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 SABRINA ALLETTO

 

UN RUOLO SOCIALE PER IL SIGNOR DOWN

Verso il lavoro: come i “diversi” possono crescere

 

 

                                                                           Indice

                         

           1. L'handicap a confronto con la società del XX° secolo. Un modello storico.

           2. La famiglia di fronte all'handicap. Il bambino senza peso.

           3. Il disabile mentale. Un ruolo sociale da raggiungere.

           4. Lavoro e fasce deboli. Verso il lavoro: la mediazione.

           5. Counseling e disabilità.

               a) Tipologie e modelli di intervento;

               b) Il caso di Stefano;

               c) Il mio glossario della disabilità. 

           6) Biografia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            1.  L'handicap a confronto con la società del XX° secolo. Un modello storico.

 

Affrontare l'argomento dell'esperienza psicologica dell'handicap significa definire il valore che diamo a questa esperienza umana. Tale significato risiede nel modo in cui l'handicap è interpretato nella nostra cultura. Ogni persona, infatti, definisce i propri valori in uno scambio continuo con gli individui con i quali vive.

Di fronte alla malattia grave, la nostra cultura si sente sfidata nella sua illusione di onnipotenza, accusata di inefficienza e di incapacità. Perciò reagisce a questa sfida con forte atteggiamento compensatorio, permettendo una enorme evoluzione delle conoscenze scientifiche il cui contributo alle risorse terapeutiche è stato considerevole.

In una titanica lotta mirante al conseguimento del benessere e di una vita felice, la comunità ha superato molti ostacoli, approntando servizi efficienti e compiendo scelte coraggiose che hanno effettivamente migliorato la qualità della vita.

Ma la realtà dell'handicap è rimasta. Come una spina inflitta nel fianco della comunità, alcuni individui continuano ad essere colpiti nella loro integrità fisica nonostante gli sforzi preventivi. L'impegno efficientista della scienza del XX° secolo è sconfitto dal caso e tra noi restano presenze che, con il loro dolore, ci ricordano che non possiamo pianificare tutto.

I più profondi valori su cui si regge la convivenza civile sono messi in crisi dalla realtà dell'handicap: la parità dei diritti dei cittadini, la loro eguaglianza di fronte alle possibilità di vita positiva, il loro diritto all'istruzione, al lavoro, all'autonomia, alla salute, vengono duramente sfidati da questa presenza. Non sempre si riesce a conseguire il fine ambìto dell'integrazione, poiché tutta l'organizzazione è fatta per i sani.

L'handicappato è una presenza problematica e quasi fastidiosa: da un lato egli è persona con pieni diritti, dall'altro si discosta profondamente dalle aspettative sociali, così da apparire estraneo e diverso. L'atteggiamento più consueto verso il disabile è quello di considerarlo come un ammalato da curare o come un eterno bambino.

Negli ultimi decenni gli operatori psicosociali italiani hanno dedicato grande attenzione al problema dell'handicap, intervenendo in un'area gestita, quasi esclusivamente, da operatori sanitari o assistenziali. In precedenza infatti l'handicap era stato identificato come malattia da curare, oppure come incurabilità da assistere all'interno di istituzioni-ghetto.

L'handicap nel suo aspetto relazionale è come un'informazione che irrompe tragicamente nella vita del soggetto, nella sua famiglia, nella società; pertanto va letto nell'insieme dei significati che essa riveste per il soggetto, per il suo nucleo affettivo primario, per la comunità di appartenenza. Nel modello sistemico, ciascun elemento di un fenomeno deve essere considerato solidale con gli altri con cui interagisce. Un sistema è una totalità organizzata, costituita da parti le quali non sono definibili al di fuori del rapporto che le une hanno con le altre. Ciascuna parte è considerata in funzione della posizione che occupa nella totalità. Ad esempio nessuno di noi riconoscerebbe l'albero di trasmissione in un ferro storto, se non conoscesse la sua funzione all'interno della propria automobile. Il ferro storto è un albero di trasmissione solo se considerato come parte di un insieme di ingranaggi progettati per svolgere una certa attività. 

Nell'ultimo trentennio si assiste prevalentemente al tentativo di consolidare le esperienze di integrazione nella società delle persone disabili.

E' un processo di rafforzamento delle pratiche dell'integrazione che passa innanzitutto dalla scuola e si estende poi alle esperienze di formazione professionale e di integrazione al lavoro.

La “riabilitazione” tende ad essere intesa sempre più come pratica che si pone comunque all'interno di un processo di integrazione tra persona disabile e contesto sociale.

Questa fase è stata giustamente definita come “Pratica dell'integrazione” poiché in questo periodo numerose esperienze di integrazione al lavoro di disabili si affermano utilizzando metodologie realistiche e pragmatiche.

Si accentuano i fattori di complessità sociale. Viene messo in discussione e parzialmente trasformato il welfare state. Imponenti fenomeni di riorganizzazione attraversano il sistema produttivo. L'economia si internazionalizza. Nascono o si consolidano i servizi a sostegno dell'integrazione con particolare riferimento all'inserimento nella scuola dell'obbligo, ma anche nella formazione professionale e nel lavoro. Si consolida e si sviluppa l'area della cooperazione sociale. In alcune regioni si afferma il principio della “mediazione” tra fasce deboli e sistema produttivo. I disabili vengono riconosciuti come “persone” portatrici di diritti all'integrazione ai ruoli sociali attivi, ad una dignitosa qualità della vita. Accanto a soggetti appartenenti a “categorie” cliniche (handicappati psichici, fisici e sensoriali; malati mentali) compaiono soggetti appartenenti a “categorie” sociali (immigrati, minori a rischio, tossicodipendenti, carcerati).

In questo nostro tempo, così sofferente per la crisi dei valori, così dipendente dagli oggetti e dalle immagini, così incapace di contenere l'aggressività, abitato da infantilismi e da frantumazioni, da angosce per le mancanze e per l'abbondanza, sembrano comparire e crescere bisogni immateriali e ricerche della qualità anche umana e si amplia il peso e il significato dell'universo simbolico.

L'integrazione degli handicappati, anzi la loro stessa esistenza, come segno e significato possono essere (o diventare) molto rilevanti.

La speranza è naturalmente quella che da una riflessione culturale si sviluppino analisi critiche sulla impostazione tradizionale della riabilitazione e nascano programmi che consentano ai giovani disabili di andare verso il mondo dei grandi.

 

 

 

 

                                                                                

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                2. La famiglia di fronte all'handicap. Il bambino senza peso.

           

La famiglia è una struttura complessa e articolata, presente in tutti i sistemi sociali conosciuti. In maniera assai generica essa può essere definita una unità di cooperazione, basata sulla convivenza, avente lo scopo di garantire ai suoi membri lo sviluppo e la sopravvivenza fisica e socioeconomica, la stabilità emotiva, la protezione nei momenti difficili. Fondata su un'alleanza di adulti, la famiglia ha, tra i suoi compiti cardinali, la generazione e l'allevamento della prole. Questo comprende sia le cure fisiche necessarie ad un sano sviluppo sia la trasmissione della cultura e delle norme sociali della comunità di appartenenza. La coppia coniugale costituisce l'asse relazionale intorno a cui ruota la famiglia nucleare. Il “cucciolo umano”, caratterizzato dalla fisiologica lentezza della sua crescita fisica e psichica, deve infatti avere tempo per acquisire un numero grandissimo di abilità tra cui quella di saper sottomettere i suoi impulsi innati alle regole del gruppo, prima di assumere in esso un posto come membro adulto.

L'handicap è un evento eccezionale non solo perchè obiettivamente infrequente, ma perchè minaccia in più punti l'organizzazione complessa dei rapporti familiari.

Molti autori hanno parlato dell'importanza delle aspettattive dei genitori sul futuro dei figli, delle fantasie che accompagnano la loro nascita ed il loro primo sviluppo, della proiezione che ognuno di noi fa sul piccolo essere che genera. Indubbiamente ogni coppia, quando ha un figlio, si aspetta di averlo sano. Tali aspettative subiscono una delusione profonda conseguentemente alla nascita di un figlio handicappato. E' facile intuire come un figlio handicappato metta a dura prova la struttura della famiglia. Il carico lavorativo ed emotivo, già elevato in condizioni normali, diventa difficilmente tollerabile quando un figlio dà gravi preoccupazioni per la propria salute. I bisogni di assistenza aumentano a dismisura.

Se ogni figlio sano che si alleva richiede un onere solo temporaneo di fatiche, e i genitori sanno bene che esso, crescendo, si emanciperà da loro, non è così per il figlio handicappato. Fin da neonato egli viene percepito come un “perpetuo terzo”. Può così accadere che il ruolo dei genitori soppianti radicalmente quello di coniugi, nella percezione stessa dei membri della coppia, con perdita per entrambi dello spazio indispensabile all'esperienza “duale”.

Agli occhi dei genitori, infatti, il figlio compromesso è per definizione non autonomo: il suo effettivo bisogno di aiuto in alcuni settori si allarga spesso (nella dolente percezione dei genitori) a macchia d'olio, così che il più delle volte viene considerato handicappato in tutto e per tutto. Per contro gli altri figli ricevono prematuramente la patente di autonomi, di “grandi”, di “quelli che ragionano”, assai prima di meritarla, o di averla desiderata, o di essere in grado di utilizzarla con profitto. Per effetto del confronto con l'incapacità, vera o presunta, di un membro del gruppo, i fratelli dell'handicappato tendono ad essere ipervalutati dai genitori e giungono spesso impreparati alla vita sociale dove saranno costretti a verificare i propri limiti nella competizione coi coetanei.

 

Ricordo di aver letto di un caso intitolato “Un segreto di famiglia”che parlava di una donna che aveva richiesto un'adozione per timore di generare un figlio compromesso: tale angoscia si seppe poi essere procurata dal fatto di avere un fratello cerebropatico grave, ricoverato in un istituto. Essa nulla aveva detto al marito circa l'esistenza di tale “macchia” nella sua famiglia. Le rare visite che faceva al fratello ricoverato erano per lei fonte di grande tormento, specie da quando, con l'entrata in vigore della legge 180, sapeva che avrebbe dovuto/potuto portare il fratello a vivere con lei. Essa era terrorizzata che il marito venisse a conoscenza del suo segreto. Per non correre il rischio di concepire un figlio compromesso che avrebbe portato alla luce il suo inganno, usava di nascosto un mezzo anticoncezionale.

La sua vita era completamente invasa da quella presenza assente. Probabilmente le cose sarebbero state assai meno angosciose ed insopportabili se il fratello avesse vissuto con lei sotto lo stesso tetto!

La nascita di un bambino handicappato rappresenta un grave trauma per la famiglia. Anche se successivamente potrà svilupparsi molto amore fra i genitori e il figlio, all'inizio questa relazione è caratterizzata dalla delusione e dal rifiuto. I genitori non riescono a credere a quanto è avvenuto; guardano il bimbo, non lo riconoscono come loro perchè non assomiglia per nulla al bambino sognato ed atteso.

La perdita del bambino immaginario diviene lentamente manifesta e si fa strada il riconoscimento e l'accettazione. Può iniziare così il viaggio, coraggioso e dolente, della vita in comune e dell'azione educativa. Tuttavia perchè ci sia una partenza, ed un percorso, sono però necessari un immaginario ed un progetto.

Il lavoro sul lutto avviene spesso in maniera inadeguata, a volte si tratta di un lutto inelaborabile. Il piccolo viene molto protetto. Spesso i genitori vivono le prospettive di crescita come una minaccia di separazione e di conseguenza tendono ad accentuare gli atteggiamenti iperprotettivi e a rinforzare, incosciamente, la dipendenza del figlio handicappato nei loro confronti.

E' difficile trovare la distanza giusta, ma soprattutto è difficile distanziare il figlio a poco a poco, come avviene con tutti i bambini normali e in tutti i processi educativi, in tutti i viaggi verso il mondo dei grandi.

La separazione, condizione essenziale perchè il figlio, gradualmente, acquisti i propri spazi e maturi una relativa autonomia, viene vissuta come un equivalente del rifiuto e fa emergere nell'animo del genitore quegli stati d'animo negativi e di colpa solitamente coperti o negati.

