Comunità di Nomadelfia
Grosseto
13 e 14 febbraio 2016
1) DOCUMENTO INTRODUTTIVO CONVEGNO
2) ARCHETIPI E RELAZIONI EVOLUTE
3) QUESTIONARIO FRATELLANZA FRATERNITÀ
4) QUESTIONARIO LE PAROLE DELLA FRATERNITÀ
5) VIDEO DELLA RELAZIONE DI VINCENZO MASINI
6) AUDIO PRESENTAZIONE NOMADELFIA E RELAZIONE INTRODUTTIVA DI VINCENZO MASINI
Il
programma di lavoro sulle qualità relazionali tocca, quest’anno, il tema della
distinzione tra fratellanza e fraternità.
La fratellanza può essere consanguinea o famigliare oppure essere un
criterio etico (Dichiarazione dei diritti dell’uomo) e si struttura in processi
associativi chiusi: fratellanze religiose, nazionali, di classe che hanno
espresso l’universalismo mutuandolo in solidarietà verso altri sistemi
associativi.
La fraternità è invece un sentimento che si sviluppa nella relazione tra
fratelli, tra amici, tra colleghi, tra parenti: meglio essere fraterni senza
dirlo, che dirlo senza esserlo.
La fratellanza biologico/famigliare[1]
Gelosia e Invidia:
Il maggiore è sempre geloso del minore e il minore è sempre invidioso del
maggiore.
Il bambino scopre di non essere più l’unico centro di interesse dei genitori,
deve dividere l’affetto e deve lasciare il posto di privilegiato al nuovo nato.
L’ex figlio unico interpreta come
“preferenze” gli atteggiamenti di cura verso il fratello che gli appare come
rivale e concorrente. Tale rivalità tra fratelli è attuata per attirare
l’attenzione dei genitori.
Marcel Rufo: “i rapporti tra fratelli si
costruiscono sulla base di relazioni affettive imposte, non ci scegliamo né
fratelli né sorelle, ci sono imposti dai genitori”.
Si è fratelli per nascita ma non tutti riescono ad essere fraterni, così come
non tutti i genitori riescono a diventare padri e madri.
Ai genitori spetta il compito di fare in modo che tali relazioni affettive
diventino armoniche attraverso un uso intelligente dell’affettività. “La
mano destra non sappia cosa fa la sinistra” significa moderare
l’affettività, i complimenti e le effusioni in presenza dei diversi figli per
trasmetterle invece nel rapporto a due. Le madri invece si considerano sempre
imparziali nell’amore e tendono a sottovalutare del tutto la gelosia e l’invidia
che i figli hanno tra di loro. Alle madri sembra impossibile che i figli possano
nutrire sentimenti negativi per i fratelli. In genere i genitori pensano che i
figli si amino tra di loro e considerano la gelosia un difetto senza pensare che
”la gelosia non è un difetto ma una
sofferenza” come afferma M. Porot.
Rivalità:
I sentimenti di rivalità possono essere modulati dal comportamento adottato dai
genitori. Hellinger afferma che c’è un
ordine gerarchico “dell’appartenenza alla famiglia regolato dalla sequenza
temporale dell’appartenenza. Nel sistema familiare il primogenito ha la
precedenza sul secondogenito.”
Adler chiama dramma della detronizzazione
le frustrazioni subite dal primogenito/a: cambio di stanza, di posto a tavola,
allontanamento presso nonni e parenti, ecc. Per evitare l’eccesso di
frustrazioni bisogna saper preparare il bambino all’arrivo del fratello/sorella.
Il primogenito percepisce il cambiamento del suo posto:
”voglio un fratello o una sorella ma
vorrei restare sempre la più piccola”. (M. Rufo)
Il maggiore manifesta rivalità diverse a seconda:
18 mesi di differenza: rivalità minima perché i fratelli si mescolano, possono
però sorgere problemi di differenziazione di identità come tra gemelli.
3 o 4 anni di differenza: il primogenito si adatta con difficoltà per le
richieste di responsabilità da parte dei genitori (autosufficienza, buon
comportamento a casa e a scuola).
6 anni di differenza: può diventare protettivo e assumere il ruolo di vice
genitore.
Privilegi:
I figli maggiori accusano i genitori di avere delle preferenze perché vedono
accordati al cocco di mamma privilegi
che a lui vengono negati.
Le preferenze dei genitori ci sono quasi sempre ma sono inconsapevoli. Le
principali sono rivolte al figlio
primogenito che rappresenta la prova di riproduzione superata ed a cui vengono
dedicate molte più attenzioni che verso i figli cadetti. Proprio per questo
motivo i primogeniti sono in genere più ansiosi.
Anche le aspettative dei genitori determinano atteggiamenti privilegiati
spesso legati a somiglianze fisiche e tratti caratteriali che determinano
pregiudizi oppure insorgono in ragione di problemi di salute, o difetti, che
generano ansia ed iperattenzione verso
un figlio. Anche le capacità fisiche, l’intelligenza e il rendimento scolastico
sono fattori che inducono preferenze
Qualità dell’amore materno e paterno:
Lo squilibrio affettivo produce nel bambino la sensazione di essere poco amato,
se rappresenta un fallimento, o troppo amato, se soddisfa le aspettative. Le
valutazioni della madre e del padre influenzano moltissimo la percezione di sé
perché le valutazioni non meritevoli tendono ad essere escluse dal sé del
bambino: egli tende ad essere ciò che gli altri vogliono che egli sia e non
quello che in realtà è.
Ove egli sperimenti gelosia o invidia tende a negarla anche a se stesso per non
far scoprire questa negatività ai genitori. Proprio perché tali sentimenti
negativi possono essere superati solo se vengono verbalizzati, la negazione ne
impedisce la metabolizzazione. Gelosia e invidia tendono così a trasformarsi in
disturbi del carattere e in disadattamento scolastico ed aumentano la rivalità
fraterna psicologicamente inibita.
Il cerchio negativo si stringe ancora di più se i genitori commettono
l’ulteriore errore di fare paragoni. Non solo in funzione dell’aumento della
rivalità ma anche perché l’eccesso di paragoni positivi determina lo sviluppo
del narcisismo egocentrico, l’eccesso di paragoni negativi determina il
complesso di inferiorità. Ambedue ritardano l’accertamento della personale
identità che si sviluppa solo con rinforzi positivi delle personali qualità.
Inoltre nei figli si infiltra il dubbio sull’amore genitoriale (specie materno).
Tale dubbio, che quasi mai giunge ad essere espresso, si trasforma in non
accettazione di sé e sfiducia nella proprie capacità. Oppure in iper
responsabilizzazione, ansia e fissazione al fine di essere amati per quello che
si fa o per gli obiettivi che si raggiungono e non per quello che si è. Ciò
determina la confusione tra amore e stima. Se manca la fiducia in se stessi è
compromesso il successo nella vita perché non ci si sente riconosciuti come
degni d’amore o perché si pensa di aver deluso e scontentato i genitori.
La fratellanza universale
I due termini “fratellanza” e “fraternità” tendono ad essere considerati
sinonimi mentre in realtà essi non lo sono sia nell’etimologia che nella storia.
La
fratellanza politica risale allo
slogan della Rivoluzione francese del 1789 "Liberté, Egalité, Fraternité" che
non si traduce in dispositivi giuridici concreti almeno fino al 1848. Per di più
essa assumerà sfumature nazionalistiche
(fratelli erano solo coloro che appartenevano alla stessa nazione o classe
sociale). La fratellanza religiosa
si traduce in associazioni come le confraternite formate soprattutto da laici
che s'impegnano in opere di carità e soccorso, nella sepoltura dei morti, nella
beneficenza per i poveri e gli emarginati.
Anche nelle comunità monastiche, ove è in uso il termine fraternità, si intende
un rapporto affettivo, particolare e privilegiato nel condividere lo stesso
ideale di vita ma così si confonde l’idea della fraternità con quella della
perfezione della amicizia.
Con
il marxismo il principio di fratellanza si concretizza in quello di solidarietà
all'interno di quelle classi che condividono le difficoltà e gli strumenti di
lotta per superarle.
La forma giuridica definitiva della risoluzione alla fraternità è contenuta
nell’art.1 della DICHIARAZIONE
UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI che recita: “Tutti gli esseri umani
nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di
coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
La
fratellanza universale fa appello
alla condizione che accomuna tutti gli uomini tale da condividere la stessa
sorte di vita e di morte e si realizzi nella solidarietà verso popoli in
particolari difficoltà per malattie, carestie, mancanza d'acqua, malnutrizione.
