di attesa della accensione di un computer, quanto divengono rapide in un passaggio difficile di un videogioco. L’idea dei ritmi del pensiero è del tutto nuova nelle discipline che si occupano di apprendimento e di formae mentis, anche se essa è di immediata intuizione nei diverso modi di pensare gli oggetti del pensiero: dalla concentrazione assoluta mediante focalizzazione sull’oggetto ed attivazione delle onde Beta, alla contemplazione finalizzata alla dilatazione dell’orizzonte mentale quando l’oggetto deve essere colto nella sua totalità, con attivazione dei ritmi Alfa. Nella relazione con la realtà virtuale i ritmi psichici sono oscillanti e non dipendono dall’oggetto ma dalla velocità occasionale dei processori. Sono pertanto antinomici all’oggetto del pensiero.

Tali antinomie sono indecidibili, poiché non dipendono né dall’oggetto né dal flusso di pensiero, oltre che essere aleatorie. Ed è per questa ragione che si verifica nei nativi digitali una regressione al pensiero magico.

 

Informatica e pensiero magico

Il pensiero magico costituisce un tipo di elaborazione cognitiva in cui manca una relazione causale tra soggetto e oggetto. Alla magia vengono attribuite relazioni causali ma, a differenza della scienza, il magico sottende spesso un errore di base nella correlazione delle cause. Assunto fondamentale del pensiero magico è l'idea di poter influenzare la realtà secondo i pensieri e i desideri personali. Ed anche interpretare la realtà secondo un flusso di pensiero preveggente[3].

Le credenze magiche risalgono allo stadio preoperatorio, in cui i bambini costruiscono la loro prima interpretazione della realtà. I bambini attribuiscono un’anima agli oggetti, anche inanimati, poiché, nei primi stadi di sviluppo non fanno distinzione tra realtà esterna e interna; un loro gesto può influenzare il verificarsi di un evento senza legame logico di causa ed effetto.

La visione magica del mondo permane tanto più viene assecondata da storie, tradizioni e rituali che potenziano la capacità immaginativa (…la paura di ciò che c’è nel buio.. il dentino da latte sul davanzale…i personaggi inventati…). I media, i videogiochi, internet e l’apprendimento intuitivo rinforzano il pensiero magico perché  propongono sempre di più invenzioni senza distinzione tra fantasia e realtà.

Ciò può produrre la persistenza del pensiero magico (o la regressione a questo stadio del pensiero) oltre la fase preoperatoria fino all’età adulta per motivi difensivi di controllo sulla realtà, propiziatori (con la nascita di veri e propri rituali) e per riempire i vuoti di conoscenza.

 

Lo sviluppo della logica nel bambino

Il bambino assimila la relazione con le cose attraverso l’empatia con l’altro e la ripetizione del vissuto e delle motivazioni che promuovono tale vissuto. La ripetizione genera assimilazione e solo l’insorgere di un progressivo processo di pensiero logico consente di accomodare le conoscenze in modo aderente alla realtà.

Dopo i 6 anni (stadio pre-operatorio) il bambino è giunto al riconoscimento di Sé, allo sviluppo del linguaggio ed al maneggiare simboli lasciando alle spalle l’egocentrismo infantile,  la concentrazione su una cosa alla volta,  l’irreversibilità,  il ragionamento primitivo o trasduttivo,  l’identità dell’oggetto ed inizia a classificare gli eventi ed a costruire mappe mentali.

- L’antinomia tra pensiero magico e pensiero logico è accelerata in questa fase dell’esposizione alla magia dell’informatica: di fronte ad una foto su carta la bimba di tre anni, mentre fa scivolare le dita sull’immagine, esclama: “… ma non si apre!...”.

L’intuitività del gesto, già esercitato su tablet o smartphone, oggettiva un rapporto con la virtualità che precede il contatto corporeo con gli oggetti reali e che va tutto a scapito dell’immagine e dell’immaginazione piuttosto che della reificazione oggettivata.

- Un secondo elemento che deve destare attenzione è la persistenza dell’egocentrismo infantile. Il bambino non tiene conto dell’interlocutore giacché pensa che gli altri provino le stesse cose che prova lui. Non appena la ripetizione primitiva si struttura, essa si consolida come senso della realtà e diventa proiettiva: tutto il mondo ruota intorno a ciò che egli sente. Laddove la realtà gli appaia frustrante egli ne modifica il senso con l’immaginazione collegando arbitrariamente le cose. Il suo ragionamento primitivo (trasduttivo) ancora non conosce la reversibilità ed egli non è capace di ricostruire la sequenza del ragionamento appena sviluppato. Il mondo virtuale gli offre così una via fatta di un incredibile prontuario di gesti, espressioni, comportamenti del tutto soggettivi e non espressi nella relazione con altri mediante un senso condiviso.

