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VALORI E RELAZIONI INTERPERSONALI

di Vincenzo Masini e Emanuela Mazzoni

 

I classici della sociologia e della psicologia discutono l’interiorizzazione dei valori come esito del processo di socializzazione e, seppur con diversità ampiamente polarizzate[1], conducono a comprendere la trasformazione delle emozioni occasionali in sentimenti stabili e, nello specifico, in sentimenti di valore come essenza della dimensione umana. Anche gli animali, infatti, percepiscono emozioni ma non giungono alla strutturazione di sentimenti.

Ciò che meno è discusso è quale sia il rapporto tra relazioni vissute e specifici valori introiettati. Questo è il contributo presentato, schematicamente, con questa relazione che rilegge in ottica psicopedagogia le principali teorie relazionali della simmetria e complementarietà, della simbiosi-identità e dell’attaccamento-distacco.

 

Valore della responsabilità e relazione di integrazione

Il valore della responsabilità è ben definito da Erikson  con l’espressione “aver cura”, che purifica questa espressione valoriale dai contenuti giuridici impropri di colpa o di danno; la “capacità di dare risposta” è dunque connessa alla cura, al controllo, alla espressione di identità ed all’aver fondamento. Essa è da considerarsi come uno degli aspetti più importanti del vivere sociale ed è indissolubilmente legata all’integrazione: nasce dall’integrazione e produce integrazione.

L’integrazione è, in senso generico, il processo di rendere pieno e intero un oggetto. In senso relazionale contiene un valore di reciprocità tra entità complesse che si muovono dinamicamente per far funzionare insieme categorie psichiche opposte: la razionalità con le emozioni, la tecnologia con i simboli, la narrazione con la logica, la partecipazione con la differenziazione, ecc… L’integrazione è l’armonica organizzazione del gioco delle parti, dei compiti, delle funzioni e dei ruoli. Vi è integrazione quando nessuno travalica o tradisce le aspettative che l’altro aveva riposto su di lui: le aspettative in gioco nell’integrazione, in quanto già oggettivate a priori e non debordanti gli schemi, valorizzano il contributo di ciascuno. L’eccesso o la mancanza di integrazione è perdita di identità per conformismo ed adattamento o per alienazione e anomia. L’integrazione è l’antidoto del fastidio relazionale perché consente di funzionare insieme assumendosi le responsabilità personali e di ruolo attese nelle aspettative reciproche e negli scopi comuni. Nelle esperienze condotte su campo da Muzafer Sherif i due gruppi di ragazzi riuscivano a cooperare e le ostilità cessavano, solo nel momento in cui si trovavano in situazioni di “interdipendenza reciproca”[2]. Nell’integrazione si attua anche un processo, spesso implicito, di negoziazione in vista della creazione di un’appartenenza superiore che, a sua volta, permette di risolvere problemi e di raggiungere accordi con soluzioni mutualmente accettabili. L’integrazione produce un accordo responsabile che non coincide con le idee dell’uno o dell’altro, ma risolve il momento di paralisi delle forze che produce tensione. L’integrazione è caratterizzata da imparzialità e senso di giustizia che previene, o risolve, un conflitto più o meno esplicito, con essa si passa da uno stato di dualità contrapposte ad uno di comprensione delle diversità. In gioco nell’integrazione vi è sia il controllo che la libera espressione delle identità e delle emozioni che, attuando il valore della responsabilità, si integrano. Manca la responsabilità quando la soggettiva del sé è eccessiva e i soggetti sono totalmente immersi in sé, nei loro vissuti, compenetrati nelle loro emozioni, oppure troppo rigidi e fermi nelle loro convinzioni, da non riuscire a distaccarsene e quindi a comprendere il punto di vista dell’altro all’interno del proprio spazio mentale ed affettivo.

Oppure possono essere anche in una relazione fusionale sperimentante le stesse emozioni e lo stesso sentire e non essere integrati e, quindi, non produrre il valore della responsabilità. La simbiosi non concede ai soggetti l’esperienza dell’identità ma una perdita di confini che, seppur vissuta con leggerezza e piacere, non conduce ad autentica libertà. La piuma nel vento è l’essere meno libero che ci sia.