A questo concetto si ispirano molte Organizzazioni non governative come
l'UNESCO, la FAO, l'UNICEF, l'OMS, l'ILO, l'UNHCR.
La fratellanza universale è un concetto contenuto in molte associazioni
culturali, religiose, massoniche ed esoteriche e si manifesta come ideale da
perseguire e realizzare tra esseri umani, figli dello stesso Dio o dello stesso
DNA nucleare o anche tra esseri viventi che siano umani, animali o piante,
giacché figli della stessa madre terra.
La
fratellanza si è tradotta in numerosi riti che ricalcano l'adelphopoiesis (dal
greco "farsi fratelli") praticata principalmente dalla Chiesa cristiana
ortodossa. Questo rito sarebbe stato utilizzato per molti scopi, ad esempio per
concludere un patto permanente tra i leader di due nazioni o tra "fratelli
religiosi", come sostituto della "fratellanza di sangue", della “fratellanza di
armi” tra cavalieri che si giuravano reciproca fedeltà e aiuto, della simbologia
di fratellanza biologica per cui due individui tramite una ferita mescolano il
loro sangue realizzando così una parentela fittizia ed anche nei cerimoniali
malavitosi.
La fraternità
La
costruzione relazionale della fraternità è un processo intenzionale affettivo
costruito intorno alle modulazioni relazionali di riconoscimento e dialogicità.
Fraternità è un ideale che si fonda sul riconoscimento relazionale (che rende
superflua la lotta per l’affermazione del sé) e sulla dialogicità (che limita la
competizione perché fa capire le ragioni dell’altro).
La
fraternità non è un vincolo parentale ma un valore esistenziale realizzabile
solo se si individuano le caratteristiche relazionali affini in grado di
contenere le pulsioni di concorrenza,
competizione e rivalità che insorgono spontaneamente dall’espressione delle
relazioni primitive.
La fraternizzazione è un obiettivo di molti tipi di relazioni e, se posta sotto
giusta osservazione nel suo modo di manifestarsi, può essere tipica di rapporti
di amicizia, di colleganza, anche di relazioni genitori figli e non solo di
relazione tra fratelli.
Il
modo di concepire la fraternità è infatti esclusivamente relazionale.
La comprensione di questa relazione passa attraverso le sostanze relazionali che
produce: trasparenza e chiarezza.
Queste realizzazioni nel rapporto hanno una valenza di miglioramento della
fraternizzazione ma non sono tipizzazione di base di tale rapporto. Spesso per
raggiungere questi obiettivi che appaiono sentimentalmente appaganti e
eticamente distintivi, si trascurano altri processo che individuano la base
concreta e solida della fraternità.
Le difficoltà nel produrre la relazione di fraternità sono infatti spesso dovute
al fatto che da questa relazione si pretendono aspetti e caratteristiche che
sono tipiche di altri modelli relazionali.
In primo luogo non si può vivere la fraternità se non vi è esplicito
riconoscimento dell’identità dell’altro. Ogni forma di collusione, o di
complicità, o di vincolo segreto o di patteggiamento nascosto è nemico della
fraternità perché la dimensione fiduciale che essa sottintende può sgretolarsi
con estrema facilità.
La fraternità intensa in senso relazionale non è un valore in sé ma un processo
che costruisce un certo tipo di relazione tra tensioni e difficoltà.
Innanzitutto essa va compresa giacché è assolutamente insufficiente far ricorso
a suggestioni quali il “vivere da fratelli” ove non si sappia cosa tale
espressione voglia dire.
Ribaltando i luoghi comuni della naturale affettività tra fratelli occorre
comprendere che la fraternizzazione è essenzialmente un processo cognitivo e
dinamico con una precisa irradiazione dell’affettività. Il rispetto tra fratelli
è infatti il primo ed essenziale obiettivo educativo da raggiungere, prima
ancora del coinvolgimento reciproco, della disponibilità e della solidarietà.
Trasparenza
Giungere alla verità relazionale passa attraverso la chiarificazione del
riconoscimento dell’identità altrui. La trasparenza è il contatto che si
stabilisce tra sensibilità ed intuizione: l’una si verifica nell’altra. Ciò che
uno pensa è “sentito” dall’altro e viceversa.
In
pratica l’identità dell’altro è percepita sensitivamente (a pelle) ma anche
intellettivamente (appare evidente). Il riconoscimento dell’altro avviene sia
attraverso la comprensione delle sue forme di pensiero che dei suoi modi
corporei e dei suoi flussi emozionali.
La
chiarificazione relazionale ha tempi lunghi perché si muove per aggiustamenti,
ricomprensioni, interpretazioni delle sfumature della sensibilità o
assaporamenti delle intuizioni sulle forme mentali.
“Capisco la tua commozione e la spiego come un’inclinazione romantica della
gioia che provi…” “Sento che la tua idea di passione è esattamente ciò che io
intendo per commozione…”.
Ciò
che caratterizza il riconoscimento è la distanza cui si pongono gli attori; è
questo il distanziamento tipico della meditazione condivisa, in altre parole di
una scena relazionale in cui sia l’interferenza dinamica che quella emozionale
sono gestite dal controllo. Prende forma nei momenti successivi all’incontro, o
al termine di un processo di disponibilità, in cui gli attori stanno assorti in
silenzio meditativo, distanziato dalla situazione, e rielaborano il vissuto
altrui e proprio.
Per
fraternizzare occorre conoscere l’altro per quello che è. Non si può
fraternizzare con superficialità o con slancio emotivo. In genere lo slancio
emotivo, anche generoso e disponibile, conduce o alla delusione o all’equivoco o
all’incomprensione.
Alla
delusione quando gli esiti non sono conformi alle aspettative (Io pensavo che
tu, mi avresti dato un aiuto viste le mie difficoltà…) e al fastidio quando
i comportamenti altrui danno allergia epidermica. Esiti ulteriormente negativi
conducono all’equivoco quando si scopre
che le azioni comuni non sono indirizzate allo stesso fine o sono condotte con
modi e tempi diversi (pensavo che tu
volessi stare un po’ di tempo con me in città e invece volevi solo comperarti un
nuovo paio di scarpe…) o
all’incomprensione quando non si riesce a capire il motivo del comportamento
dell’altro (possibile che non capisca
che….?).
Il
riconoscimento richiede un tempo di meditazione e di riflessione sull’altro. Il
distanziamento meditativo deve avere come oggetto la realtà vissuta con il
fratello senza incanalarsi su usuali processi primitivi ripetitivi e senza
rinforzare fissazioni, ossessioni o pregiudizi.
Lo
stato di trance meditativa è focalizzato ed attivo (non è un’ipnosi regressiva
perché potenzia ed accelera i ritmi cerebrali ma va verso onde superbeta, Gamma
o addirittura Lambda, e non Theta o addirittura Delta nel dialogo tra emisferi).
Nella
meditazione focalizzata l’emisfero destro assorbe le valutazioni riflessive
dell’emisfero sinistro e quest’ultimo si apre al contatto con i contenuti della
mente affettiva ed emotiva e la purifica dai copioni e dai pregiudizi. L’uso
della parola meditazione può apparire eccessivo in questo contesto ma va
ribadito sia per togliere al concetto di meditazione quei connotati “esoterici”
che oggi vengono attribuiti a tal pratica sia per riconsiderare tale pratica
nell’ottica normale e comune di una specifica attività del pensiero cosciente.
Spesso l’attività del pensiero sfugge di mano e le persone considerano normale
“stare soprappensiero”, ovvero lasciar liberamente fluire l’attività mentale
senza dare ad essa una specifica destinazione, ma tale modalità è primitiva ed
auto ipnotizzante. Le conseguenze sono espressioni e reattività disordinate e
impulsive.
Meditare significa chiarificare dentro di sé e, nel caso del riconoscimento
nella fraternizzazione, chiarificare la sostanza relazionale. Ogni relazione ha
il suo limite ed il riconoscimento che deborda e perde l’oggetto su cui verte,
si degrada in delusione (se i contenuti emotivi non corrispondono alle attese) o
in fastidio (se la dinamica travalica le attese). Nasce la necessità di
esprimere nel dialogo i propri vissuti.
