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La malattia come cambiamento

 

Appunti di counseling medico

di

Salvatore Nocera

 

 

 

  

“… l’eccessivo intervento della tecnica, l’approccio dualistico che ha separato a lungo le malattie mentali senza apparente causa organica dalle malattie fisiche, per definizione prive di causa psicologica, ovvero il corpo dal comportamento.

…l’atteggiamento riduzionistico, volto a ridurre le malattie ad alterazioni fisiche e chimiche delle funzioni vitali in specifici organi, è stato e continua ad essere centrale nella ricerca e nella spiegazione scientifica e sperimentale dei meccanismi delle condizioni normali e patologiche degli organismi viventi. Nondimeno esso ha favorito anche l’emergere di un’immagine dell’organismo vivente come mera giustapposizione di organi, sistemi funzionali e processi chimici isolati e sostanzialmente indipendenti. Un’immagine dell’organismo vivente per la quale è possibile curare le patologie intervenendo su precisi meccanismi fisiologici e siti anatomici localizzati, ignorando così il paziente, l’unità della sua persona e del suo organismo, ovvero la sua storia come individuo, come elemento di una particolare specie biologica, come soggetto psicologico e sociale, come attore in un contesto ambientale determinato. Questa concezione della malattia è stata ed è alla base dell’applicazione di metodi di indagine riduzionistici, di elevata complessità tecnologica e con un altissimo grado di risoluzione (per esempio le indagini sulle lesioni molecolari dei geni) e ha in qualche modo promosso la tendenza alla specializzazione che contraddistingue la medicina contemporanea. Tuttavia i risultati prodotti da questo impianto teorico nell’educazione e nella pratica dei medici e da questi massicci investimenti tecnologici nella diagnostica e nella terapia non hanno corrisposto in pieno alle straordinarie aspettative che ad essi sono state associate. Piuttosto che all’applicazione della tecnologia medica, il miglioramento delle condizioni di salute della popolazione e l’allungamento della vita media che si sono registrati in questi ultimi cento anni sono infatti da addebitarsi soprattutto al miglioramento generale delle condizioni igieniche e quindi anche alla riduzione della mortalità infantile e di quella per malattie infettive.” (Stefano Canali, Luca Pani – Emozioni e malattia – Bruno Mondadori)

 


 

 

“La vita è breve,

l'arte è lunga,

l'occasione è fuggevole,

l'esperienza è fallace,

il giudizio è difficile” (Ippocrate)

 

 

1.

Semeiotica e contatto. Non capita spesso di riflettere sul senso della medicina oggi. Per lo meno non capita spesso lontano dai riflettori dei grandi canali mass-mediatici occupati da luminari e divi del sapere, dall’oncologia alla psichiatria, tanto per non fare nomi. Ma questa non è una polemica. Anzi, è l’inizio di una piccola riflessione, non so quanto rigorosamente scientifica, sull’essere medico in situazioni e luoghi molto lontani dai riflettori, molto lontani dai grandi ospedali e dai sicuri successi.

Questa per me è un’occasione importante per riflettere sul mio essere medico.

La professione del medico è vissuta in termini completamente diversi a seconda dei luoghi e delle tradizioni che questi luoghi esprimono, e anche, entro certi limiti, dell’epoca in cui il medico si è formato. Ho ancora in mente alcune figure della mia infanzia, negli anni ’60 del secolo scorso, a Naro, cittadina dell’entroterra agrigentino – figure che si trovavano per strada fin dalle prime luci dell’alba, a girare di casa in casa, a essere spesso, insieme al prete – più del prete – l’unico riferimento per le famiglie. Quando avevo la febbre arrivava a casa questo medico, abbastanza anziano – cinquantenne, credo – si sedeva accanto al mio letto, tirava fuori il termometro, me lo metteva sotto l’ascella – lui – e aspettava tranquillo il tempo necessario alla misurazione della temperatura corporea. Non aveva nessuna remora sul fatto di “toccarmi”: anzi, si avvicinava a me con un sorriso, e non mi pare che avesse una qualche paura particolare che gli impedisse di avvicinarsi a me malgrado la mia febbre, probabilmente infettiva. Era una persona predisposta a stare con me, e allo stesso tempo era una persona predisposta a stare con chiunque avesse avuto bisogno di lui. Strano che una figura del genere, oggi, sia vissuta nella migliore delle ipotesi come anacronistica, fuori luogo, e persino poco professionale, dato che di sicuro in termini economici gliene ritornava molto meno di quanto non desse (per non tacere del fatto che, oggi, “essere toccati” è vissuto dalle persone come un’invadenza, se non addirittura come preludio a una qualche violenza…). Per ritornare all’episodio febbrile, nell’attesa di ricevere informazioni più precise sulla mia febbre, il suddetto medico si informava con mia madre sulla salute dei suoi genitori – i miei nonni – mentre mio padre gli proponeva un problema su cui il medico – veramente – aveva sempre un consiglio, un suggerimento pratico su un qualche comportamento da adottare, una piccola ma efficace soluzione. Stava con me parecchio tempo, il medico: oltre a misurarmi la temperatura con il termometro, mi visitava secondo i canoni classici della semeiotica: ispezione, palpazione, percussione, auscultazione… per escludere segni clinici di malattie polmonari importanti (broncopolmoniti), malattie cardiache, gastrointestinali, renali, neurologiche, dermatologiche (non si riflette mai abbastanza sul fatto che la pelle, lungi dall’essere un semplice involucro, in realtà è l’interfaccia di una omeostasi biologico-ambientale che riflette totalmente – ed esprime totalmente – lo status attuale della persona, configurandosi sia come organo di difesa, sia come organo di relazione (deriva dallo stesso foglietto embrionario del sistema nervoso, l’ectoderma), con ciò che ne deriva in termini di manifestazioni cutanee delle emozioni, sia come espressione di patologie di interesse squisitamente dermatologico ma anche – o soprattutto – di interesse internistico, contribuendo appunto – e in maniera decisiva – al mantenimento dell’equilibrio omeostatico, regolando per esempio la temperatura corporea, attraverso le ghiandole sudoripare, o partecipando, attraverso reazioni chimiche determinate dalla luce solare, alla produzione di vitamina D, per esempio, coinvolta nell’assorbimento del calcio e nel metabolismo osseo.

Ecco: la pelle è l’unico, vero medium in cui avviene il contatto fisico tra le persone, e la semeiotica è la scienza di quel particolare contatto che riguarda il rapporto medico-paziente, e che si concretizza esplicitamente nell’anamnesi e, soprattutto, nell’esame obiettivo.

“La Semeiotica può essere definita genericamente come la manifestazione espressiva di ogni categoria. Musica, arte, linguaggio sono espressioni semiologiche in quanto “segni” di determinate attività mentali. La Semeiotica Medica, in quanto espressione dell’attività del pensiero del medico, è intesa come:

-              rilevamento di segni e di sintomi delle malattie

-              valutazione critica di detti segni e sintomi

Questa visione è tipica delle scuole mediche latine a tradizione umanistica. Mentre la semantica medica anglosassone è intesa soltanto come somma dei segni e dei sintomi delle malattie e loro collegamento con le alterazioni anatomiche che le determinano, l’indirizzo latino considera la semeiotica come il lavoro mentale che il medico deve fare per ricercare e soprattutto criticare i segni ed i sintomi rilevati.

La Semeiologia è la scienza dell’osservazione (σεμείον=segno): niente più che il segno la può esprimere. La Patologia e la Clinica sono imperniate sull’Uomo e la semeiotica è la scienza del primo contatto, del primo incontro del medico con l’uomo.” [1]

 

Questa bellissima disciplina, la semeiotica, ha ormai perso gran parte del suo valore, soppiantata dalla modernissima tecnologia strumentale – Rx, TAC, RMN e quant’altro: tutte tecniche utilissime, per carità, ma che ormai hanno tolto valore “Umano” all’uomo, relegandolo in un meccanicistico, quanto artificiale determinismo riduzionista[2]. Il particolare – lo specialistico – prende il sopravvento sull’insieme, sull’unità, determinando una frammentazione dell’umano che, nel migliore dei casi, si trasforma in mera anatomia – dissezione di cadaveri – non tenendo conto delle relazioni complesse che un essere vivente della specie umana ha intessuto per essere in quel momento ciò che è: il risultato di un processo dinamico che, nella sua globale complessità, chiamiamo “Storia” personale:

“La raccolta della storia rappresenta quasi sempre la parte di importanza maggiore nell’esame del paziente, soprattutto perché un interrogatorio condotto con partecipazione ed interesse può validamente contribuire ad istituire un rapporto umano ed efficace tra medico e paziente. Occorre innanzitutto creare una atmosfera in cui il paziente si senta libero di comunicare.”[3]

 

E poi questa disciplina era l’approccio per un contatto diretto, vero, tra il medico e il malato: il mettere in pratica l’ispezione, l’auscultazione, la percussione, la palpazione da parte del medico; mettersi letteralmente “nelle mani” del medico da parte del malato, che sapeva affidarsi perché il medico lo accoglieva, perché il medico lo toccava, e bastava soltanto questo “essere toccato” affinché il malato si sentisse in qualche misura consolato e curato e, molto più spesso di quanto non si immagini, guarito.[4]

E il medico, in cambio, sentiva gratificazione e gratitudine per l’arricchimento che riceveva in termini di “maggior conoscenza dell’altro” e quindi, molto semplicemente, di se stesso. Una vera conquista che lo portava a fare il medico in un modo sempre più “elevato” e meno corrotto dalle istanze di potere – di onnipotenza – e di protagonismo che oggi caratterizzano parecchi rinomati professionisti. E questo è valido soprattutto in Sicilia, dove il medico, rappresentando probabilmente per ragioni ataviche il massimo potentato, in quanto tale ricopre le più alte cariche pubbliche amministrative e politiche. La medicina come massima possibilità di controllo e sfruttamento locale delle persone. Così come i mass media sono la massima possibilità di controllo e condizionamento globale delle comunità.

Però, riferendosi a tale disciplina, la semeiotica, ci si ricorda anche di grandi medici del passato, che innanzitutto sapevano come relazionarsi con le persone, poi con i malati, e solo in un secondo tempo con le malattie; per quanto, ancora, fossero benissimo in grado di contestualizzare il tutto e inserire il disagio, o la malattia, all’interno di una ben precisa tradizione locale, persino familiare, perché il loro antico sapere riguardava innanzitutto l’ambiente culturale in cui le persone crescevano. L’essere inseriti in tale tradizione – anzi: fanne parte – rendeva il medico una persona speciale, in grado di prendersi cura con “leggerezza” delle persone che, all’interno del loro gruppo di appartenenza, esprimevano da un lato un equilibrio sociale che poi, dall’altro lato, si rifletteva e comunque garantiva un equilibrio individuale su cui quello sociale a sua volta si fondava, in una sorta di circolo virtuoso che garantiva la sopravvivenza della comunità in tutte le sue parti.

A questo proposito una piccola parentesi: la figura del medico era così profondamente connaturata con la tradizione in cui agiva, che i più grandi studiosi di antropologia all’inizio furono proprio dei medici[5]: il folk-lore, il sapere del popolo, era un enorme bagaglio umanistico che il medico padroneggiava, permettendogli un contatto molto più profondo di quanto non accada oggi con coloro i quali ancora ci ostiniamo a definire pazienti[6].

 

Nota bene: l’approccio al “contatto” clinico medico-paziente, mette in gioco anche il vissuto del medico: questo “Contatto” in realtà può essere considerato come il cominciamento di un “Incontro” in cui la posizione up del medico e down del paziente si conciliano in modo da dare luogo a una relazione positiva:

“…un’incontro è una preparazione all’intimità” (Berne)

 

Incontro e empatia [7]

La relazione positiva che si instaura tra le posizioni up e down e che si allontana dalla disconferma e dalle trappole del doppio legame, è l’incontro.

La relazione dell’incontro si basa sulla comunicazione autentica dell’empatia.

I fenomeni di empatia si fondano su un processo che parte dall’oggettivazione del vissuto altrui, passa attraverso l’immedesimazione e perviene al coglimento: l’empatia è, in questa prospettiva, un esplicito atto intenzionale che muta il punto di vista autoreferenziale e si sforza di rendere intelligibile l’azione altrui anche laddove essa possa apparire in un primo momento priva di senso. Per Carl Rogers l’“empatia è sentire il mondo personale dell’altro come se fosse nostro, senza però perdere mai di vista questa qualità del “come se”. L’atmosfera empatica conferisce alla relazione quelle note di calore e sicurezza che favoriscono l’auto-accettazione e l’espressione da parte del paziente degli aspetti più autentici della propria personalità. Tale comunicazione ha la caratteristica di essere autentica e intersoggettiva.”

Ma un processo empatico che sia solo fusione, senza il successivo distanziamento, non conduce alla co-costruzione della relazione ma a noti processi di dipendenza, di invischiamento, di manipolazione.

Mead (1934) aveva avanzato una concezione cognitiva dell'empatia, spiegandola come una capacità di comunicazione di idee piuttosto che un sentire lo stato emozionale nell'altro. Secondo Mead la comprensione empatica si attua quando uno rappresenta in modo immaginativo l'atteggiamento dell'altro verso determinati aspetti del mondo. Se l’empatia affettiva-emotiva è ben rappresentata dalla tripletta della Stein: 1) coglimento del vissuto, 2) immedesimazione riempiente, 3) oggettivazione; l’empatia cognitiva può essere rappresentata attraverso un processo quasi inverso: 1) oggettivazione cognitiva (anche di ricerca scientifica) del comportamento altrui, 2) riferimento alla possibile categorizzazione (anche idealtipica, nel senso comune che viene dato alle consuete tipizzazioni pregiudiziali) e immedesimazione proiettiva nel vissuto altrui, 3) coglimento del vissuto dell’altro nella sua autenticità con le sfumature emozionali specifiche dell’altro che differiscono sia da quelle specificamente sperimentate dal soggetto che da quelle categorizzate. Dall’equilibrio dell’empatia affettiva e cognitiva, si procede verso una co-costruzione dei significati, che conferiscono una base comune alla relazione d’incontro. Tuttavia il processo di co-costruzione del significato ha due limiti: 1) l’equilibrio interno della relazione che, se troppo polarizzata in uno dei due versanti, rischia di rompersi; 2) il livello di tolleranza che sono in grado di esprimere gli attori. Allo stesso tempo un sistema di relazioni in equilibrio favorisce l’empatia e, di contro, l’empatia favorisce lo sviluppo equilibrato del soggetto come singolo e del sistema di relazioni. L’empatia è la componente essenziale della relazione di incontro: in essa è possibile trovare l’equilibrio tra le posizioni up e down. L’oscillazione tra le due polarità, trova un punto di equilibrio e si stabilizza nell’incontro tra i due soggetti. La rinuncia al mantenimento della fissità della relazione tra up e down, favorisce e pone le basi per incontrarsi non più attraverso i ruoli ma come persone.

 

Il nucleo dell’up si contrappone a quello del down nella Scuola di Palo Alto, ma le due posizioni si ritrovano anche in altre correnti: dalla psicologia di Heider, dalla teoria del like- dislike, al transfert e controtransfert freudiano. L’up è il nucleo al quale afferiscono le relazioni di attivazione, energetiche, di proposizione verso l’altro, di intraprendenza. I soggetti entrano in relazione nel momento in cui possono rinforzarsi e ricaricarsi vicendevolmente. La posizione down, si centra nella quiete, nella capacità di percepire l’altro empaticamente, rimanendo in una posizione di accoglienza e di ascolto dell’altro. Questo nucleo comprende le relazioni orientate allo sviluppo, al lavoro, al cambiamento, i gruppi di lavoro, i team aziendali, le collaborazioni, le relazioni che producono un cambiamento nella realtà dei due soggetti. Da questo nucleo emerge la relazione dell’incontro tra l’attivazione dell’”andare verso” e la pazienza di cogliere empaticamente un vissuto, ma anche la relazione della complementarità tra chi attivamente dirige e persegue un fine e di chi viene diretto e seguire con pazienza gli indirizzi. (Psicologia relazionale)

 

Essere medico è un ruolo che già pone in posizione up nei confronti del paziente, che si pone in posizione down nella comunicazione medico-paziente. Ma il medico è anche una persona con una sua modalità di base che per ruolo deve essere in grado di modulare la propria personalità per favorire sia il “contatto” con qualcuno che comunque si affida a lui, sia l’incontro, mettendosi in gioco e non intabarrandosi dietro al suo ruolo per esercitare un qualunque potere e affermare così il suo essere up. Per tale motivo è utile avere un modello di riferimento… [8]

 

“…sette modelli di comunicazione:

1.           rimprovero,

2.           incoraggiamento,

3.           insegnamento,

4.           coinvolgimento,

5.           tranquillizzazione,

6.           sostegno,

7.           gratificazione”

 

“…tipologia di relazioni di affinità e di opposizioni:

1.           equivoco (adesivo-delirante) – riconoscimento (delirante – invisibile).

2.           insofferenza (avaro-delirante) – disponibilità (effervescente – adesivo)  (l’avaro: ordinato, preciso, metodico, ripetitivo, comunica ansia responsabilizzante – il delirante: confusionario, vago, innovativo e creativo, comunica informazioni distaccate; l’avaro va sostenuto affinché si apra all’attaccamento affettivo: il sostegno conferma il suo bisogno di controllo; il delirante va tranquillizzato così da aprirlo all’emozionalità del piacere: la tranquillizzazione conferma il suo bisogno di distacco; in questo modo una relazione di opposizione si apre verso una relazione di affinità che consiste nella disponibilità tipica della relazione di affinità adesivo-effervescente).

3.           delusione (ruminante-effervescente) – complementarità (apatico – avaro) (il ruminante: forte attivazione, incoraggiatore; l’effervescente: forte emozionalità, piacere; la delusione nasce dal fatto di aver interpretato il comportamento dell’altro in funzione delle proprie aspettative. La complementarità è la consapevolezza che l'uno farà le cose che non possono essere fatte dall'altro: per questo è l’antidoto alla delusione, perché non formula aspettative fantastiche sul comportamento dell'altro e non conduce ad illusioni, con tranquillità e realismo.