 

Unità e libertà si realizzano nella dialogicità

E’ Martin Buber che ci insegna che un dialogo è possibile quando ci sono cose da dire e c’è un contesto in cui possono essere dette. La diade (o il gruppo) dialogica riesce a discutere di ogni cosa, senza litigare o disperdere la relazione e senza allontanarsi l’uno dall’altro. Anche di fronte agli atteggiamenti o alle opinioni più divergenti riesce a distinguere tra parole e fatti e a coniugare l’affetto con la stima. E’ l’antidoto ai processi ed ai disturbi di evitamento: ciascuno si mette in gioco senza cadere nella tentazione di coinvolgere in emozioni impressionanti, né si lascia fuorviare da manifestazioni appariscenti. Il dialogo tra le parti può avvenire solo se le parti sono separate tra di loro, (distaccate), e solo se non v’è obbligo di raggiungere obiettivi immediati, o di negoziazione qualcosa o collaborare a qualche fine. Il dialogo richiede un armonico turn taking per evitare situazioni in cui diventa monologo, con protagonisti plurimi. Il sociologo Elias sostiene che durante un dialogo colui che parla ci racconta più cose di sé che della persona o dell’oggetto di cui sta parlando mediante un sapiente equilibrio tra coinvolgimento e distacco: non si può essere troppo coinvolti altrimenti è impossibile avere una visione d’insieme, ma neppure troppo distaccati poiché viene a mancare il senso dell’impegno. E’ “lo sviluppo di questa integrazione a determinare la struttura e lo sviluppo delle sue unità parziali, e insieme quella dei loro membri individuali”[3]. Tale equilibrio dinamico viene rintracciato da Elias nel linguaggio: gli oggetti separati introdotti nel flusso del processo di pensiero si collegano tra loro e si spiegano reciprocamente. Gli indizi di qualcosa che non è conosciuto sollecitano il soggetto a trovare un senso, sono “quesiti all’immaginazione”[4]. “E’ necessario compiere un passo...affinché la conoscenza venga integrata dalla consapevolezza... che il soggetto individuale abbia acquisito da altri un fondo sociale di conoscenza, compresa la conoscenza di un linguaggio.”[5] Il linguaggio conferisce la possibilità di distanza relazionale e quindi di libertà e, al contempo, di unione in funzione di base di conoscenza comune. E’ dunque espressione di identità e, al contempo attaccamento.

 

Libertà e umiltà nel riconoscimento

Il valore della libertà è in gioco anche in una struttura relazionale che implica il ricorso a processi mentali con  caratteristiche di empatia e di intuizione. Il riconoscimento è la scoperta nell’altro di vissuti analoghi ai nostri. Si può pervenire al riconoscimento attraverso un processo intuitivo, (inferire il senso di ciò che l’altro vive) o un processo empatico (sentire l’onda emotiva che muove l’altro e farla propria). Gli psicologi distinguono i due processi chiamandoli empatia cognitiva ed empatia affettiva (meglio sarebbe dire emozionale). Questi due processi miscelano i valori della libertà e della capacità ad essa connessa di esprimersi nel pensiero divergente con la sensibilità personale trasformata in atto umile e concreto di ascolto. Nel riconoscimento si coniugano e si moderano dunque due estremi a rischio: la libertà che può diventare superbia e l’umiltà che può diventare rassegnazione. Il riconoscimento è l’antidoto dell’equivoco giacché conduce al punto più alto di comprensione intersoggettiva: dai movimenti emozionali interni, alle aspirazioni, ai sogni.

Preferisco l’uso dell’espressione equivoco a quella più nota e diffusa di “doppio legame”  anche se le condissero equivalenti. I teorici di Palo Alto, in primis Bateson, utilizzano il concetto di doppio legame come teoria esplicativa della schizofrenia a partire dai processi di disconferma attuata ad uno dei livelli della relazione interpersonale. In particolare al livello della definizione reciproca della relazionale medesima, in genere ma non necessariamente, accompagnata da linguaggi non verbali. L’origine della schizofrenia viene dunque attribuita a definizioni relazionali non chiare in soggetti, come i bambini, che non hanno ancora consapevolezza di cosa sia una conferma. Per saperlo dovrebbero avere la possibilità di vedere il “gioco” dall’esterno. Per sapere cosa sta succedendo devo sapere che sto giocando, ovvero devo poter avere un certo controllo sulle variazioni intorno a me, devo sapere a quali meccanismi sono sottoposti gli eventi per influenzarli. Inoltre sono nella condizione di non poter uscire dal legame prodotto nel gioco relazionale (ecco perché doppio). Ma l’ambiguità del doppio legame non è solo tipica dei processi schizofrenopatogenetici giacché vige in molti contesti sociorelazionali e, in tali casi, in modo più generalizzato può chiamarsi equivoco.