Le tecniche della
trasparenza
Intuire le forme mentali: velocità, forma e contenuto del pensiero altrui
Sentire empaticamente i flussi emozionali altrui
Osservare la dinamica della corporeità altrui
La chiarezza
Il
dialogo serve a rendere chiare le questioni oscure. La sua sostanza è chiara
nell’intuizione, nell’immaginazione e nella decisione e mantiene stabile il
rapporto tra persone. Inoltre lo ricarica di attenzione e lo struttura. E’
antidoto dell’evitamento perché copre anche le distanze incolmabili
dell’indifferenza. Il dialogo deve essere comprensibile e non logorante perché,
nel primo caso, diventa oscuro, nel secondo, diventa chiacchiera inutile.
Il
dialogo ricentra i codici con cui definiamo le cose; un eccessivo attaccamento
alle proprie convinzioni e la strenua vigilanza delle proprie opinioni
trasformano la dialogicità in dialettica. E spesso la dialettica in disputa e
conflitto verbale. E’ questo il caso dell’incomprensione.
Al
contrario se il dialogo non si eleva al livello raffinato di simultaneo scambio
di idee e di intuizioni si può rimanere delusi. Se la concordanza non è
perfetta, se la velocità di comprensione da parte dell’altro non è istantanea,
se i contenuti sono scarsamente efficaci, se l’astrazione non è al livello
adeguato. Se invece progressivamente si attua la chiarezza delle idee, il cui
esame è visto in una prospettiva di ricerca che ha come bersaglio il
miglioramento dell’affettività, allora il dialogo ha un suo fulcro e la
relazione evolve. Altrimenti la ricerca dell’intesa è una ricerca che si perde
nel vuoto delle astrazioni.
Nel
corso del dialogo, fatto di parole che esprimono emozioni, i vissuti
traspariscono con quei significati che non erano in precedenza noti. Ad ogni
passaggio di presa di turno si dissolvono oscurità e molte questioni investigate
si rivelano sotto un’altra luce.
Nel
dialogo occorre una cornice che impedisca le interferenze esterne ai dialoganti
e consenta di stare insieme con unione. Non si tratta solo di formale pacatezza
dell’eloquio (che comunque non guasta) perché può anche esprimersi con alta
intensità emotiva che può essere controbilanciata proprio dalla
fraternizzazione.
L’effetto finale della ricomprensione, dopo il dialogo, è la contemplazione del
vissuto che, spesso, si accompagna a vere e proprie rappresentazioni visive di
quanto emerso nel dialogo. Queste rappresentazioni inducono a guardare ciò che è
stato reso chiaro con altri occhi. Nasce spesso la necessità di agire, di
riparare agli errori, di condividere, di dare qualcosa di sé quando il dialogo
ci ha fatto imparare qualcosa di più sull’altro.
Le tecniche della
chiarezza
Prese
di turno: esposizione problematica del confidante, anche sottoforma di sfogo
(primo turno); risposta supportiva del confidente (secondo turno); reazione del
confidante (terzo turno)
Atteggiamenti relazionali: comprensione e partecipazione emotiva.
Allineamenti tra gli interagenti: parlare di sé, raccontare la vita, sostegno
emotivo, dare consigli, scaricare
la tensione, far emergere le richieste implicite, dare informazioni.
Vincenzo Masini
ARCHETIPI E RELAZIONI EVOLUTE
di Vincenzo Masini
Il progetto di lavorare sulle relazioni tra persone per
migliorarle assume una importanza straordinaria proprio in questa fase della
storia umana in cui gli archetipi relazionali vanno lentamente sgretolandosi
sotto i colpi della modernità.
L’archetipo è l’immagine
originale, l’esemplare di riferimento, l’idea del prototipo su cui si
costituisce la norma, la forma primitiva di un pensiero. In chiave relazionale
l’archetipo è il modello inconscio di riferimento predeterminato circa il
significato di una relazione.
Infatti noi diamo per
scontato il significato della relazione di maternità di paternità, di parentela,
ecc. sulla base di idee innate che non investighiamo, dando per scontata la
comprensione universale di quella relazione e del suo contenuto affettivo.
Diventare soggetti relazionali significa interrogarsi
sulla natura e sul senso delle relazioni, a partire da quelle archetipiche che
si stanno trasformando sotto i nostri occhi: l’idea di coppia e di famiglia, di
maschile e di femminile, di paterno e materno, di fraterno, di amico, di
parente, di collega sono luoghi di scontro politico tra modi di vedere e di
pensare la modernità nella sua evoluzione verso il postmoderno.
Con uno sforzo di forte astrazione possiamo cominciare a
pensare agli archetipi come “canali” relazionali attraverso i quali sono state
veicolate specifiche forme di irradiazione affettiva. In senso generale e
filosofico le forme archetipiche del matrimonio, della paternità e della
maternità, le più antiche e fondative dell’identità umana, possono anche essere
considerate relative. Queste, ed altre, figurazioni relazionali archetipiche non
sarebbero altro che i canali relazionali di particolari forme di amore,
rispettivamente quello coniugale, quello paterno e quello materno. Dalla
pulsione sessuale l’irradiazione affettiva evolve nell’innamoramento coniugale,
dall’attaccamento biologico verso il figlio la madre evolve verso l’affettività
materna e dalla scoperta della propria continuità genetica nei figli, il maschio
evolve nella realizzazione relazionale della paternità.
Questi canali dell’affettività sono prototipi che, nelle
svariate combinazioni delle culture, prendono forme specifiche pur continuando
ad avere come base l’archetipo specifico. Gli archetipi sono inconsci e ci hanno
guidato nel comportamento sociale e nella costruzione della nostra identità. Gli
archetipi di base della paternità, della maternità ed anche della fraternità
sono pilastri inconsci che ci guidano nello stabilire le prime forme di
relazione affettiva.
L'archetipo della madre
L’evoluzione della vita
che ha condotto alla riproduzione sessuata e alla meiosi (la
ricombinazione dell'informazione genetica proveniente dalle cellule di due
individui differenti -maschio e femmina- che produce risultati ogni volta
diversi, e naturalmente diversi anche dai due genitori) giunge ad un salto
qualitativo senza precedenti nella nascita della affettività materna e nel
conseguente sviluppo della coscienza. Per sintetizzare quanto descritto in
“L’irradiazione affettiva” il processo coscienziale avviene nell’Eva
Africana, chiamata anche Eva mitocondriale[1], che Luigi
Cavalli Sforza descrive come la madre che
ha amato il suo piccolo anche dopo la fine dell’allattamento.
Il fatto che per meiosi
il figlio sia un individuo differente ed il fatto che l’allattamento è un
periodo in cui i flussi ormonali nel corpo della donna siano totalmente
indirizzati al puerperio con l’obiettivo di tenere in vita quel cucciolo appena
nato, determina la progressiva dissoluzione della simbiosi e la scoperta della
identità del figlio. Il figlio dell’uomo è un “tu” che viene accudito anche alla
fine dell’allattamento perché se non è accudito rischia di morire.
L’attaccamento biologico si trasforma dunque in preoccupazione affettiva. L’Eva
africana è dunque la prima donna che sceglie di guardare con amore il figlio
anche dopo la fine dell’allattamento: i suoi neuroni motori si attivano
intenzionalmente verso il figlio e le sensazioni affettive diventano coscienti
perché il figlio è altro da sé. Il superamento delle pulsioni istintuali
determina la nascita della coscienza. Nella madre e poi nel figlio che empatizza
nei neuroni mirror vicinanza ed allontanamento affettivo sperimentando così la
possibilità dell’esistenza del proprio io.
Una delle fondamentali
proprietà della coscienza è quella di vedersi dall’esterno senza perdersi, avere
una focalizzazione esterna di sé, che è il luogo dello
sguardo materno che ti osserva con amore da fuori del tuo corpo biologico.
L’archetipo materno è
dunque affettività indubitabile, attaccamento sicuro, certezza di esistere. tale
archetipo si modula a seconda del sesso del figlio: se maschio è tutto ciò che è
benevolo, protettivo, tollerante, soccorrevole; se è figlia femmina è il
trasferimento mitocondriale della capacità di nutrire mediante la consegna dei
compiti della riproduzione e della cura.
L’archetipo paterno
Dal punto di vista
evolutivo il concetto di paternità è
una costruzione culturale della specie umana giacché la paternità è stata
scoperta quando divenne evidente il legame tra rapporto sessuale e procreazione.
Per millenni gli esseri
umani ignorarono che era l'uomo a fecondare la donna, la quale sembrava dunque
essere l'unica detentrice della capacità di procreare. Con l'avvento
dell'allevamento (neolitico) si osservò che le femmine degli animali non
figliavano più se le si tenevano separate dai maschi o se i maschi venivano a
mancare perché macellati in quanto inutili alla riproduzione. Ciò che valeva per
gli animali, doveva valere anche per l’uomo.