4.           evitamento (effervescente-invisibile) – dialogicità (adesivo – delirante)

5.           logoramento (delirante-apatico) – incontro (invisibile – ruminante)

6.           fastidio (apatico-adesivo) – integrazione (avaro – effervescente)

7.           incomprensione (invisibile-avaro) – mediazione (ruminante – apatico)

 

La dimensione della paura, delle difese e del controllo trova la sua affinità elettiva nella realizzazione contemporanea della pace e della calma insieme a quella del piacere e dello slancio. La tensione al piacere delle emozioni intense e la malinconia della separazione trovano nell’avvolgimento affettivo e nella coerenza dell’agire responsabile il terreno ad esse elettivo. Il bisogno di attaccamento viene superato attraverso la realizzazione del gusto del vivere e la disposizione a gestire con libertà la propria accettata solitudine esistenziale. L’isolamento e la mentalizzazione di se stessi in una espansione diuturna, superba e schizoide trovano compimento nella umiltà della concretezza e nell’accettazione di essere amati ed avvolti dalla stabile fedeltà dell'attaccamento. Il senso di inferiorità, la vergogna, la disposizione a lasciarsi opprimere sono superabili solo attraverso gli incoraggiamenti all’impegno, la trasmissione di stimoli e di “carica”, mediante la disciplina e la fiducia in se stessi, lo sviluppo dell’autostima e la libertà interiore. L’energia di attivazione, che sospinge incessantemente verso l’azione, verso il superamento degli ostacoli ed il conflitto contro chi si oppone a tali azioni, trova la corretta canalizzazione nell’impegno concreto della difesa degli oppressi e si spegne nell’incontro con chi possiede la calma e la pace interiore. I processi di relazione elettiva non sono mai in reciprocità, ma in una condizione di “quasi reciprocità” funzionale alla armonizzazione del comportamento sociale”

 

VINCOLO

MODELLO DI STRUTTURA COMUNICATIVA (MESSAGGIO DOPPIO)

Oppressione                                       

Rimprovero + incoraggiamento

Intimidazione                                                  

Incoraggiamento + insegnamento

Istigazione                                                      

Sostegno + gratificazione

Squalifica                                                       

Insegnamento + coinvolgimento

Seduzione                                                      

Coinv. + tranquillizzazione

Demotivazione                                    

Tranquillizzazione + sostegno

Imbroglio – manipolazione                              

Gratificazione + rimprovero

 

 

Primum, non nocere

Il primo dovere che un medico deve imparare a rispettare è: PRIMO, NON NUOCERE. Questa massima ippocratica diventa il centro della scuola medica salernitana fin dal medioevo. Ciò non significa: NON AGIRE, ma che la prima preoccupazione dev’essere quella di agire senza fare del male o peggiorare la situazione. In questo senso tutti quanti, nessuno escluso, in caso di necessità – o di emergenza – dovrebbe poter prestare soccorso, ma appunto senza nuocere. Qualunque sia l’emergenza, la prima cosa da fare è – ovviamente – cercare di osservare la situazione e capire se sono innanzitutto presenti i cosiddetti parametri vitali: la respirazione e il battito cardiaco. Verificato questo, il resto diventa secondario.

Quindi possiamo dire che il più importante degli atti medici consiste nel fatto che, se non siamo sicuri di qualcosa, è meglio NON FARE. È un paradosso. Un paradosso ancora più grande è quello di non usare il telefonino per chiamare d’urgenza il 118. Cosa che capita con troppa frequenza, perché le persone – i cittadini – reputano spesso di dover agire ma senza cognizione di causa. Come nel caso di un incidente. Tutti ad accorrere, a fermarsi per la curiosità di vedere quello che è successo, a strattonare letteralmente i feriti da dentro le lamiere, non curandosi se hanno fratture del rachide, per esempio, le quali potrebbero dar luogo a gravi paralisi se non manipolate con la dovuta cautela; oppure si dà subito dell’acqua, guidati dal buon senso, così rinviene. Sbagliatissimo, perché potrebbero essersi formate delle lesioni interne, per esempio delle rotture di organi interni, delle ferite, che con l’ingestione di acqua peggiorerebbero. Qui bisogna soltanto facilitare l’espletamento delle funzioni vitali – respira?, il cuore batte? – se sì non c’è altro da fare che chiamare al più presto i soccorsi. Oppure come quando ci va qualcosa per traverso e qualcuno, molto diligentemente, ci dà delle potenti manate sulle spalle. Oddio, potrebbero servire, ma se solo si ha l’accortezza di abbassare il rachide in avanti e il più in basso possibile in modo da facilitare, con le manate, la fuoriuscita dell’eventuale corpo estraneo che  ci è andato per traverso, fossero anche dei semplici liquidi, al fine di evitare pericolosi soffocamenti, o polmoniti ab ingestis.

 

Intanto, ancor più pragmaticamente, un medico ha un altro grave problema: essere in grado di dare subito una risposta a chi gli chiede aiuto. Lo stress più grande per un medico è appunto quello di rimanere in permanente attesa di una richiesta di aiuto a cui deve poter rispondere mettendo in gioco tutta una serie di abilità di dar risposte – responsabilità – che devono garantire innanzitutto la vita di coloro i quali gli chiedono aiuto. Certo: non sempre. C’è da notare subito che chi è in grado di chiedere aiuto intanto parla ed è cosciente. Nulla di più scontato. Per fortuna. Il problema vero è chi, pur avendo bisogno di tutto il nostro aiuto, si trova impossibilitato per una qualche ragione “patologica” a poterlo richiedere. Lo so che tutto questo non ha nulla di rassicurante. Ma c’è da dire che le situazioni di emergenza-urgenza, ovvero le situazioni più critiche, riguardano soprattutto medici che non si trovano da soli, per esempio nei Pronto Soccorso degli ospedali, e che comunque hanno a disposizione un minimo di strutture in grado di garantire la loro professionalità e la loro celerità di intervento. Si tratta quasi sempre di fatti drammatici e acuti, cioè che insorgono in breve tempo, spesso senza preavviso di malattia, e ancor più spesso inaspettatamente, cogliendo di sorpresa chiunque. È in casi come questo che si deve essere in grado di prendere decisioni adeguate perché altrimenti il paziente potrebbe andarsene, in tutti i sensi, soprattutto nel senso soprannaturale del termine.

In realtà, l’attesa del medico è continuamente interrotta da richieste d’aiuto che non provengono da persone in pericolo di vita (sperando con tutte le forze che nemmeno il suo successivo intervento non metta a repentaglio la vita del paziente). Però succede anche – e meno raramente di quanto non si pensi – che l’attesa sia interrotta da richieste d’aiuto che riguardano situazioni al quale il medico deve saper dare per forza una risposta immediata, pena la vita del paziente, e trovandosi completamente da soli, lui e il paziente: è in questo caso – proprio in questo caso – che il medico, quello “normale”, quello che sta negli ambiti territoriali, nelle guardie mediche, in situazioni non necessariamente adeguate al suo ruolo, spesso senza mezzi e apparati diagnostici, armato soltanto della sua borsa e del suo intuito clinico, coltivato in anni e anni di attività e incontri con persone che gli riferiscono – gli raccontano – delle loro malattie – ecco: proprio adesso diventa fondamentale non nuocere.

 

Esempio: l’infarto del miocardio, che è un’evenienza di cui tutti abbiamo timore.

All’Università si insegna questo: quando si sospetta un infarto (segni tipici, non sempre presenti: senso di angoscia profonda, di imminente morte, di oppressione toracica, di angor, dolore riferito tipicamente alla spalla e al collo sinistri, ma anche a destra, a volte perdita di coscienza, ma non sempre, polso radiale lento), invece di perdere del tempo inutile a cercare di capire cos’ha, cosa si può fare, l’immancabile bicchiere d’acqua ecc… la prima cosa che si insegna agli studenti di Medicina che di lì a poco saranno abilitati alla professione di medico è: chiamate seduta stante un’ambulanza con Unità Coronarica (UTIC: Unità Terapia Intensiva Coronarica), o comunque un’ambulanza del 118. Strano? Primum non nocere. È una cosa che la maggior parte dei “comuni cittadini” non medici ovviamente non sa – e dovrebbero impararla. Il fatto è che anche un gran numero di medici purtroppo non ne tiene conto. Se si tratta di infarto – infatti – è fondamentale arrivare prima possibile in un reparto ospedaliero attrezzato per effettuare eventualmente un intervento cosiddetto di fibrinolisi, con farmaci antitrombotici o quant’altro la cui efficacia è direttamente proporzionale al tempo d’arrivo in ospedale. Infatti se l’infartuato è sottoposto a cure adeguate entro le prime due ore, ha ottime probabilità di farla franca (fermo restando la gravità e la vastità dell’infarto stesso) diminuendo pure il rischio di recidive. Ecco che funzionare bene organizzando la chiamata dell’UTIC tempestivamente – questa semplice cosa! – aumenta la probabilità di sopravvivenza dell’infartuato in maniera oserei dire drammatica: oltre il 90% sopravvive e oltre il 70% non ha recidive. La seconda cosa da fare, comunque, nell’attesa dell’ambulanza, è calmare il paziente, ma anche calmare il contesto circostante, troppo spesso fatto di voci alterate e impaurite che aggravano terribilmente la situazione. Qui l’atteggiamento dell’apatico è fondamentale, per quanto anche un atteggiamento di distacco permette di inquadrare al meglio la situazione e dunque agire di conseguenza (sarebbe interessante studiare la personalità di tutti i soccorritori di infartuati sopravvissuti!); mentre,  se c’è un medico nei paraggi, dovrebbe prodigarsi a fare un’endovena di valium o morfina – intanto per mantenere una vena pervia, per ogni successiva evenienza – ma soprattutto per calmare, placare, spegnere: letteralmente, dato che l’agitazione aumenta i battiti del cuore, aumento che necessita un ulteriore aumento del suo metabolismo, ovvero di aumentare l’irrorazione sanguigna che, realizzandosi, complicherebbe ancora di più l’infarto (zona di morte tissutale) diminuendo così drasticamente le probabilità di sopravvivenza post-infartuale.


 

2.

“Il fatto è che il medico vede il male e il paziente sente un dolore: due cose diverse. Il dolore è un vissuto soggettivo che il paziente narra e non coincide con il male oggettivo che il medico cerca. Il dolore esce dai confini del corpo e pervade la vita, modificando la qualità delle relazioni, la forma degli affetti, il ritmo delle attività, la considerazione di sé. Uno è sano quando il corpo se lo dimentica. Se mi ammalo, non coincido più col mio corpo. Non dico «ho un corpo stanco», ma «sono stanco». E nel «sono» c'è una perfetta coincidenza tra io e corpo.”[9]

 

Il malato è colui il quale sta male. Così come  il paziente è colui il quale patisce una sofferenza. Ma sofferenza e male non sono esattamente sovrapponibili. Potremmo definire la  sofferenza come il risultato di un’alterazione dell’omeostasi biologica, di cui il male è la causa.

Soffrire potrebbe essere dunque la conseguenza della disarmonia creatasi in un sistema biologico a causa del male. Il ripristino dell’armonia omeostatica riduce la sofferenza e la guarigione è l’allontanamento più o meno definitivo del male.

Un conto è un cancro, che è il male, un conto è la sofferenza che produce. Il male non dipende dalla volontà individuale. Per cui si soffre con dolore, con depressione, si può sopportare la sofferenza così come la si può rifiutare, le si può dare anche un significato spirituale, per cui paradossalmente è possibile persino parlare di eu-sofferenza, cioè soffrire bene (buono). Il dolore, che ha sempre una connotazione morale, riguarda la sfera della persona, in quanto agisce sul suo comportamento normale, ne altera le relazioni, e la pone nel mondo in maniera diversa: può darsi che il dolore sia un modo diverso di stare nel mondo perché ne propone un’altra visione, e in sé costringe la persona – se diventa capace di elaborarlo – a rivedere la sua stessa concezione della vita e delle cose. Si può scegliere persino di soffrire, individualmente, come sacrificio, come rinuncia, a favore di un ideale, per martirio, ecc. ma alla base c’è comunque la scelta di “come” soffrire, non di soffrire in sé e per sé. Nessuno sceglierebbe di soffrire. Ma la maggior parte, se la sofferenza arriva, può accettarla.

Il male riguarda l’etica, contrapposto al bene, e si differenzia dalla sofferenza semplicemente perché la provoca. Ecco perché sofferenza e male non sono la stessa cosa: la sofferenza è generata dal male. Da qui la necessità di definire l’omeostasi e collocarla, da concetto fisiologico, all’interno di un contesto che riguarda il rapporto medico-paziente. Un conto è che il medico si occupi della malattia, un conto è che si occupi della sofferenza che tale malattia provoca. Per essere più chiari, il medico dovrebbe occuparsi sia della malattia, sia della persona che la soffre. Il più delle volte il medico ha i mezzi necessari ad affrontare la malattia – quasi sempre in termini “riduzionistici” e scientifici – quasi mai ha una formazione adatta ad accogliere una persona che soffre. E a farsene carico in quanto sofferente.


 

3. Malessere: avvertire il male nell’essere

Malattia: il male che si appropria. In siciliano: “Male a ttìa” significa, appunto, augurare il male, che, in un gioco linguistico, potrebbe essere il contrario di “Bene a ttìa”, così come ancora si usa salutando un vecchio: “Vossìa mi benedica”. Il “Male a ttìa” è il senso della maledizione, cioè il dire male di qualcuno, con tutte le conseguenze che ciò potrebbe avere in alcuni contesti culturali arcaici. Comunque è molto più nel francese Maladie: mal a dit, male ha detto. Così come “Benedetto”. Risuona dentro di me un’eco: “Se una persona importante – nel senso affettivo, o per il ruolo che le attribuiamo – dice bene di noi, noi stiamo bene. Se una persona importante dice male di noi, noi stiamo male. E questo star male-malessere siamo pure capaci di portarcelo dietro per tutta la vita”.

Il medico è una di quelle persone, che per ruolo e professione dovrebbe sempre “Bene-dire”.

Il fatto è che la maggior pare dei medici è impegnata a dar valore alle scoperte scientifiche trascurando spesso il valore delle persona. La scoperta scientifica, che porta spesso, ma non sempre, a un miglioramento delle competenze diagnostiche, è talmente impegnata a stare dentro il particolare, dentro il microscopico, che non tiene conto che la malattia, probabilmente, è una relazione, prima ancora che una alterazione di qualcosa o la rottura più o meno insanabile di un qualche meccanismo ancora da scoprire.

 

Questo del “Bene-dire” mi conduce a citare quasi automaticamente un meccanismo curioso in campo medico e spesso bistrattato, addirittura oscurato a favore di una non meglio identificata “verità scientifica”: l’effetto placebo.

 

“L’effetto curativo del placebo è comunemente ritenuto un effetto psicologico non specifico, legato alla convinzione del paziente di avere ricevuto comunque una terapia efficace, alla fede verso chi o cosa lo sta curando, alla “volontà” di guarire. È per questo considerato una sorta di fattore di disturbo nell’approccio scientifico della metodica terapica moderna, tanto da essere usato nella sperimentazione clinica di preparati farmacologici per rilevare e quindi eliminare il fattore psicologico nella risposta dell’organismo ai preparati stessi. L’etimologia del termine “placebo”, con cui si indica un preparato senza azione farmacologica (come una pillola di zucchero e una soluzione fisiologica), il latino “io piacerò”, relega l’effetto placebo nel dominio dei fatti emotivi, culturali e quindi non indagabili sperimentalmente. Eppure numerosi studi e la prassi consolidata dimostrano che il placebo è un elemento terapeutico dall’efficacia apprezzabile, soprattutto sul dolore,  componente centrale nella sintomatologia e nell’evoluzione delle malattie. … Nel classico studio del 1955, The Powerful Placebo, Henry Beecher ipotizzava un modello additivo degli effetti del placebo, affermando che “l’efficacia totale di un farmaco è uguale alla sua azione farmacologica sommata all’effetto placebo.” E in questo modello d’azione a sommatoria, Beecher riteneva addirittura che l’effetto placebo costituisse l’addendo maggiore, indipendentemente dall’intelligenza e dalla personalità del paziente… Il placebo non si limita all’effetto di riduzione del dolore ma è un fattore apprezzabile di guarigione in molte altre malattie, presente e attivo anche in elementi e fasi non propriamente terapeutici, come lo stesso recarsi dal medico, la simpatia di quest’ultimo, la gradevolezza dell’ambiente terapeutico, l’estetica delle confezioni dei farmaci e così via…L’effetto placebo potrebbe essere considerato un ingrediente generale di tutte le situazioni cliniche. Secondo gli studi di Frederick Evans (1985), circa il 50% dell’efficacia dei farmaci usati soprattutto in psichiatria come gli analgesici, i sedativi, gli antidepressivi, gli ipnotici, è dovuto all’effetto placebo.”[10]

 

Precisiamo subito, a scanso di equivoci, e pur correndo il rischio di essere sbeffeggiato da alcuni colleghi: io ci credo, eccome! Quando per esempio accolgo qualcuno che sta male con un sorriso vero, una battuta, un gesto benevolo, ciò che mi permette di incontrare l’altro, ma anche – soprattutto – di farmi incontrare dall’altro; quando uso la mia voce suadente, per esempio,  che lungi dal minimizzare, semmai spiega e si dispiega, calda e rassicurante, e portando il paziente in una sorta di ambito pre-ipnotico – come nei Racconti didattici di Erickson[11] – per portarlo alla convinzione che guarire è possibile, anche quando si sono perse le speranze, e comunque c’è sempre qualcuno disposto a prendersi cura di lui in ogni momento, per rassicurarlo, e persino aiutarlo ad attraversare il fatidico trapasso (come nel caso del Counseling di accompagnamento alla morte). L’effetto placebo è sicuramente più considerato nelle cosiddette medicine alternative e complementari – che sono tra l’altro, secondo uno studio del Governo americano del 2002, la forma di cura verso cui si rivolge il 36% della popolazione – e dove si realizza