Come si può distanziare un figlio che viene in parte rifiutato e che quindi incosciamente si desidera distanziare? Se poi, più avanti negli anni, il nostro giovane viene avviato ad un Centro diurno, accanto alla situazione, frequente e positiva, di una meditata co-educazione verso l'autonomia, compaiono spesso situazioni di delega e meccanismi di difesa, di dipendenza o contro-dipendenza.

Passività, idealizzazione, collusione, gelosia, aggressività, attraversano a volte queste situazioni relazionali genitore-operatore, nelle quali il giovane disabile, come Edipo, sperimenta due famiglie, una a Tebe ed una a Corinto, spesso una “buona” ed una “cattiva”.

La citazione non è casuale perchè nelle situazioni conflittuali il giovane potrà, paradossalmente, sovrapporre alla sua debolezza una forza improvvisa, subdolamente pericolosa.

La forza consiste in un piccolo spazio di manipolazione delle relazioni tra famiglia e Centro diurno, nell'instaurazione di una modalità comportamentale basata sulla polemica, che potrà essere una riedizione camuffata del conflitto edipico e stabilizzarsi in una posizione cronicamente immatura.

In tutti i casi il permesso a crescere, a salire sul treno per andare avanti (spesso verso l'incertezza), si gioca prima e soprattutto in famiglia.

A volte lo sforzo psicologico che viene richiesto ai genitori è eccessivo, soprattutto se sono soli, se non sentono al loro fianco operatori capaci di “contenerli” e di progettare con loro, di trasmettere fiducia nel giovane handicappato e di condividere i rischi di questo “andare verso” un mondo non sempre accogliente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                        

 

 

 

 

                     3. Il disabile mentale. Un ruolo sociale da raggiungere.

 

Il nostro lavoro di operatori dell'integrazione sociale e lavorativa di handicappati mentali, ovvero gli operatori della mediazione, ci costringe quotidianamente a riflettere sullo sviluppo emotivo-affettivo delle persone disabili e sulle loro capacità di porsi in relazione con il mondo.

La nostra attenzione professionale si è quindi centrata, in questi ultimi tempi, sull'evoluzione del sé inteso nel senso che Winnicott attribuisce a questo termine. Alla base di questa nostra “attenzione” sta la considerazione che il concetto del sé, ovvero dell'identità, fa riferimento, secondo Winnicott, da un lato a fattori biologici e organici, ma dall'altro è la risultante dell'incontro di un “Sè” potenziale o “centrale” con l'”ambiente” nel senso più estensivo del termine e con le esperienze e soprattutto con le esperienze affettive precoci.

Noi pensiamo che gli handicappati possano, come dice Winnicott, “portare un contributo alla fecondità culturale del mondo che è prerogativa anche dell'ultimo di noi”, ma che questo contributo possa avvenire solo a fronte di un'accettabile costruzione del sé, di un ingresso sufficientemente consapevole nella dimensione dell'”Io sono”. Per quanto concerne in concetto di “falso Sè” ci basterà ricordare in questa premessa che Winnicott, a cui si deve questa espressione, lo definisce una specie di malattia psicologica “derivata dalla precoce carenza ambientale”.

In sostanza il falso sé è una sorta di camuffamento compiacente messo in atto da una persona (bambino) che non avendo incontrato una figura materna “sufficientemente buona” si vede costretto, acquiescendo alle richieste ambientali, a plasmarsi addosso atteggiamenti e stili relazionali recitativi e irreali.

Se ci mettiamo nei panni di un handicappato, come possiamo ipotizzare ciò che egli prova? Quale potrà essere la percezione di sé nel rapporto che egli costruirà confrontandosi con i normali? La percezione di noi stessi nasce dai confronti diretti. So che sono basso di statura perchè mi confronto con gli altri che sono alti. Ma essa nasce anche dalle comunicazioni interattive che riceviamo, cioè dalle differenze con cui le persone significative si rapportano con noi e con gli altri.

Vivere in mezzo agli altri con un corpo diverso o una mente diversa mette a disagio e spinge a compiere sforzi enormi, per mimetizzarsi e cancellare la diversità. Osserviamo infatti che i bambini handicappati, quando non sono ancora consapevoli della propria minorazione, spontaneamente sembrano adattarsi al proprio corpo compromesso, organizzando la realtà in base alle proprie possibilità residue.

Il bisogno di cancellare la “diversità” ossessiona l'handicappato. Il limite prestazionale è certamente spiacevole perchè il mondo è a misura dei sani e gli atteggiamenti compensatori dell'handicappato non sono mai del tutto efficaci. Il confronto con l'efficienza dei sani è frustrante.

Essere  “disadattati” è la risposta inevitabile di chi si accorge di essere inserito in una partita dove gli viene assegnata, per definizione, la parte perdente. Come sfuggire a questa sorte? Quale strategia perseguire per avere speranze di ottenere qualche vittoria? Le strategie consuete, che usano i sani, non sono utili: secondo “quelle” regole, infatti; l'handicappato è perdente, non ha le “mosse” che fanno vincere e deve rassegnarsi. La comunità tende a considerare la persona compromessa come “fuori gioco” in tutto.

Quando l'handicap si evidenzia in un soggetto, questi viene a trovarsi, rispetto ai suoi simili, in una posizione di estraneità, come una pedina rossa che pretenda di giocare su di una scacchiera dove si muovono solo pedine bianche e nere.

E' duro fare l'esperienza di essere sbagliati; o di essere confrontati con richieste impossibili; o di verificare che per gli altri i nostri risultati sono sempre al di sotto delle speranze.

La pedina diversa, che si accorge d'essere capitata su di una scacchiera dove non è come gli altri pezzi, tende a mettersi ai margini, ad astenersi dal partecipare al “gioco” per quanto possibile. Questa infatti sembra essere la reazione spontanea dell'handicappato quando sceglie di assumere l'atteggiamento di spettatore: di fronte alle attività dei compagni non si coinvolge ma, appartato, guarda, a volte intimidito, a volte tacitamente partecipe, mai audace al punto di entrare direttamente nel gioco o nel lavoro degli altri.

Atteggiamenti ambivalenti verso gli handicappati sono stati presentati fin dall'antichità nella cultura occidentale. Ma il peso di atteggiamenti improntati alla massima emotività permane anche nella nostra epoca. In Grecia gli handicappati venivano fatti sparire, come prescrive Platone nella Repubblica, addirittura uccisi come a Sparta. A Roma si assumevano atteggiamenti contraddittori verso questa classe di cittadini: infatti da un lato era prescritto che essi venissero protetti, dall'altro che fossero eliminati. Nel Medio Evo gli handicappati erano considerati pegno della misericordia divina che offriva ai sani l'occasione di redimersi ma anche testimonianza dell'opera del demonio. La politica adottata verso di essi tendeva a segregarli dal tessuto sociale, relegandoli nei grandi ospedali, luoghi ad un tempo di carità e di prigionia. E' necessario arrivare al XVIII secolo, con il movimento illuminista, perchè si apra una prospettiva che renda possibile un approccio scientifico al problema. Tuttavia, ancora agli inizi del XX secolo, i soggetti fisicamente compromessi vengono considerati criminali potenziali e condannati alla segregazione ed alla perdita dei diritti più elementari. La società, infatti, si riteneva arbitra di operare in tal senso per proteggere se stessa da una sorta di inquinamento genetico e sociale.

Al di là di questi fenomeni del passato, è esperienza comune a tutti noi l'avvertire un senso di disagio, di rifiuto, di fronte a una persona compromessa. Questa perciò si trova a vivere in mezzo a rapporti che costantemente le inviano la sua immagine come fonte di ripugnanza, imbarazzo, frustrazione.

La ferita narcisistica della madre in seguito alla nascita di un figlio compromesso è ben comprensibile. Basti riflettere che già duemila anni fa la madre dell'handicappato era guardata come la colpevole di un misfatto. La letteratura meno recente ha concentrato l'attenzione sulla frustrazione materna . Ma ai nostri giorni anche il padre risulta sperimentare reazioni di sofferenza e d'angoscia simili a quelle descritte nelle madri. Questi disagi vengono inevitabilmente comunicati all'handicappato e incidono sull'idea che egli si fa di se stesso.

 

 

Attraverso l'integrazione lavorativa, ovvero l'assegnazione di ruoli sociali attivi, può essere rivolta alla società una piccola opportunità di approfondimento sulla diversità e sulla sua accettazione.

Nel mondo degli adulti il Ruolo è ciò che lega il singolo individuo alla complessità sociale e regola ogni rapporto tra le persone all'interno della società stessa. Non c'è, quindi, per il disabile, speranza di integrazione senza assegnazione di ruolo che, in questa prospettiva, diventa, come dicono i sociologi, una sorta di mediatore tra le persone singole e la struttura.

Per capire il disabile nel mondo dei grandi, e più in generale il concetto di ruolo, dobbiamo riferirci ad un altro concetto, quello di “Status”, da cui il ruolo è inseparabile.

Potremmo definire lo “status” come la posizione sociale assegnata ad un individuo, che la persona occupa ponendosi in relazione con gli altri status. Quando il soggetto, all'interno della posizione socialmente assegnata, si fa carico dei diritti e dei doveri connessi, lo status diventa ruolo.

In questa prospettiva, quindi, il ruolo rappresenta l'aspetto attivo dello status: lo status in azione.

Rispetto ad un ipotetico destino da “Signor Rossi o Bianchi” del nostro giovane, questo ci fa pensare che questi ragazzi possono diventare “Signori”, ed esercitare quindi un certo potere sugli altri, solo a condizione che abbiano a loro volta un ruolo riconosciuto.

Il ruolo comporta l'acquisizione di regole comportamentali precise (imposte dalla complessità sociale), che possono essere apprese anche dal nostro giovane nel momento in cui gli è dato di conoscere con chiarezza ciò che ci si aspetta da lui e ciò che da lui deve essere compiuto, se vuole, attraverso il ruolo, essere partecipe del meccanismo sociale.

Il ruolo è un elemento fondamentale dell'identità, ma anche e soprattutto un fattore primario di apprendimento. Dunque l'unica vera riabilitazione, in senso psicosociale, per gli handicappati mentali adolescenti ed adulti, consiste nell'assegnazione di un ruolo sociale. Per questa via il giovane handicappato, almeno i parte “potrà essere ciò che fa” e, successivamente, nel momento che il ruolo diviene elemento dell'identità, potrà “essere ciò che è” almeno nella vita lavorativa.

In sostanza lavorare significa “introiettare” il ruolo, riconoscerne il potere, farsi carico dei doveri e dei diritti relativi e, per il tramite del ruolo, riconoscere quello degli altri mutando la qualità della socializzazione.

Il nostro aspirante Lavoratore non presenta particolari difficoltà di ordine cognitivo riferite all'apprendimento lavorativo. Certamente le sue capacità strategiche di problem-solving non sono particolarmente sviluppate, permangono spesso elementi di rigidità e difficoltà a trasferire gli apprendimenti. Per contro, nel sistema produttivo sono presenti numerose mansioni lavorative che richiedono capacità di pensiero di tipo associativo.

La partita sembra giocarsi sul piano relazionale piuttosto che su quello cognitivo e in questo settore il nostro Lavoratore può presentare seri problemi. L'immaturità emozionale, la difficoltà a comprendere il significato dei rapporti di ruolo è direttamente correlata alla storia educativa ed affettiva di colui a cui la società sembra vietare un destino da Signor Lavoratore, obbligandolo a restare nella nursery.

 

Credo che la prima considerazione che ci porta a riflettere sulla metodologia per un accompagnamento nel mondo dei grandi, vada riferita al fatto che tutti devono fare la loro parte. In primo luogo, naturalmente i genitori (ma con loro bisogna essere indulgenti); subito dopo gli educatori. Il secondo elemento che vorrei mettere in evidenza è il Fattore Tempo.

Per accompagnare un giovane disabile, ma sarebbe meglio dire per consentirgli di andare verso il mondo dei grandi, occorre molto, ma molto tempo ed è assolutamente necessario che questo tempo venga speso bene.