Dopo quel passaggio evolutivo
si generò il processo della patrilinearità che determinò l'emergere dei
modelli familiari tuttora in vigore, con esclusività nella coppia dell'atto
sessuale e con gli archetipi della verginità (che garantisce la certezza della
paternità nel concepimento con una femmina vergine) e della primogenitura,
finalizzati alla trasmissione dell’eredità paterna del nome e delle ricchezze
alla sua discendenza certa.
L’archetipo paterno per
il figlio maschio implica la protezione, la guida, il modello, la decisione,
l’autorità; per la figlia femmina implica l’idealizzazione proiettiva sul
maschio, l’ammirazione, la sicurezza, il riconoscimento della femminilità.
L’archetipo matrimoniale
Nella variabilità
culturale e storica l’arché del matrimonio sta nella legittimazione della
relazione affettivo/riproduttiva fra due persone. Le motivazioni sentimentali o
sessuali, economiche, patrimoniali o politiche che necessitano di legittimazione
si propongono come cornice protettiva su situazioni di fatto per disciplinarle.
La principale struttura normativa nel matrimonio serve alla regolazione della
sessualità.
Il concetto di matrimonio
è connesso a quello di famiglia, nelle diverse forme che il legame famigliare
assume presso le culture e le epoche storiche: dal nucleo ristretto alla rete
familiare estesa fino a comprendente persone di diverso tipo. La funzione di
tali reti è protettiva sia dei legami che della incolumità dei singoli
attraverso il controllo, la proprietà, l’eredità
In alcune culture il
concetto di dovere coniugale stabilisce che è diritto di entrambi i coniugi
avere rapporti sessuali con il proprio sposo, e che quindi è dovere di ciascuno
avere rapporti sessuali con l'altro.
I contenuti archetipici
più comuni sono: il marito padre, il marito madre, la moglie madre, la moglie
figlia, la moglie padre, la coppia di fratelli, i complici nella sessualità,
l’unione tra riproduttori, la coalizione dei produttori di cibo, di cura, di
attrezzi, di servizi,…
L’archetipo della fratellanza
Nella configurazione originale dell’archetipo positivo tra
fratelli è racchiuso il segreto dell’uguaglianza nella diversità.
Riferimento mitologico dell’archetipo sono i gemelli
Castore e Polluce, presi dalla dolorosa angoscia di essere divisi e diversi:
Castore è lo scatenamento istintuale e la realizzazione di tutti i sogni,
Polluce simboleggia la serenità spirituale che respinge l'istintualità. I
gemelli sono fratelli per eccellenza che solo mediante separazione e
riconoscimenti della differenza conferiscono l’identità a ciascuno .
Archetipi e canali dell’affettività
Nell’esperienza umana l’affettività ha assunto molte altre
svariate forme oltre a quelle contenute nei principali archetipi
dell’affettività coniugale, materna, paterna e fraterna.
L’affettività può costruire molti canali relazionali
attraverso cui esprimersi che si allontanano progressivamente dai passaggi
obbligati della sessualità coniugale, della maternità procreatrice,
della paternità fecondatrice e della
fraternità individualizzante.
I rapporti amicali, di collaborazione sul lavoro, i
rapporti istituzionali o di ruolo, possono contenere valenze affettive
importanti su cui viene modulato l’interessamento verso l’altro, la solidarietà,
la disponibilità, il riconoscimento, l’incontro,…
Tanto più si allontanano dagli archetipi tanto più
rischiano di essere canali affettivi fragili e temporanei giacché solo i primi
sono un riferimento inconscio indubitabile.
Esiste però un’irradiazione affettiva che prescinde dalle
forme relazionali concrete ed è la stessa che il Maestro Gesù ci insegna in
Matteo 22,24:
“24"Maestro,
Mosè ha detto: Se qualcuno muore senza figli, il fratello ne sposerà la
vedova e così susciterà una discendenza al suo fratello. 25Ora,
c'erano tra noi sette fratelli; il primo appena sposato morì e, non avendo
discendenza, lasciò la moglie a suo fratello. 26Così anche il
secondo, e il terzo, fino al settimo. 27Alla fine, dopo tutti, morì
anche la donna. 28Alla risurrezione, di quale dei sette essa sarà
moglie? Poiché tutti l'hanno avuta". 29E Gesù rispose loro: "Voi vi
ingannate, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio. 30Alla
risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel
cielo”.
Nella dimensione spirituale l’irradiazione affettiva non
ha canali relazionali precostituiti ma può espandersi in ogni direzione. Siamo
però oggi in grado di orientarci nell’affettività facendo a meno delle prime
canalizzazioni che gli archetipi primari ci offrono?
Il fatto di aver dato per scontata la loro essenza senza
interrogarci su quali disposizioni relazionali si fondano pone il grande
problema di individuare le loro caratteristiche ed i loro connotati sulla base
delle conoscenze che la scienza relazionale propone.
La questione della analisi della modulazione relazionale
della paternità, della maternità, della fraternità ecc. si pone con urgenza nel
momento in cui vediamo tali archetipi a rischio di evaporazione sotto la
pressione delle istanze postmoderne.
La
destrutturazione archetipica mediante gender
La filosofia politica del
modello gender (il carattere sessuato non è più biologico ma culturale ed è auto
percettivo, ovvero fondato sul come una persona sente di essere,
indipendentemente dalla sua biologia[2]) corrode il
significato della mascolinità e della femminilità a cui si riferiscono i modelli
archetipi della paternità e della maternità ma anche della coniugalità.
Ovvero delle
caratterizzazioni specifiche delle modalità affettive intrafamigliari degli
uomini e delle donne in base alla loro identità sessuale; la società postmoderna
avvicina sempre di più i sessi tra di loro mediante omogeneità di valori e
comportamenti destrutturando i modelli tradizionali di riferimento. Ciò implica
quella tendenziale fine dell’identità sessuale ontologica che, nel processo di
evoluzione spirituale, sembra essere il destino delle anime.
Il dibattito
sociopolitico attuale sembra dimenticare la natura e la fragilità della famiglia
come spazio di relazioni ed il fatto che le relazioni in essa sono agite
diversamente dai due generi nell’esercizio della paternità e della maternità.
La possibile tendenziale
omogeneizzazione sta agendo sulla cultura famigliare contemporanea e, anche se
mossa in buonafede (?) per la liberazione dagli aspetti negativi degli
archetipi, presenta problematiche di trasmissione culturale alle nuove
generazioni di nativi digitali con impatto gigantesco.
Gli
aspetti negativi degli archetipi primordiali
E’ assolutamente vero che
tali archetipi debbano essere liberati dalle degenerazioni primitive:
per il figlio l'archetipo materno negativo della supermamma, madre simbiotica,
madre complice, madre incestuosa, madre iperprotettiva, madre anaffettiva e
distaccata, iperprotettività ecc.; per la figlia l’archetipo materno negativo
della rivalità femminile nel possesso del maschio e nell’esercizio del potere
domestico.
L’archetipo paterno
negativo per il figlio maschio implica la rivalità, la successione, la conquista
e/o la consegna delle chiavi del mondo, per la figlia l'incesto affettivo, il
timore della differenza, la distanza paterna, il desiderio di esclusività
relazionale ed il bisogno di sentirsi la preferita.
Anche nella relazione
matrimoniale intervengono gli archetipi negativi: il marito padre, il marito
madre, la moglie madre, la moglie figlia, la moglie padre, la coppia di
fratelli, i complici nella sessualità, …
Tutte queste variazioni
relazioni, anche fisiologiche, nella coppia nascondono le crisi ricorrenti che
conducono alla violenza domestica: abusi sessuali, aggressione fisica, minacce
di aggressione, intimidazione, controllo, stalking, violenza psicologica,
trascuratezza, deprivazione economica.
Le indagini
vittimologiche quantificano la dimensione in Italia in 6.743.000 le donne da
14,3% delle donne ha
subito almeno una violenza fisica o sessuale all'interno della relazione di
coppia (da un partner o da un ex partner) mentre il 24,7% da un altro uomo;
le violenze non
denunciate sono stimate attorno al 96% circa se subite da un non partner, al 93%
se subite da partner; la maggioranza delle vittime ha subito più episodi di
violenza, nel 67,1% da parte del partner, nel 52,9% da non partner, nel 21%
violenza sia in famiglia che fuori; 674.000 donne hanno subito violenze ripetute
da partner e avevano figli al momento della violenza.