 

“…un certo tipo di contatto umano, di ascolto diverso, di buonsenso, che porta soprattutto al risveglio di quel potenziale di guarigione che dorme in fondo a ciascuno di noi.”[12]

 

Ecco perché reputo necessario soffermarmi un momento sull’interesse per le altre medicine, interesse che

 

“appare pienamente giustificato, considerando che, secondo l’OMS, l’80% dei sistemi di cura nel mondo rientra nel campo delle medicine tradizionali.[13] In effetti, la maggior parte delle terapie alternative e complementari deriva direttamente dalle medicine tradizionali. Certamente sono molto antiche. L’OMS le definisce come “un insieme di pratiche in cui i pazienti sono considerati nella loro globalità, all’interno del loro ecosistema”.[14] In altri termini: le terapie alternative e complementari tengono conto delle varie dimensioni dell’essere umano – fisica (il corpo e il movimento), emotiva (le sensazioni e i sentimenti), intellettuale (il cervello e le capacità cognitive), e spirituale (la comprensione del sé, del mondo e degli aspetti trascendenti della vita) – in stretta relazione con l’ambiente. Dal loro punto di vista la buona salute è definita come uno stato di equilibrio, una relazione armoniosa tra il corpo, le emozioni e i pensieri di un individuo. Implicano dunque una comunicazione fluida tra questi tre aspetti della persona e i rapporti di scambio tra l’individuo, i suoi simili e l’ambiente in cui vive. L’approccio è ampio, globale, olistico. Molto diverso da quello cui è abituata la mentalità occidentale. E non senza motivo: in Occidente, da Aristotele in avanti il mondo è considerato come un insieme di elementi individuali, separati, isolati. E a partire da Cartesio si può studiare solo ciò che è visibile, percepibile, fisico e materiale, dovendo lasciare alla cura della religione ciò che è immateriale. Operando questa dicotomia, Cartesio e dopo di lui gli Illuministi hanno favorito l’affermarsi di una visione frammentaria dell’essere umano. Da una parte c’è il corpo; dall’altra lo spirito. Ridotto alla sua dimensione materiale, il corpo è descritto come un meccanismo preciso, logico, sequenziale. Gli elementi da cui è costituito sono oggettivati, classificati e analizzati nei minimi dettagli. Poiché la natura e tutto quanto l’universo condividono la stessa sorte, cartesianesimo, riduzionismo e materialismo sono all’origine delle più grandi scoperte scientifiche dell’Occidente. In medicina, il riduzionismo ha consentito progressi immensi. Al tempo stesso è all’origine di una grave crisi. Infatti, a forza di considerare il corpo umano come un oggetto, la scienza medica dimentica che l’essere umano è fatto anche di pensieri, credenze, sentimenti ed emozioni.[15] Ne consegue che molti malati si lamentano di vedersi ridotti a una somma di risultati di analisi, si rammaricano di non poter esprimere le loro sensazioni e le loro intuizioni, e davanti all’aspetto disumanizzato, a volte addirittura brutale, della medicina tecnologica si rivolgono a medicine più “dolci”. Intanto i medici, impregnati di scienza materialistica, tendono a privilegiare esclusivamente i dettagli. Pensano di poter trattare un problema particolare agendo su un parametro anomalo, ma così facendo trascurano le ripercussioni che il loro trattamento ha sul resto dell’organismo e ignorano le conseguenze del loro operato sull’ambiente. L’assenza di una visione di insieme comporta molto spesso un eccesso di esami clinici e di trattamenti. Di conseguenza si sviluppa una prospera industria farmaceutica, i costi della salute aumentano al di là di ogni previsione, e ci si chiede per quanto tempo i sistemi di solidarietà sociale e gli assicuratori privati potranno ancora accollarsi queste spese. Gli approcci alternativi e complementari costituiscono forse delle soluzioni in grado di contrastare questa impennata dei costi delle cure. In effetti, privilegiando una visione olistica dell’essere umano, queste pratiche insistono sul potenziale interno di ciascun individuo, incoraggiando a conservare il fragile equilibrio di corpo e spirito e cercano di attivare le capacità di auto guarigione dell’organismo.  La loro preoccupazione di prevenire la malattia piuttosto che di guarirla costituisce senza nessun dubbio un atteggiamento più intelligente, più responsabile, meno costoso, meno inquinante, in perfetto accordo con la logica di una coscienza ecologica, rispettosa dell’umanità e del pianeta. Per Andrew Weil, pioniere in questo campo e creatore di un programma di formazione sulle medicine alternative e complementari presso l’Arizona University, “la medicina allopatica è indispensabile per trattare dal 10 al 20 per cento dei problemi di salute. Per il rimanente 80 o 90 per cento, quando non c’è urgenza o la necessità di mettere in atto misure che agiscano rapidamente, ci sarà sempre il tempo di sperimentare altri metodi, trattamenti spesso meno cari, meno rischiosi e in ultima analisi più efficaci, perché anziché indebolire i meccanismi di guarigione dell’organismo agiscono di concerto con essi”. [16] Il discorso dunque che contrapponeva la medicina convenzionale alle terapie alternative non è più di attualità. Si tratta piuttosto di esaminare l’efficacia e la collocazione di ciascun approccio all’interno di una “medicina integrata”. È in questo spirito che l’OMS ha di recente raccomandato una maggiore collaborazione tra le medicine convenzionali e le pratiche alternative e complementari: un consenso infatti si sta delineando a livello mondiale. Bisogna favorire una riforma nel settore della salute.”[17]

 


 

4.

Ho cercato di definire la situazione di counseling medico, rendermi conto – anche per sommi capi – in che cosa consiste e l’importanza che ha nel cosiddetto rapporto medico-paziente. Ho scoperto che già a partire dalla fine degli anni ’70, inizio anni ‘80 all’interno della classe medica sono emerse delle prese di posizione che riguardavano apertamente “la crisi del dialogo medico-paziente”[18] (Mario Boni – 1980), un periodo in cui tra l’altro il modello EBM (Evidence Based Medicine) andava crescendo e affermandosi a causa delle travolgenti scoperte scientifiche, a partire dai nuovi metodi di imaging (PET, RNM…) e i primi studi sulla tipizzazione del genoma umano.

 

“Tradurre il termine counseling è difficile poiché il suo significato si pone in uno spazio intermedio tra due concetti correlati ma distinti: la consulenza e la relazione di aiuto. Il counseling è, in effetti, una consulenza all’interno di una relazione di aiuto. La consulenza è un intervento nel quale vengono messe in gioco le competenze specifiche di un professionista. Una relazione di aiuto è invece un processo nel quale un soggetto, mediante l’offerta di tempo, attenzione e rispetto, e talvolta col sostegno di specifiche metodologie, aiuta un altro che è in difficoltà a ritrovare risorse e modi per condurre in modo produttivo la sua esistenza”. (http://www.aspicnapoli.it/index.pl/counseling)[19]

 

“Una comunicazione efficace è fondamentale perché medico e paziente condividano delle scelte. Ma il medico, soprattutto il medico di famiglia,  non utilizza il counseling o lo utilizza poco, intanto a causa di una burocrazia dominante, strutturale, che travolge l’attività del medico sempre più legato da lacci e laccioli di ogni tipo: un paziente che osserva un medico concentrato sul suo computer più che sui suoi problemi, percepisce scelte terapeutiche che non lo coinvolgono. E poi anche a causa dell’elevazione socioculturale del paziente stesso: ma per quanto questo processo sia di per sé positivo, è stravolto, molto spesso, da false ed illusorie immagini, propinate dai media più disparati; ciò innesca speranze o aspettative inesaudibili. La mancanza di dialogo e un senso di frustrazione invade il paziente che reagisce ricorrendo sempre più frequentemente al contenzioso. Il medico, dal canto suo, già frustato da burocrazia e controlli, è costretto ad una “medicina di difesa”, prescrivendo così ogni sorta d’indagini o terapie senza nemmeno aver focalizzato compiutamente la situazione reale. Nasce così il problema dell’identità del medico che si trincera sempre più dietro il camice per difendersi compromettendo definitivamente il dialogo con il proprio paziente. Perfezionare il proprio sistema di comunicazione è un processo che vede il medico “mettersi in gioco” in prima persona riaffermando, o meglio ritrovando la sua identità professionale e la sua autostima”.[20]

 

“La crisi del rapporto medico-paziente, seppur nata negli anni ’70, oggi è apertamente riconosciuta e dibattuta in seminari e convegni di categoria. Cause strutturali e sociali incidono sul problema al quale il medico pone soluzione, il più delle volte, costruendosi un’identità non originale a barriera delle richieste dell’utenza. Nasce la necessità di riappropriarsi di strumenti efficaci di comunicazione e relazione, che diano competenze di counseling da utilizzare nello studio, con vantaggi ed economie per il cittadino e il Ssn, oltre interessanti prospettive, anche economiche, per i medici di famiglia. L’apertura alla comunicazione nella relazione medico-paziente produce una ottimizzazione del rapporto, comporta un mirato impiego delle risorse, previene episodi di burn-out del medico, che è parte integrante nell’osservazione della relazione paziente-medico. La comunicazione efficace permette di esprimerci, ci relaziona immediatamente agli altri, crea legami. La comunicazione errata produce conflitti, insoddisfazioni, allontana, incrina i rapporti. Acquisire abilità comunicative e relazionali può ricostruire un’identità lacerata, causa di disaffezione professionale e crisi personale” (Maria Menditto)[21]


 

5.

Counseling Medico (definizione autoctona): già il Counseling è una relazione d’aiuto. Il Counseling Medico è una relazione d’aiuto speciale all’interno della quale il paziente si sente innanzitutto accolto e ascoltato, poi compreso, orientato, indirizzato, e finalmente curato.

Il processo di guarigione passa necessariamente attraverso l’atteggiamento del medico che accoglie, ascolta, comprende: proprio nel senso di “prendere insieme” al paziente il senso della sua malattia (storia[22]) e riorganizzarla in funzione di un cambiamento.

Il cambiamento altro non è – pedissequamente – che il passaggio da uno stato iniziale a un altro successivo, e in questo senso coincide perfettamente con la terapia, che è, appunto, un cambiamento da uno stato precedente a uno successivo.

Ma è anche “formazione”: un processo formativo è comunque un processo di cambiamento, anzi: il processo di cambiamento più importante.

Finalmente il medico dovrebbe essere, nella sua veste di Counselor, uno stimolatore di cambiamenti positivi nel paziente, ovvero un terapeuta – ovvero un formatore – ovvero una guida, che dovrebbe prendere per mano il pz, istruirlo, e metterlo nelle condizioni di poter gestire con relativa tranquillità qualunque manifestazione di malattia comunque presente in ognuno di noi. E per i risultati che raggiunge, foss’anche un semplice guizzo di felicità negli occhi del pz che subito dopo si spegne in una catatonica accettazione, ecco: trarre la giusta motivazione per continuare ed aumentare la sua capacità di accogliere, ascoltare, comprendere.

Il bagaglio di sapere più grande del medico, e quindi la sua maggior fonte di gratificazione, dovrebbe essere costituito dal continuo cumularsi delle esperienze di incontro con i pazienti, con l’unico obiettivo riconosciuto di incontrare se stesso.

È solo quando incontra se stesso che il medico è pronto – veramente pronto – ad accogliere, ascoltare, comprendere.

 

(La verità è che la maggior parte dei medici incontrano la loro parte più materiale, a volte persino la loro demotivazione, il loro burn-out che spesso però non sanno riconoscere, e nella migliore delle ipotesi, cominciano a considerare se stessi dei banalissimi contenitori di voti e di potere. Ma questa è un’altra storia.)

 

Linguaggio: il medico non parla più lo stesso linguaggio del pz: e la malattia è diventata per il pz essa stessa un linguaggio incomprensibile e quasi sembra non riguardarlo. Chi dovrebbe essere in grado di comprenderla non sa più comprendere, e chi dovrebbe essere compreso rimane sempre più incompreso e confuso. Il senso del counseling medico dovrebbe essere appunto quello di “trovare” quel linguaggio che faciliti la comunicazione, che “accomuni” il medico e il pz in un progetto di crescita e cambiamento comune…

 

Tempo: il medico non ha più tempo da dedicare al pz: è preso dai suoi impegni, anche professionali, è impegnato quasi sempre in una promozione di quel farmaco piuttosto che del tal altro, ha troppi pz da seguire, per cui dà frettolosamente uno sguardo a chi gli sta davanti, gli prescrive una bellissima medicina che farà sicuramente effetto – mah! – e lo congeda con un “Avanti il prossimo”. Ma questo nel migliore dei casi. Altre volte, sempre più spesso, il “lavoro medico” del medico consiste nel dettare telefonicamente una qualche medicina, oppure – ancor più frequentemente – delegare una qualche segretaria al compilamento di ricette farmaceutiche già in precedenza opportunamente standardizzate in un PC.

 

Attenzione: il pz richiede l’attenzione del medico, la malattia richiede l’attenzione del paziente che richiede l’attenzione del medico. Quasi tutte le richieste dei pazienti sono disattese dalla disattenzione del medico. Mentre le persone non hanno più riferimenti importanti.

 


 

6.

La necessità del counseling medico (l’altro lato della medaglia di cui al punto precedente)

È bello e interessante pensare al counseling dal punto di vista del medico. Il fatto è che il counseling medico dal punto di vista del medico sembra essere diventata una forma quasi inderogabile di comunicazione con il paziente. Infatti, ancora oggi nell’immaginario collettivo, si considera il medico come un’autorità al di sopra di tutto, a cui spesso affidiamo la nostra stessa vita, e del quale abbiamo una visione mitica, ovvero distante dalla nostra quotidianità. Ciò prevede tutta  una serie di riflessioni sul rapporto medico-paziente all’interno del quale è abbastanza semplice e agevole scoprire una comunicazione up-down in cui il medico è ovviamente up, mentre il paziente è down. Ma le cose, benché a prima vista incontrovertibili, non stanno propriamente così. Infatti il cosiddetto prestigio del medico è continuamente minato alla base da tutta una serie di fattori che ne limitano non solo la possibilità di mettere in gioco le sue risorse professionali e umane, ma addirittura riducono il suo campo di azione, relegandolo spesso a un semplice smistatore, con lacci e laccioli burocratici che lo controllano e lo rendono spesso inefficace. Mi riferisco naturalmente al medico di base, ma anche a tutti quei medici, sia pur specialisti, che in ogni caso operano nel territorio, così da rendere poco significativo da un punto di vista relazionale il rapporto medico-paziente. Intanto le istituzioni, che richiedono riduzioni di budget, controlli sulle spese, limitazioni sugli accertamenti clinici e strumentali – giusto, ma è questa la medicina?, molto Evidence Based, naturalmente, con interessi economici che non sto qui ad analizzare perché me ne rimane solo il sospetto, e la necessità di controllare la spesa pubblica su procedure e terapie spesso inefficaci, ma ancor più spesso lontane dal vissuto del paziente: mi prendo l’esclusiva responsabilità di quello che dico – stavo dicendo: dall’altro la pressante richiesta del paziente che, tutt’altro che essere o sentirsi down, si propone al medico quasi sempre con una diagnosi pronta – autodiagnosi – una serie di accertamenti che vuole prescritti, una terapia farmacologica che sa già quale essere la più appropriata per lui, perché la televisione, ma soprattutto internet gli hanno dato la possibilità di studiare il problema e di rivolgersi al medico per una mera questione burocratica, eccetera. Non so giù al nord, ma molto più giù, al sud, spesso il paziente arriva dal medico richiedendo subito che gli si venga misurata la pressione, perché gli gira la testa o si avverte pallido, arriva dal medico spesso con una lista di farmaci lunghissima da prescrivere, così si fa le scorte e rimane tranquillo per almeno un mese;  ciò riguarda ovviamente – ripeto – la gestione del paziente cronico, con diabete e ipertensione, per esempio, o malattie cardiache tipiche dell’età avanzata, o quant’altro. Diciamo che la necessità di un counseling si fa molto più che impellente. Del resto, il

 

99% dei medici vede abbattuto il proprio prestigio sociale – Una  volta si consideravano un 'buon partito'. Insieme ad avvocati, ingegneri, architetti, ritenevano, a ragione, di essere una categoria di tutto rispetto. Ora non più. Il 99% dei medici italiani ritiene infatti che, negli ultimi anni, il prestigio sociale del camice bianco si sia progressivamente ridotto: l'87% "di molto", il 12% "nella norma".[23] Sarà per la grave crisi economica che sta riguardando un po' tutti, o forse il crescente fenomeno del precariato che ormai investe anche i giovani medici, o perché il rapporto con i pazienti non è lo stesso di una volta, ma un sondaggio che esprime una percentuale 'bulgara' di questa portata, non lascia spazio a grossi dubbi. Interessante è però un altro dato emerso dall'indagine di Univadis: l'1% di camici bianchi che non vede per nulla ridimensionato il suo prestigio sociale. Beati loro.”