Secondo Elias (1983) la possibilità di restare fuori da ogni tipo di doppio legame conferisce la conoscenza dei meccanismi che porta a poter prevedere ciò che può succedere ovvero ad aumentare il proprio controllo[6] sugli oggetti e sulle persone. La “dinamica della facilitazione crescente” di Elias spiega il circolo di controllo che si innesca con la conoscenza: “quanto più essa [la capacità di controllo sulla natura] aumentò, quanto più ampia divenne la capacità [degli uomini] di dominare gli eventi naturali in conformità dei loro scopi, tanto più facilmente poterono estendere il loro ambito di controllo e tanto più rapidamente progredì il loro dominio sulla natura”[7]. Anche Thompson[8] sosteneva che per migliorare le organizzazioni si doveva avere il controllo dei margini di incertezza e Croizier[9] che il potere è controllo degli altrui margini di incertezza. La prevedibilità di un comportamento o di una reazione nasce dalla capacità di riconoscimento dell’agire altrui come componente della medesima famigliarità delle emozioni e dei sentimenti umani. E se le ispettive sono disattese è probabile che sia in atto una incomprensione. Se poi tale incomprensione è gestita intenzionalmente, essa è un deliberato equivoco. La prigionia dell’equivoco trova la via di uscita proprio nella possibilità di attuare crescenti livelli di riconoscimento interpersonale, fondanti valori come la libera intenzionalità e la sensibile comprensione.

 

Impegno e sostegno nell’incontro

La sensibilità della comprensione è in gioco come valore anche nella relazione di incontro. E’ nella relazione di incontro che si manifesta lo stupore di aver trovato nelle potenzialità dell’altro ciò che manca a ciascuno. Un incastro tra chi trova qualcuno per cui lottare e chi trova qualcuno che lo protegge, tra chi orienta le azioni e chi le riempie di coraggio. E’ l’antidoto del logoramento perché presuppone la assoluta diversità dell’uno dall’altro, compresa l’estraneità dei modelli mentali e degli schemi d’azione, ma impegna in un rapporto per cui tale diversità dell’altro è una potenza a cui ciascuno può attingere.

L’incontro, un termine caro a Rogers ed alla psicologia umanistica esistenziale, si giova dell’empatia affettiva (o emozionale) per superare la diversità tra persone, compresa l’estraneità dei modelli mentali e degli schemi d’azione.

L’incontro è una forma relazionale che si manifesta quando i vissuti vengono empatizzati e controempatizzati. Giova qui rammentare che il riferimento all’empatia necessita di una definizione teorica quale quella proposta da Edith Stein, allieva di Husserl, che in un suo importante saggio del 1932 la definisce come “coglimento del vissuto altrui” differenziandola nettamente dalla inferenza per analogia, dall’immedesimazione e dalla associazione (che nella discussione psicologica attuale possono essere tradotti con imitazione, proiezione, identificazione) discutendo del processo studiale della percezione del vissuto altrui, del riempimento e della oggettivazione. Questa descrizione non è accademica ma fondativi di senso per interpretare l’accadimento empatico che sta alla base della relazione di incontro. Relazione generativa di sentimenti che, nella piena consapevolezza della condivisione del vissuto tra attori, non sono più emozioni transitorie e imprecise ma, appunto, valori.

 

La tolleranza nella mediazione

La mediazione (in senso relazionale transteorico) consiste nel trovare un accordo che non implica la piena sovrapposizione al vissuto altrui ma la semplice moderazione del rifiuto o della accettazione incondizionati. La mediazione costruisce un senso comune perché negoziando sulla quantità di energie necessarie per accomunarsi nell’ottenimento di un fine, modera gli eccessi e stimola le carenze individuali nel rispetto dei personali modi di essere. E’ l’antidoto all’incomprensione perché negozia i significati e libera dal controllo reciproco. Il blocco dell’incomprensione viene superato dall’azione verso qualche fine. L’attività permette di trovare e dare un senso a ciò che si fa, attraverso l’individuazione di quelle parti su cui si può negoziare. Ogni mediazione implica un margine, una tolleranza, la quale a sua volta conduce al valore della pace. Da ciò deriva la considerazione filosofica e sociologica della differenza fondamentale tra norme e valori. Le prime frutto di processi di mediazione sociale, i secondi frutto di condivisione di sentimenti. L’ossessiva ricerca di regole chiare come processo diffuso sulla superficie del sistema è impotente nel generare miglioramento nelle relazioni interpersonali poiché non sviluppa produzione di valori ma solo, e se ci riesce, dichiarazioni auliche di principi contenuti nelle ricorrenti “Carte dei diritti del…” noiose quanto l’improduttiva contemporanea bioetica a cui viene, nei fatti, sistematicamente preferito il casuismo[10].