Le vittime sono per il
64,8% femmine, per il 33,9% maschi; gli autori sono maschi nel 68,5%, femmine
nel 27,7%; la maggioranza delle vittime è di nazionalità italiana (71,6%), il
28,4% è straniera; assunzione di alcol, "futili motivi" e problemi connessi alla
separazione o alla rottura della coppia sono le motivazioni delle condotte
violente maggiormente esplicitate; nel 70,5% la vittima è percossa con pugni,
calci ecc. per lo più al capo, al volto o al collo; oltre il 40% presenta
lesività (contusioni, ecchimosi, ematomi etc..) in molteplici sedi corporee; nel
30% dei casi si tratta di “violenza reciproca”, ove entrambe le parti sono
vittima e autore nel medesimo episodio o in momenti diversi.
L’insieme di questi dati
presenta un universo relazionale terribile ed incrementale nel tempo, la cui
interpretazione potrebbe essere quella degli esiti della destrutturazione degli
archetipi nella cultura postmoderna del gender a cui fa da contrappunto la
regressione verso il primitivo da parte di chi non riesce a trovare la propria
collocazione relazionale in questo nuovo contesto.
Le modulazioni relazionali inscritte
negli archetipi
Quanto accade sotto
i nostri occhi crea l’urgente necessità di individuare nuovi
linguaggi relazionali per far fronte ad una pericolosa involuzione sia per gli
adulti contemporanei sia per le future generazioni di nativi digitali.
Gli archetipi primordiali, infatti,
contengono modulazioni particolari della relazione che è necessario descrivere
per indicare i sentimenti relazionali pertinenti affinché le persone non si
perdano nel disorientamento e finiscano imprigionati in copioni che rendono la
loro vita, e la vita delle persone intorno a loro, estremamente infelice.
Nella ricerca su “Padri Presenti” si è osservato che
gli intervistati proponevano un complessivo ampliamento del personale punto di
vista sulla paternità.
Ciò ha consentito di
accedere ad una maggiore apertura verso più ampie visioni della paternità nella
dimensione più evoluta. Il modello tradizionale incentrato sul sostenere e
correggere, sul far emergere le doti (protezione e guida) si è ampliato fino a
contenere altre forme di affettività. In questo senso i padri si presentano
assai più presenti rispetto al secolo passato anche se la loro visibilità è
molto più ridotta a causa della ridefinizione dei rapporti tra le dimensioni del
maschile e del femminile. Il gruppo dei padri ha anche formulato i sentimenti
della paternità sotto forma di atteggiamenti, gesti e frasi da rivolgere ai
figli con ampie sfaccettature: dalla protezione alla volontà di rendere libro il
figlio, al mettersi in discussione ed insegnare il dubbio fino alla relatività
del proprio modello proposto. I
dati conclusivi sulla media delle
risposte al questionario mostrano una prevalenza dell’atteggiamento di
tranquillizzazione, di insegnamento e di incoraggiamento verso i figli. Ciò
mostra una caratteristica molto dinamica nel modo di pensare la paternità e fa
apparire le strutture relazioni adottate come quelle di mediazione e di
riconoscimento. Il basso livello in percentuale della comunicazione educativa di
rimprovero desta sorpresa e dipende dalla minor incisività degli atteggiamenti
paterni verso i figli. Questo elemento caratterizza un nuovo modello di
paternità che si propone decisamente molto meno autoritario che nel passato e
lontano
dal sapore
originariamente attribuito a tale archetipo. Probabilmente ciò implica una
trasformazione di grande portata, assai probabilmente irreversibile nella
direzione della tolleranza e in senso contrario al contenimento ed alla
correzione mediante autorevolezza implicita. Le conseguenze della mancanza di
costruzione del senso del limite sui nativi digitali, esposti ad una pluralità
di comunicazioni contraddittorie, possono essere imprevedibili.
Anche i modelli di maternità e di relazione coniugale
e famigliare sono fortemente in trasformazione sia nelle loro forme giuridiche
che nelle modalità di realizzazione. A tal fine può essere utile una riflessione
sull’istituto dell’adozione.
Un esempio di superamento
dell’archetipo materno e paterno: l’adozione
In epoca moderna una
delle realizzazioni sociali a vasta scala del principio di fratellanza
universale è sicuramente quello della adozione internazionale.
L’istituto della
adozione, ovvero l’inserimento di un figlio in una altra famiglia, è un
istituzione estremamente antica, conosciuta dalle società che precedettero i
Romani, da questi perfezionato ed universalizzato. Nel diritto romano erano
presenti due diverse forme di adozione: l'adrogatio (passaggio sotto la patria
potestà dell’adottante con piena successione ereditaria) e l’adoptio (passaggio
dalla soggezione da una patria potestà a un’altra, senza successione).
L’adozione militare è un altro istituto sviluppatosi presso gli antichi Germani
per garantire alleanze stabili tra guerrieri ma solo per adottati che avessero
raggiunto la maggiore età.
L’idea cristiana
dell’adoptio spiritualis modifica la concezione dell’adozione, che in epoca
feudale metteva in discussione la trasmissione dell’eredità, e si adatta alla
necessità delle comunità religiose per espandersi.
Dopo la rivoluzione
francese, nel diritto moderno, l’adozione viene accolta in tutte le legislazioni
come un contratto sottostante alle discipline del regime giuridico della
famiglia. Se ne accentuerà il carattere affettivo e i debiti di riconoscenza
verso l’adottante ma è istituita anche al fine di proteggere i patrimoni, la
continuazione del casato, la perpetuazione dei titoli e dei terreni delle
famiglie, qualora fossero assenti figli legittimi o naturali.
Solamente a partire dal
codice civile del 1942, fu introdotta per la prima volta la possibilità di
adottare minori di età. In tal caso l’adozione legittima una motivazione
affettiva ed etica, già presente nel corso della storia umana pur se messa in
secondo piano negli istituti giuridico normativi.
In correlazione con il
riconoscimento giuridico nascono anche le difficoltà burocratiche del processo
di adozione, specie internazionale, che viene impostato sulle caratteristiche
della coppia adottiva e non sui bisogni dell’adottato. Senza il supporto della
scienza relazionale non è infatti possibile porsi il problema di “quale
famiglia per quale bambino” ovvero un’adozione incentrata sui bisogni
educativi del minore in ragione della sua cultura e dei suoi problemi e sui
bisogni di realizzazione genitoriale della coppia adottante. Raramente viene
fatta compiutamente una analisi relazionale della famiglia adottante, ancor meno
viene fatta una analisi del percorso di formazione della personalità del bambino
e praticamente non viene mai fatta una previsione relazionale sul loro incontro.
Tutto ciò a volte si
risolve nel dramma del fallimento dell’adozione medesima, miracolosamente
contenuto per la grande disponibilità al cambiamento ed alla modulazione
relazionale di molte famiglie adottanti. Quando però il fallimento adottivo
determina nel minore un nuovo abbandono per una relazione diventata ingestibile
e la sua restituzione ad un istituto, ci si interroga su quanto si poteva fare
di meglio.
Spesso ciò dipende da erronee motivazioni all’adozione: ad es.
la sostituzione del proprio figlio biologico deceduto, adozioni narcisistiche,
orientamenti altruistici, dare compagnia al proprio figlio biologico che si
sente solo ma anche dalla presenza di altri figli al momento dell’adozione
(sia biologici della coppia, sia altri figli adottivi).
Spesso i genitori adottivi si percepiscono come coloro che hanno salvato il figlio
da una sorte avversa, dalla trascuratezza, dalla violenza, dalla povertà e dalla
fame ed il figlio adottato rischia di rimanere imprigionato nella figura di
debitore e sviluppare invidia e risentimento verso i fratelli.
Certo i fallimenti
educativi non riguardano solo i bambini in adozione ma la generalità dei figli,
nel caso dell’adozione hanno però un dolore più specifico sia nel vissuto dei
genitori e, soprattutto, nel vissuto del minore.
Nei genitori s’insinua il
terribile sospetto di “aver fatto un danno”; inizia un processo di
autocolpevolizzazione da parte della coppia adottiva che si pente di “non averlo
lasciato dove era”; non si riesce a trovare la ragione del fallimento e si
instaura un conflitto di attribuzione di responsabilità nella coppia. Sul minore
il doppio abbandono grava come un senso di indegnità con rifiuto aggressivo
verso la normalità del vivere sociale da cui egli è escluso e spesso si
costruiscono in lui vere e proprie scelte oppositive se non criminali.