 

E ancora un’altra questione molto scottante che determina  una difesa a oltranza da parte del medico che rinuncia al suo ruolo a al suo “CORAGGIO” – sarà una parola grossa? – per non incappare nei frequenti contenziosi cui i pazienti li costringono – alcune volte a ragione, per carità, ma appare ovvio che questa situazione sia più che altro il sintomo, questo sì grosso, di uno scollamento, di un allontanamento della figura del medico dagli schemi di riferimento – tra le guide, cioè – delle persone. Per quanto, a dar conto a qualche statistica on-line, sembra proprio che la più importante causa di morte tra gli italiani siano gli errori medici (per lo più ospedalieri, però). Anche qui il senso di un aggiornamento travalica la passione della persona-medico, la quale si vede costretta a degli ECM (Educazione Continua in Medicina) spesso assolutamente burocratici e fini a se stessi, comunque sia EBM e altrettanto spesso senza alcun interesse reale per la pratica quotidiana dell’arte; oppure, per contro, a interessantissime conferenze sulla finissima patogenetica che sta alla base di un disturbo o di un alterato funzionamento di un organo piuttosto che di un altro, con l’interessante prospettiva – naturalmente – di mettere a punto efficacissime terapie farmacologiche – le classiche pillole che risolvono tutto, con reale guadagno e controllo sociale soltanto da parte di potenti holding farmacologiche pronte a fiutare l’affare – ma sempre lontani da un ottica di Medicine Narrative che è il solo approccio in grado a mio avviso di riportare a una ragionevole efficacia di comunicazione il rapporto medico-paziente, dentro cui i ruoli possono re-investirsi: up il medico e down il paziente. Tanto per citare una notizia degli ultimi giorni

 

SNAMI Lombardia preoccupata dai LEA. I nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) per le prestazioni sanitarie rischiano di aumentare il contenzioso tra medici e pazienti. Colpa delle molte limitazioni alle prescrizioni di esami specialistici e di laboratorio previste. A esprimere preoccupazione è Roberto Carlo Rossi, presidente del Sindacato nazionale autonomo medici italiani (Snami) Lombardia. "Il medico - dice Rossi - è già oberato da troppi obblighi burocratici e non si sentiva davvero il bisogno di ridurre ulteriormente il tempo che può dedicare a visitare e a parlare con i propri pazienti". Con i Lea, secondo Rossi, saranno introdotte limitazioni per gli esami specialistici e, "come al solito, saranno i medici di famiglia a doverlo spiegare ai pazienti 'imbufaliti'. Auspichiamo quindi un maggior coinvolgimento delle organizzazioni sindacali di categoria e auspichiamo altresì che il provvedimento venga modificato, quantomeno nella sua applicazione a livello delle singole Regioni", conclude il presidente dello Snami Lombardia.”[24]

Sembra una notizia banale, in realtà la dice lunga su cosa le istituzioni oggi richiedano al medico: efficienza da un punto di vista aziendale, nessuna importanza al rapporto medico-paziente, che rimane sullo sfondo, con in più la complicazione della sindacalizzazione, che la dice ancora più lunga sulla riflessione dei ruoli, sul senso della salute, sul diritto-dovere, e sul fatto che – sempre qui, molto più giù al sud che giù al nord – permangano comunque atteggiamenti del medico volti a un controllo elettorale dei pazienti piuttosto che della loro salute. Ma questa, al solito, è un’altra storia ancora.

 

Il medico a mio avviso deve rivedere comunque il suo ruolo nella società attuale, reclamando con forza – CORAGGIO? – il suo ruolo di guida, di educatore, di persona disponibile a farsi carico delle persone, dei loro problemi e delle loro malattie, evitando di attuare relazioni schizofreniche in cui il paziente è una cosa e la malattia è un’altra, come se non ci fosse nessuna relazione tra il paziente e la sua malattia, che spesso è anche la sua storia, soprattutto nella cronicità, o nel campo geriatrico, altro ambito in cui la società – e il medico – devono ancora imparare a fare i conti. Deve riappropriarsi del suo ruolo in campo sociale ed essere il primo attore della narratività, perché la narratività è l’unico spazio dentro cui può realizzarsi una comunicazione vera tra medico e paziente, ma anche per sottrarsi all’influsso degli interessi forti, politici e farmacologici in particolare, e tutto questo fuori da ogni retorica accademica o di elucubrazione intellettuale: l’interesse, quello vero, è e deve rimanere l’altro, nella sua totalità, con mezzi e competenze appropriati, con il giusto itinerario formativo, e soprattutto con l’obiettivo di ritrovare un senso e un significato comuni sia al suo essere medico, sia al suo essere persona in relazione, sia al suo proporsi come guida a un paziente che, pur rimanendo ancora o addirittura peggiorando la sua situazione di paziente, cerca di emanciparsi dal suo essere down con il medico, complice l’istituzione che, oltre a non mettere il medico nelle condizioni ottimali a svolgere il suo ruolo di medico, trascura soprattutto il paziente, che viene così ad essere considerato, nella migliore delle ipotesi, un numero qualunque di una qualunque anonima statistica.

 

 


 

7.

Il cambiamento: il senso della domanda perché?, tipica di certa parte di medicina positivistica alla ricerca – assolutistica – della causa prima di tutti i malesseri, dell’eziologia, della patogenesi – tutte cose utili, nel tentativo di trovare una panacea da “somministrare” e in grado quindi di risolvere ogni problema “dall’esterno”, somministrazione ovviamente elargita dai soliti pochi eletti che si fanno così comunque detentori di un potere esoterico, oltrecché assoluto, ecc… contro la domanda che cosa?, ovvero il senso del qui e ora cui il medico spesso rinuncia, o dà per scontato, o non ha le competenze per attuarla, o la domanda non se la pone affatto semplicemente perché non ne ha consapevolezza… in accordo con le idee contenute in Change,[25] uno dei libri più importanti del Mental Research Institute di Palo Alto, con Paul Watzlawick in testa. (il senso del counseling medico potrebbe essere più approfondito, se non addirittura scoperto, nella capacità di stare dentro questa domanda: che cosa?... e non: perché?...)

Così come già accennato in altro momento, il cambiamento pervade la vita. Ma il cambiamento che si attua nella relazione medico-paziente attraversa un itinerario – fatto di incontro empatico, anamnesi, esame obiettivo, orientamento… fino all’eventuale prescrizione di una terapia. La terapia è un cambiamento, così come tutto il processo di formazione che lo precede. E dico formazione, altro cambiamento, perché – come dice Carlo Romano[26] – si parte insieme da un punto, si percorre un itinerario e si perviene a un obiettivo, più o meno dichiarato, più o meno voluto, più o meno centrato. Ora, tutto questo appare abbastanza scontato e facile da realizzare. In realtà, seguendo le riflessioni di Change, non è affatto così semplice

 

“individuare con la massima chiarezza la natura del cambiamento e i modi per effettuarlo. Ma quello che è a portata di mano spesso è più difficile da prendere”

 

Il fatto è che spesso, curiosamente, della maggior parte delle strategie attuate, e che producono cambiamenti efficaci, non si sa enunciarne le basi teoriche.  Questo perché

 

“per esprimere o spiegare qualcosa occorre passare a un livello logico superiore a ciò che si deve esprimere o spiegare. Non si può dare nessuna spiegazione allo stesso livello: si deve impiegare un metalinguaggio, ma tale metalinguaggio non è detto che sia sempre disponibile. Una cosa è effettuare un cambiamento; una cosa ben diversa è comunicare su questo cambiamento – vale a dire che si tratta soprattutto di un problema di corretta tipizzazione logica e di creazione di un metalinguaggio adeguato.”

 

La scuola Transteorica di Prepos propone un metalinguaggio sicuramente adeguato.

 


 

8. MEDICINA NARRATIVA

 

Racconto personale

 

Counseling di accompagnamento alla morte. Viviamo in una società in cui la morte è un tabù. La si vede al cinema, alla televisione, sui giornali, ma è sempre qualcosa di astratto e lontano che riguarda gli altri. Non se ne parla, non ci si pensa, e quando tocca l'individuo da vicino c'è un lavoro molto profondo da fare per permettergli di affrontarla con maggior serenità. Cancro e Aids sono le grandi sfide del secolo che stanno spingendo la cultura occidentale a prendere in considerazione anche questo aspetto della vita e a creare un ruolo professionale specializzato nell'affrontare, con una modalità laica, questo tipo di situazioni.”



 

Evidentemente è necessario riflettere sul proprio ruolo di medici. Quasi nessuno è disposto a mettersi in gioco, preso com’è da un millantato, quanto inevitabile senso di onnipotenza che lo pone al di sopra dei pazienti, comunque in una posizione lontana dalle persone, dai vissuti, dalle storie che i pazienti – di fronte a questi medici – non riescono quasi mai a raccontare.

In questo momento sto cercando di fare mente locale, e ricordare degli episodi che riguardano la mia storia professionale di “semplice” medico di guardia medica nei vari paesi della provincia di Agrigento. Alcuni devo riconoscere molto significativi, col senno di poi – sebbene quando si sono verificati non avevo dato loro chissà quale significato.

Lavoravo nella guardia medica notturna e festiva di San Giovanni Gemini, in provincia di Agrigento, sempre per conto dell’AUSL. Saranno state le due di notte. È incredibile come a ripensare a quella notte mi sovvenga un sorriso spontaneo che non so trattenere, ma che mi riempie di qualcosa che ancora oggi non saprei spiegare, se non avessi incontrato il Prof. Masini, il quale – oltre a essere riuscito a convincermi sul valore del Counseling e dell’Artigianato Educativo (fermo restando che in me ha trovato sicuramente  terreno fertile!) – mi ha anche regalato un libro scritto da lui su Medicina Narrativa: ecco il nesso invisibile tra l’episodio che ancora non racconto, il Prof. Masini e il mio essere incredibilmente medico malgrado me stesso.

Dicevo: una notte forse autunnale, dato che non ricordo particolari frescure – passavo, e tuttora passo le mie notti in guardia medica, a leggere e soprattutto a scrivere – ciò che mi capita – ho questa strana impellenza. E dunque leggevo, e di sicuro scrivevo – non sarà stato per caso l’atto unico Caffè con limone? (un modo come un altro per comunicare il mio talento teatrale) – e sento suonare il campanello. Naturalmente mi alzo – sempre all’erta – e anzi scrivere probabilmente mi scarica dall’ansia di dover affrontare comunque, da solo, una notte in cui dal punto di vista medico potrebbe succedermi di tutto – e se non fossi all’altezza?, e se mi capita un infarto?, un edema polmonare acuto?, un soffocamento?, una crisi allergica?, uno shock di qualunque tipo? Eccetera: tutte le mie paure: chissà se c’è l’adrenalina – saprò fare la diluizione? E il Kombetin? Il Bentelan da 4 mg o magari il Flebocortid da 500?... Ripeto: eccetera. – (Be’, a pensarci probabilmente si tratta di ansie esagerate, non faccio certo la guardia in un pronto soccorso tipo A-R o cose del genere. Pur non di meno l’armamentario farmaceutico a mia disposizione è più che sufficiente per qualunque emergenza possa succedere in un paesino di poche anime in cui presto il mio modesto servizio: c’è un’ambulanza a disposizione, in fondo. Oppure il 118, oppure… vabbè. Non rinuncio comunque ad affidarmi sempre a qualcuno: un conto è la pratica e un conto è la teoria. Rifletto sempre sul fatto che nel mondo occidentale – o forse soltanto in Italia? – la maggior causa di morte è dovuta agli errori medici – Mah! In ogni caso, mi capita pure spesso di addormentarmi per qualche ora…) –

Sembra che io non voglia raccontare alcunché. Non è vero. Mi sto sforzando di farlo. Dicevo: il campanello. Con l’ansia contenuta – arousal? – che mi caratterizza – per meglio dire: a causa di questa onnipresente ansia malcelata – mi alzo all’apparenza flemmatico e vado ad aprire. Strano spettacolo. Una folla assiepata dietro la porta. Una signora di mezza età:

         “Dottore, possiamo entrare?”

Dio mio, che è successo?, penso. È esattamente uno di quei momenti in cui si realizza la necessità di affidarmi a qualcuno. Dio, appunto. Oppure al mio angelo custode. Che prego mentre faccio entrare la folla nella speranza che non sia successo nulla di irreparabile e che io sia in grado di…

         “Allora, dottore, posso parlare?”

Per sicurezza mi siedo dietro la scrivania, come al solito quando mi difendo. E la sicurezza a cui mi riferisco in realtà è un’auto-rassicurazione. Mi rinchiudo appunto nel mio ruolo, vorrei impedirmi di entrare in contatto – come al solito – con tutte queste persone che mi stanno davanti. Ma cosa vogliono? – il bello è che tutti questi miei pensieri avvengono in un attimo, tra le pause della voce della signora. Mi preoccupo esageratamente come quando sto per entrare su un palcoscenico qualunque durante una qualunque delle mie peregrinazioni artistiche teatrali: letteralmente me la faccio addosso, vorrei scappare, ma poi, all’ultimo momento… eccomi sul palcoscenico, e tutto diventa semplicissimo:

         “Forse siamo in tanti, dottore, ma non si deve preoccupare: questi sono i miei figli e le mie figlie, con mogli e mariti…”

         “E anche nipoti”, dico io.

“Dottore, non se l’abbia a male, lo so che è inutile, ma…” La signora comincia a piangere, subito circondata e consolata dalle altre donne, figlie e nuore, evidentemente.

Una di loro comincia a parlare lei:

“Vede, dottore, mio padre sta male, sta veramente male. Oggi è venuto il nostro medico di famiglia e gli ha fatto un’iniezione che lo ha fatto stare bene. Ora però sta soffrendo e non sappiamo cosa fare. Lo sappiamo che è inutile, ma sa?...” 

Sembrava avesse ritegno: o forse non aveva il coraggio di chiedermi qualcosa che a me, sicuramente, sarebbe sembrato inutile…

“Mio marito ha il cancro e sta morendo, non sappiamo nemmeno se arriva a domani, per questo le diciamo che è inutile, ma che vuole?, quando si vede un proprio caro soffrire noi vorremmo soffrire al posto suo – e soffriamo anche noi – anch’io, a vederlo soffrire così. La prego, ce la può venire a fare un’iniezione che così sta un poco meglio?”

E va bene, allora partiamo. Io prendo la mia macchina e vado dietro a una processione di altre macchine. Ma sono tutti qui?, rifletto, non è che il malato è rimasto solo? Boh. Ha tutta l’aria della prova di un funerale, una sfilza di macchine, io con la mia nel mezzo, l’onore di una scorta ufficiale. Un paio di chilometri. Arriviamo in una strada larga, un agglomerato di case che fa pensare a un grande condominio popolare. Da molte finestre, malgrado l’ora mattutina, traspare la luce tremula di un qualche abat-jour rimasto acceso nell’attesa di un arrivo. Ricorda molto la parabola delle vergini del Vangelo, in attesa dello Sposo che prima o poi verrà a bussare… la storia dell’olio e delle lampade.

Mi indicano di posteggiare la macchina in un luogo facilmente accessibile. Loro posteggiano, abituali. Scendono tutti, mi aspettano. Spengo il motore. Afferro la mia borsa. Scendo. Chiudo. Sto fermo un po’ a guardare quella piccola folla surreale. Mi avvio. In gruppetti di due o tre, si dirigono verso un portone socchiuso, rimasto all’apparenza incustodito, in realtà tenuto continuamente sotto controllo da sguardi molto benevoli che avverto discreti dalle finestre contigue. Saliamo su per una ripida scala in fila indiana. Inevitabilmente il pensiero mi va alla difficoltà di far scendere da lì un’eventuale bara…

   “Se muore dovremo scenderlo con le lenzuola”, dice molto lucidamene una delle giovani donne, probabilmente nuora, quasi a leggermi nel pensiero. Emano solo un sospiro e continuo a salire. Arriviamo davanti a uno stretto pianerottolo, su cui una maniglia traballante apre un’esile porta: entrano tutti, tranne la madre, che mi invita ad entrare dopo di lei. Una piccola stanza, un ingressino, un soggiorno lì a lato, un’altra porta, ennesimo rituale: entrano tutti, tranne la madre, che entra subito dopo di me. Entro anch’io. Una luce fioca, illumina appena un letto matrimoniale, disfatto, su cui è seduto, con i piedi incrociati sotto le gambe, un uomo, indefinibile nell’età, non sembra molto anziano, gonfio di cortisonici, uno sguardo cupo, gli occhi scavati, una sofferenza che è negli occhi di tutti, mi si apre una specie di comitato d’onore dentro cui faccio il primo passo. Mi fermo fissando l’uomo che probabilmente non s’aspetta affatto da me l’intervento anti-dolorifico tanto desiderato dalla famiglia, avverto semmai il suo estremo desiderio di farla finita al più presto possibile. Questo mi blocca. Il solito silenzio che mi avvolge quando ho su di me l’attenzione del pubblico da attore consumato. Lo guardo con tutta l’umanità di cui sono inconsapevolmente capace. Due secondi pesanti. Poi, non posso fare a meno di dire:

   “Ma quando moriamo?”

Sembra  una boutade di cattivo gusto: magari un tantino macabra. Altri secondi muti, pesanti. Ho l’impressione, alquanto da incosciente, di aver detto quello che nessuno di loro, malato terminale compreso, aveva avuto fino ad ora il coraggio di affermare. Improvvisa una risata senza freni da parte del malato:

   “Ah ah ah ah!...!” E mentre lui continua a ridere, la madre, nella sorpresa generale, si mette a singhiozzare, sotto lo sgomento di tutti. In effetti un po’ mi preoccupo, pensando di averla detta grossa, per questo cerco lo sguardo della madre, sperando di trovarvi una qualche rassicurazione. E lei, altrettanto improvvisa, mi dice:

   “Oh dottore, non ci crederà, ma sto piangendo perché sono contenta: era da tanto che non lo vedevo ridere così, con gli scàccani.” E tutti le si stringono attorno, per sostenerla, accompagnandola dolcemente ai piedi del letto. Mi avvicino anch’io. Preparo un’iniezione di un comune anti-dolorifico, che somministro solerte. Non so quanto efficace, ma a questo punto un qualunque mio intervento è comunque vissuto da questa famiglia come benefico. Anche il malato mi ringrazia, sorridente. Saluto, mi avvio, accompagnato dalla madre piangente.