Questo tratto del viaggio è il più delicato, spesso il più incerto e in ogni caso va compiuto con ogni attenzione. Innanzitutto ci vuole un progetto che contempli tutto il percorso, i primi tratti e soprattutto gli ultimi, il “pre” e il “post”, come si dice nel linguaggio degli operatori.

Fare un progetto significa definire con precisione l'obiettivo realisticamente perseguibile ed attivare in successione tutte le tappe di un percorso che sia graduale ma soprattutto coerente con l'obiettivo stesso. Spesso in Italia, ma non solo nel nostro paese, vengono predisposti programmi pre- formativi, pre-addestrativi, pre-lavorativi dove il prefisso “pre” appare evidentemente un eufemismo, se non un'ipocrisia.

Se non c'è un corposo programma “post” che completi il percorso e che raccordi davvero il “pre” con il lavoro e con il ruolo, non dovremmo mettere questo prefisso solo alle attività ma anche alle persone.

Per operare l'inserimento con efficacia occorre che vi sia coerenza fra il progetto dell'attività formativa e quello della famiglia. Spesso si deve sostenere molto la famiglia.

“Io non sarei mai riuscita a lasciar crescere mia figlia, a consentirle di emanciparsi”, ha dichiarato (in occasione di una testimonianza, in un corso di formazione per operatori dell'inserimento lavorativo) la mamma di Silvia, una giovane persona Down anch'essa ausiliaria in una scuola materna.

“Senza l'aiuto dei suoi educatori non avrei mai trovato il coraggio di correre i rischi, di lasciarla sperimentarsi, anche negativamente”.

“Sono loro (gli operatori) che mi anno sostenuta, incoraggiata, dato fiducia, dividendo le responsabilità con me o scegliendo direttamente in modo autonomo”.

Molte delle difficoltà che Silvia incontrava nei tirocini, che via via gli operatori trovavano, non le ho neppure sapute, oppure lo ho conosciute quasi per caso, molto tempo dopo...”.

“Si trattava di esperienze di Silvia e mi pareva giusto che le vivesse da sola, come tutti i giovani. Però che fatica! Quante ansie! Quante fantasie!”.

La fiducia in Silvia e la stima grande negli operatori mi hanno aiutato molto...e anche le confidenze amichevoli che erano passate per la stessa esperienza”.

“...E poi vedevo Silvia crescere giorno dopo giorno...non era tutto facile...c'erano le parolacce, le ribellioni ma nel complesso l'esperienza era straordinaria.

C'è voluto molto tempo, un po' di fatica per tutti. Ora va tutto bene: Silvia ha realizzato proprio quello che desiderava per lei dalla vita”.

Attraverso la citazione letterale delle parole di una madre, abbiamo toccato indirettamente il discorso sul metodo. Silvia ed altri disabili inseriti in ruoli lavorativi nella città di Genova, hanno avuto a disposizione degli operatori che “via via trovavano dei tirocini per loro”.

Il “Post”, richiamato precedentemente, consiste proprio in questo: nella creazione di uno snodo efficace fra momento formativo e inserimento definitivo.

Questo raccordo, che è  rappresentato bene dall'Area della Mediazione, è costituito da Operatori Specializzati dotati di Progetti idonei, appunto alla mediazione.

 

E' interessante notare che in alcune aziende di Genova, per i  500 disabili inseriti in ruoli lavorativi, l'unica vera riabilitazione possibile sia stata “l'assegnazione di ruolo”; in tutto questo il fattore tempo rappresenta una variabile essenziale.

 Con le dovute cautele si è andati ad effettuare un sopralluogo ad alcune aziende in cui lavorano dei (finalmente) Signori Down.

Alcuni hanno iniziato da poco, sono ancora confusi e disorientati, parlano troppo, chiedono frequenti conferme su se stessi o sul loro lavoro; altri sono integrati da molti anni e sono entrati nel ruolo in modo più completo. In queste aziende ci si è soffermati più a lungo, la visita è stata più interessante. E' stato osservato, con compiacimento,come è cambiato il look, l'atteggiamento del Nostro. Porta la divisa da lavoro con naturalezza, il camice o la tuta, ha le mani sporche.

Non possiamo non notare l'essenzialità dei movimenti, basta un gesto, uno sguardo tra operai, per intendersi e coordinare il lavoro. Il tempo passa, lentamente, impegnato (a volte faticosamente) nelle cose da fare, le parole sono limitate alle esigenze dell'organizzazione.

L'essenzialità degli scambi, il silenzio fra le parole, consentono preziose pause. In questi spazi, a disposizione del Nostro, l'esperienza lavorativa viene (lentamente) metabolizzata e si costruisce (sempre lentamente) la nuova identità.

Seguiamo ancora un attimo il nostro Lavoratore che si è tolta la tuta, ha fatto (lentamente) la doccia e a conclusione di una giornata operosa torna a casa.

Qui incontra sua madre, anziana e sempre un po' apprensiva:

-Ciao!

-Ciao mamma.

-Cosa hai fatto oggi?

-Niente!

Questo “niente” sta per “non è il momento di raccontare” oppure “non ne ho voglia”.

Finalmente anche il Signor Lavoratore ha cessato di essere comunque e sempre disponibile alla narrazione. E' diventato capace di offrire a sé stesso (di pretendere) un tempo in cui ha bisogno per “incubare” le parole e i pensieri che si muovono all'interno della sua anima...e noi siamo contenti per lui.

Col l'aiuto degli operatori della mediazione, ma anche con il loro essersi allontanati da lui, ha imboccato la via dove è anche presente un silenzio che fa crescere.

Finalmente ha preso le distanze da un tempo troppo riempito e da una comunicazione senza pause, senza silenzi e senza reciprocità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                  

 

 

 

 

 

                                  4 .Lavoro e fasce deboli. Verso il lavoro: la mediazione.

 

     “Ma io non voglio fare né arti né mestieri”

     “Perchè?”

     “Perchè a lavorare mi par fatica”

     “Ragazzo mio”, disse la Fata, “quelli che dicono così, finiscono quasi sempre o in carcere

     o allo spedale.

     L'uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a fare qualcosa,

     a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall'ozio! L'ozio è una bruttissima malattia

     e bisogna guarirla subito, fin da ragazzi; se no, quando siamo grandi, non si guarisce più”.

     Queste parole toccarono l'animo di Pinocchio, il quale rialzando vivacemente la testa disse

     alla Fata:

     “Io studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perchè, insomma, la vita del bu-

     rattino mi è venuta a noia e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l'hai promesso,

     non è vero?”

     “Te l'ho promesso e ora dipende da te”.

 

 

                 Carlo Collodi

                  “Pinocchio”

             

 

E' storicamente dato che mondo del lavoro e universo della disabilità non hanno costruito strumenti e modalità di comunicazione. Anzi è vero piuttosto, che nella logica della difesa dell'omeostasi interna, il mondo del lavoro ha costruito barriere e filtri per salvaguardarsi dal pericolo della “diversità”.

Ecco allora un primo problema: cosa costruire per rendere possibile, proficuo e stabile l'incontro tra Sistema Produttivo e Universo della Disabilità? Ci pare che l'unico modo per rispondere alla domanda su “cosa” costruire per rendere possibile l'incontro tra due mondi così naturalmente lontani sia quello di progettare una metodologia dell'inserimento lavorativo.

Dotarsi di un metodo significa sostanzialmente stabilire dei criteri e delle norme secondo i quali compiere qualcosa.

Piccoli M. (1992) in un interessante lavoro sulla valutazione di un servizio di inserimento lavorativo afferma:

“...si impone di non trascurare il momento progettuale e quello valutativo con la consapevolezza che valutare significa anche mettere in crisi equilibri faticosamente raggiunti. Privilegiare la progettualità e la valutazione vuol dire privilegiare la qualità e l'efficacia degli interventi”.

E. Morin (1983) scrive: abbiamo visto come all'origine la parola metodo significhi tragitto, cammino. Nella ricerca del metodo, all'inizio, bisogna accettare di camminare senza sentiero e di accettare di tracciare il sentiero mentre si cammina. Il metodo dunque non può che costituirsi che nella ricerca. 

Ragionare di inserimento al lavoro di disabili significa inevitabilmente pensare in termini di progetto individuale.

L'Integrazione lavorativa ha senso se costituisce, caso per caso, una opportunità di crescita e di realizzazione personale. E' opportuno sottolineare questo principio. Il lavoro può essere infatti un grande contenitore per la crescita del disabile a condizione però che la fatica che questa esperienza richiede sia compatibile con le condizioni fisiche e psicologiche del soggetto.

“...la socializzazione al lavoro costituisce un processo assai ampio che coinvolge in toto l'esperienza del soggetto ed è anche in grado di mettere in discussione l'assetto delle strutture psicologiche attinenti alla sua identità personale” (Sarchielli G., 1978).

Occorre che la proposta di crescita verso il ruolo lavorativo sia compresa in un “PROGETTO DI VITA” e che non compaia quindi in modo astorico e al di fuori delle realistiche possibilità di sviluppo della persona.

L'inserimento al lavoro di disabili è possibile predisponendo un percorso individualizzato, compatibile con le caratteristiche del soggetto e con le esigenze del sistema produttivo.

Ognuno nell'aderire ad una organizzazione partecipa con la propria soggettività. Tuttavia, mentre in alcune organizzazioni una forte presenza soggettiva può essere apprezzata, nelle organizzazioni produttive, di massima, un eccesso di soggettività determina fastidio, risposte difensive se non addirittura espulsive.

In questa prospettiva possiamo dire che il lavoro è un compromesso tra esigenze soggettive e richieste di adattamento.

Il mondo della disabilità nelle sue varie componenti rappresenta una sintesi della “diversità” e quindi della “soggettività”. Dall'altra parte l'organizzazione percepisce come minacciosa rispetto ai suoi obiettivi la presenza di un possibile turbamento al proprio equilibrio interno.

La nostra idea è che il disabile sia vissuto come perturbante del sistema produttivo non tanto perchè incapace di adeguarsi alle richieste produttive, ma come possibile minaccia all'integrità dei compromessi che regolano l'organizzazione.

Un poetico esempio di quanto l'organizzazione produttiva tenda a difendersi dalla diversità ce lo ha offerto Maurizio Nichetti nella parte iniziale del suo film “Rataplan”.

Tutti ricorderanno che il film inizia con una selezione aziendale alla quale partecipano numerosi giovani che si presentano elegantemente vestiti. A loro viene proposto un famoso test proiettivo che consiste nel disegnare un albero. Alla fine del lavoro tutti gli alberi disegnati risultano estremamente poveri, rinsecchiti, senza foglie e radici. Tutti rigorosamente disegnati in bianco e nero e uguali tra di loro. Solo il protagonista presenta il disegno di un albero molto colorato con foglie e frutti e forti radici. Un disegno ottimista e creativo. Naturalmente tutti verranno assunti escluso il nostro povero protagonista evidentemente troppo creativo e quindi “pericoloso” per le regole di quell'azienda.

Ma per ritornare al mondo della disabilità e alla metodologia che può rendere possibile l'inserimento al lavoro possiamo dire che percorrere la distanza tra Universo della Disabilità e Sistema Produttivo (sfida metodologica) significa: rendere compatibile la “soggettività” del disabile con la “oggettività” del sistema produttivo (cioè le regole, i comportamenti, gli adattamenti, il clima, le richieste produttive).

E' soprattutto nella capacità di adattarsi agli equilibri e alle relazioni interne al sistema produttivo che si gioca per i disabili la vera partita dell'integrazione lavorativa.

Nel progettare una metodologia che faciliti e sostenga il disabile nel suo percorso verso il lavoro occorre tenere presente che i problemi di adattamento alle regole organizzative sono spesso accompagnati e potenziati da almeno altri due elementi:

Il primo è costituito dal fatto che i disabili appartengono a “categorie”.

Le categorie sono dei contenitori convenzionali all'interno dei quali spesso le persone sono forzatamente inserite.

Quando si dice che una persona è handicappata piuttosto che tossicodipendente o alcolista immediatamente scatta nell'immaginario collettivo un processo di “individuazione-giudizio” che, trascendendo la persona, raccoglie e utilizza gli stereotipi sociali che tipizzano quella categoria.