Queste esperienze debbono
muovere la riflessione analitica sui modelli di relazione e di incontro e stanno
a dimostrare come non sia così immediato il superamento di un archetipo come la
genitorialità.
Dissoluzione degli archetipi e nativi digitali
La caduta di riferimenti nella cultura postmoderna non
riguarda solo gli archetipi messi in discussione ma il complessivo stile di vita
che, accanto alla sensazione apparente aumento di libertà, riduce invece le
sicurezze e le possibilità di scelta, in ragione della scarsa trasparenza degli
obiettivi e
della complicazione nelle strategie da intraprendere. Intendo dire che
la scelta di un percorso scolastico, di un lavoro o di una professione, di una
abitazione è centrata quasi esclusivamente sull’immagine che si ha e non sulla
sostanza effettiva. L’unica meta su cui verte l’interesse è il benessere e il
successo. Quest’ultimo è focalizzato anche sui più piccoli momenti della vita
quotidiana: il successo nel dire una battuta, i “mi piace” ottenuti su facebook,
la gloria nel segnare un goal o prendere un buon voto.
La forma mentale attuata per ottenere la sensazione di successo è
quella di essere “ON” che si contrappone
all’essere “OUT”. Non si tratta più dell’”INgroup” del passato ma di essere
“su”, “accesi”, “connessi” nell’esaltazione di aver ottenuto successo.
La vita personale è postata
per accendere tali sensazioni ed i rapporti con gli altri sono valutati
sulla base del ritorno di successo che danno. La fatica per raggiungere mete ed
obiettivi non è apprezzata in sé ma solo in funzione dei benefici di successo
che ritornano. Lo stesso vale per la vita di relazione che si riduce
progressivamente a sistemi di comunicazione in entrata e in uscita privi di
sostanza relazionale ma funzionali solo alla soddisfazione psicologica
immediata.
Anche negli adulti la vita relazionale è
sconvolta dai cambiamenti in atto, ma la qualità della vita nelle nuove
generazioni di nativi digitali può volgere verso un tendenziale disastro,
giacché è il senso stesso della relazione ad essere messo in discussione.
Così come negli anni ’70 la problematica dell’esposizione
emozionale veicolava una grande quantità di disagi per i giovani, oggi
l’esposizione ai modelli mentali della rivoluzione informatica ne propone di
nuovi ed inediti.
Gli anni della liberazione delle emozioni, a partire
dall’uso di sostanze psicotrope e psicoattive, fino ai problemi emozionali
dell’umore ed alla copertura con antidepressivi, hanno rappresentato un rischio
di deriva verso la destrutturazione dei sentimenti, più fragili e rari delle
emozioni, con la correlata caduta di valori a cui abbiamo assistito. Il
privilegio di altri valori, indirizzati alla crescita personale ed
all’individuazione soggettiva, hanno aperto possibilità e proposto stimoli
innovativi .
La rivoluzione digitale verte su altri aspetti dell’umano e, seppur
proponendo un ancor più ampio consumo emozionale, incide maggiormente sulle
forme del pensiero.
Il cyberspazio è
un contenitore in cui le persone possono comunicare attraverso identità che sono
limitate solo dalla loro immaginazione. Tale realtà virtuale, “cyberdelic”,
nasce da personaggi che provengono dalla rivoluzione psichedelica della beat generation degli
anni 60-70 e probabilmente senza la cultura alternativa i computer non sarebbero
esplosi nello scenario mondiale.
L’informatica e la realtà virtuale
propongono stati mentali che amplificano l’esperienza sensoriale e le
caratteristiche specifiche della comunicazione,
consentono l’anonimato e la assunzione di altre identità, parificano lo
status sociale, ampliano i limiti spaziali e temporali, consentono relazioni
multiple, favoriscono la trasgressione e riducono le capacità empatiche.
Il pensiero
orizzontale è tipico delle generazioni dei nativi digitali; tale pensiero ha una
forma circolare e senza limiti definiti poiché il modello digitale del web, pur
essendo paradossalmente di assoluto rigore matematico nella sua programmazione,
riesce ad apparire assolutamente analogico nelle sue espressioni.
Analogico perché
l’amplificazione delle rappresentazioni per immagini giunge a simulare la realtà
con grande efficacia mobilitando l’attivazione sensoriale ed il pensiero
intuitivo. Ipertesti dapprima, link, e finestre (windows) si aprono una dentro
l’altra costruendo una forma di pensiero lineare che non gerarchizza i contenuti
e non consente la formazione di alcuna mappa. Come una navigazione a vista che
ha perso l’obiettivo e la meta.
Questa
condizione mentale, che si configura sotto la soglia di un disturbo della forma
del pensiero, è anche il punto di arrivo della didattica creativa. A tale forma
didattica vanno i meriti di aver destrutturato la rigidità dei saperi ma anche
il demerito di essere andata ben oltre le intenzioni e gli obiettivi iniziali
diventando autoritaria nel proporsi come l’unica forma di didattica ,
indipendentemente dalle caratteristiche dell’allievo. La spinta al cambiamento,
conflittuale con gli eccessi regolativi della didattica premoderna, continua
infatti a persistere senza rendersi conto che gli obiettivi prefissi sono già
stati raggiunti e che oggi è invece necessaria una nuova
prospettiva incentrata sulla
semplificazione e sulla ridefinizione dei modelli relazionali e cognitivi di
base. La prima conseguenza nelle forme del pensiero dei nativi digitali è la
mancanza di mappe di riferimento e di limiti concreti nella cognizione, nelle
emozioni e nel comportamento. Inoltre poiché la velocità del pensiero si propone
come sfida alle velocità delle connessioni digitali, è anche necessario un
puntuale lavoro sui ritmi del pensiero. Il rapporto con le connessioni è
contradditorio: tanto sono percepite come esasperatamente lente nel tempo di
attesa della accensione di un computer, quanto divengono rapide in un passaggio
difficile di un videogioco. L’idea dei ritmi del pensiero è del tutto nuova
nelle discipline che si occupano di apprendimento e di formae mentis, anche se
essa è di immediata intuizione nei diverso modi di pensare gli oggetti del
pensiero: dalla concentrazione assoluta mediante focalizzazione sull’oggetto ed
attivazione delle onde Beta, alla contemplazione finalizzata alla dilatazione
dell’orizzonte mentale quando l’oggetto deve essere colto nella sua totalità,
con attivazione dei ritmi Alfa. Nella relazione con la realtà virtuale i ritmi
psichici sono oscillanti e non dipendono dall’oggetto ma dalla velocità
occasionale dei processori. Sono pertanto antinomici all’oggetto del pensiero.
Tali antinomie
sono indecidibili, poiché non dipendono né dall’oggetto né dal flusso di
pensiero, oltre che essere aleatorie. Ed è per questa ragione che si verifica
nei nativi digitali una regressione al pensiero magico.
Informatica e pensiero magico
Il pensiero
magico costituisce un tipo di elaborazione cognitiva in cui manca una relazione
causale tra soggetto e oggetto. Alla magia vengono attribuite relazioni causali
ma, a differenza della scienza, il magico sottende spesso un errore di base
nella correlazione delle cause. Assunto fondamentale del pensiero magico è
l'idea di poter influenzare la realtà secondo i pensieri e i desideri personali.
Ed anche interpretare la realtà secondo un flusso di pensiero preveggente[3].
Le credenze
magiche risalgono allo stadio preoperatorio, in cui i bambini costruiscono la
loro prima interpretazione della realtà. I bambini attribuiscono un’anima agli
oggetti, anche inanimati, poiché, nei primi stadi di sviluppo non fanno
distinzione tra realtà esterna e interna; un loro gesto può influenzare il
verificarsi di un evento senza legame logico di causa ed effetto.
La visione
magica del mondo permane tanto più viene assecondata da storie, tradizioni e
rituali che potenziano la capacità immaginativa (…la paura di ciò che c’è nel
buio.. il dentino da latte sul davanzale…i personaggi inventati…). I media, i
videogiochi, internet e l’apprendimento intuitivo rinforzano il pensiero magico
perché propongono sempre di più
invenzioni senza distinzione tra fantasia e realtà.
Ciò può produrre
la persistenza del pensiero magico (o la regressione a questo stadio del
pensiero) oltre la fase preoperatoria fino all’età adulta per motivi difensivi
di controllo sulla realtà, propiziatori (con la nascita di veri e propri
rituali) e per riempire i vuoti di conoscenza.