Mi rimane ancora qualche ora di questa notte che non finisce più. Finalmente le otto del mattino. Finalmente smonto. Un cielo insolitamente terso. Quasi scappo via, scaricando sull’accensione della Focus SW la mia soddisfazione: tuttosommato, penso, non è andata poi così male – pregustando il caffè che sorbirò tra qualche minuto, nel mio solito bar, tutte le mattine che finisco il turno di notte: la mattina della smonta il caffè è sempre più buono. Ecco il bar. Posteggio, mi fermo, spengo. Scendo.

“Buongiorno, dottore”.

“Buongiorno”. Entro,  lo sguardo distratto a un manifesto funerario appiccicato al muro, gocciolante di colla. 

“Un caffè”

“Subito, dottore. Nottata tranquilla stanotte?”

“Più o meno, le solite cose”.

“Pronto il caffè.”

Lo sorbisco piano. Buono. Metto le mani in tasca per prendere la monetine e pagarlo, ma il barista mi previene:

“No, dottore, lasci stare: oggi il caffè glielo offro io”

“E come mai?...”

“Non lo so, guardi: mi viene così, sento di farlo, stia tranquillo”

“Va bene, come vuole, grazie”

Saluto e me ne vado. Uscendo, lo sguardo sul manifesto funerario. Stavolta vi riconosco il nome della persona malata di cancro… Sento subito la sua risata inaspettata. Una specie di brivido su tutta la schiena. Che ma l’abbia offerto lui, il caffè?

 

 

9.

Analisi idealtipica di un io, oggettivo e guida, che dialoga interiormente (anzi: monologa) con l’io che ha vissuto l’esperienza appena su narrata: “Intanto, caro Salvatore, mentre scrivi – descrivi – l’evento, mostri una capacità di ‘vederlo’, un distacco che ti qualifica come delirante: cioè la tua personalità si associa alla creatività del delirante. Poi, ancora: non si direbbe, ma quando arriva la famiglia in guardia medica quasi ti ritiri, e mostri un atteggiamento che ancora non ti conoscevo, cioè da invisibile – tra l’altro una personalità che più che vedere l’altro, lo ‘sente’, emozionalmente, e l’ascolta, lo comprende, pur sembrando quasi preoccupato, dato che avrebbe potuto comunque trattarsi di qualcosa di grave, che avrebbe potuto mettere a dura prova la tua capacità di medico (non sarà che in guardia medica, per controllare le tue ansie, hai imparato ad essere un po’avaro e non lo sapevi?)

Insomma in poche parole attivi la tua emozionalità ed entri in contatto (probabilmente hai oscillato tra l’invisibile e l’apatico, perché se da una parte ti sei attivato per ascoltare, dall’altra ti sei placato per evitare che l’ansia ti impedisse di ascoltare al meglio, ovvero di empatizzare con le esigenze – adesive – di tutta quella gente che ti stava davanti.)

Finalmente sei andato con loro, e hai preso in mano la situazione, da condottiero ruminante; sei salito, hai guardato il malato e lo hai quasi apostrofato dicendo: ‘Ma quando moriamo?’ Chissà perché t’è venuta in mente questa frase. Il fatto è che ha sortito un evento imprevisto: ha provocato, per dirla con Watzlawick, un cambiamento di tipo 2.([27] )

Tu hai incontrato l’incompetenza a morire di quel signore, e l’incompetenza a lasciarlo morire della sua famiglia. Ho detto ‘incompetenza’, non volontà. E però hai colto l’adesività di tutti entrando in sintonia con la parte emozionale, in poche parole hai tirato fuori l’arousal puro dello sballonaccio che sei. Per questo il ‘malato’ ha cominciato a ridere, provocando la ‘commozione’ della moglie – commozione, non emozione. In quel momento il legame si è spezzato e la morte – strano, a dirsi così! – ha cominciato a fluire, accettata, col giusto dolore, ma con la necessaria competenza – e lo dico: necessaria! – che è arrivata improvvisa. Il tramite sei stato tu, caro Salvatore, ma ti sei accorto come hai fatto? Credo proprio di no.([28]) Il senso del Counseling medico, del Counseling in generale, può essere appunto riassunto in questo: la capacità di provocare un cambiamento 2. Senza necessariamente sapere come. Si chiama intuito? Anche. Ma bisogna riconoscere che in fondo si tratta di una capacità che si fonda su delle basi teoriche già profondamente acquisite ma di cui non si ha consapevolezza. Del resto, per ottenere tale consapevolezza è necessario acquisire un metalinguaggio – ovvero essere in grado di attuare un cambiamento del cambiamento, un cambiamento 2, appunto. Ma in tal caso sei impegnato non ad attuarlo, ma a percepirlo. Probabilmente questo è il nesso, che ti darà ancora da pensare, in un prossimo futuro.

C’è un’altra cosa che va sottolineata, prima che mi sfugga: il fatto che, attraverso quella battuta, sei riuscito a motivare il ‘malato’ alla risata, utilizzando – sempre ovviamente senza accorgertene – il tuo essere ruminante, ma riuscendo a porre in positivo una potenziale opposizione che tale disposizione idealtipica, il ruminante, ha con l’adesività: il rischio cioè di creare un forte equivoco. (Ti sei comunque mostrato disponibile – aprendoti al dialogo con questa famiglia, e modulando tutte le tue risorse interiori, che potremmo definire una ‘potentissima capacità perforante’ senza che – ribadisco – tu ne abbia minimamente consapevolezza e senza che – ci scommetto – tu sappia darne una spiegazione decente. Anzi, forse è proprio la prima volta che ‘rifletti’ sulla tua capacità di creare cambiamenti duraturi nell’altro in un millesimo di secondo).

Chissà se un altro medico sarebbe riuscito a cogliere tale situazione. Del resto, rompendo il legame, hai permesso alla famiglia di liberarsi della morsa del ‘dolore inconsolabile e oppressivo’ dovuto all’imminente morte del congiunto – e anche qui senza saperlo sei persino riuscito a dare un sostegno per un evento che di solito, più che far ridere, fa emergere sofferenze che bloccano le persone in uno stato di prostrazione incondivisibile.”


 

10. Piccola precisazione.

“L’empatia affettiva conduce all’accettazione dell’altro e della realtà della sua presenza nel mondo, l’empatia cognitiva costruisce un  significato che può essere discusso e negoziato. Vale la pena di insistere sulle due forme di empatia e sulla loro natura: attraverso l’empatia cognitiva noi costruiamo una personale sapienza sui tipi umani, “l’importanza pratica della scienza sui tipi umani risiede nella sua applicazione a noi stessi, ed il cercare di classificare noi stessi e gli altri è un esercizio interessante e utile per affinare la nostra percezione psicologica” (Assagioli, 1978: 5). L’empatia emotivo-affettiva non è classificatoria, anche perché spesso ci dischiude a percezioni del vissuto altrui a noi ignote, o, se note, a qualche particolare significato, o sfumatura, del cui sapore non avevamo precedente conoscenza. Inoltre consente di percepire l’altro come persona che vive quella particolare emozione e di dar corpo, attraverso l’emozione condivisa, al processo di co-costruzione di un sentimento, anch’esso empatizzabile dalle persone in relazione e da terzi. Il processo che conduce dalle emozioni percepite alla condivisione ed alla co-costruzione di sentimenti, che prevedono attribuzioni intersoggettive di valore, diventa cognitivo in una successiva fase del suo sviluppo. Quando la narrazione si trasforma in testimonianza essa si apre verso l’empatia cognitiva. Con un processo del tutto inverso l’empatia cognitiva conduce alla comprensione del vissuto altrui partendo dalla condivisione di simboli su cui è possibile investigare intellettivamente. L’empatia cognitiva è un’intuizione categoriale, o un ragionamento, sull’altro, possibile in ragione della comune appartenenza alla specie. A partire dall’empatia cognitiva si può giungere alla percezione emozionale ed affettiva, ed alla costruzione di legami sociali mediante sentimenti condivisi, se le relazioni, faccia a faccia, aprono alla percezione dell’identità dell’altro come persona ed alla manifestazione autentica di vissuti “qui ed ora”. La cognizione può favorire l’empatia emozionale ed affettiva, ma solo se liberata da eccessi di proiezione ed immedesimazione, precategorizzati nel soggetto interpretante che rischiano di produrre effetti distorcenti della comprensione. Tento più autoritari quanto più intellettualizzati, giustificati teoricamente e, magari, verificati “scientificamente”. Questo è il principale rischio dell’approccio narrativo (in senso stretto). Esso rappresenta un modello fortemente attrattivo per molti studiosi ed operatori aperti all’umano sentire e li motiva verso la ricerca di interazioni produttrici di significato. Non è però detto che tale modello di comprensione del vissuto altrui si offra come forma indubitabile di sapere umanizzante. Può nascondere il rischio incombente di proiezioni e attribuzioni autoritarie poiché l’empatia cognitiva si fonda sugli schemi mentali di chi interpreta. Il frequente richiamo all’empatia negli scritti dei narratori non è garante di umanizzazione senza una chiara distinzione tra le forme dell’empatia: senza una coerente costruzione di sapere e di pratica relazionale fondata sul “sentire” piuttosto che sul “capire” il divario tra il coglimento empatico del vissuto del paziente (un racconto ogni volta nuovo) e l’intuizione diagnostica (categorizzazione della sofferenza in schemi cognitivi) può essere micidiale.” (Vincenzo Masini)[29]


 

11. Emozioni e cambiamento.

 

“Tutte le emozioni hanno un qualche ruolo regolatore da svolgere: assistere l’organismo nella conservazione della vita” (Antonio Damasio)

 

Le emozioni sono dunque, anche nel senso etimologico, un movimento verso qualcosa che alla fine permette ad ogni singolo individuo di sopravvivere.

 

“Tutti i meccanismi vitali, qualunque essi siano, hanno soltanto uno scopo: quello di preservare la costanza delle condizioni dell’ambiente interno.” (Claude Bernard – 1878)

 

sopravvivenza nel senso di mantenere integro l’equilibrio che la garantisce. In questo senso le emozioni giocano un ruolo decisivo: sono delle risposte utili all’adattamento all’ambiente.

 

La “costanza delle condizioni dell’ambiente interno” significa innanzitutto il mantenimento di ciò che chiamiamo omeostasi. Riconoscere e tenere in giusto conto le emozioni altrui, nonché esprimere le proprie, permette alla diade medico-paziente il raggiungimento di uno stato di equilibrio che garantisce in sé e per sé una migliore qualità della vita, ovvero permette di mantenere il più possibile costante l’ambiente interno, non solo quello del paziente, ma anche quello del medico. Claude Bernard, illustre fisiologo francese dell’ottocento, andava oltre quando diceva che “la costanza dell'ambiente interno – milieu intèrieur –  è una condizione per la vita libera”. C’è già in nuce in questa affermazione un’implicita attinenza tra comportamento e fisiologia, tra la possibilità all’azione – e scegliere di farla o non farla – e il mantenimento dell’omeostasi. E da un punto di vista bio-fisiologico ciò si realizza attraverso le emozioni.

 

“Ci si potrebbe riferire alle condizioni costanti che sono mantenute nell’organismo con il termine equilibrio. Questa parola, tuttavia, è usata nel suo preciso significato soltanto quando la si applica all’interpretazione di stati fisico-chimici relativamente semplici di sistemi chiusi dove forze conosciute si bilanciano. I processi fisiologici coordinati che mantengono lo stato stazionario negli esseri viventi sono così complessi e peculiari – implicando il lavoro integrato del cervello e dei nervi, del cuore, dei polmoni, dei reni e della milza – che ho suggerito una speciale definizione per questi stati, omeostasi. La parola non implica qualcosa di immobile e fisso, una stagnazione. Essa vuole indicare una condizione, una condizione che può variare, ma relativamente costante.” (Walter Bradford Cannon)

 

“Nel 1911 Cannon aveva dimostrato che era possibile indurre la secrezione di adrenalina con stimoli dotati di forte connotazione affettiva. Le ricerche sulla fisiologia dell’emozione, conseguentemente, posero in grande evidenza le funzioni del sistema nervoso simpatico. È infatti tale divisione del sistema nervoso autonomo a mediare la complessa reazione viscerale che avviene in concomitanza con le esperienze emotive e soprattutto nelle situazioni pericolose per la sopravvivenza e l’integrità dell’organismo, in tali casi essa è chiaramente adattativa, “reazione d’allarme” la definì Cannon, e finalizzata a preparare le migliori condizioni organiche per la lotta o per la fuga.” (Stefano Canali, Luca Pani)

 

“Nel 1936 Hans Selye, medico di Vienna, sviluppò il concetto di stress già espresso in precedenza da Cannon. E provò che se gli animali da laboratorio sono sottoposti a stimoli nocicettivi diversi – per esempio somministrazione di sostanze tossiche, troppo caldo, troppo freddo, ferite, infezioni, fatica) tutti rispondono in maniera generica allo stesso modo e cioè con: ipertrofia delle ghiandole surrenali, atrofia del timo e delle ghiandole linfatiche, sviluppo di ulcere gastriche. Nel 1946 Selye interpretò tale quadro come effetto di una reazione adattativa e difensiva dell’organismo, e la denominò “Sindrome genera leda adattamento” (GAS: Generale Adaptation Syndrome). In seguito lo studioso scoprì che tale sindrome risposta neuro-ormonale era mediata dal cosiddetto asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene, mentre l’ACTH (ormone corticotropo) è l’ormone in gioco, chiamato per questo ormone dello stress (che poi, in effetti, va a stimolare la corteccia surrenalica a produrre cortisolo, che ha grandi capacità antinfiammatorie). La GAS si evolve in tre fasi:

1.     reazione di allarme, che consiste nel tipico quadro fisiologico di attivazione simpatica (arousal) già descritto da Cannon: contrazione dei vasi sanguigni, determinando così migliore irrorazione sanguigna dei muscoli scheletrici necessaria all’azione; dilatazione degli alveoli, con maggiore ingresso di ossigeno richiesto dall’esercizio muscolare; mobilizzazione delle riserve di zucchero dal fegato, per avere a disposizione una maggiore quantità di energia; blocco delle funzioni digestive, inutili ma soprattutto dannose nelle situazioni di emergenza in quanto assorbono sangue nell’apparato gastro-enterico; rilascio di adrenalina dalla midollare del surrene, che rinforza per via endocrina l’attività del sistema nervoso ortosimpatico.

2.     fase di resistenza che mantiene l’arousal in risposta del protrarsi dello stimolo nocivo.

3.     fase di esaurimento che corrisponde allo stadio in cui l’organismo, avendo bruciato tutta l’energia per l’adattamento, diviene incapace di rispondere funzionalmente all’ambiente.

Gli stimoli che possono scatenare la GAS sono non solo di natura fisico-chimica, ma anche psico-sociale, come le ansie da lavoro, le preoccupazioni della famiglia, l’eccessivo moralismo. Il probabile meccanismo patogenetico di molte malattie è da ricercare nella cronicizzazione dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene e in una soppressione delle risposte del sistema immunitario tipica dell’eccessivo prolungarsi della fase di resistenza della GAS. In questo senso Selye stabilì una continuità così stretta tra i normali processi dell’aggiustamento omeostatico delle condizioni organiche ottimali e quelli della malattia, tra fisiologia e patologia tanto da poter addirittura affermare provocatoriamente: “La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si pensa di solito, noi non dobbiamo, e in realtà non possiamo evitare lo stress, ma possiamo andargli incontro in modo efficace traendone vantaggi.”” (Stefano Canali, Luca Pani)

 

 

 

 

 

 

 

Queste citazioni mi hanno fatto molto riflettere, permettendomi di  riconoscere una  evidente connessione tra il CONTROLLO, l’ATTIVAZIONE e l’AROUSAL con i processi che mantengono l’omeostasi e lo stress – che a ben pensarci è la continua tendenza a non mantenere integra l’omeostasi –  e tutto ciò che tali processi sostengono: il SISTEMA NERVOSO (CENTRALE, PERIFERICO, AUTONOMO); l’APPARATO ENDOCRINO; il SISTEMA IMMUNITARIO…

Proveremo in futuro ad approfondire meglio la questione, ma in questa sede mi sembra doveroso anche semplicemente ricordare, sia pure molto didascalicamente:

 

 

 

 

 

Arousal

 

Piacere

 

Sballone

(Effervescente)

 

Attivazione

 

Carica e rabbia

 

Ruminante

 

Controllo

 

Paura

 

Avaro

Arousal +

Attivazione

 

Attaccamento

 

Adesivo

Arousal +

Controllo

 

Vergogna

 

Invisibile

Attivazione +

Controllo

 

Distacco

 

Delirante

Basso livello di:

arousal, attivazione,

controllo

 

Quiete

 

Apatico

Alto livello di:

arousal, attivazione,

controllo

Frenesia instabile con: svuotamento di energia, irritabilità, astenia

 

Stress

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A proposito dello stress, è emersa negli ultimi mesi una interessante scoperta, e cioè che