Il ruolo sociale di quella persona è così in qualche modo predeterminato non dalle sue effettive caratteristiche personali e da come queste ultime interagiscono con il mondo, ma dalla sua appartenenza a una categoria piuttosto che ad un'altra. (Wolfensberger W., 1991).

Uno dei pregiudizi che accompagna questa “categoria” di persone nella nostra cultura è quello che, essendo queste persone di solito immature o infantili, non possano accedere a ruoli sociali adulti (l'autonomia, il lavoro, la sessualità). Ricordo che quando nei primi anni arrivavano nel Centro in cui lavoro i nostri utenti, il loro essere handicappati era chiaramente visibile. Non erano solo le stigmate dell'handicap che ne sancivano la diversità, ma il loro essere e proporsi nel mondo. Indossavano abiti smessi dai parenti, troppo larghi o stretti, come se per loro fosse poco importante ciò che oggi definiamo il look, la visibilità sociale.

Tutti sappiamo che questo atteggiamento generalizzato ha determinato una totale caduta di aspettative nei confronti di queste persone tanto da indurci a dire che fino a pochi anni fa non esisteva un immaginario collettivo che prevedesse che gli handicappati mentali possono diventare adulti.

Un secondo elemento è legato al fatto che il “valore” dei disabili sul mercato del lavoro è molto basso. Per i disabili non c'è “spendibilità” sul mercato del lavoro anzi, i bassi contenuti di scolarità e la frequente inesistenza di un percorso formativo, sono motivi, di un ulteriore ostacolo lungo il percorso verso l'inserimento lavorativo.

All'interno di questo scenario la metodologia proposta diventa una metodologia della mediazione.

Il passaggio dalla disabilità al lavoro può diventare reale e realizzabile se lo spazio dall'Universo della Disabilità al Sistema Produttivo diventa area della mediazione.

Bauleo (1981)sostiene che la sfida metodologica è dunque quella di individuare e definire i contenuti specifici dell'area della mediazione. La corretta e completa individuazione di questi contenuti significa in altre parole evidenziare quelle che in esordio abbiamo definito le condizioni necessarie e indispensabili affinchè due mondi complessi e ontologicamente lontani possano entrare in comunicazione.

L'area della mediazione può essere definita come uno spazio metodologico collocato tra disabile e sistema produttivo all'interno del quale agiscono operatori specializzati inseriti in gruppi operativi e dotati di strumenti di mediazione capaci di lavorare per progetti. La progettualità dell'operatore deve poggiare su un mandato sociale che, se sarà forte preciso e sostenuto a livello politico-istituzionale aumenterà in modo determinante le possibilità di successo.

Gli strumenti di mediazione sono degli “attrezzi” che consentono all'operatore di addestrare/integrare cittadini disabili all'interno del sistema produttivo e in diretta collaborazione con esso. Mi piace immaginare i progetti di inserimento lavorativo come gli “attrezzi contenuti nella borsa dell'operatore” e quest'ultimo come un artigiano capace di progettare, costruire, usare e mantenere i propri strumenti di lavoro. In questa logica l'operatore della mediazione sarà in grado di mettere a punto diversi progetti per consentire di colmare tratte differenti del percorso verso il lavoro.

L'inserimento lavorativo rappresenta molto spesso per le persone disabili una forte occasione di crescita relazionale e professionale ancorchè uno straordinario contenitore dell'identità.

Gli effetti riabilitativi collegati con il ruolo lavorativo sono tanto più significativi quanto il ruolo affidato è percepito dal disabile come vero, reale, utile, intercambiabile con gli altri lavoratori e quindi non costruito ad hoc per lui.   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

             

5)      Counseling e disabilità. Tipologie e modelli di intervento.

 

Incontrando un disabile, psichico e/o fisico, il nostro atteggiamento di aiuto, la nostra relazione di sostegno, assumono dei connotati particolari: se non si ha molta esperienza nel rapporto con le persone disabili il nostro atteggiamento prenderà come esempio le precedenti relazioni avute con i disabili, questo comportamento, tra virgolette, pregiudiziale va vagliato criticamente, infatti un buon counselor non ferma la sua conoscenza alle impressioni di senso comune. I copioni di comportamento di un disabile passano tutti attraverso il filtro della propria disabilità. Il disabile è costretto a fare i conti quasi in ogni momento con quella particolare caratteristica che pervade ed informa tutto il suo vivere quotidiano; questa particolarità è tenuta sempre presente anche dagli altri che entrano in rapporto con lui. Questo ancoraggio ad una specifica e difficilmente modificabile situazione porta il disabile e chi gli sta intorno a concentrarsi su alcune caratteristiche del suo essere e ad evitarne altre, per questo motivo la personalità di quell’individuo è spesso portata ad incarnarsi in un’espressione idealtipica, tendente alla purezza di una o più tipologie.

La personalità dei disabili non prescinde la disabilità, la quale entra dentro oppure è già dentro, questo dipende dalla natura della disabilità (fisica, mentale, genetica, traumatica, natale o post-natale, degenerativa o stabile).

Il disagio connesso alla disabilità è intimamente connesso alla relazione ed alla comprensione del corpo, della mente, degli altri e del mondo. Utilizzando le forme mentali di Gardner  e le sette modalità di comunicazione educativa tipiche della teoria di Prevenire è possibile si può dare una lettura inedita delle varie forme di disabilità e dei vari approcci di counseling utilizzabili con questi disagi. Alla base di questa teorizzazione risiedono le classiche sette emozioni di base, le quali incarnano i sette idealtipi su cui si fonda il nostro artigianato educativo.

L’handicap si manifesta come un visibile e concreto problema su cui individuare la specificità di un intervento ed offre l’occasione di distinguere con precisione i diversi interventi. Questo contesto estremo è una chiara bussola per l’osservazione e l’intervento su disagi meno gravi. La corretta educazione psicomotoria è ricerca di equilibrio e le diverse tecniche (anche in connessione con esercizi di musicoterapia) sono strumenti funzionali a questo o a quello specifico tipo di sviluppo necessario a questo o a quello specifico problema. Il counseling psicomotorio ha lo scopo di armonizzare i movimenti corporei e non richiede, in linea di massima, interventi specialistici ma solo la competenza di comprendere e proporre forme di gioco corporeo consone con le diverse tappe di sviluppo. Lo stesso vale per la psicomusicalità, l’uso della musica è infatti un ottimo intervento di counseling utile a distinguere quali modi e quali motivi siano più idonei a quello specifico disagio. La finalità di questo tipo di intervento è quello di sviluppare quei comportamenti importanti per l’acquisizione di determinate capacità, chiaramente individuate, in funzione delle carenze che conducono al disagio.

Il counseling con le persone disabili si contraddistingue per la specificità dell'incontro di aiuto con le persone disabili. Incontrando un disabile il counselor non può mascherare la disabilità di quella persona: il disagio connesso alla disabilità è intimamente connesso alla relazione ed alla comprensione del corpo, della mente, degli altri e del mondo.

 Il disagio è rappresentato dalla tensione di sforzo verso un nuovo equilibrio tra piacere corporeo e controllo, tra simbolo e attività, tra attaccamento affettivo e cognizione.  

La prevenzione del disagio è l'intervento di aiuto in cerca di un riequilibrio che, verrà descritto orientando verso alcuni modelli di intervento psicomotorio piuttosto che altri, a seconda dei tipi psicologici di disagio. Ad ogni tipo verranno messi in corrispondenza alcuni possibili interventi di counseling psico-motorio finalizzati ad una rieducazione nei confronti dei diversi portatori di handicap:

 

L'eccesso di piacere senso motorio (l'idealtipo dello “sballone” o nel linguaggio riferito ai bambini “gongolo”) si presenta come un individuo scatenato e incontenibile, allegro e giocoso, che ama mettersi in mostra, parla in continuazione. E' vanitoso; passa da una emozione all'altra, nei momenti di vuoto si annoia. Ricerca sempre il gioco, si muove senza sosta, disturba le attività di gruppo. Il disabile-sballone tende alla esclusiva ricerca del piacere nei suoi movimenti e nelle sue azioni: lancia oggetti, rompe i giochi, evita la concentrazione ed il gioco costruttivo ed ordinato; nei momenti critici di esaltazione perde ogni forma di controllo di sè, trema, si agita. L'intervento di counseling adatto a questa tipologia di disagio consiste nel dare stabilità alle sue azioni e, nel diminuire l'intensità, aumentarne la durata. Ha bisogno di disciplina. Sono da evitarsi giochi e attività come correre in forma libera, saltare o agitarsi senza controllo o urlare. L'armonia psicomotoria può essere raggiunta attraverso l'ascolto di brani musicali rilassanti.

 

L'eccesso di controllo senso motorio (l'idealtipo dell' “avaro” o, nel linguaggio educativo riferito ai bambini “brontolo”) è preciso e meticoloso, con grande autocontrollo e con una forte padronanza delle azioni. Preferisce stare fermo piuttosto che agire di impulso, appare molto equilibrato ma sempre teso e contratto. Le azioni gli costano un grande sforzo perchè ha una enorme paura di sbagliare. Ha bisogno di scoprire il piacere del rilassamento e dell'azione libera e appagante, di fare giochi liberi, scatenarsi per scoprire le sue potenzialità e concedersi di commettere errori al fine di esplorare le parti di sé che non conosce. Sono utili per lui giochi come lo scivolo, l'altalena, rotolare per terra, galleggiare nell'acqua, saltare.

 

L'assenza di simbolico (o eccesso di attivazione, il “ruminante” nel linguaggio degli idealtipi o nel linguaggio dei bambini, “eolo” e la potenza dei suoi starnuti) è l'energico attivatore, reattivo, forte, trascinatore che sa imprimere carica alle sue azioni. Le sue energie lo portano ad essere iperattivo perchè è specialista nella durata e nella resistenza, oltrechè nella potenza. L'intensità delle sue azioni lo conduce, quando è contrastato, alla violenza sugli oggetti e sulle persone giacchè la sua volontà di azione lo rende prepotente ed aggressivo. La sua azione e il suo disagio si manifesta sovente in atteggiamenti di “bullismo”. Se non agisce il suo ruminamento interno si rivolge contro di sé conducendolo alla depressione.

Il disabile ruminante ha bisogno di trovare ritmo e armonia interna; di avere proposti giochi ritmici, soprattutto in coppia; di apprendere l'ascolto della musica in movimenti liberi e spontanei. Organizzare diverse ipotesi di movimento e di scioltezza espressiva,  l’aiuta a conoscere l’ armonia e fa crescere in lui quella sensibilità musicale che rende più duttile e meno intenso, e violento, il suo rapporto con la realtà. La possibilità di apprendere un ritmo passa attraverso esercizi ed attività motorie apprese attraverso il gioco di gruppo, il camminare, il nuoto, il tennis e gli esercizi che, partendo dalla osservazione del ritmo cardiaco e respiratorio lo portano ad un maggiore ascolto di sé.

 

L'eccesso di attaccamento (l'”adesivo” o nel linguaggio educativo con i bambini “cucciolo”) non si distanzia dalle cose e dalle persone e non entra in contatto con il sé. E' un individuo lento, impacciato, che tende al sovrappeso per un rapporto non equilibrato con il cibo. Tendenzialmente è incline alla bulimia. Manifesta movimenti ripetitivi e di dondolio. Per questo può essere utile imparare ad ascoltare se stesso, il battito del suo cuore, a posizionarsi nella relazione con gli altri, valutare le distanze tra il corpo e gli oggetti, svolgere giochi creativi. L'attività psicomotoria più utile è rivolta alla scoperta dell'equilibrio, della coordinazione e dell'abilità: Camminare e correre un lungo percorso, camminare rappresentando animali, in equilibrio su blocchi, lanciare un pallone con mira, prendere al volo una pallina, camminare a quattro gambe. Può essere utile attivare forme espressive connesse alle tecniche di respirazione (soffiare sulla candela, soffiare nelle mani emettendo suoni, soffiare palloncini,soffiare su piume, bolle di sapone e, successivamente, trasformare il soffio in sibili, il sibilo in fischio). Nei soggetti con sindrome di Down l'età mentale è ritardata rispetto all'età cronologica e il loro ritardo di apprendimento si accompagna a modelli di comportamento più infantili. Ciò consente una facile integrazione con le altre persone che spesso lo accettano e lo proteggono. Il problema del suo sviluppo è generato spesso da questa accettazione che non lo mobilita alla crescita e all'accrescimento delle sue potenzialità. Al counselor può essere riconosciuto il merito di stimolarlo nella sua crescita accompagnandolo anche attraverso l'ascolto della musica melodica.