Lo sviluppo della logica nel bambino
Il bambino
assimila la relazione con le cose attraverso l’empatia con l’altro e la
ripetizione del vissuto e delle motivazioni che promuovono tale vissuto. La
ripetizione genera assimilazione e solo l’insorgere di un progressivo processo
di pensiero logico consente di accomodare le conoscenze in modo aderente alla
realtà.
Dopo i 6 anni
(stadio pre-operatorio) il bambino è giunto al riconoscimento di Sé, allo
sviluppo del linguaggio ed al maneggiare simboli lasciando alle spalle
l’egocentrismo infantile, la
concentrazione su una cosa alla volta,
l’irreversibilità, il
ragionamento primitivo o trasduttivo,
l’identità dell’oggetto ed inizia a classificare gli eventi ed a
costruire mappe mentali.
- L’antinomia
tra pensiero magico e pensiero logico è accelerata in questa fase
dell’esposizione alla magia dell’informatica: di fronte ad una foto su carta la
bimba di tre anni, mentre fa scivolare le dita sull’immagine, esclama: “… ma non
si apre!...”.
L’intuitività
del gesto, già esercitato su tablet o smartphone, oggettiva un rapporto con la
virtualità che precede il contatto corporeo con gli oggetti reali e che va tutto
a scapito dell’immagine e dell’immaginazione piuttosto che della reificazione
oggettivata.
- Un secondo
elemento che deve destare attenzione è la persistenza dell’egocentrismo
infantile. Il bambino non tiene conto dell’interlocutore giacché pensa che gli
altri provino le stesse cose che prova lui. Non appena la ripetizione primitiva
si struttura, essa si consolida come senso della realtà e diventa proiettiva:
tutto il mondo ruota intorno a ciò che egli sente. Laddove la realtà gli appaia
frustrante egli ne modifica il senso con l’immaginazione collegando
arbitrariamente le cose. Il suo ragionamento primitivo (trasduttivo) ancora non
conosce la reversibilità ed egli non è capace di ricostruire la sequenza del
ragionamento appena sviluppato. Il mondo virtuale gli offre così una via fatta
di un incredibile prontuario di gesti, espressioni, comportamenti del tutto
soggettivi e non espressi nella relazione con altri mediante un senso condiviso.
Queste sue operazioni mentali sono fondamentalmente
pensiero magico, utilizzato per
modificare la realtà a cui partecipa: fa gesti per scongiurare un avvenimento,
modifica la realtà con il pensiero, propone le sue associazioni di idee
per controllare la realtà, o per esprimere il suo desiderio narcisistico.
Vedremo gli effetti di tali premesse nelle patologie degli
Hikikomori.
- Anche lo
sviluppo dello stadio operatorio concreto può essere disturbato dalla realtà
virtuale. Le operazioni concrete si fondano sulla permanenza dell’oggetto, sulla
classificazione, sulla relazione tra classi di oggetti ed il loro ordinamento in
serie nelle mappe mentali. Poiché l’organizzazione delle memorie dipende dallo
sviluppo della nozione di tempo, collegata dapprima alla velocità degli
spostamenti nello spazio (più in fretta è uguale a più lontano), i tempi della
realtà virtuale rendono difficile tale automatica traduzione. Concepire il
fluire del tempo è assai problematico quando si ha di fronte uno schermo in cui
gli avvenimenti sono senza tempo. Anche le scene relazionali di un film non
hanno tempi morti poiché sintetizzano solo le situazioni significative ma, ancor
di più, le rapide sequenze degli schemi, di un videogioco ad esempio, appaiono
nella mente del nativo digitale come se fossero oggetti concreti. La velocità
del pensiero, la sua forma e i suoi diversi contenuti non riescono a formulare
il pensiero ipotetico-deduttivo: immagina ma non trae conclusioni mediante il
ragionamento per ipotesi, non conosce il “se avessi fatto…”.
I disturbi del pensiero nei nativi digitali
La natura dei
disturbi del pensiero nei nativi digitali (dalla dislessia al calo di attenzione
e iperattività) si manifesta con deficit sensoriali e difficoltà nelle
comunicazioni interpersonali. Spesso hanno atteggiamenti eccentrici e sono
maldestri nel compiere azioni o lavori pratici. La loro affettività è limitata,
o inappropriata, e li conduce a sperimentare con ansia i contatti sociali.
Le distorsioni
cognitive che presentano riguardano la forma, la velocità ed anche il contenuto
del pensiero che continua a presentare aspetti magici. Non a caso giocano e si
suggestionano nell’idea di avere poteri magici perché hanno bisogno di sentirsi
speciali e, se non confermati nel narcisismo egocentrico della loro specialità,
si sentono abbandonati e delusi.
La loro
personalità soffre di un tale disadattamento che, accompagnato da ansia sociale
e dalla paura di fallimento nelle relazioni, impedisce loro di costruire
rapporti con coetanei. Di rinforzo la loro solitudine alimenta il pensiero
magico e le idee bizzarre, la tendenza alla trascuratezza, ed anche episodi
deliranti se il soggetto è provocato ed impedito nel suo sforzo di tenere gli
altri lontani.
La
polarizzazione dei loro comportamenti tendenzialmente disturbati ne è un chiaro
riscontro: da un lato quell’insieme di disturbi degli hikikomori, dall’altro il
bullismo.
Hikikomori è un termine
giapponese che significa "isolarsi" mediante una volontaria reclusione nella
propria stanza privi di contatto con altre persone, siano esse famigliari o
amici. Tali adolescenti abbandonano la scuola e/o il lavoro, mostrano
comportamenti ossessivo-compulsivi, tratti paranoici, manie di persecuzione.
Sostituiscono i rapporti sociali con quelli mediati attraverso internet (chat e
videogiochi online) girovagando all'interno della propria stanza e perdendo
progressivamente competenze sociali, abilità comunicative ed opportunità.
La loro infelicità si
manifesta con scarsa fiducia in se stessi e con aggressività verso i genitori.
Le interpretazioni correnti nel mondo giapponese attribuiscono alla mancanza di
una figura paterna ed alla eccessiva protettività materna, l’origine del
comportamento hikikomori che sembra coinvolgere circa un milione di adolescenti
giapponesi, solitamente maschi primogeniti.
La realtà virtuale ha un
ruolo rilevante nell’innesco della dipendenza e dell’esclusione sociale,
associata alla pressione sociale verso il successo ed il raggiungimento di mete
di eccellenza che a tali giovani sono negate. La frustrazione per i fallimenti
scolastici e le delusioni relazionali li chiudono in un processo di ritiro
sociale in cui si avvolgono progressivamente.
Tali valutazioni
psicologiche non prendono in considerazione il disturbo della forma di pensiero
che i nativi digitali manifestano. La loro socializzazione mediante realtà
virtuale ha dato forma ad un pensiero intuitivo non mediato dalle relazioni che
ha senso solo circoscritto nel rapporto non empatico con il mondo digitale, con
manifestazioni emozionali non coerenti.
Indipendentemente dalla
specificità del disturbo hikikomori nel contesto giapponese, ma in espansione
crescente in altri paesi, molti nativi digitali presentano vari disturbi
del neuro sviluppo: disabilità intellettive, disturbi della
comunicazione, disturbi dello spettro dell’autismo, disturbo da deficit di
attenzione/iperattività, disturbo specifico dell’apprendimento, disturbi del
movimento, disturbo
del linguaggio, disturbo
della comunicazione sociale, disturbo
delirante.
Tali disturbi sembrerebbero collegarsi alla forma delle costellazioni
associative del pensiero (ovvero ai processi aggregati di conseguenze logiche
diventati automatismi nella mente). Nella sfera relazionale tali costellazioni
appaiono come simboli stabili e condivisi con cui comunicare con gli altri il
contenuto del pensiero. Per i nativi digitali si manifestano invece con
ridondanze procedurali (perseverazione su
contenuti sui quali si indugia oltre il necessario che contengono dettagli
inutili, precisazioni scontate, parentesi che ostacolano il flusso in modo
tortuoso e lento per l’interferenza di idee secondarie); tangenzialità (risposte
a domande precise in maniera solo marginalmente collegate tanto da apparire
oblique ed equivoche); illogicità (non si riesce a raggiungere conclusioni
decifrabili secondo la logica comune); perseverazione (ripetizione di idee,
concetti già precedentemente enunciati); blocco (arresto del flusso associativo
in modo inaspettato e
non intenzionale nel bel mezzo di una discussione o della
risoluzione di un problema); deragliamento (il pensiero perde il filo a motivo
troppa concretezza ed assenza di capacità di astrazione, oppure per
distraibilità prodotta dal seguire stimoli di varia natura, oppure per
impoverimento dell’ideazione con associazioni mentali per assonanza sonora come
giochi di parole, somiglianze linguistiche, rime o neologismi o termini
inesistenti neoformati di significato incomprensibile).