“dietro i giovani bulli può nascondersi un problema ormonale. Bassi livelli di cortisolo, l'ormone dello stress, sono stati collegati al comportamento antisociale dei teenager maschi. In genere i livelli di questo ormone nel corpo si impennano nel caso di situazioni stressanti, per aiutarci a controllare le emozioni. Ma i ricercatori dell'Università di Cambridge (Gb) hanno scoperto che questo non accade ai ragazzi che hanno alla spalle una storia di gravi comportamenti antisociali. La ricerca, pubblicata su 'Biological Psychiatry', suggerisce che i giovani pestiferi potrebbero essere a loro volta vittime di una forma di disturbo mentale, collegato a uno sbilanciamento chimico nel cervello. L'aumento del cortisolo dovrebbe infatti rendere le persone più prudenti, e aiutarle a controllare le emozioni, in particolare il temperamento esplosivo e gli impulsi violenti. Il team britannico diretto da Graeme Fairchild ha reclutato un gruppo di giovanissimi studenti britannici, con o senza storie di aggressività e violenza, e li ha sottoposti a un test. I ricercatori hanno raccolto campioni di saliva dei ragazzi coinvolti in una situazione non stressante, per valutare i livelli dell'ormone in assenza di tensione. Poi i controlli sono stati ripetuti immediatamente prima, durante e dopo un esperimento stressante. Così si è visto che, mentre i ragazzi in media mostravano picchi di cortisolo proprio in coincidenza con la situazione frustrante, i livelli erano bassi nei coetanei con alle spalle storie di gravi comportamenti antisociali. Lo studio suggerisce dunque che violenza e aggressività dei giovanissimi possono avere delle basi biologiche, proprio come la depressione e l'ansia. "Se possiamo figurarci cosa di preciso impedisce una normale risposta allo stress, potremo essere in grado di disegnare nuovi trattamenti per aiutare le persone con gravi problemi di comportamento", spiega Fairchild. Che pensa anche a futuri interventi mirati per le persone ad altro rischio. "Un possibile trattamento offrirebbe la chance di migliorare la vita degli adolescenti colpiti da questo problema, ma anche delle comunità di cui fanno parte", conclude il ricercatore.”  (Fonte: Univadis, Medicina e oltre)

 

 

Le emozioni, dunque, fanno muovere verso il mantenimento della costanza dell’ambiente interno (quando tutto, molto semplicisticamente, funziona bene, ovvero quando esiste un equilibrio il più possibile stabile tra ambiente interno e ambiente esterno, ovvero tra le persone e l’ambiente. Ma in questo momento intuisco che è più proficuo mantenersi alla larga da questi ragionamenti – salvo svilupparli in altra sede). Al di là di come le emozioni si siano conformate –  riferendomi a un approccio del tipo “qui e ora” piuttosto che  andare a tentare di scoprire le cause, cioè il perché delle emozioni – esse sono comunque una chiara risposta, non una semplice espressione, non solo al bisogno, ma anche al modo di come esaudirlo. Nel “qui e ora”, noi  troviamo, riferendoci ai nostri idealtipi di personalità, che le emozioni del ruminante sono dominate dalla rabbia, per il raggiungimento – l’appagamento – di un bisogno che ha a che fare, per esempio, con il senso della giustizia, fino a caricarsi talmente tanto da potersi esprimere in veri e propri stati di collera esplosiva; nell’invisibile prevale il senso della vergogna, che lo costringe, per esempio, al nascondimento; nel delirante appare il disgusto, che lo fa allontanare da ciò che lo disgusta;  nell’adesivo  si esprime l’attaccamento, che lo espone a forti legami di dipendenza; lo sballone – ormai effervescente – sente la necessità di appagarsi fusionalmente, ricercando il piacere che ciò comporta, per non annoiarsi o immalinconirsi; nell’avaro domina la paura, che ha bisogno continuamente di tenere sotto controllo, per non soffrire lo stress, ovvero l’ansia che il senso della paura gli provoca, per cui non si lascia andare e rimane spesso chiuso in se stesso, nella sua rigidità;  l’apatico, in cui prevale  lo spegnimento di tutte le energie, per cui non si mette in gioco e tenta di ottenere il massimo con il minimo sforzo. Al di là di una mera enumerazione didascalica, in tutti questi casi c’è comunque un’alterazione del milieu intèrieur,  un’alterazione che – a discapito del concetto di tipo, o idealtipo –  è specifica e unica, appartenente cioè ad ogni singola persona, che a sua volta attuerà una compensazione che è valida solo per quella specifica circostanza.[30] Intanto è questa peculiarità che il medico deve sapere cogliere, fin da subito, empaticamente.

Ora ho da dire questo: che il medico non può nascondersi; è una persona che per scelta deve comunque mostrare una disponibilità in qualche misura un po’ maggiore di quanto non ne mostrino gli altri – pur garantendosi, ovviamente, il suo spazio vitale – certo, potrebbe scoprire di aver fatto una scelta sbagliata. In tal caso dovrebbe avere l’onestà intellettuale di dedicarsi ad altro. Ma laddove si mostra – mostrarsi non è affatto “esibirsi” – chiunque potrebbe rivolgersi a lui. Che anzi lo sceglie proprio perché il medico “si mostra”, cioè ha il coraggio di mettere in gioco le sue risorse, quali che siano, e di proporre la sua disponibilità nell’instaurare un’eventuale relazione d’aiuto. Ecco, non sempre si sa con chi si ha a che fare, e le risposte che il medico è costretto a dare, spesso sono risposte che deve dare in pochissimo tempo, pena la sopravvivenza del paziente.[31] In tal senso non c’è dubbio che già dai primi momenti del primo incontro lo sforzo del medico deve essere quello di provare a “individuare” la persona che gli sta davanti, cercare di captarne una sua qualche emozione prevalente, e su quella innescare un processo empatico che, oltre che nelle sua componente affettiva, deve essere inteso anche nella sua componente cognitiva, in quanto ci dev’essere una strategia adeguata da attuare, nonché il discernimento di quanto in quel momento serve ed è veramente utile, da ciò che si può procrastinare: da un lato lo accoglie e lo comprende, dall’altro lo indirizza. Già questo mi sembra un grande atto di orientamento, non necessariamente consapevole da parte del paziente (cliente-utente), dato che riguarda la capacità del medico. Il quale, ovviamente, verrà innanzitutto a contatto con il disagio, il malessere delle persone, piuttosto che con il loro benessere: il medico quasi mai è visto come qualcuno a cui rivolgersi quando si sta bene![32]. E lo scopo dev’essere: cercare di recuperare – al più presto, il resto sarebbe tempo perso – “la costanza dell’ambiente interno”.

Un vantaggio del medico dovrebbe essere quello di conoscere la fisiologia, ovvero i processi biologici che garantiscono la costanza dell’ambiente interno degli esseri viventi. E di mettere a disposizione tale conoscenza della sua capacità di “penetrare”, letteralmente, e quindi di “guardare dentro”, e poi di empatia. Sapere che alla base delle emozioni, e quindi dei comportamenti umani e della loro capacità di instaurare relazioni, ci sono complesse funzioni integrate di tutta una serie di “risorse biologiche” che gli esseri viventi hanno a disposizione nel qui e nell’ora, e che – precisiamolo – non agiscono mai “indipendentemente”: IL SISTEMA NERVOSO CENTRALE E PERIFERICO, IL SISTEMA NERVOSO AUTONOMO, L’APPARATO ENDOCRINO, L’APPARATO IMMUNOLOGICO, così denominati nel corso degli anni da una visione più che altro descrittiva e anatomica, quasi che l’organismo vivente sia un insieme oggettivo di organi e apparati che poco hanno a che fare con la totalità della persona umana. (Si rimanda alle schede in appendice per un maggior approfondimento).

Questo concetto di omeostasi (in quanto concetto espresso appunto da Claude Bernard, ma in quanto termine in verità coniato da Cannon nel 1926), dà spiegazione di tutti i processi fisiologici che regolano la biologia – e quindi la relazione – di tutti gli esseri viventi – ed è uno dei concetti a mio avviso più importanti che il medico deve considerare come base per comprendere non solo il senso, ma soprattutto l’effetto delle emozioni su coloro i quali dovrebbero fregiarsi del titolo di loro pazienti. Omeostasi ed emozione in effetti sono tra loro intrinsecamente collegati, dato che da una’alterazione dell’omeostasi deriva un “bisogno interno” – più o meno organico – che l’emozione esprime, permettendone il risolvimento.

L’empatia rappresenta, diciamo così, il primo vero intervento terapeutico.

Un aiuto al “riconoscimento” dell’altro può derivare al medico dal recupero di alcuni concetti che riguardano la tipologia, la caratterologia e la fisiognomica.[33]

A tal proposito trovo estremamente divertente, oltrecché interessante e originale, l’approccio fisiognomico e patognomico elaborato da Lorenzo Barbagli a partire dalle proposizioni idealtipiche di Sigaud e Mac Auliffe[34]:

 

“…dobbiamo tenere presenti nell’indagine fisiognomica e patognomica i seguenti indicatori:

Il Viso

Lettura Orizzontale: l’area frontale corrisponde ai livelli interni Controllo[35], in essa fino alle sopracciglia si localizza solitamente l’espressione della paura, della preoccupazione, dell’ansia dello stupore e più in generale dunque delle forme di controllo del sé e tutta l’area della riflessività e della cognizione; l’area mediana (occhi e naso, zigomi e guance) invece ai livelli di emozionalità e dunque Arousal, la pigmentazione, l’arrossamento e il taglio degli occhi esprimono l’emozionalità e anche alcuni aspetti dell’affettività, tanto meno sono espressivi, tanto meno una persona è emotiva; l’area orale (bocca, mento, mascella e prima parte del collo) infine connessa all’Attivazione (che sia del ruminante o dell’adesivo), le rughe della bocca, la posizione della mascella di solito sono espressioni di rabbia, tensione interna, prontezza ed energie interiori. Per meglio comprendere queste differenziazioni, rispetto alle caratteristiche strutturali (fisiognomiche) di un viso ma anche di quelle contingenti (patognomiche) aiuta la visualizzazione delle forme e delle proporzioni idelatipiche del viso del modello di Sigaud e Mac Auliffe:

 

 

Da esso abbiamo elaborato una più ampia differenziazione in maniera da rendere simbolicamente ogni idealtipo:

 

Una fronte corrucciata denota dunque concentrazione interna, se è connessa ad una mascella serrata ed a sopracciglia tese la persona sta vivendo un momento di rabbia, o attivazione interna, non di tipo cognitivo ma dinamico, cioè è nell’area del Ruminante. Conseguentemente, in una logica diacronica di indagine sulla personalità, sarà frequente notare mascelle forti e definite in questa tipologia.

 

Lettura Verticale: relazionalità interna, ovvero il tipo di relazione tra i due emisferi del viso individuabili metodologicamente mediante la suddivisione del volto e l’osservazione delle due differenti espressioni. Queste due metà, messe in relazione danno il sapore delle tensioni interne alla persona e dunque verso quale tipologia di personalità essa tende e oppure se essa risulta tale conseguentemente ad una relazione interna o per struttura di personalità. Tanto più le due metà individuate sono affini e/o simili, tanto meno la persona vivrà conflitti interiori ed avrà probabilmente un buon grado di consapevolezza di sé. Resta comunque da tenere presente che contingenze stressanti aumentano la dissociazione interna e dunque differenziano le due metà.

Ad un secondo livello alla lettura verticale del volto si fa corrispondere la relazione e/o l’eventuale predominanza degli emisferi cerebrali (ovviamente lavorando sulle foto con fonti incerte questa operazione non può essere effettuata). L’emisfero cerebrale destro[36], che governa il lato sinistro del corpo e dunque del volto, sappiamo essere il centro della fantasia, dell’emotività e dunque dell’arousal, della narrazione dell’intuizione; l’emisfero sinistro invece sappiamo come sia il centro delle facoltà superiori di controllo, di cognizione, del pensiero complesso, della razionalità. Come queste due aree si relaziono tra loro è indicatore importante.

Esempio: la metà destra appare depressa, quella sinistra aggressiva e dominante dunque nella persona vige una dominanza della componente emotiva (emisfero destro, connesso alla metà sinistra del viso) che castra e rende probabilmente depressa la metà razionale.

 

Lettura Trasversale: l’incrocio di questi due livelli di analisi consiste nello scomporre il volto in entrambe le direzioni, in sei astratti quadranti in maniera da valutare le predominanze delle aree verticali a seconda dei due semivolti. Noteremo come spesso in una metà del viso sia dominante l’attivazione mentre nell’altra il controllo. A seconda che questi corrispondano al lato destro o sinistro del volto potremmo capire come vengono gestite le emozioni oppure il pensiero.

 

 

 


 

 

 

 

Una conclusione?...

 

 

 

La malattia non è soltanto l’alterazione di un processo bio-fisiologico, non soltanto uno squilibrio omeostatico, non è soltanto una reazione, un adattamento a una pressione ambientale: è soprattutto una relazione fondata sulla sofferenza, in cui – malgrado il dolore – spesso si acquisisce una nuova visione del mondo, che permette anzi una nuova collocazione nel mondo. Il processo di cura è una continua relazione sociale, il processo di guarigione è la risposta soggettiva a tale relazione, è la scoperta di un nuovo senso del sé.

Ma ogni guarigione non è il ritorno allo status quo ante, non è il ritorno al funzionamento originale: è un cambiamento profondo, non facilmente individuabile né misurabile con i mezzi pur evoluti che la contemporaneità ci mette a disposizione…

 

 

 

 

Salvatore Nocera

 

 

 

 


 

Scheda 1

 

Sistema nervoso autonomo

Il Sistema Nervoso Autonomo (SNA) comprende l'insieme di cellule e fibre che innervano gli organi interni e le ghiandole, svolgendo funzioni che generalmente sono al fuori del controllo volontario. La vie efferente (dal Sistema Nervoso Centrale agli organi innervati) è sempre costituita da due neuroni (mentre quella del Sistema Nervoso Somatico è costituita da un neurone solo: il motoneurone): un neurone pregangliare con il corpo cellulare nel SIstema Nervoso Centrale ed un neurone postgangliare, con il corpo cellulare al di fuori di esso, in un ganglio o nella parete stessa del viscere innervato. Il Sistema Nervoso Autonomo è suddiviso in tre branche: ortosimpatico, parasimpatico ed enterico, e le ultime due hanno generalemte un'qazione antogonista rispetto alla prima, quando innervano lo stesso organo. Il controllo che il Sistema Nervoso Centrale esercita su quello Autonomo è complesso e coinvolge numerose strutture troncoencefaliche e l'ipotalamo. Le principali regioni ipotalamiche coinvolte nel controllo del SNA sono l'area ventromediale perl l'ortisimpatico e quella laterale per il parasimpatico. Il controllo ipotalamico si esercita tramite diverse strutture troncoencefaliche tra cui la sostanza grigia periacqueduttale e parte della formazione reticolare.

 

Organizzazione del sistema ortosimpatico

 

Schema del Sistema Nervoso Enterico.

 

 

Sistema nervoso autonomo

 

L'"interno" (i "visceri") del nostro corpo, come il cuore, lo stomaco e l'intestino, è regolato da una parte del Sistema Nervoso chiamato Sistema Nervoso Autonomo (SNA). Il SNA appartiene, in parte, al Sistema Nervoso Periferico e controlla molti organi e muscoli del nostro corpo. Non siamo quasi mai coscienti dell'attività del SNA, in quanto esso funziona in modo involontario e riflesso. Ad esempio, non ci accorgiamo quando i nostri vasi ematici cambiano di diametro o quando il nostro cuore batte più in fretta. Ciò nonostante, alcune persone possono allenarsi a controllare alcune delle funzioni del SNA, come la frequenza cardiaca o la pressione del sangue nelle arterie.

L'attività del SNA è particolarmente importante in almeno due situazioni:

le situazioni di emergenza che causano stress e che ci richiedono di
"attaccare" o "fuggire"

e le situazioni di calma che ci consentono di "riposare" e "digerire".

 

Il SNA regola:

I muscoli lisci della pelle (intorno ai bulbi piliferi)

dei vasi ematici

dell'occhio (pupilla)

dello stomaco, dell'intestino e della vescica

Il cuore

Le ghiandole

 

Il SNA è suddiviso in tre parti:

Sistema Nervoso Simpatico

Sistema nervoso parasimpatico

Sistema Nervoso Enterico

 

SISTEMA NERVOSO SIMPATICO

E' una bella giornata di sole e stai facendo una piacevole passeggiata nel bosco. Improvvisamente un orso affamato ti compare davanti. Ti fermi e lo attacchi OPPURE ti volti e scappi via? In entrambi i casi, si tratta di una situazione di "attacco o fuga", in cui il Sistema Nervoso Simpatico si mette in azione attivando le risorse energetiche, aumentando la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca e rallentando i processi digestivi.

Come è mostrato nella figura, il Simpatico nasce nel midollo spinale. Qui, i corpi cellulari del primo neurone (il neurone pregangliare) sono localizzati nei tratti toracico e lombare. Gli assoni che originano da questi neuroni si portano ad una catena di gangli situata ai due lati della colonna vertebrale (la catena gangliare latero.vertebrale). Nella catena gangliare, la maggior parte dei neuroni contrae sinapsi con un altro neurone (il neurone post-gangliare). Alcune fibre pregangliari si portano ad altri gangli, al di fuori della catena simpatica, e vi contraggono sinapsi. Il neurone post-gangliare proietta quindi al "bersaglio": un muscolo (liscio o cardiaco) o una ghiandola.

Ancora due informazioni sul Sistema Nevoso Simpatico: il neurotrasmettitore della sinapsi gangliare è l'acetilcolina, mentre quello della sinapsi post-gangliare è la noradrenalina. (Naturalmete, c'è anche un'eccezione: il neurone simpatico post-gangliare che termina sulle ghiadole sudoripare usa acetilcolina).

 

 


 

SISTEMA NERVOSO PARASIMPATICO

E' una bella giornata di sole e stai facendo una piacevole passeggiata nel bosco. Questa volta metti in atto una risposta di "riposo e digestione". Adesso entra in azione il parasimpatico, che risparmia energia, diminuisce la pressione del sangue e la frequenza cardiaca ed avvia i processi digestivi.
I corpi cellulari del primo neurone parasimpatico sono localizzati nel midollo spinale (regione sacrale) e nel bulbo. Nel bulbo, i nervi cranici III, VII, IX e X contengono le fibre pregangliari. Le fibre pregangliari del bulbo e del midollo spinale terminano in gangli che si trovano molto vicini al bersaglio finale e vi contraggono sinapsi. Qui il neurotrasmettitore è l'acetilcolina. Il neurone post-gangliare parte da questi gangli e si porta all'organo bersaglio dove libera, nuovamente, acetilcolina.

Di seguito sono riportati alcuni degli effetti della stimolazione simpatica e parasimpatica. Gli effetti sono generalmente opposti: quando un sistema è eccitatorio l'altro è inibitorio, e viceversa.