 

L’eccesso di simbolico (è individuabile nell’ invisibile” o “mammolo” nel linguaggio educativo con i bambini). Il disabile invisibile è un introverso che non riesce a gestire la sua sensibilità per l'eccesso di significati che percepisce dai segnali della realtà. Quando i significati sono troppo carichi di simboli inquietanti vive in un mondo che lo sovrasta e lo minaccia e rischia di precipitare in forme di relazione fobica con gli oggetti. Si sente piccolo e indifeso, inferiore agli altri e incapace, inutile e intrappolato nella vergogna o nel panico. La sua sensibilità, quasi sensitiva, lo può condurre a vissuti autistici nei quali rischia di rimanere intrappolato. I suoi percorsi di crescita mediante attività psicomotoria si centrano sulla liberazione del coraggio, dell'attivazione e dell'intraprendenza. Le attività motorie consigliate e i giochi consigliati sono: camminare, correre, saltare, arrampicarsi, orientarsi, fermarsi a comando, riprodurre i movimenti degli altri, camminare su tracciati, su cordicelle riposte a terra per consolidare l'equilibrio ed imparare a gestire la vertigine, utilizzare attrezzi, sviluppare la lateralità e la propria posizione salda nella realtà.

 

L'eccesso di distanza (il “delirante” o “dotto” nel linguaggio educativo con i bambini) è disarticolato nel suo sviluppo motorio pur esprimendo grandi potenzialità nel pensiero cognitivo; il suo è il risultato di un distacco precoce dal coinvolgimento affettivo con gli oggetti e le persone, con il suo stesso corpo, tra i suoi pensieri e le sue comunicazioni, tra il suo linguaggio verbale e non verbale. Non è capace di gestire con proprietà il suo spazio di azione e nei movimenti è maldestro; è rigido, con una deambulazione disordinata e contratta, il collo teso, le braccia a penzoloni, manca di coordinamento; pertanto riesce malamente in quasi tutti gli sport. Gli può essere utile camminare in tondo, seguire il muro dell'aula percorrendola tutta ripetutamente, seguire una linea in terra proponendo a tali giochi un senso, una trama ed uno svolgimento affinchè il distacco della attività mentale e cognitiva non diventi un eccesso. La musica è un efficace strumento per tale fine: una marcia militare con battute del tempo su un tamburo, l'uso di nacchere, l'accoppiamento tra scarabocchi e percussioni con la finalità di costruire processi associativi o riassociativi.

 

La caduta di motivazione (l'”apatico” o “pisolo” nel linguaggio educativo con i bambini) è un pigro che tende a rinunciare all'attività corporea per la fatica e l'impegno che richiede. Il disabile apatico tende a scivolare nell'indolenza e nell'ascolto di sé, dei suoi sogni e delle sue fantasie esprimendo in esse il meno possibile delle sue energie. I motivi dell'apatia sono molteplici: mancanza di stimoli, condizioni di emarginazione e solitudine, mancanza di affetto o, sovente, autoanestesia per evitare di percepire dolori interiori. Scivolano nell'apatia alcuni soggetti (sindrome di Williams) che hanno avuto problemi neonatali (prematuri, sottopeso, asfissia neonatale,...) con rischio di morte improvvisa. Le loro madri hanno vissuto una tensione affettiva impressionante e si sono dedicate a loro con lo sforzo di trasferire la loro energia vitale nel bambino che stava scivolando nella morte. Ciò ha fatto sì che “occupassero” parte della mente del bambino per sostenerlo nella “esistenza di vita”. Tale sostegno è proseguito nel corso del processo educativo ed ha determinato un distacco dall'attaccamento materno critico nell'area della motivazione. Tali soggetti non riescono ad avere motivazioni forti all'azione giacchè la tensione all'azione vitale è stata occupata in maniera preponderante dalla presenza materna. Si possono collegare alla tipologia degli apatici gli insufficienti mentali sui quali l'intervento possibile passa attraverso lo sviluppo sensoriale che produce sviluppo dell'attenzione e dell'immaginazione. L'apatico va stimolato per uscire dall'apatia. La motivazione all'apatico può essere proposta attraverso attività come la “ginnastica tradizionale”, palleggi, lanci di palla a coppie, esercizi di equilibrio e di destrezza con oggetti e strumenti.

 

 

 

 

 

 

                                                                     Il caso di Stefano.

 

Il counselor rispetto all'universo della disabilità si orienta verso la relazione d'aiuto di individui che  fanno parte di una rete sociale nella quale vanno orientati verso una situazione di vita migliore. Dovendomi occupare dell'inserimento lavorativo di disabili mentali mi sono dovuta improvvisare al contempo operatore della mediazione e counselor.

Il caso di cui mi sto occupando prevede un progetto su un disabile mentale di media entità che la mattina frequenta il centro in cui lavoro. Il suo nome è Stefano; ha 30 anni; è affetto da epilessia e deficit cognitivo, paresi facio-brachiale dx,disprassia fono articolatoria. Dall'analisi dei punteggi del VAP-H emergono tratti psicopatologici relativi alle difficoltà relazionali di base, all'instabilità emozionale e alla ricerca di attenzioni. Orfano di padre da molti anni; vive in un piccolo paese.  Stefano è stato per una quindicina d'anni inserito nel gruppo che fa attività di giardinaggio e nel gruppo di giovani atleti che fanno parte della squadra di atletica leggera del nostro Istituto. Abbiamo pensato per lui ad un tirocinio di formazione in situazione. Si tratta di una modalità di addestramento lavorativo per giovani handicappati che si realizza attraverso stage individuali in situazioni lavorative all'interno del normale mercato del lavoro.

Questa modalità addestrativa comporta l'erogazione al tirocinante di un premio di incentivazione mensile calcolato sulle ore di presenza in azienda. Durante il periodo di addestramento il tirocinante non stabilisce rapporto di lavoro con l'azienda e quest'ultima non assume obblighi di ordine economico e giuridico. Il TFS è finalizzato all'addestramento lavorativo e non viene pertanto chiesto all'azienda lo sbocco occupazionale. L'obiettivo che si voleva raggiungere con questo progetto è quello di consentire la maturazione complessiva della personalità di Stefano e la progressiva acquisizione di capacità lavorative. Gradualmente, dopo l'ingresso in azienda, Stefano ha iniziato a cimentarsi con le regole aziendali, le attività lavorative, le relazioni sociali in azienda, il “vero” e il “concreto” della produzione. Il confronto con questi fattori è avvenuto molto lentamente ed è stato determinante ai fini di costruire nel giovane inserito l'avvio di un percorso verso l'autonomia lavorativa.

Ogni impresa ha una sua specificità organizzativa ma anche una sua storia e, in definitiva una sua personalità. Per inserire Stefano abbiamo cercato un'azienda di tipo familiare, una bottega di oggetti d'arte che Stefano già conosceva perchè è ubicata a pochi metri dalla sua abitazione. Il lavoro di Stefano consiste nel caricare i pacchi sui mezzi, consegnarli nelle abitazioni, sgombrare e spazzare il locale in cui gli operai sono impegnati nel lavoro manuale e nella manifattura di oggetti di arredamento.

 La bottega artigiana è il primo modello organizzativo anche da un punto di vista storico. E' un sistema costituito da un numero limitato di persone ed è fondato sui legami affettivi che si determinano tra una figura centrale (il capo, il maestro) e i discepoli.

L'esempio storico più banale è la bottega artigiana del Rinascimento nella quale gli allievi ruotano attorno al maestro. In questo sistema organizzativo la figura di autorità non può essere messa in discussione pena la diaspora. In effetti quando il discepolo supera il maestro in abilità deve lasciare quella bottega per costruirne una sua. Nella bottega artigiana le attività avvengono attraverso l'imitazione del maestro e tutto si svolge in un clima emotivamente intenso.

E' un modello molto diffuso nel nostro paese e tradizionalmente collegato con l'impresa familiare. Spesso infatti nella bottega artigiana lavorano i figli e i parenti del “capo”. Il prodotto è poco standardizzato ed esistono spazi per la creatività, il clima è di tipo familiare iper-affettivo, possiamo riscontrare dedizione, altruismo e disponibilità ad insegnare il mestiere.

Stefano conosceva dall'infanzia il gestore della bottega in cui è stato inserito, per cui il primo giorno si è presentato al lavoro tranquillamente, come del resto gli era stato consigliato; vestito coerentemente al suo look che è sempre sportivo, pratico, curato e pulito. Più difficile è stato per Stefano accettare il cambiamento di ruolo e vivere il senso di appartenenza, l'identità, la gratificazione, le ansie persecutorie e depressive, il rapporto con l'autorità, la motivazione lavorativa: elementi psicologici soggettivi che trovano, nel modello organizzativo di appartenenza, una loro collocazione e un loro senso.

Al di là delle speranze e degli auspici, infatti, nel processo di adattamento tra organizzazione e persona è a quest'ultima che viene richiesto lo sforzo maggiore. Vale quindi la pena di valutare attentamente, mentre ci si accinge alla delicata operazione di inserire una persona debole all'interno di un sistema organizzativo, quanto i meccanismi di difesa di quella persona sono compatibili e adattabili con le caratteristiche peculiari di quel sistema.

Nel processo di socializzazione al lavoro, l'importanza del clima è fondamentale. Per Stefano la difficoltà maggiore è stata quella dell'”imparare a lavorare” piuttosto che quella di “imparare un lavoro”. Imparare un lavoro è un processo collegato essenzialmente con l'apprendimento di una serie di compiti e di mansioni più o meno difficili da un punto di vista cognitivo.

Imparare a lavorare è invece riferito alla capacità di introiettare il ruolo lavorativo, al “mettersi dentro” compiti e mansioni ma, soprattutto relazioni, modi di essere, valori.

L'imparare a lavorare è quindi molto collegato alla interazione del singolo con gli altri lavoratori e con il gruppo e per questo, in definitiva, fortemente condizionato dal clima organizzativo di quella specifica azienda all'interno della quale si sviluppa il processo di socializzazione.

La socializzazione al lavoro di Stefano ha innescato un processo di maturazione e sviluppo tali in lui, grazie al quale è  finalmente diventato “persona”. Attraverso questo processo di socializzazione continuo il comportamento di Stefano si è sviluppato e  strutturato specialmente da quando è entrato in contatto con gli altri lavoratori. Con ciò voglio dire che la persona non “dipende” più, nella relazione, dal suo modello ma anzi, potrà stabilire con esso una relazione attraverso il ruolo.

Non potendo somministrare a Stefano il questionario di artigianato educativo per conoscere meglio la sua personalità, sono riuscita tuttavia ad individuare a quale tipologia potesse meglio rientrare sottoponendo al mio amico Franco, nonché suo operatore all'interno del Centro, la griglia di osservazione per bambini di età compresa fra i 5 e gli 11 anni. Franco, all'interno del cui gruppo Stefano è stato inserito per oltre 15 anni, ha letto insieme a me le osservazioni incentrate sui  comportamenti previsti nella griglia e conoscendo molto bene il ragazzo ha riflettuto attentamente e risposto altrettanto minuziosamente alle risposte dalle quali è venuto fuori un quadro chiaro sulla personalità di Stefano. Abbiamo segnato con molta attenzione le risposte e alla fine abbiamo contato per ogni tipologia il totale di quelle segnate: è venuto fuori che su 18 osservazioni sull'avaro ne abbiamo segnate 12 (il massimo punteggio), seguito dallo sballone con 7, dal ruminante 6, invisibile 5, apatico 4, adesivo 3, delirante nessuna. Dal profilo delle osservazioni e dalle risposte sono venuti fuori i seguenti comportamenti: Stefano, da buon avaro, è ordinatissimo; puntuale; preferisce fare qualunque cosa in cui sa di riuscire bene;  è consapevole delle sue qualità; cura l'abbigliamento; tutti sono suoi amici, ma non ha un amico del cuore; non esprime sogni, fantasie e progetti. E' però anche sballone perchè ama mettersi in gioco, mangiare con gusto, divertirsi, scherzare; E’ anche ruminante: quando non si sente capito reagisce impetuosamente, manifestando scatti d'ira, poi dopo si deprime scadendo nell'arausal.