Queste sue operazioni mentali sono fondamentalmente pensiero magico, utilizzato per  modificare la realtà a cui partecipa: fa gesti per scongiurare un avvenimento,  modifica la realtà con il pensiero, propone le sue associazioni di idee per controllare la realtà, o per esprimere il suo desiderio narcisistico. Vedremo gli effetti di tali premesse nelle patologie degli Hikikomori.

- Anche lo sviluppo dello stadio operatorio concreto può essere disturbato dalla realtà virtuale. Le operazioni concrete si fondano sulla permanenza dell’oggetto, sulla classificazione, sulla relazione tra classi di oggetti ed il loro ordinamento in serie nelle mappe mentali. Poiché l’organizzazione delle memorie dipende dallo sviluppo della nozione di tempo, collegata dapprima alla velocità degli spostamenti nello spazio (più in fretta è uguale a più lontano), i tempi della realtà virtuale rendono difficile tale automatica traduzione. Concepire il fluire del tempo è assai problematico quando si ha di fronte uno schermo in cui gli avvenimenti sono senza tempo. Anche le scene relazionali di un film non hanno tempi morti poiché sintetizzano solo le situazioni significative ma, ancor di più, le rapide sequenze degli schemi, di un videogioco ad esempio, appaiono nella mente del nativo digitale come se fossero oggetti concreti. La velocità del pensiero, la sua forma e i suoi diversi contenuti non riescono a formulare il pensiero ipotetico-deduttivo: immagina ma non trae conclusioni mediante il ragionamento per ipotesi, non conosce il “se avessi fatto…”.

 

I disturbi del pensiero nei nativi digitali

La natura dei disturbi del pensiero nei nativi digitali (dalla dislessia al calo di attenzione e iperattività) si manifesta con deficit sensoriali e difficoltà nelle comunicazioni interpersonali. Spesso hanno atteggiamenti eccentrici e sono maldestri nel compiere azioni o lavori pratici. La loro affettività è limitata, o inappropriata, e li conduce a sperimentare con ansia i contatti sociali.

Le distorsioni cognitive che presentano riguardano la forma, la velocità ed anche il contenuto del pensiero che continua a presentare aspetti magici. Non a caso giocano e si suggestionano nell’idea di avere poteri magici perché hanno bisogno di sentirsi speciali e, se non confermati nel narcisismo egocentrico della loro specialità, si sentono abbandonati e delusi.

La loro personalità soffre di un tale disadattamento che, accompagnato da ansia sociale e dalla paura di fallimento nelle relazioni, impedisce loro di costruire rapporti con coetanei. Di rinforzo la loro solitudine alimenta il pensiero magico e le idee bizzarre, la tendenza alla trascuratezza, ed anche episodi deliranti se il soggetto è provocato ed impedito nel suo sforzo di tenere gli altri lontani.

La polarizzazione dei loro comportamenti tendenzialmente disturbati ne è un chiaro riscontro: da un lato quell’insieme di disturbi degli hikikomori, dall’altro il bullismo.

Hikikomori è un termine giapponese che significa "isolarsi" mediante una volontaria reclusione nella propria stanza privi di contatto con altre persone, siano esse famigliari o amici. Tali adolescenti abbandonano la scuola e/o il lavoro, mostrano comportamenti ossessivo-compulsivi, tratti paranoici, manie di persecuzione. Sostituiscono i rapporti sociali con quelli mediati attraverso internet (chat e videogiochi online) girovagando all'interno della propria stanza e perdendo progressivamente competenze sociali, abilità comunicative ed opportunità.

La loro infelicità si manifesta con scarsa fiducia in se stessi e con aggressività verso i genitori. Le interpretazioni correnti nel mondo giapponese attribuiscono alla mancanza di una figura paterna ed alla eccessiva protettività materna, l’origine del comportamento hikikomori che sembra coinvolgere circa un milione di adolescenti giapponesi, solitamente maschi primogeniti.

La realtà virtuale ha un ruolo rilevante nell’innesco della dipendenza e dell’esclusione sociale, associata alla pressione sociale verso il successo ed il raggiungimento di mete di eccellenza che a tali giovani sono negate. La frustrazione per i fallimenti scolastici e le delusioni relazionali li chiudono in un processo di ritiro sociale in cui si avvolgono progressivamente.

Tali valutazioni psicologiche non prendono in considerazione il disturbo della forma di pensiero che i nativi digitali manifestano. La loro socializzazione mediante realtà virtuale ha dato forma ad un pensiero intuitivo non mediato dalle relazioni che ha senso solo circoscritto nel rapporto non empatico con il mondo digitale, con manifestazioni emozionali non coerenti.