 


 

Azioni del Sistema Nervoso Autonomo

 


 

Struttura                    Stimolazione del Simpatico                          Stimolazione del Parasimpatico

 


 

Occhio (Iride)              Dilatazione della pupilla                                   Costrizione della pupilla

Ghiandole salivari         Riduzione della salivazione                               Aumento della salivazione

Mucosa orale               Riduzione della produzione di muco                 Aumento della prod. di muco

Cuore                          Aumento della frequenza dei battiti                  Diminuzione della frequenza dei e della forza di contrazione                              battiti e della forza di contrazione

Polmoni                       Rilassamento dei bronchi                                 Contrazione della muscolatura

bronchiale

Stomaco                      Riduzione della motilità                        Secrezione di succo gastrico e

aumento della motilità

Intestino tenue  Riduzione della peristalsi                                  Aumento dei processi digestivi

Intestino crasso            Riduzione della motilità                        Aumento della secrezione e della

motilità

Fegato                         Aumentata glicogenolisi           

Rene                            Diminuzione della diuresi                                  Aumento della diuresi

Midollare surrenale      Secrezione di Adrenalina e Noradrenalina       

Vescica                       Rilassamento della parete e                              Contrazione della parete

chiusura dello sfintere                          rilasciamento dello sfintere

 

 


 

Il Sistema Nervoso Autonomo è SEMPRE in attività, e non soltanto durante le reazioni di "attacco o fuga" o "riposo e digestione". Il SNA agisce, infatti, per mantenere normale l'attività degli organi interni e lavora collaborando col Sistema Nervoso Somatico.

Il Sistema Nervoso Enterico è la terza suddivisione del SNA ed è costituito da plessi di fibre che innervano il tratto gastrointestinale, il pancreas e la cistifellea.

 

Sistema Nervoso Periferico

Il sistema nervoso periferico si suddivide in due parti principali: il sistema nervoso somatico ed il sistema nervoso autonomo, più una terza parte, chiamata sistema nervoso enterico.

[somatic
nervous system]

1. Il Sistema Nervoso Somatico

Il sistema nervoso somatico e' costituito da fibre nervose periferiche che inviano informazioni sensitive al sistema nervoso centrale E fibre nervose motorie che si portano ai muscoli scheletrici. La figura a sinistra mostra l'organizzazione del sistema motorio somatico. Il corpo cellulare si trova autonomic
nervous systemnel cervello o nel midollo spinale e proietta direttamente ad un muscolo scheletrico.

 

2. Sistema Nervoso Autonomo

Il sistema nervoso autonomo e' suddiviso in tre parti: l'ortosimpatico (o simpatico), il parasimpatico e l'enterico. Il sistema nervoso autonomo controlla la muscolatura liscia dei visceri (organi interni) e le ghiandole. La figura mostra l'organizzazione generale del sistema nervoso autonomo. Il neurone pregangliare si puo' trovare sia nel cervello che nel midollo spinale e proietta ad un ad un neurone che si trova esternamente al sistema nervoso centrale, in un ganglio autonomo. La fibra postgangliare di questo neurone proietta poi all'organo bersaglio.

Nota che il sistema nervoso somatico ha un solo neurone fra il sistema nervoso centrale e l'organo bersaglio, mentre il sistema nervoso autonomo utilizza 2 neuroni.

viscera

Il sistema nervoso enterico e' la terza suddivisione del sistema nervoso autonomo. Il sistema nervoso enterico è un intrigo di fibre nervose che innerva i visceri (tratto gastrointestinale, pancreas, cistifellea).

 

La tabella sottostante riassume le principali suddivisioni del Sistema Nervoso. L'ultima riga contiene i nomi di alcune specifiche aree cerebrali. la tabella e' scritta in inglese che è praticamente la lingua ufficiale nelle Neuroscienze.

Suddivisioni del Sistema Nervoso

 

 

In questi disegni si trovano colorate cinque delle principali suddivisioni della tabella soprastante


Telencefalo


Diencefalo


Mesencefalo


Metencefalo


Mielencefalo



 

 

Guardandolo dall'alto, si nota come il cervello sia suddiviso in due metà, chiamate emisferi. Ogni emisfero comunica con l'altro attraverso il corpo calloso, un grosso fascio di fibre nervose. (Ci sono anche altri fasci di fibre più piccoli a connettere i due emisferi; uno di questi si chiama commissura anteriore).

 

Alcune differenze fra Sistema Nervoso Periferico (SNP) e Sistema Nervoso Centrale (SNC):

1.      Nel SNC, i gruppi di neuroni su chiamano nuclei.

                        Nel SNP, i gruppi di neuroni si chiamano gangli.

2.      Nel SNC, i gruppi di assoni si chiamano tratti.

                        Nel SNP, i gruppi di neuroni si chiamano nervi.

 

 

Nel Sistema Nervoso Periferico, i neuroni possono essere funzionalmente distinti in due modi:

 

1

Sensitivi (afferenti) - portano informazioni dagli organi di senso VERSO il sistema nervoso centrale.
OPPURE

Motori (efferenti) - portano informazioni FUORI dal sistema nervoso centrale (per il controllo dei muscoli).

2

Somatici - connettono la pelle o i muscoli al sistema nervoso centrale.
OPPURE

Viscerali - connettono gli organi interni al sistema nervoso centrale.


Strutture encefaliche

Corteccia
cerebrale

Funzioni:

Pensiero

Movimento volontario

Linguaggio

Ragionamento

Percezione

La parola "corteccia" e' stata utilizzata per similitudine con quella degli alberi, poiché e' uno strato di cellule che riveste la superficie esterna del cervello. Lo spessore della corteccia cerebrale varia da 2 a 6 mm. La parte destra e quella sinistra della corteccia cerebrale sono interconnesse da uno spesso strato di fibre nervose, detto "corpo calloso". Nei mammiferi superiori, come l'uomo, la corteccia cerebrale ha molte sporgenze e rientranze. Una sporgenza della corteccia cerebrale si chiama giro ed una rientranza si chiama solco. I mammiferi inferiori, come i topi e i conigli, hanno pochissimi giri e solchi.

Cervelletto

Funzioni:

Movimento

Equilibrio

Postura

La parola "cervelletto" significa "piccolo cervello". Il cervelletto e' situato subito sopra il tronco cerebrale. In un certo senso, assomiglia un po' al cervello: e' suddiviso in emisferi ed e' rivestito dalla corteccia (cerebellare).

Tronco dell'encefalo

Funzioni:

Respiro

Battito cardiaco

Pressione del sangue

Col termine "tronco dell'encefalo" si intende la parte del cervello che si trova fra il talamo ed il midollo spinale. Fra le strutture che fanno parte del tronco dell'encefalo vi sono il bulbo, il ponte, il mesencefalo, il tetto e la formazione reticolare. Alcune di queste regioni sono responsabili delle più elementari funzioni vitali quali la respirazione, il mantenimento della frequenza cardiaca e della pressione del sangue.

Ipotalamo

Funzioni:

Temperatura corporea

Emozioni

Fame

Sete

Ritmi circadiani

L'ipotalamo e' situato alla base del cervello ed e' composto da diverse regioni. Ha grossomodo le dimensioni di un pisello (pesa circa 1/300 di tutto il cervello), ma e' responsabile di aspetti importantissimi del comportamento. Una funzione importante dell'ipotalamo e' quella di controllare la temperatura corporea. L'ipotalamo funziona come un "termostato" rilevando i cambiamenti della temperatura corporea e producendo segnali atti a mantenerla costante o modificarla. Ad esempio: se sei troppo caldo, l'ipotalamo lo rileva ed emette segnali in grado di far dilatare i vasi cutanei, facendo si' che il sangue si raffreddi piu' in fretta. L'ipotalamo controlla anche l'ipofisi.

Talamo

Funzioni:

Integrazione sensitiva

Integrazione motoria

Il talamo riceve informazioni sensitive e le ritrasmette alla corteccia cerebrale. Anche la corteccia cerebrale invia informazioni al talamo, che a sua volta le ritrasmette ad altre aree del cervello: prevalentemente alla stessa corteccia cerebrale.

Sistema limbico

Funzioni:

Comportamento emotivo

Il sistema limbico e' un gruppo di strutture che comprende l'amigdala, l'ippocampo, i corpi mammillari ed il giro del cingolo (o cingolato). Queste regioni sono importanti per il controllo delle risposte emotive alle situazioni esterne. L'ippocampo e' importante anche per la memoria.

Ippocampo

Funzioni:

Apprendimento

Memoria

L'ippocampo è una parte del sistema limbico importante per la memoria e l'apprendimento.

Gangli della base

Funzioni:

Movimento

I gangli della base sono un gruppo di strutture, fra cui il globus pallidus, il nucleo caudato, il nucleo subtalamico, il putamen e la substantia nigra, importanti per la coordinazione dei movimenti.

Mesencefalo

Funzioni:

Visione

Udito

Movimenti oculari

Movimenti del corpo

Il mesencefalo comprende strutture come i collicoli superiori ed inferiori ed il nucleo rosso .Rappresenta un'importante tappa intermedia lungo alcuni sistemi sensitivi e motori.

     

brain

 


 

SCHEDA 2

 

Organizzazione del sistema nervoso autonomo e biofeedback

 

Organizzazione del sistema nervoso autonomo

Organizzazione del sistema nervoso autonomo

Il sistema nervoso autonomo controlla le funzioni vegetative, ossia le attività involontarie di ghiandole, organi e della muscolatura liscia. Esso è distinto in sistema nervoso autonomo simpatico e sistema parasimpatico. Il sistema simpatico mantiene l'organismo in una condizione di all'erta, preparandolo a una pronta risposta energetica in condizioni di stress. Il parasimpatico favorisce il risparmio energetico e condizioni di rilassamento dell'organismo. Ciascun nervo del sistema autonomo possiede due neuroni, che portano l'informazione dal sistema nervoso centrale all'organo che esso innerva. La posizione delle sinapsi tra i neuroni è diversa nei due sistemi: nel simpatico essa si trova nei gangli prossimi al midollo spinale; nel parasimpatico è localizzata nei gangli posti in vicinanza o all'interno degli organi. Gli effetti del sistema nervoso autonomo possono essere controllati secondo tecniche che prendono il nome di biofeedback.

 

IL BIOFEEDBACK

A cura di: Dott.ssa Maria Teresa Delli Santi*, Dott. Saeid Saadi**, Dott. Michele Paniccia***, Dott.ssa Sabrina Tosi****.

* Psicologa, presso Rimini; e-mail dsmt@libero.it;

** Neurologo, Rimini; e-mail: s.saadi@alice.it

*** Neurologo, Civitanova Marche (MC); email michelepaniccia@tiscali.it;

**** Psicologa e Psicoterapeuta “, Civitanova Marche (MC); tel. e-mail sabrinatosi@infinito.it.

 

INTRODUZIONE

Cercate di pensare ad una situazione in cui avete sostenuto un esame o un incontro importante di lavoro. Probabilmente in tali occasioni vi sarà capitato di sentire la classica stretta allo stomaco o di accusare disturbi intestinali o sintomi simili. Ora immaginate un momento in cui avete provato rabbia o dolore: sicuramente sarà caratterizzato dalla voglia di piangere, dalla perdita di appetito e dalla presenza di tremori in tutto il corpo. Nei momenti di paura o di alta tensione il cuore accelera il suo battito, i muscoli si irrigidiscono, le mani si fanno bagnate.

Tutte queste manifestazioni sono involontarie e si verificano poiché c’è una influenza del nostro stato psicologico sull’organismo.

  

MENTE E CORPO

 Il corpo, infatti, è un tutt’uno con la mente e la reciproca influenza dell’uno sull’altro è evidente in varie occasioni: quando fisicamente stiamo male ne risente il nostro umore, quando siamo appesantiti perché abbiamo mangiato troppo abbiamo poca voglia di fare, così come dopo un’attività fisica piacevole ci sentiamo “carichi” e pieni di buon umore. Responsabile di queste influenze reciproche (dette psicosomatiche) è il Sistema Nervoso Autonomo, quella parte cioè del Sistema Nervoso che sovrintende alle funzioni involontarie ed automatiche del nostro organismo (respirazione, battito cardiaco, funzioni digestive, sudorazione, etc...).

 

I DISTURBI PSICOSOMATICI

 Se gli effetti di cui abbiamo parlato possono essere diffusi e normali, in situazioni critiche, se si ripetono spesso ed intensamente, diventano un disagio.

Chi soffre d’ansia, ad esempio, così come chi è sottoposto a livelli di stress superiori alla media, sa bene quanto questi disturbi possano condizionare pesantemente la qualità della vita.

 

 CHE COS’E’ IL BIOFEEDBACK?

 Da un punto di vista storico, il Biofeedback si sviluppò negli Stati Uniti alla fine degli anni ’60, quando alcuni ricercatori (Miller, Brener, Snyder e Noble ed alt.) dimostrarono che sia nell’animale sia nell’uomo è possibile controllare alcuni parametri quali: la frequenza cardiaca, i ritmi elettroencefalografici, la vasocostrizione cutanea, etc.

Successivamente si diffuse anche in Europa ed in Italia a partire dagli anni ’70.

Il Biofeedback rappresenta l’informazione sulle funzioni biologiche di un individuo o almeno questa è la definizione più semplice.

In realtà tutti noi riceviamo informazioni nel corso della vita. Per esempio, ogni volta che usiamo la bilancia ci procuriamo un feedback diretto sul controllo del nostro peso. Quando abbiamo la febbre e la misuriamo con il termometro, esso ci informa su quanto sta avvenendo nel corpo.

In realtà, nessuno di questi strumenti esercita un’azione su di noi: la bilancia ed il termometro non fanno altro che fornirci informazioni su quanto avviene all’interno dell’organismo, insomma una sorta di specchio esterno dei nostri stati interni: questo è il Biofeedback.

 

BIOFEEDBACK E MEDICINA

 Le tecniche con il Biofeedback in medicina sono nate per rilevare e misurare le reazioni del Sistema Nervoso Autonomo, con lo scopo di modificarle attraverso un training realizzato con l’aiuto di un’apparecchiatura computerizzata.

Tramite questa apparecchiatura è possibile registrare una serie di processi biologici quali il battito cardiaco, l’intensità e la frequenza dell’attività elettrica della muscolatura, le variazioni della temperatura corporea, il comportamento delle onde cerebrali e non solo.…

In altri termini, si può valutare come il soggetto reagisce a varie situazioni, per  esempio di ansia o stress e successivamente addestrarlo al controllo di tali reazioni.

E’ importante sottolineare che questa tecnica negli Stati Uniti è considerata terapia d’elezione nel trattamento delle cefalee negli adulti e nei bambini, poiché i risultati ottenuti sono alla stregua di quelli dati dalla terapia farmacologica.

 

IN CHE COSA CONSISTE?

 L’apparecchiatura di Biofeeedback raccoglie, amplifica e rimanda al soggetto una serie di processi che avvengono nell’organismo.

Come uno specchio, l’apparecchiatura di Biofeedback fornisce un riflesso corretto, cioè preciso ed utilizzabile. Tale strumento non h, quindi, alcun potere proprio di determinare un cambiamento: solo la persona che lo utilizza ha la facoltà di controllare l’ andamento del parametro fisiologico  registrato.

 

A CHE SCOPO VIENE USATO?

 L’obbiettivo non è tanto quello di produrre uno stato particolare, ma più propriamente quello di facilitare l’auto-consapevolezza ed il controllo di alcuni parametri fisiologici.

Prima si fa pratica (training) con l’apparecchiatura, acquisendo così una maggiore consapevolezza e sensibilità rispetto alle reazioni fisiche.

In seguito, dopo un esercizio prolungato e continuo, si riuscirà ad avere coscienza di questi segnali interni senza dover ricorrere agli indicatori strumentali. Raggiunto questo obbiettivo si cerca di integrare nella propria vita di tutti i giorni questa capacità di regolazione appresa di una variabile somatica: per esempio si può ottenere l’abbassamento della contrazione muscolare, l’aumento della temperatura, o la diminuzione dei battiti cardiaci.

  

Per raggiungere questo obbiettivo si deve procedere attraverso questi stadi:

 

1) Ricevere un feedback continuato, immediato ed esatto dei processi biologici interni, mediante la rilevazione strumentale del Biofeedback.

2) Eseguire costantemente le tecniche apprese, in modo da acquisire maggiormente il significato delle informazioni ricevute.

3) Applicare nelle diverse situazioni della vita quotidiana i procedimenti del training con il Biofeedback.

 

 In altri termini, imparare ed integrare queste nuove competenze,

affinché diventino abilità naturali.

 

TECNICHE DI RILASSAMENTO ABBINATE AL BIOFEEDBACK

 Nell’ambito di un training di Biofeedback è previsto anche l’utilizzo di alcune tecniche di rilassamento.

Si tratta di esercizi che, utilizzati durante il collegamento all’apparecchiatura computerizzata (che segnala i concomitanti cambiamenti fisiologici), vi aiuteranno ad aumentare il controllo delle reazioni interne, legate alle variazioni degli stati fisiologici ed emotivi.

 

Dove e quando si devono applicare queste tecniche?

 Nelle fasi iniziali, sarà preferibile utilizzarle in un luogo tranquillo, in cui siano ridotte al minimo le possibilità di distrazione o di interruzione.

Successivamente, si riusciranno a gestire le situazioni sfavorevoli, proprio attraverso  l’impiego di tali esercizi (ad esempio mentre siete imbottigliati nel traffico o fate la fila alla cassa di un supermercato, etc.).

 

COSA VIENE MISURATO ?

 Le apparecchiature di Biofeedback sono ormai evolute e sofisticate. Il loro principale uso riguarda:

 

EMG – Elettromiografia

 Soffrite di cefalee da tensione? Soffrite di insonnia? Serrate le mascelle? O forse il disturbo da cui siete afflitti è l’ansia? Il Biofeedback elettromiografico (EMG) è dunque, indicato in questi casi.