Al lavoro Stefano riconosce il “capo” come l'autorità che possiede carisma e competenza, sceglie, istruisce e dà senso di appartenenza ai suoi operai. Avverte che le decisioni del capo sono indiscutibili, anche se i processi di comunicazione sono ampi e spontanei. Inoltre il capo distribuisce affettività. Egli ha assegnato inizialmente alcuni compiti a Stefano sulla base delle sue abilità anche se la divisione dei compiti in questo tipo di azienda è basata sul rapporto affettivo e sull'iniziativa personale. Stefano è coinvolto affettivamente col capo e con i compagni di lavoro; per lui infatti è importante “stare insieme”.

Per quanto riguarda la presenza del conflitto, anche se il capo non lo ammette e decide sempre come gestirlo, il nostro Lavoratore dà sempre sfogo alla sua rabbia se percepisce freddezza o rifiuto nei suoi confronti o se si sente respinto o sottovalutato nella sua capacità di lavorare. Una volta è andato ad accusare dal capo una dipendente che, a suo dire, gli ha rifiutato un bicchiere d'acqua fresca, rispondendogli – Se la vuoi c'è, ma calda! Stefano si era accorto che l'acqua in frigo c'era , perciò si è sentito preso in giro. La cosa che però ha creato maggiore tensione è stata la reazione improvvisa di Stefano al “rifiuto” dell'acqua fresca: ha urlato; battuto i pugni sul tavolo, gettato in aria le bottiglie e i bicchieri. Per contro Stefano, pur nel suo rigore, è anche una persona che talvolta si lascia andare a comportamenti sorprendenti dal punto di vista del godimento dei pochi momenti di svago che gli sono concessi sul posto di lavoro: alla macchinetta del caffè è gentile e garbato con tutti, è contento se riesce ad offrire un caffè, ride e scherza con chi fa la pausa con lui. E' felice se qualcuno lo lascia entrare un po' nel suo privato: ad esempio da un compagno di lavoro normodotato, al quale aveva donato una cassetta di albicocche,  ha accettato un invito che gli ha rivolto in occasione del compleanno di suo figlio. Ovviamente erano stati invitati anche altri colleghi alla festa; sono stati proprio questi a raccontarmi di come si è presentato: ben vestito, profumato, con un bel regalo; quella sera Stefano ha ballato, ha assaggiato ogni cosa;  mangiato con gusto, bevuto e si è divertito moltissimo integrandosi perfettamente con tutte le persone presenti alla festa.

Nel posto di lavoro Stefano è passato con una opportuna gradualità attraverso una serie di mansioni e di ruoli lavorativi reali ed ha incontrato regole comportamentali semplici ma precise. Con l'aiuto del nostro Servizio ha potuto esaminare serenamente le cose che non hanno funzionato e contemporaneamente incontrare un rinforzo ed un apprendimento realistico per quelle che hanno avuto esito positivo.

Dopo alcuni mesi di tirocinio e di addestramento lavorativo Stefano ha potuto confrontarsi finalmente con situazioni di lavoro e con esperienze relazionali, ovvero con situazioni in cui “ci si aspetta una persona intera”.

Attraverso queste esperienze il falso sé si è attenuato, Stefano si dimostra sempre più in grado di introiettare dei ruoli che gli conferiscono un'identità.

La nostra speranza e il nostro obiettivo sono quelli di consentirgli l'introiezione di “mattoncini” di esperienze positive che lo aiutino ad abbandonare con gradualità il falso sé e a strutturare un'identità più autentica.

Per aiutare Stefano a vivere più serenamente la sua disabilità e ad accettarla bisognerebbe secondo me continuare a gratificarlo nelle cose che sa già fare, incoraggiarlo nelle nuove e sostenerlo nella capacità di iniziare a pensare al suo futuro, verso cui non esprime alcun desiderio di cambiamento.

Probabilmente le caratteristiche della sua disabilità e la solitudine in cui si sente lasciato dalla famiglia, accentuano l'appiattimento e qualsiasi tentativo di andare oltre.

E’ anche vero però che Stefano ha uno sguardo da cui, nonostante la riservatezza e la delicatezza d’animo, traspare un sentimento di coraggio, di forza e di passione che lo rende, agli occhi di chi gli sta vicino più umano e sincero di tante altre presenze umane che non hanno i problemi che ha lui. Quasi una sorta di compensazione dei vuoti da riempire con le proprie, seppur minime, possibilità.

Quando a fine mese mi mostra la “busta paga” che altro non è se non il premio di incentivazione, sembra dimenticarsi di percepire anche la pensione di invalidità. In questa circostanza è anche emozionato e stringe  tra le mani il suo “bottino”. Lo sforzo di adattamento che Stefano ha messo in atto da quando lavora e percepisce il premio di incentivazione è qualcosa di arricchente nella sua vita, che, seppure segnata dallo stigma della disabilità, è un dono ineguagliabile e merita di essere vissuta nel migliore dei modi!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                      Il mio glossario della disabilità.

 

AMICIZIA: l’amicizia è un sentimento reciproco tra due persone. E’ conosciuta da sempre e ogni cultura le dà un proprio valore etico-sociale. Nel mondo dei disabili l’amicizia ha un gran valore di socializzazione e di coscienziazione, sia nell’interazione coi simili sia coi normodotati. Il disabile che ha amici è facilitato nell’accesso ai gruppi d’appartenenza e nel palesare i propri diritti. Nel mondo degli hh. È stata promossa una strategia per accedere all’amicizia. Di solito l’h. non sa suscitare amicizia, perché talvolta incapace di dialogare per suscitare empatia nell’altro. Ecco che gli educatori sono chiamati ad insegnare le abilità dell’amicizia. Possono essere utilizzate diverse procedure: il rinforzo sistematico (counseling del docente o di gruppo); il ruolo specifico di un modello che possa incorporare varie qualità, per esempio il “coaching”. Quest’ultimo è utile per i ragazzi con problemi mentali, perché gli sono mostrate varie abilità per fare amicizia fondando il tutto sulla dimensione cognitiva e comportamentale. Per esempio, molti studenti, avendo in classe un compagno h., vorrebbero esprimergli solidarietà, ma non sanno come comportarsi per suscitare amicizia, allora è opportuno che il coaching aiuti sia l’h. sia i compagni a costruire comportamenti positivi e concreti di “sostegno”. La psicologia ha evidenziato quanto sia importante l’apporto dell’amicizia per uno sviluppo positivo, in particolare per il disabile, per questo l’amicizia è valutata anche come opportunità di accedere ai pari, perché prenderà atto dei processi di identità culturale e linguistica che lo renderà partecipe della comunità, intrinsecamente sviluppando interazioni amicali. All’h. amichevole corrisponde l’idealtipo dello sballone che, come abbiamo visto prima è un simpaticone, si presenta come un individuo incontenibile e allegro, che cerca di trasformare ogni cosa in scherzo,  parla in continuazione, è vanitoso, fantasioso ma volubile. Passa da un’emozione all’altra, nei momenti di vuoto si annoia. Disturba le attività di gruppo. Il disabile- sballone tende alla esclusiva ricerca del piacere nei suoi movimenti e nelle sua azioni. L’intervento di counseling adatto a questa tipologia di disagio consiste nel dare stabilità alle sue azioni e, nel diminuire l’intensità, aumentarne la durata. Ha bisogno di disciplina: di fare un gioco alla volta, di imparare come funzionano i giochi, di apprendere ad usare il suo corpo con crescente abilità e controllo di meccanismi di azione. L’armonia psicomotoria può essere raggiunta attraverso percorsi di rilassamento.

 

AUSILI: gli ausili non devono essere confusi con le protesi. Sono strumenti o strumentazioni che permettono o migliorano le possibilità di relazione o di manifestazione delle potenzialità dell’h.

Alcune industrie che operano nel settore dei soggetti disabili progettano interventi anche personalizzati, in questo caso – per l’h. – l’ausilio diviene lo strumento principale col quale può manifestarsi.

 

AUTISMO: il termine, ancora oggi, è avvolto di mistero. Autòs (= se stesso) significa che l’individuo è imprigionato nei suoi stessi pensieri e fantasie. Leo Kanner nel 1943 fu il primo studioso ad utilizzare la parola autismo, descrivendo in un articolo il comportamento di 11 bambini che rifiutavano il contatto sociale, problemi di relazione in modo normale con persone e situazioni, disturbi del linguaggio, ritardi nello sviluppo generale, problemi a reagire ai mutamenti dell’ambiente, presenza di stereotipi, di azioni ripetute e di movimenti particolari. I bambini autistici hanno l’espressione del viso pensosa, assente, “perduta nei pensieri”. Per questo motivo è difficile attirare l’attenzione  di questi bambini. Spesso gli autistici sono abili nel disegno, nelle attività musicali, hanno eccezionali capacità di mnemoniche e di calcolo.

E’ possibile trovare tratti del processo autistico sia nella tipologia dell’”invisibile” che del “delirante”. L’autistico vive in una gabbia di vetro infrangibile da cui non può uscire e nessuno può entrarvi. Può essere aiutato dalla musica: essa “dà corpo” ai suoni e li fa vivere in analogia con i movimenti emozionali interni. L’invisibile si sente piccolo e indifeso, inferiore agli altri e incapace, inutile e intrappolato nella vergogna e nel panico. L’autistico mediante l’attività psicomotoria attiva i suoi percorsi di crescita sperimentando la liberazione del coraggio, l’attivazione e l’intraprendenza. Il delirante è maldestro nei suoi movimenti, si mostra rigido, con una deambulazione disordinata e contratta, il collo teso, le braccia a penzoloni, manca di coordinamento. Uno strumento efficace per l’h. delirante è la musica: può aiutarlo una marcia militare con battute del tempo su un tamburo, seguire una linea in terra, associare al suono alcune elementari rappresentazioni come quelle dei burattini con i quali si può identificare. Suono e identificazione sono la base per un processo di apertura comunicativa che conduce a mimare situazioni con la musica, con la voce di animali e con la voce umana.

 

BISOGNO: può essere biologico o relazionale come necessità di una persona intorno a cui si può strutturare, nel peggiore dei casi, una dipendenza e comunque una forma di disagio psichico o fisico.

 

COLLERA: e’ eccitazione violenta contro qualcosa o persona o animale. Spesso si presenta nei disabili contro i “normali” (familiari, colleghi di lavoro, docenti, ecc.) ed è bene non reagire, lasciar correre lo sfogo, poi riprendere il dialogo, cercare le cause dell’esplosione dell’irrazionale sentimento.

Se l’h. si arrabbia si salva da una condizione di svantaggio, dimostra di non essere travolto dalla propria disabilità e non precipita nella depressione. Nel linguaggio degli idealtipi l’h. che si arrabbia facilmente e che ha necessità di spegnere la propria rabbia corrisponde al ruminante, al reattivo, al trascinatore, all’iperattivo. Ha bisogno di trovare ritmo e armonia interna, fare giochi di gruppo,giochi ritmici, soprattutto in coppia ed esercizi che, partendo dalla osservazione del ritmo cardiaco e respiratorio lo portino ad un maggiore ascolto di sé.

 

CORPO : il corpo ha un significato importante per l’individuo problematico. Lo schema corporeo è una rappresentazione mentale del corpo in senso costruttivo di dialogo con l’individuo e la società. Il corpo ha la funzione “oggettiva” della costruzione del Sé sociale, di identità linguistica e culturale. Il bambino si riconosce come Sé secondo il modo in cui si riflette sugli altri e da loro è rimandato alla sua interiorità. Nel mondo dei disabili, come in quello dei normodotati, è bene sviluppare interventi educativi che aiutino ad acquisire il proprio schema corporeo.