E’ abbastanza
chiaro che tali disturbi della forma del pensiero inducano dissociazioni dalla
realtà con percezioni distorte, anticipazioni del pensiero altrui, perdita dei
nessi associativi in costellazioni arbitrarie formulate sulla logica della
realtà virtuale.
Il secondo
modello di risposta disagiata è il bullismo. La mancanza di limiti relazionali
oggettivati conduce anche al fenomeno della prepotenza del bullo. La sua
aggressività fisica e psicologica tende ad esercitare potere sadico sulla
vittima incapace di difendersi. Nel bullo si esprime il compiacimento nel
dominio e della affermazione prepotente di se con offese, minacce, esclusioni,
maldicenze, furti, rapine, percosse, intimidazioni e soggiogazioni. Anche in
questo caso si può ipotizzare un vero e proprio disturbo di pensiero legato
all’introiezione di modelli di comportamento del tutto privi di empatia che
trovano nel sadismo l’unica dimensione emozionale di godimento. La realtà
virtuale, e le immagini splatter su cui indugia la sua letteratura al fine di
mobilitare emozioni in chi le assorbe, costruiscono schemi di pensiero in cui la
confusione tra l’autentico e lo scherzo si sovrappongono. Ed ecco che il bullo
non diviene consapevole dell’orrore del suo gesto. La sua freddezza non perviene
a compassione per la vittima poiché la sovrapposizione tra reale e immateriale è
divenuta per lui una vera e propria forma mentis.
Quali strumenti di relazioni evolute per sostituire
gli archetipi nei processi educativi?
Un ulteriore
problema nasce però dalla socializzazione informatica: la confusione tra realtà
virtuale e realtà spirituale. Sul piano pratico perché ambedue sono immateriali
e sovrapponibili, sul piano comunicativo perché nella realtà virtuale abbondano
contenuti similspirituali con derive magiche, interpretazioni inverosimili,
immaginazioni fantasy che confondono la mente di chiunque abbia intenzione di
attivare dentro di sé una seria ricerca di spiritualità.
Da questo punto
di vista è necessario costituire alcune basi certe per la crescita spirituale
che consentano di comprendere la concretezza di un serio cammino spirituale,
libero dal pensiero magico, dai rituali ossessivi e dalle superstizioni.
Tenendo cioè
presente che anche il cammino spirituale implica una relazionalità con Dio e non
una ricerca autonomica destinata a perdersi nel vuoto. In questo caso la
liberazione dagli archetipi della relazione con Dio può davvero essere la
soluzione per entrare davvero in contatto con lui.
Anche in questo
caso significa aprirsi all’oceanica empatia di Dio. E trasmetterne il senso ai
nativi digitali.
In via teorica
la modulazione delle componenti relazionali da attivare in sostituzione degli
archetipi in progressiva dissoluzione, richiede un grande sforzo di ricerca ma
può essere condotta attraverso gli strumentari della ricerca sociologica e
antropologica, si apre però la grande questione circa la possibilità di riaprire
all’empatizzazione i nativi digitali.
Credo che la strada da percorrere per la
formulazione di modelli relazionali in grado di sostituire il paterno, il
materno e il fraterno debbano essere trovati nel modo di porsi dell’operatore
relazionale.
Componente essenziale del
suo agire dovrà essere la modulazione del suo
ritmo del pensiero. Con
ciò intendo la possibilità di modellare le sue onde cerebrali aumentandone e
diminuendone la velocità, passando dalle Alpha alle Beta ed alle super beta in
funzione delle tipologie di relazione che intende proporre e trasferire.
Accelerazione e
rallentamento delle onde cerebrali sono da disporre in sintonia con le attività
e le scene relazionali che la persona vive, favorendo la biorisonanza
interpersonale. Su tale biorisonanza possono essere accese le potenzialità dei
neuroni mirror e può essere aperta l’empatizzazione anche nei nativi digitali
più immersi nella realtà virtuale.
Tecniche di
visualizzazione possono servire ad indurre rilassamento ed aumentare le onde
Alpha rallentando il ritmo del pensiero (fino a stati autoipnotici), al
contrario tecniche di focalizzazione (anche visiva) possono aumentare la
concentrazione e le onde Beta fino a stati di trance.
Le visualizzazioni
guidate possono rallentare la fuga delle idee ed ampliare le performance
cerebrali, ad esempio, migliorando la capacità di risoluzione dei problemi o le
capacità mnemoniche. Dal punto di vista relazionale ciò può essere prodotto da
una induzione verbale lenta e immaginativa (favole...) anche con proposte di
figurazione mentale di movimenti e di azioni (fantasie di prendere un oggetto,
di effettuare un movimento corporeo fino alla cura di un particolare organo
interno).
Tecniche di
focalizzazione possono invece aumentare la concentrazione ed accelerare il ritmo
del pensiero. Elevare il ritmo e la velocità del pensiero è un processo di
trascendenza intuitiva estremamente positivo che giunge ad attuazione quando
anche le percezioni subliminali diventano coscienti. Lo stato di coscienza
trascendente è una forma di trance che solitamente si vive nei momenti di
"vivido presente": nel corso di un incidente quando vediamo la scena al
rallentatore, nei momenti intensi e significativi quando l'aria diventa
particolarmente trasparente e le relazioni appaiono assolutamente chiare.
L'espressione fenomenologica "vivido presente" ben si addice alle situazioni
relazionali in cui siamo faccia a faccia con l'altro e partecipiamo in sintonia
allo scorrere del tempo mentale e il flusso di pensiero si costituisce momento
per momento.
Se l’operatore
relazionale diventa in grado di modulare il ritmo e la forma del suo pensiero,
attivando o inibendo le onde Alpha e Beta in primis, o spingendosi fino alle
Theta o alle Gamma a seconda della disposizione relazionale necessaria potrà
esercitare l’attività di educatore del pensiero, in modo relazionale.
[1]
Per le proprietà attribuite allo sviluppo del potenziale energetico dei
mitocondri nel corredo genetico femminile
[2]
Per identità di genere si intende la percezione, la sensazione intima
che l’individuo ha di se stesso rispetto all’essere maschio o femmina,
esprime la presenza di codici mentali di mascolinità e femminilità da
attribuire a se stessi e agli altri, risultato del processo di
socializzazione primaria, dell’educazione ricevuta, dell’ambito di vita.
L’identità di ruolo di genere è legata all’i-dentità di genere, ed è
l’insieme delle pre-disposizioni e degli atteggiamenti riconosciuti come
maschili o femminili in un de-terminato contesto socio-culturale.
[3]
Occorre distinguere tra coincidenze e
pensiero magico: la causalità nelle coincidenze non esiste, può esistere
una sincronicità che è scientificamente leggibile come l’emersione della
rilevanza per il soggetto della contemporaneità di due eventi e, quindi,
una assunzione di rilevanza per quegli eventi medesimi. Se mentre
accendo la luce squilla il mio cellulare non posso attribuire causalità
ai due eventi: posso però far emergere da dentro di me la preoccupazione
di aver dimenticato di chiamare una amico che aspettava la telefonata.
La dimensione del pensiero magico è anche una forma primitiva e
superstiziosa di spiritualità giacché il suo funzionamento, anche
rielaborato dal pensiero new age
attraverso la legge di attrazione, non presuppone la dimensione
relazionale con Dio che, in qualità di Persona, co-costruisce, insieme
al nostro pensiero ed agire soggettivo, sia la realtà che il suo
significato.
Il pensiero magico esprime la credenza che desiderare, o pensare a
qualcosa può avere effetti sulla realtà
e ciò non ha alcun senso se non mediante un accordo con Dio.
Ovvero attraverso una relazione e non una semplice legge cosmica
universale.
[1]
Cfr : Adler A ., La psychologie
de l’enfant difficile ; Berge A.,
Le métier de parent ;
Betteheim B.,
Il mondo incantato;
Corman L., Psicopatologia della
rivalità fraterna; Hellinger B.,
Ordini dell’amore; Porot M.,
Il bambino e le relazioni familiari; Rufo M.,
Fratelli e sorelle