 

Fedeltà e coinvolgimento nella relazione di disponibilità.

L’impianto relazionale della disponibilità è quanto avviene in un gioco di doni reciproci graditi  perché opportuni nei modi e nei tempi. Per questo motivo la disponibilità dell’uno sazia il bisogno dell’altro. La disponibilità infatti è una potenzialità che si trasforma in atto non appena venga intuita dall’uno la richiesta (magari nemmeno espressa verbalmente) dell’altro. Nella relazione di disponibilità c’è realizzazione piena dell’entelechia aristotelica poiché la potenza del gesto è immediatamente tradotta in atto. La reciprocità non è determinata dallo scambio di doni equivalenti ma dalla scelta di dare il “meglio di sé” e dalla consapevolezza che l’altro stia dando il “meglio di sé”. La disponibilità è l’antidoto dell’insofferenza perché non valuta la adeguatezza del comportamento ma la sua intenzione, giacché nella disponibilità l’intenzione è già atto.

Il valore della fedeltà è funzionale alla diminuzione della paura archetipa dell’abbandono, non è dunque da intendersi come realizzazione del possesso affettivo o giuridico. E’ semmai la dimensione del possesso a generare invidia e gelosia. Le quali, a loro volta, diminuiscono la disponibilità che non può prendere forma laddove l’affanno del possesso o l’ansia della perdita si sostituiscano all’immediatezza del dono. La disponibilità percepita nella figura d’attaccamento diminuisce la paura dell’ignoto, del non prevedibile. La costruzione della disponibilità, secondo Bowlby (1982), avviene attraverso esperienze di responsività positiva da parte della figura di attaccamento. Queste producono aspettative che, se sviluppate durante il primo periodo di nascita della relazione, si mantengono costanti, durante tutta la durata della relazione. La fiducia che la figura di attaccamento sarà presente diminuisce l’ansia di allontanamento. Il coinvolgimento della madre nell’interazione e le richieste affettive del figlio, creano le premesse per la relazione di disponibilità. Non è importante che il dono abbia lo stesso valore oggettivo, ma che sia il meglio che uno può dare. Per Elias la disponibilità è l’essere aperti a coinvolgersi. I due soggetti percepiscono, sentono e agiscono in modo diverso, ma nelle situazioni di contagio emotivo un’emozione che si produce in un soggetto, accende a sua volta l’emozione nell’altro. Affanno di possesso e ansia da separazione sono conseguenze di processi cognitivi mentre la disponibilità è precognitiva, solo affettiva. L’elemento cognitivo porta a distaccarsi dall’emozione: pensare alla situazione che si sta vivendo è una metariflessione che cambia il punto di vista e propone un orizzonte di significati ad un altro livello. Se dal polo del coinvolgimento ci si allontana sempre di più fino a quello del distacco cognitivo, la relazione non sarà più quella di disponibilità, ma la dialogicità. Elias fa risalire la prevalenza di coinvolgimento o distacco al tipo di contesto. Il distacco, secondo Elias, è momento psichico indispensabile per strutturare la coscienza e raggiungere la conoscenza, la quale porta ad un aumento di controllo. Ma c’è una precondizione al distacco ed è quella dell’attaccamento. Qui si dividono le filosofie e le psicologie della coscienza: da un lato chi pensa che l’innesco della coscienza abbia prodotto l’angoscia esistenziale, dall’altro chi, come chi scrive, vede la coscienza stessa come generata dalla scoperta dell’altro, e poi di se stessi, come conseguenza dell’oggettivazione disponibile del sentimento d’amore verso lui.

 

L’armonia pacifica della relazione di complementarità

Complementare è ciò che serve al completamento vicendevole. Questa è la relazione in cui ciò che sembra  contraddittorio diventa compatibile. L’agire complementare implica la coscienza degli attori della complementarità medesima e l’assunto, un po’ troppo meccanicistico, derivato dalla pragmatica comunicativa di Palo Alto, sulla modulazione tipizzata up – down di tale relazione, non rende giustizia al valore di questa relazione di affinità. Se è vero che la simmetria può essere anche semplicemente reattiva, la complementarità si fonda sulla consapevole attesa che l’uno farà le cose che non sono fatte dall’altro. Si fonda sulla serena accettazione delle caratteristiche di ciascuno e sulla naturale scoperta che l’altro abbia fatto esattamente ciò che c’era bisogno di fare, o che appariva con evidenza utile e necessario. Lo sfondo della complementarità è la tranquillità e il realismo. La complementarità è l’antidoto alla delusione perché non formula aspettative fantastiche sul comportamento dell’altro e non conduce ad illusioni.