 

DIPENDENZA AFFETTIVA: accade spesso che tra disabile e il suo accompagnatore o “assistente” nasca una forma di affezione, una dipendenza psicologica che genera, se non governata da chi presta aiuto, forme di gelosia, di depressione o di aspettative affettive che non possono essere mantenute. Quando il disabile si accorge che il suo accompagnatore o assistente non lo corrisponde vive il tutto come una punizione alla sua condizione. La disabilità viene “accusata” del fallimento amoroso.

L’h. che presenta queste caratteristiche possiede la struttura idealtipica di personalità dell’adesivo; crea legami forti e stereotipati, abbraccia tutti, è lento e impacciato.  Questa persona ha difficoltà a distanziarsi dalle cose e dalle persone e non entra in contatto con il sé. Può essergli utile ascoltare se stesso, il battito del suo cuore, la sua voce esteriore ed interiore, svolgere giochi creativi. L’attività psicomotoria più utile e rivolta alla scoperta dell’equilibrio, della coordinazione e dell’abilità.

Il vero artefice dello sviluppo di un soggetto Down può essere il counselor che può condurlo a sorprendenti gradi di evoluzione e di crescita e che non deve dimenticare che il down ha uno specifico desiderio di musica melodica. Deve evitare l’ascolto di musica eccessivamente stimolante per impedire l’emergere del risentimento aggressivo che, pur se raro, nel soggetto Down ha la caratteristica di essere molto persistente.

 

EMPATIA: l’empatia è una condizione necessaria in un rapporto di sostegno (Rogers 1961)  e, per Benjamin (1981) “…significa sentirsi dentro il mondo interiore di un altro e partecipare ad esso, rimanendo se stessi”. Si può anche definire come il processo di coglimento del vissuto altrui. E’ tipica dell’approccio comunicazionale di tipo narrativo.

 Nell’esaminare le problematiche degli hh., o vivere a contatto con loro, l’empatia diventa il fulcro attraverso cui operatore e h. intessono relazioni di sviluppo psicologico e di costruttiva collaborazione.

 

EZIOLOGIA: termine che indica sia lo studio delle cause di una patologia sia le motivazioni che l’hanno provocata.

 

FANTASIA COMPENSATORIA: ha origine dalla frustrazione quando il soggetto non riesce ad avere gratificazioni, allora si rifugia sul piano dell’irrealtà e ne “racconta di belle/ di palle”, soddisfacendo così i propri bisogni. Nel mondo dei disabili c’è spesso identificazione con un atleta o un tifo irragionevole per la squadra del cuore.

 

FOBOFOBIA: la fobofobia, credeteci o no, è la paura delle fobie. Di solito tali paure hanno genesi dall’insistenza con cui ne parlano amici, parenti o vicini.

Uno che ha sempre paura di sbagliare è l’idealtipo dell’avaro, sempre preciso, meticoloso, auto controllato; preferisce star fermo piuttosto che agire d’impulso; è sempre teso e contratto. Se sbaglia nelle azioni e nei movimenti è proprio a causa della sua paura di commettere errori e di essere criticato. Ha bisogno di scoprire il piacere del rilassamento e dell’azione libera e appagante. Necessita di fare giochi liberi, di scatenarsi  con giochi come lo scivolo, l’altalena, rotolare per terra, saltare.

 

FUNZIONE COGNITIVA: s’intende lo sviluppo delle funzioni occorrenti per l’apprendimento, ossia l’attenzione, la percezione, la memoria, ecc.

 

FIDUCIA: processo valoriale di attribuzione all’altro delle caratteristiche che ci aspettiamo da lui.

 

GELATOLOGIA: dal greco “gelos”, significante “riso”, la gelatologia ha ormai una schiera di medici specializzati, cliniche e centri di riabilitazione che favoriscono o insegnano a ridere per guarire meglio. Sin dall’antichità è dimostrato che il riso è sempre un’emozione che stimola positivamente tutto l’organismo. Nella vita dell’h. il riso è fondamentale per sollecitare l’ottimismo e il superamento, senza traumi, delle limitazioni d’ogni giorno.

 

GENEROSITA’: valore che comporta il dono di qualcosa per il benessere dell’altro. I Down risultano spesso generosi e godono della generosità altrui.

 

GIOIA: emozione connessa alla sperimentazione all’emozione primaria del piacere proveniente dall’affettività, dallo stupore, dalla pace interiore o dal raggiungimento di un obiettivo. Ovviamente la gioia è l’emozione tipica dello sballone, allegro e giocoso.

 

HOLDING: è una parola inglese che significa “tenere in pugno, reggere, sostenere, trattenere, contenere, vincolare…”. All’inizio l’holding era stato proposto ai bambini autistici. E’ una  tecnica che viene instaurata nell’ambito della famiglia, in particolare quando è presente un bambino problematico. Si rivela un’esperienza particolare tra madre e figlio nel momento in cui la madre esclude ogni altra preoccupazione e distrazione per concentrarsi in un “abbraccio” per eliminare conflitti, capricci e gelosie, tenendo stretto a sé il suo bambino, favorendo questo intenso momento di forte contatto fisico ed emotivo. Bisogna tenere il bambino in una posizione in cui lo sguardo incontri quello del bambino affinchè sia instaurata una comunicazione diretta.

 

HOME CARE: termine inglese che sta ad indicare “assistenza domiciliare”.

 

IMITAZIONE: s’intende quel processo psicoapprenditivo il cui esito è la riproduzione di un comportamento o di un atteggiamento osservando gli altri. L’imitazione ha un compito fondamentale nello sviluppo del bambino, perché egli è influenzato dall’ambiente col quale tenta di interrelazionarsi assimilando i modelli di condotta del gruppo. Nel mondo dei disabili l’imitazione ha il significato di “copiare” aspetti della realtà del soggetto normodotato.

 

INFERIORITA’: nella vita del disabile l’inferiorità può manifestarsi nei confronti della persona normale, divenendo spesso una caratteristica della sua personalità. Se la condizione è forte può precludere le relazioni sociali: il fatto di pensare “non valgo niente”, sono un “disgraziato handicappato” ecc., coinvolge una situazione sempre più tragica e depressiva da cui il malcapitato ne verrà fuori solo con l’aiuto di un bravo counselor che lo aiuti a rivalutare le proprie potenzialità o a riscoprire il valore dei simili. Spesso il sentimento d’inferiorità è mascherato dalla prepotenza sugli altri, da azioni narcisistiche, da prese di posizione perdenti in partenza,che non hanno nulla di concreto.

 

INVIDIA:  è l’astio di un soggetto nei confronti di chi ha qualcosa che egli non ha, oppure verso chi ha successo “al posto suo”. Nel mondo degli hh. È particolarmente forte. L’h. invidia la persona che “ha”, soprattutto quella normalità fisiologica con la quale egli lotta quotidianamente per superare le barriere di ogni tipo, architettoniche e psicologiche. E’ un’invidia che, nei soggetti hh. senza un ego forte, si tramuta in depressione e può condurre a cercare compensazioni nell’autodistruzione.

 

IPPOTERAPIA: è un intervento utile a tutti gli hh. e di qualsiasi età con la presenza di un cavallo o di un pony pazienti e appositamente addestrati. I giovamenti sono di due tipi: fisico – riabilitativi e psicologici. Con il primo si impara a stare in equilibrio e a coordinare i movimenti. Gli aspetti di beneficio psicologico sono tuttavia probabilmente più importanti: l’h. si sente protagonista col suo animale, al quale si affeziona e diventa suo “confidente”. Cavalcando è in grado di vedere le persone normali dalla sella, ed è un’esperienza di libertà; inoltre dare ordini spontanei all’animale che è stato addestrato a muoversi solo al comando del cavaliere favorisce la riabilitazione logopedica.

 

LABORATORIO PROTETTO: è una struttura lavorativa in cui sono addestrati e seguiti con particolari programmi, anche individualizzati, soggetti disabili allo scopo di inserirli nel mondo dell’occupazione, attraverso speciali leggi d’assunzione.

 

LOGOPEDIA: interviene sui disturbi della produzione vocale. La mancanza di chiarezza nella comunicazione del codice vocale imprigiona l’espressione del pensiero. Il tecnico riabilitativo che interviene con la logopedia è il logopedista che ha il compito di rieducare le turbe inerenti i disturbi della voce, della parola e del linguaggio allo scopo di portare il soggetto il più possibile alla normalità.

 

LUDOTERAPIA: per molti hh., per esempio i ragazzi disabili dell’udito, spesso l’attività del gioco è l’unica realtà che effettivamente permette loro di integrarsi o di partecipare nel “gruppo dei pari”. Ci sono giochi di squadra (calcio, pallavolo, pallamano, ecc,) attraverso i quali i disabili sensoriali accedono a gratificazioni e socializzazioni, allontanando lo stress. Spetta al counselor valutare un programma ludoterapico di crescita della personalità del soggetto.

 

MAINSTREAMING: si tratta di un termine inglese (da main = principale e stream = corrente, ossia immettere nella corrente principale). Significa la tendenza a integrare il maggior numero di hh. dalla scuola materna alla scuola superiore. Corrisponde al nostro termine “integrazione” ed è in voga  negli Stati Uniti con una legge federale dal 1975.

 

MITOMANIA: s’intende quella forma di raccontare eventi o storie personali, come se fossero veri, per lo più frutto di fantasia. I disabili o gli anziani, viventi in strutture ristrette, carenti di scambi relazionali e di affettività eccedono in mitomania.

 

MUSICOTERAPIA: forma di intervento di counseling o psicoterapia che si fonda sulle potenzialità espressive e di induzione al contatto con sé della musica. In musicoterapia si utilizzano il suono, la musica ed il movimento al fine di riabilitare il soggetto. Il musico terapeuta non è un docente di musica ma la utilizza per attivare socializzazione e integrazione sociale.

 

NEGAZIONE: è uno dei meccanismi di difesa dell’Io. Il soggetto nega la realtà, l’evidenza. Nel mondo dei disabili il meccanismo della negazione è presente nella madre, che adotta pretesti e si rifugia nella fantasia per negare la realtà. Se è negato l’evidente dipende dal fatto che è temuto il giudizio della società nella quale si vive e si agisce. Tuttavia non si conosce il soggetto nell’intrinseco deficit. Quando i genitori del bambino disabile negano la realtà respingono il figlio in considerazione di un’immaturità socioculturale che li affligge. La negazione è l’anticamera del pregiudizio. Se il familiare nega la presenza del deficit nel figlio anche questi, crescendo, negherà a se stesso la disabilità, costringendosi ad imitare uno status di normalizzazione per avere un trattamento egualitario in ogni campo. Se questo ha una sua indubbia valenza corretta, alla fine lo stress lo tiene sempre in allarme o sulle barricate finendo per privarlo di quelle gratificazioni “a portata di mano”, inerenti alla propria disabilità che, resa palese in modo intelligente, fa sì di un adattamento di strutture e di personale che non per questo rendono l’individuo disabile meno normale.

 

ONOTERAPIA: è una terapia che ha per fondamento l’utilizzazione dell’asino. L’animale può essere cavalcato con facilità. Essendo di bassa statura è più comodo rispetto al cavallo. La sua presenza è utile, non solo per il movimento, ma anche per essere accudito e accarezzato dalle persone mentalmente ritardate (specialmente se autistiche, Down e con ritardo mentale) o con difficoltà motorie. Secondo i proponitori, l’onoterapia sviluppa la personalità del bambino, le attività cognitive, la mobilità, le funzioni della mano e soprattutto l’autostima.