Indipendentemente dalla specificità del disturbo hikikomori nel contesto giapponese, ma in espansione crescente in altri paesi, molti nativi digitali presentano vari disturbi del neuro sviluppo: disabilità intellettive, disturbi della comunicazione, disturbi dello spettro dell’autismo, disturbo da deficit di attenzione/iperattività, disturbo specifico dell’apprendimento, disturbi del movimento, disturbo del linguaggio,  disturbo della comunicazione sociale, disturbo delirante.

Tali disturbi sembrerebbero collegarsi alla forma delle costellazioni associative del pensiero (ovvero ai processi aggregati di conseguenze logiche diventati automatismi nella mente). Nella sfera relazionale tali costellazioni appaiono come simboli stabili e condivisi con cui comunicare con gli altri il contenuto del pensiero. Per i nativi digitali si manifestano invece con ridondanze procedurali (perseverazione su contenuti sui quali si indugia oltre il necessario che contengono dettagli inutili, precisazioni scontate, parentesi che ostacolano il flusso in modo tortuoso e lento per l’interferenza di idee secondarie); tangenzialità (risposte a domande precise in maniera solo marginalmente collegate tanto da apparire oblique ed equivoche); illogicità (non si riesce a raggiungere conclusioni decifrabili secondo la logica comune); perseverazione (ripetizione di idee, concetti già precedentemente enunciati); blocco (arresto del flusso associativo in modo inaspettato e non intenzionale nel bel mezzo di una discussione o della risoluzione di un problema); deragliamento (il pensiero perde il filo a motivo troppa concretezza ed assenza di capacità di astrazione, oppure per distraibilità prodotta dal seguire stimoli di varia natura, oppure per impoverimento dell’ideazione con associazioni mentali per assonanza sonora come giochi di parole, somiglianze linguistiche, rime o neologismi o termini inesistenti neoformati di significato incomprensibile).

E’ abbastanza chiaro che tali disturbi della forma del pensiero inducano dissociazioni dalla realtà con percezioni distorte, anticipazioni del pensiero altrui, perdita dei nessi associativi in costellazioni arbitrarie formulate sulla logica della realtà virtuale.

Il secondo modello di risposta disagiata è il bullismo. La mancanza di limiti relazionali oggettivati conduce anche al fenomeno della prepotenza del bullo. La sua aggressività fisica e psicologica tende ad esercitare potere sadico sulla vittima incapace di difendersi. Nel bullo si esprime il compiacimento nel dominio e della affermazione prepotente di se con offese, minacce, esclusioni, maldicenze, furti, rapine, percosse, intimidazioni e soggiogazioni. Anche in questo caso si può ipotizzare un vero e proprio disturbo di pensiero legato all’introiezione di modelli di comportamento del tutto privi di empatia che trovano nel sadismo l’unica dimensione emozionale di godimento. La realtà virtuale, e le immagini splatter su cui indugia la sua letteratura al fine di mobilitare emozioni in chi le assorbe, costruiscono schemi di pensiero in cui la confusione tra l’autentico e lo scherzo si sovrappongono. Ed ecco che il bullo non diviene consapevole dell’orrore del suo gesto. La sua freddezza non perviene a compassione per la vittima poiché la sovrapposizione tra reale e immateriale è divenuta per lui una vera e propria forma mentis.

 

Quali strumenti di relazioni evolute per sostituire gli archetipi nei processi educativi?

Un ulteriore problema nasce però dalla socializzazione informatica: la confusione tra realtà virtuale e realtà spirituale. Sul piano pratico perché ambedue sono immateriali e sovrapponibili, sul piano comunicativo perché nella realtà virtuale abbondano contenuti similspirituali con derive magiche, interpretazioni inverosimili, immaginazioni fantasy che confondono la mente di chiunque abbia intenzione di attivare dentro di sé una seria ricerca di spiritualità.

Da questo punto di vista è necessario costituire alcune basi certe per la crescita spirituale che consentano di comprendere la concretezza di un serio cammino spirituale, libero dal pensiero magico, dai rituali ossessivi e dalle superstizioni.

Tenendo cioè presente che anche il cammino spirituale implica una relazionalità con Dio e non una ricerca autonomica destinata a perdersi nel vuoto. In questo caso la liberazione dagli archetipi della relazione con Dio può davvero essere la soluzione per entrare davvero in contatto con lui.

Anche in questo caso significa aprirsi all’oceanica empatia di Dio. E trasmetterne il senso ai nativi digitali.

In via teorica la modulazione delle componenti relazionali da attivare in sostituzione degli archetipi in progressiva dissoluzione, richiede un grande sforzo di ricerca ma può essere condotta attraverso gli strumentari della ricerca sociologica e antropologica, si apre però la grande questione circa la possibilità di riaprire all’empatizzazione i nativi digitali.

Credo che la strada da percorrere per la formulazione di modelli relazionali in grado di sostituire il paterno, il materno e il fraterno debbano essere trovati nel modo di porsi dell’operatore relazionale.