Nell’ ottica della scuola di Palo Alto, la complementarità, controparte della simmetria, è formata da asserzioni diverse mentre la simmetria da asserzioni uguali o contrarie. Sono complementari le interazioni: domanda / risposta; asserzione / consenso; consenso /estensione; istruzione / accettazione, che in linguistica sono indicate come coppie adiacenti o minimal pairs. Alla prima battuta ne segue un’altra all’interno di uno schema dato, anche se non esplicito e stereotipico. Per Bateson “l’aspetto complementare dell’interazione [è quello] in cui ciò che fa A si accorda in certo senso, con quello che fa B, pur essendo essenzialmente diverso da esso. La categoria dell’interazione complementare include per esempio, comando e sottomissione, esibizionismo e voyeurismo, aiuto e dipendenza… una serie di modelli in cui c’è un reciproco adattamento fra il comportamento di A e quello di B.”[11] Berne definisce la complementarità “transazioni che progrediscono verso una conclusione prevedibile e definita”. La complementarità è dunque quella struttura relazionale che conduce alla forma più alta di valorizzazione estetica: la scoperta dell’armonia.

 

Rif. Bibl.:

AAVV, Dizionario essenziale di counseling, Arezzo, Prevenire è Possibile,2006.

Bateson, G. (1979), Tr. it., Mente e natura, Milano, Adelphi, 1984.

Bowlby, J. (1969-1982), Tr. it, Attaccamento e perdita, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

Elias, N. (1983), Tr. it., Coinvolgimento e distacco, Bologna, Il Mulino, 1988.

Gabbard, G. O. (1994), Tr. it., Psichiatria Psicondinamica, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1995.

Goffman E., (1971), Modelli di interazione, Bologna, Il Mulino.

Kohut, H. (1978), Tr. it., La ricerca del Sé, Torino, Bollati Boringhieri, 1982.

Masini, V., Dalle emozioni ai sentimenti, Caltagirone, Prevenire è Possibile, 2000.

Piaget, J. (1937), Tr.it., La costruzione del reale nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1973.

Rogers C.R., (1945), Tr.it.,La terapia centrata sul cliente, Firenze, Martinelli, 1970.

Stein E, (1932), Tr.it. L’empatia, Milano, Angeli, 1985.

Sullivan, H. S. (1953), Tr. it., Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli, 1962.

Watzlawick, P. e Weakland, J.H. (1976), Tr. it., La prospettiva relazionale, Roma, Astrolabio, 1978.              

Winnicott, D. W. (1953), Tr. it., Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in Gioco e realtà, Roma, Armando, 1974.

 


 

[1] Per Freud e gli psicoanalisti, ad esempio, la socializzazione è un dramma di conflitti tra l’Es e il super-io, per Mead è l’acquisizione del punto di vista dell’alter-ego, in doppia contingenza, per gli strutturalisti è l’introiezione e l’integrazione con le strutture sociali preesistenti, per i cognitivisti la socializzazione è connessa all’attribuzione causale, per i personalisti è l’emersione di un sé sociale,… 

[2] Sherif M., (1951), A preliminary Experimenal Study of Intergroup Relations, in Rohrer e Sherif.

[3] Ibidem, p. 133

[4] Ibidem, p. 73

[5] Ibidem, p. 75

[6] La possibilità di mantenere il controllo, su di sé prima, ma anche sugli altri è indice di un forte sviluppo della propria identità. Solo se posso rappresentarmi con chiarezza chi sono e quali sono le mie capacità posso prendermi la responsabilità degli altri.

[7] Elias, 1983: 99.

[8] Thompson J., (1967) Organization in Action, New York, Mc Graw-Hill.

[9] Crozier M., (1977) L’acteur et le système, Paris, Edition du Seuil.

[10] Il casuismo è un approccio all'etica che muove attraverso l’esame di casi concreti piuttosto che provando a dedurre le conseguenze di una regola morale. Tratto a fondo dell’argomento in “Medicina Narrativa: empatia e dinamica nella relazione medico – paziente” Angeli, 2005.

[11] Bateson 1936

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