 

PASSIVITA’: sono passivi tutti i soggetti che, non avendo iniziativa personale, subiscono tutte le influenze esterne. Tutti i bambini sono passivi, poi con la maturazione psichica, sviluppano la propria personalità adulta. I bambini disabili spesso sono passivi, s’impegnano poco perché non vengono stimolate le loro potenzialità in modo efficace. Spesso “fa tutto” l’insegnante di sostegno e l’alunno è privato della gratificazione della scoperta, di fare da solo. Nel linguaggio degli idealtipi l’h. apatico tende a scivolare nell’indolenza e nell’ascolto di sé, dei suoi sogni e delle sue fantasie. I motivi dell’apatia possono essere: mancanza di stimoli, condizioni di emarginazione e di solitudine, mancanza di affetto. L’apatico stimolato reagisce agli stimoli come se fosse un motore diesel: ha bisogno di scaldarsi per entrare in regime, è un motore lento, ma che progressivamente diventa potente. L’apatico va attivato. Un valido aiuto può essere l’attività motoria per mantenere la funzionalità corporea; l’apatico va inoltre motivato attraverso l’incoraggiamento ad esempio con un complimento se ha compiuto bene un esercizio.

 

PIANTO: permette di sfogare una tensione psichica. Può essere di dolore o di gioia. Spesso gli hh. piangono per motivi “sociali”, per la difficoltà  d’essere accettati con la propria disabilità nel gruppo dei normali, per i pregiudizi sulla loro condizione. Il pianto dell’h. è dunque di dolore e di richiesta di attenzione.

 

PROIEZIONE: l’attribuzione a persone, oggetti o simboli, sulla base di indizi e senza approfondimenti, di atteggiamenti, bisogni, emozioni da parte dell’individuo che interpreta. E’ il trasferimento su altri di vissuti propri tramite l’attivazione del proprio stato emozionale e mentale verso processi di azione. E’ uno dei principali meccanismi di difesa indicati da Freud per esternalizzare da sé parti non-buone. Difende prevalentemente dal senso di colpa. Non è un meccanismo di controllo ma di attivazione, se c’è qualcosa che non va allora si attiva la proiezione sull’altro.

In taluni hh. s’insidia il sospetto che la famiglia voglia “scaricarli”, escluderli dall’eredità o dalla partecipazione fattiva alla realtà sociale.

 

PSICOMOTRICITA’: per gli hh. la psicomotricità ha fondamenti di recupero che vanno individuati caso per caso. Essa tende a riorganizzare l’interazione tra lo sviluppo motorio e quello intellettivo. Questo è tanto più vero per i soggetti problematici nel coordinare la motilità.

 

Q.I.:  Quoziente Intellettuale o rapporto fra età mentale ed età cronologica di un soggetto (moltiplicato per 100).

 

QUESTIONARIO DI ARTIGIANATO EDUCATIVO: strumento di analisi del comportamento e delle strutture di personalità costruito sulla base di cluster di analisi dei fondamentali ceppi emozionali della paura, rabbia, distacco, piacere, quiete, vergogna, attaccamento. E’ composto da una lista di 210 frasi e da uno schema riassuntivo.

 

RIABILITAZIONE: i diversi interventi che ripristinano funzioni fisiologiche, psicologiche, mentali causate da trauma o malattie pre-post nascita. I principali obiettivi dell’intervento riabilitativo sono quattro: a) il recupero di un apparato o competenza funzionale che, per motivi patologici, è andato perduto; b) stimolo o riattivazione di una competenza che non è comparsa durante lo sviluppo; c) tentativo di bloccare o frenare una determinata regressione funzionale; d) tentativo di ricercare possibilità alternative di recupero.

 

ROLE PLAYNG: (gioco di ruolo) è una procedura educativa nella quale un soggetto è invitato a recitare assumendo un ruolo ben definito o a simulare delle abilità.

 

RUOLO: è un modello di comportamento che la società o una sua parte s’attende da un individuo. Accade spesso che la persona accetta l’immagine che gli è conferita da altri, o si adatti a quel “personaggio” per cui si sente attratta. Oggi la personalità di ciascuno si sviluppa in diversi ruoli. L’individuo sperimenta spesso conflitti sia intrapsichici sia sociali. Il disabile può accreditarsi un ruolo che non può sostenere, minando la propria condizione psichica. Non dimentichiamo poi che, il disabile, vive conflitti di ruolo quando è considerato “sempre” bambino o incapace di certi compiti.

 

SETTING: è il contesto relazionale e ambientale nel quale si incontrano counselor e cliente; esso contribuisce a definire il significato del rapporto di aiuto.

 

SORRISO: è un’espressività fisiognomica che trasmette all’esterno una situazione emozionale di gioia o di soddisfazione, anche fisica.

 

STATUS: condizione sociale che presenta un livello di economia e di immagine tipico di un ruolo o di una fascia sociale.

 

STIMOLO: ogni tipo di energia che può essere avvertita a livello degli organi di senso.

 

TEST ABI: il test ABI  (Adaptive Behavior Inventory) misura i livelli dell’autonomia avanzata, cioè il “comportamento adattivo” nelle persone con ritardo mentale. Di solito è applicato in soggetti con ritardo mentale fra i 6 e i 18 anni. Gli aspetti fondamentali di adattamento sono tre: l’autonomia (la capacità delle persone di svolgere compiti e attività importanti per la sopravvivenza), la responsabilità personale (la capacità e la volontà di prendere decisioni e di fare delle scelte rispetto ai propri problemi o alla propria vita) e la responsabilità sociale (la capacità di sostenere un ruolo responsabile, per es. essere indipendente economicamente dalla propria famiglia).

 

TEST BAB : (Behavior Assessment Battery) è un test di assessment comportamentale. Idoneo per la valutazione educativa di persone con handicap grave e gravissimo.

 

TEST LAP (Learning Accomplishment Profile) serve per eseguire un’approfondita verifica dello sviluppo dell’h., che permette di stabilire l’entità e la specificità del ritardo mentale. Permette di approfondire lo sviluppo dell’alunno in sette aree: abilità grosso-motorie e fino-motorie, prescrittura, abilità cognitive, linguaggio, autonomia personale e abilità interpersonali,  comparandolo alle tappe principali dello sviluppo normale tra i 36 e i 72 mesi d’età.

 

T-GROUP: è il gruppo classico. T indica training, ossia la “formazione” che predispone alle relazioni umane, alla dinamica dell’interazione e delle interrelazioni. La proposta proviene da Kurt Lewin e dai suoi collaboratori sin dai primi anni Quaranta. La valutazione di Lewin e dei suoi consisteva nel fatto che la formazione proviene dalla propria azione e interazione o feed-back sul gruppo. Gli psicologi predisponevano piccoli gruppi di una quindicina di persone, esercitandole in un “faccia a faccia” senza un programma definito. Lo scopo era (è) il miglioramento delle relazioni umane attraverso la comprensione e il funzionamento dei gruppi, o tramite l’integrazione individuale in gruppo. L’obiettivo è il mutamento generale quanto quello della psicologia individuale.

Nel mondo degli hh. il T-group ha un particolare significato per individuare soggetti abulici e alienati per stimolarli all’integrazione attiva nel gruppo e quindi nella società.

 

TIMIDEZZA: è il sentirsi a disagio quando si è osservati da estranei. La sua etimologia deriva dal verbo latino timeo-timere, che vuol dire “temere”. Il timido è un soggetto che sviluppa una psicologia all’insegna della paura e del timore. Secondo gli psicologi, i problemi dell’individuo timido sono generati da un insoddisfacente cattivo rapporto coi genitori e in particolare con la madre. Il bambino, non avendo gratificazione per il suo agire, finisce per essere insoddisfatto di sé, lasciandosi andare, sfiduciato. I genitori dovrebbero trasmettere al figlio la convinzione profonda che la sua attività ha un particolare significato (E.H. Erikson, 1970) per loro e per chi gli è intorno. E’ il primo stadio che Erikson chiama di fiducia. Il secondo stadio è l’autonomia (controllo sfinterico). Se non è acquisito svilupperà la tendenza al “dubbio” e alla “vergogna”. Il terzo stadio è l’iniziativa (acquisizione delle capacità motorie, in particolare la mano). Se il piccolo non è guidato o aiutato si rinchiude in un “senso di colpa”. Il quarto stadio è l’industriosità (inizio della scolarizzazione). Si confronta con gli altri. Se non è all’altezza si scopre “inadeuato” e “inferiore”. Il quinto stadio è l’identità (maturità sessuale, costruzione dell’Io). Il pericolo consiste nella “dispersione della propria identità”. Lo stadio dell’intimità (scambio della propria intima esperienza di vita con quella degli altri). Se ciò non avviene c’è un ripiegare su se stesso con l’”isolamento”. Il settimo stadio della generatività  è il momento dell’ideazione, dell’aprirsi creativamente alla società sia a livello psicosessuale che psicosociale. Quando non avviene assistiamo alla “stagnazione”. Infine l’ottavo stadio dell’integrità dell’Io (coscienza della propria vita nei suoi significati). Se non si comprende tale significazione si è avvinti da un senso di “disperazione”. Il timido pertanto è un soggetto in cui l’Io non ha avuto la possibilità o la capacità di adeguarsi tra il ruolo interno e quello esterno. La timidezza può anche essere valutata dal fatto che il timido non struttura tanto un Io, ma un Super-Io, che sta a “sentinella” delle pulsioni.

Nel mondo dei disabili che appartengono alla categoria degli “invisibili” la timidezza è spesso un macigno che “blocca” i vari processi di strutturazione dell’Io, un aprirsi alla fiducia dell’altro, uno stare con lui nella società. Ecco cosa fa: parla poco, tende a nascondersi, è nervoso, è poco abile nelle relazioni sociali, attende che siano gli altri a fare il primo passo.

 

TUTORING: consiste nella presa a carico da parte di uno o più compagni dei problemi del disabile inserito in classe. L’intervento non consiste nel prendersi cura o nel risolvere le problematiche dell’h., ma nel facilitargli il rapporto il più possibile coi compagni e pure coi docenti non specializzati. Il tutor è il primo spiraglio di luce della società nella quale vivrà il disabile. Il compagno di classe d’oggi sarà l’uomo comprensibile dei problemi del disabile domani nel mondo sociopolitico e culturale.

 

UMORE: è un’evidenza della psiche manifestata nell’individuo allorchè prova sentimenti piacevoli o spiacevoli durante la giornata o addirittura nel corso della vita. L’umore si manifesta attraverso il “tono” oscillando tra l’elevazione e la depressione corrispondente all’euforia-eccitazione da una parte e tristezza-rallentamento dall’altra. L’umore è quindi un processo di adattamento agli avvenimenti dell’esistenza.

Nel mondo degli hh. è evidente che l’umore è influenzato dall’ambiente circostante e dall’approccio relazionale. Occorre stimolare i protagonisti alla pratica sportiva nel gruppo dei pari, aiutarli alla coscienzazione dei problemi emergenti nella società; rafforzando la psiche possono assurgere ad una risposta positiva per superare uno status umorale negativo e accedere al dialogo con gli altri.

 

VALORE: è l’espressione della gioia interiore, una crescita al di fuori della mera materialità e utilità. I valori sono sempre dei fini o mete da raggiungere lungo l’iter dell’esistenza. Per parecchi disabili è acquisire la normalità sensoriale o fisica anche attraverso la fisioterapia o la riabilitazione. La gran parte dei fisioterapisti imposta i programmi avendo per fine il modello della normalizzazione, diventato valore, anzi unico metro per accedere alla “normalità”.

 

VERGOGNA: emozione di base che corrisponde alla preparazione del corpo alla ricerca dentro di sé di ciò che è stato perduto. Sono riconducibili alla vergogna tutte le emozioni che sono contraddistinte da un senso di inferiorità del soggetto nei confronti degli altri e nei confronti del mondo. La condizione del soggetto imprigionato nella vergogna (l’invisibile) presenta assenza di attivazione ed una miscela di arausal, inibizione e controllo.

L’h. invisibile non ha stima di sé, sopravvaluta gli altri, è sensibilissimo, si abbatte facilmente, è impacciato, timido, fobico, sfiduciato. Nel migliore dei casi questo tipo di persona, già frustrata dalla consapevolezza della propria disabilità, ricerca aiuto e appoggio nelle persone fidate e aperte al suo vissuto emozionale.

 

ZONE CORPOREE: parti del corpo cui è possibile attribuire, in relazione al modello utilizzato, un carattere o un atteggiamento a scopo diagnostico o terapeutico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                6. Bibliografia

 


 

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