Componente essenziale del suo agire dovrà essere la modulazione del suo ritmo del pensiero. Con ciò intendo la possibilità di modellare le sue onde cerebrali aumentandone e diminuendone la velocità, passando dalle Alpha alle Beta ed alle super beta in funzione delle tipologie di relazione che intende proporre e trasferire.

Accelerazione e rallentamento delle onde cerebrali sono da disporre in sintonia con le attività e le scene relazionali che la persona vive, favorendo la biorisonanza interpersonale. Su tale biorisonanza possono essere accese le potenzialità dei neuroni mirror e può essere aperta l’empatizzazione anche nei nativi digitali più immersi nella realtà virtuale.

Tecniche di visualizzazione possono servire ad indurre rilassamento ed aumentare le onde Alpha rallentando il ritmo del pensiero (fino a stati autoipnotici), al contrario tecniche di focalizzazione (anche visiva) possono aumentare la concentrazione e le onde Beta fino a stati di trance.

 

Le visualizzazioni guidate possono rallentare la fuga delle idee ed ampliare le performance cerebrali, ad esempio, migliorando la capacità di risoluzione dei problemi o le capacità mnemoniche. Dal punto di vista relazionale ciò può essere prodotto da una induzione verbale lenta e immaginativa (favole...) anche con proposte di figurazione mentale di movimenti e di azioni (fantasie di prendere un oggetto, di effettuare un movimento corporeo fino alla cura di un particolare organo interno).

Tecniche di focalizzazione possono invece aumentare la concentrazione ed accelerare il ritmo del pensiero. Elevare il ritmo e la velocità del pensiero è un processo di trascendenza intuitiva estremamente positivo che giunge ad attuazione quando anche le percezioni subliminali diventano coscienti. Lo stato di coscienza trascendente è una forma di trance che solitamente si vive nei momenti di "vivido presente": nel corso di un incidente quando vediamo la scena al rallentatore, nei momenti intensi e significativi quando l'aria diventa particolarmente trasparente e le relazioni appaiono assolutamente chiare. L'espressione fenomenologica "vivido presente" ben si addice alle situazioni relazionali in cui siamo faccia a faccia con l'altro e partecipiamo in sintonia allo scorrere del tempo mentale e il flusso di pensiero si costituisce momento per momento.

Se l’operatore relazionale diventa in grado di modulare il ritmo e la forma del suo pensiero, attivando o inibendo le onde Alpha e Beta in primis, o spingendosi fino alle Theta o alle Gamma a seconda della disposizione relazionale necessaria potrà esercitare l’attività di educatore del pensiero, in modo relazionale.



[1] Per le proprietà attribuite allo sviluppo del potenziale energetico dei mitocondri nel corredo genetico femminile

[2] Per identità di genere si intende la percezione, la sensazione intima che l’individuo ha di se stesso rispetto all’essere maschio o femmina, esprime la presenza di codici mentali di mascolinità e femminilità da attribuire a se stessi e agli altri, risultato del processo di socializzazione primaria, dell’educazione ricevuta, dell’ambito di vita. L’identità di ruolo di genere è legata all’i-dentità di genere, ed è l’insieme delle pre-disposizioni e degli atteggiamenti riconosciuti come maschili o femminili in un de-terminato contesto socio-culturale.

 

[3] Occorre distinguere tra coincidenze e pensiero magico: la causalità nelle coincidenze non esiste, può esistere una sincronicità che è scientificamente leggibile come l’emersione della rilevanza per il soggetto della contemporaneità di due eventi e, quindi, una assunzione di rilevanza per quegli eventi medesimi. Se mentre accendo la luce squilla il mio cellulare non posso attribuire causalità ai due eventi: posso però far emergere da dentro di me la preoccupazione di aver dimenticato di chiamare una amico che aspettava la telefonata.

La dimensione del pensiero magico è anche una forma primitiva e superstiziosa di spiritualità giacché il suo funzionamento, anche rielaborato dal pensiero new age attraverso la legge di attrazione, non presuppone la dimensione relazionale con Dio che, in qualità di Persona, co-costruisce, insieme al nostro pensiero ed agire soggettivo, sia la realtà che il suo significato.

Il pensiero magico esprime la credenza che desiderare, o pensare a qualcosa può avere effetti sulla realtà  e ciò non ha alcun senso se non mediante un accordo con Dio. Ovvero attraverso una relazione e non una semplice legge cosmica universale.

 



[1] Cfr : Adler A ., La psychologie de l’enfant difficile ; Berge A., Le métier de parent ; Betteheim B., Il mondo incantato; Corman L., Psicopatologia della rivalità fraterna; Hellinger B., Ordini dell’amore; Porot M., Il bambino e le relazioni familiari; Rufo M., Fratelli e sorelle