Lo strumento per il training EMG fornisce il feedback relativo a quanto accade in un certo gruppo di muscoli, ad esempio quelli della fronte. Con la pratica  si impara a rilassare volontariamente determinati gruppi muscolari o singoli muscoli in tensione: ciò comporta una riduzione dell’attività del Sistema Nervoso Simpatico ed una conseguente attenuazione e scomparsa di tutti i disturbi somatoformi legati ad essa.

 T-Temperatura

 Il T-Biofeedback è costituito da un sensore in grado di misurare le minime variazioni della temperatura, (di un decimo di grado o anche meno) sulla superficie della pelle, in genere sul polpastrello di un dito, che vengono poi segnalate su una scala graduata o uno schermo digitale, evidenziando l’influenza degli stati emotivi.

 

GSR-Resistenza elettrica cutanea

 La microsudorazione della mano è una manifestazione immediata degli stati d’ansia e dei vissuti emotivi.

Quando ci si innervosisce e si diventa ansiosi, la traspirazione tende ad aumentare, spesso in quantità minima, non osservabile ad occhio nudo. E’ questo incremento dell’umidità che accresce la capacità cutanea di condurre una minima carica elettrica esistente tra due punti.

Il GSR Biofeedback rileva questi minimi cambiamenti e li segnala, solitamente mediante un suono che aumenta o diminuisce a seconda del mutare della conduttività.

 

Pletismo

 La registrazione della frequenza e dell’intensità del ritmo cardiaco avviene con l’applicazione di sensori sui polpastrelli delle dita e consente una misura delle variazioni dovute ai diversi stati emotivi.

 

EEG-elettroencefalografia

 In questo caso vengono posti due o quattro elettrodi in posizione frontale  e/o  occipitale per valutare le variazioni delle onde beta, alfa, theta e delta.

Non si tratta di un’analisi elettroencefalografica completa, bensì di una registrazione di alcune variabili psicofisiologiche legate ai diversi stati emotivi.

 

METODOLOGIA

 Il trattamento con Biofeedback è suddiviso generalmente in quattro fasi:

 

*Baseline: si esegue l’anamnesi del paziente e si valutano le reazioni di partenza relative ad alcuni parametri significativi; si valuta se la terapia è indicata e con quale variante.

 

*Trattamento: si esegue il ciclo di sedute (generalmente 6-10) con una frequenza, generalmente, di una alla settimana.

 

*Verifica: si confrontano i risultati finali con il baseline iniziale (dati registrati nelle prime sedute). 

 

*Follow-up: si valuta la stabilità dei risultati a distanza di tempo (3-6-12 mesi) dal trattamento.

 

 ALCUNE PRINCIPALI  APPLICAZIONI

 I campi di applicazione del Biofeedback sono numerosi. Quelli di maggiore riscontro sono:

 

  1. cefalea tensiva
  2. dolori muscolari in generale (su base contratturale)
  3. insonnia
  4. stati d’ansia
  5. stress
  6. disturbi psicosomatici

 


 

SCHEDA 3

 

Omeostasi

 

 

1 INTRODUZIONE

Omeostasi è la capacità di un organismo di mantenere costanti le condizioni chimico-fisiche interne anche al variare delle condizioni ambientali esterne. Il concetto di omeostasi è stato delineato per la prima volta dal fisiologo francese Claude Bernard che, nel XIX secolo, affermava che “la costanza dell'ambiente interno è una condizione per la vita libera”. In altre parole, ciò significa che affinché un organismo cresca e si riproduca con successo rispetto all'ambiente circostante deve avere un certo grado di libertà, che ottiene con i processi omeostatici.

Il termine “omeostasi” fu coniato da Walter Cannon nel 1926, in riferimento alla capacità del corpo di regolare la composizione e il volume del sangue e, di conseguenza, di tutti i fluidi extracellulari in cui sono immerse le cellule; deriva dal greco ómoios, “simile”, e stasis, “posizione”. Oggi il termine omeostasi viene utilizzato per indicare, in senso più ampio, i molti processi dell'organismo che limitano le fluttuazioni entro limiti fisiologici.

 

2 TIPI DI OMEOSTASI

I processi di omeostasi avvengono a tutti i livelli di organizzazione della materia vivente: a livello della singola cellula, così come nell'organismo. Si possono distinguere quattro tipi di regolazione omeostatica: l'omeostasi ionica, che permette ai viventi di controllare la concentrazione degli ioni disciolti nei fluidi corporei; l'omeostasi osmotica, che regola la concentrazione dell'acqua e di conseguenza quella degli ioni in essa disciolti (considerati nel loro insieme); l'omeostasi termica, che permette il controllo della temperatura corporea; l'omeostasi dell'energia, che regola la concentrazione dei composti organici (proteine, lipidi, carboidrati) da cui l'organismo ricava energia per lo svolgimento del suo metabolismo.

Non tutti gli organismi possiedono i quattro tipi di regolazione omeostatica, né li attuano allo stesso modo. In generale, la maggior parte dei viventi effettua l'omeostasi ionica, mentre l'omeostasi termica viene compiuta solo da uccelli e mammiferi; inoltre, i meccanismi alla base dei processi omeostatici sono tanto più complessi e tra loro interconnessi quanto maggiore è la complessità degli organismi stessi.

 

3 ORGANISMI CONFORMI E ORGANISMI REGOLATORI

La condizione più semplice è quella in cui un organismo modifica un determinato parametro corporeo in conformità alla variazione di quello stesso parametro che si verifica nell'ambiente: in tal caso, l'organismo viene definito conforme. Ad esempio, la maggior parte dei viventi modifica la temperatura corporea quando si modifica la temperatura esterna.

I viventi che invece reagiscono alla variazione ambientale in modo differente vengono chiamati regolatori. Vi può essere una regolazione omeostatica diretta, nel caso in cui il vivente mantenga comunque costante il valore del parametro interno considerato: i mammiferi, ad esempio, sono regolatori della temperatura, che mantengono a livello costante di circa 37 °C.

Può anche verificarsi una regolazione omeostatica indiretta, nel caso in cui un organismo dapprima modifichi un suo parametro al variare delle condizioni esterne e, successivamente, riporti ai valori iniziali altri parametri interni che sono correlati a quello che si è modificato, in modo da ripristinare almeno in parte la situazione interna iniziale. Ad esempio, dalla temperatura corporea dipende la velocità delle reazioni metaboliche e la velocità con cui avvengono i processi di trasporto nelle cellule; se la temperatura ambientale si innalza, all'inizio aumenta anche quella corporea e con essa le velocità di trasporto e delle reazioni chimiche; successivamente, intervengono meccanismi che riportano questi due fattori verso i valori iniziali, mentre la temperatura resta sregolata.

I meccanismi di regolazione omeostatica diretta e indiretta sono compresi nell'ambito del fenomeno più ampio dell'adattamento, grazie al quale, entro certi limiti, i viventi possono sopravvivere anche in condizioni ambientali differenti da quelle per essi ottimali.

Gli organismi conformi sono anche indicati con il termine pecilo-, seguito dal nome del parametro considerato, mentre i regolatori sono detti omeo-: così si parla di pecilotermi e omeotermi, oppure di pecilosmotici e omeosmotici, per indicare rispettivamente quelli che variano la temperatura corporea e quelli che la mantengono costante, oppure quelli che modificano la concentrazione dei liquidi corporei e quelli che la mantengono.

 

4 MECCANISMI OMEOSTATICI

L'omeostasi presuppone che l'organismo sia in grado di “sentire” le modificazioni dell'ambiente esterno e di controllarle. Pertanto, anche una piccola variazione rispetto ai livelli considerati normali dall'organismo provoca una risposta da parte dei meccanismi omeostatici, che riportano le condizioni allo stato precedente. Una parte della cibernetica, nota anche come teoria del controllo, studia i meccanismi omeostatici, con l'utilizzo di modelli matematici costruiti sui sistemi di controllo fisiologici. Benché questi modelli siano spesso rudimentali e inadeguati alla complessità dei sistemi fisiologici di un organismo, alcuni di essi sono utili per comprendere vari meccanismi omeostatici. Ad esempio, i meccanismi di retroazione, o di feedback, prevedono che il prodotto di un processo agisca, in vari modi, alterando la natura, la velocità o l'efficacia del processo stesso. Nei sistemi biologici, la maggior parte delle retroazioni sono negative e, quindi, inibiscono il processo cellulare da cui derivano.

Un semplice esempio quotidiano di sistema di controllo a retroazione negativa è il termostato, usato per controllare il calore generato da un sistema di riscaldamento. Se la temperatura dell'aria nella stanza è al di sotto della temperatura programmata sul termostato, allora il sistema di riscaldamento si accende e resta acceso fino a quando la temperatura raggiunge il livello desiderato. A questo punto, il termostato continua a tenere sotto controllo la perdita di calore del sistema, mantenendo la temperatura il più possibile vicina a quella desiderata. Attorno al grado di temperatura fissato si registrano, comunque, delle lievi variazioni e dei piccoli ritardi, per cui l'aria della stanza non torna alla temperatura desiderata nell'istante in cui la caldaia si accende per azione del termostato. Questo controllo della temperatura è, tuttavia, rudimentale e ha dei limiti; ad esempio, nelle calde giornate estive, quando la temperatura della stanza è superiore a quella desiderata, il termostato non accende il riscaldamento, ma non è neppure in grado di raffreddare la stanza. Per far fronte a tutte le eventualità, un meccanismo omeostatico biologico è assai più complesso e sofisticato di quello dell'esempio citato.

La retroazione positiva provoca, invece, un'amplificazione della risposta. Un esempio di retroazione positiva è la propagazione di un impulso nervoso: la depolarizzazione di una cellula nervosa fa aumentare l'afflusso del sodio all'interno della cellula e a sua volta fa aumentare la depolarizzazione, che a sua volta fa aumentare l'afflusso del sodio, e così via. La retroazione positiva continua fino al raggiungimento di un livello-soglia, che porta alla chiusura dei canali del sodio.

 

5 OMEOSTASI NELLA CELLULA

Tutti gli organismi presentano meccanismi omeostatici a livello di ogni singola cellula, in quanto, per vivere, le componenti di una cellula devono essere mantenute a concentrazioni più o meno uniformi. La membrana cellulare è responsabile del controllo delle sostanze che entrano ed escono dalla cellula: le sostanze essenziali al metabolismo devono poter entrare, mentre i materiali di scarto devono poter uscire prima di raggiungere concentrazioni tossiche. Gli organismi unicellulari sono più suscettibili dei pluricellulari alle modificazioni dell'ambiente esterno, perché l'unica barriera che li separa da esso è la membrana cellulare; nei pluricellulari, invece, la presenza di un fluido extracellulare media le variazioni esterne e garantisce alle cellule modificazioni meno repentine.

Meccanismi di retroazione negativa sono alla base dei sistemi di regolazione della velocità delle reazioni enzimatiche cellulari. Supponiamo, ad esempio, che un enzima agisca sulla proteina A, scindendola in due molecole B e C. Se la molecola C ha un effetto inibitore sull'enzima, quando le concentrazioni di B e C diminuiscono, la velocità della loro sintesi a partire da A aumenta, mentre, quando le concentrazioni di B e C sono elevate, allora l'enzima è inibito e la produzione di queste due molecole è momentaneamente bloccata.

 

6 OMEOSTASI NELL'UOMO

Benché i meccanismi omeostatici siano presenti in tutti gli organismi, l'omeostasi è stata studiata in modo particolare nell'uomo e in altri mammiferi. In questi animali complessi l'omeostasi opera sia a livello delle singole cellule, sia a livelli superiori, di tessuti, organi e apparati. Mantenendo costanti le condizioni all'interno dei tessuti, le singole cellule sono soggette a variazioni minime del loro ambiente esterno. Vi è, ad esempio, un continuo scambio di molecole tra le cellule e i liquidi extracellulari in cui sono immerse, e la costanza della composizione dei liquidi extracellulari è garantita dalla stabilità della composizione del sangue. L'azione dei meccanismi omeostatici su liquidi, tessuti e organi fa sì che, se ad esempio un individuo si immerge in acqua molto calda, la temperatura degli organi interni, come il cuore, rimanga invariata.

Il sistema circolatorio (sangue, arterie, vene ecc.) è vitale per il mantenimento dell'omeostasi: rifornisce i tessuti di metaboliti, rimuove i prodotti di scarto, contribuisce alla regolazione della temperatura e al funzionamento del sistema immunitario. La concentrazione delle varie sostanze nel sangue è regolata da centri di controllo diversi, presenti nel sistema nervoso, che regolano la concentrazione dell'anidride carbonica; dal fegato e dal pancreas, che controllano la produzione, il consumo e le riserve di glucosio; dai reni, responsabili della concentrazione di idrogeno, sodio, potassio e gruppi fosfato; dal sistema endocrino, che regola i livelli di numerosi tipi di ormoni. L'ipotalamo svolge un ruolo chiave nell'omeostasi, in quanto riceve informazioni dal cervello, dal sistema nervoso e dal sistema endocrino e integra tutti questi segnali, controllando la termoregolazione, il bilancio energetico e la regolazione dei liquidi corporei. Inoltre, interferisce con il comportamento, regolando, ad esempio, la sensazione di fame, e, più in generale, le risposte dei sistemi endocrino e nervoso.

 

6.1 Un esempio: la concentrazione di glucosio nel sangue

Il glucosio costituisce il principale composto energetico della cellula; esso viene impiegato nella respirazione cellulare. La quantità di glucosio utilizzato è variabile e dipende dall'attività funzionale di ciascuna cellula (la maggior parte delle cellule può, ad esempio, utilizzare anche derivati dei lipidi, mentre il cervello può metabolizzare solo glucosio). Il glucosio entra nella circolazione sanguigna quando viene assorbito dalle pareti dello stomaco durante la digestione o quando viene liberato dalle scorte di glicogeno localizzate prevalentemente nel fegato. Il controllo della concentrazione di glucosio nel sangue è il meccanismo omeostatico più complesso che si conosca.

Normalmente la concentrazione di glucosio nel sangue varia tra i 110 mg per 100 ml, dopo un pasto, ai 70-80 mg per 100 ml, nell'organismo a digiuno. Quando la concentrazione è al massimo, il glucosio viene trasformato in glicogeno e immagazzinato in speciali depositi intracellulari. La concentrazione di glucosio nel sangue è controllata soprattutto da insulina e glucagone, ma anche dall'ormone della crescita, dai glucocorticoidi, dall'adrenalina e dalla tiroxina.

La glicogenolisi, cioè la produzione di glucosio dalle riserve di glicogeno, è stimolata da tutti questi ormoni, a eccezione dell'insulina che la inibisce; l'insulina stimola, invece, la glicogenogenesi, ovvero la produzione di glicogeno a partire dal glucosio del sangue. La sintesi di insulina da parte del pancreas, stimolata da una concentrazione di glucosio troppo elevata nel sangue, è un esempio di retroazione negativa. Alcuni tessuti sono in grado di assorbire glucosio dal sangue solo se si trova ad alte concentrazioni, mentre se la concentrazione è bassa e manca insulina, questi tessuti non possono utilizzarlo e, quindi, per la produzione di energia dipendono dai derivati dei grassi.

 

7 OMEOSTASI IN ALTRI ORGANISMI

Negli organismi privi di un rivestimento esterno impermeabile, uno dei processi di regolazione più importante è il controllo della quantità d'acqua persa o assorbita per osmosi o per evaporazione. I batteri, ad esempio, hanno dimensioni molto ridotte e, di conseguenza, un grande rapporto superficie/volume, per cui sono particolarmente sensibili alla disidratazione. Per opporsi a questa tendenza naturale, cercano di mantenere una pressione osmotica interna più elevata di quella dell'ambiente esterno, limitando, così, la perdita d'acqua.

Organismi unicellulari come le amebe, specialmente quelle che vivono in ambienti d'acqua dolce, assorbono continuamente acqua dall'esterno per osmosi. L'acqua che entra viene pompata in un vacuolo contrattile, che si riempie di liquido e periodicamente si fonde con la membrana cellulare, rilasciando il suo contenuto all'esterno. In questo modo, la quantità d'acqua trasportata attivamente fuori dalla cellula è uguale alla quantità d'acqua che entra per osmosi e, quindi, non si verificano variazioni nel turgore della cellula. Questo è uno dei meccanismi omeostatici più semplici: senza il vacuolo contrattile, l'ameba continuerebbe, infatti, ad assorbire acqua e il contenuto del suo citoplasma si diluirebbe al punto da bloccare il metabolismo e da determinare la morte della cellula.

I pesci hanno complessi meccanismi di controllo del contenuto d'acqua dei loro corpi. I pesci d'acqua dolce tendono ad assorbire acqua e a perdere sali per osmosi, e quindi sono costretti ad assorbire attivamente i sali dall'acqua che scorre attraverso le branchie e a eliminare l'acqua assorbita in eccesso, producendo una grande quantità di urina diluita (ogni giorno l'equivalente del 20% del loro peso corporeo). Al contrario, i pesci marini vivono in acque con una pressione osmotica superiore a quella dei loro liquidi extracellulari e del loro sangue, e tendono, quindi, a perdere acqua e ad assorbire sali per osmosi. Per compensare la perdita d'acqua ingeriscono continuamente acqua salata, ma eliminano i sali attraverso le branchie e producono poca urina (circa il 4% del loro peso corporeo al giorno). Nei pesci che migrano dalle acque salate a quelle dolci, come il salmone, i meccanismi di controllo della quantità di acqua che entra ed esce dal corpo sono ancora più complessi.

(Microsoft ® Encarta ® 2007. © 1993-2006 Microsoft Corporation. Tutti i diritti riservati.)

 

Osmoregolazione negli uccelli marini

Gli uccelli marini, come pellicani, albatri, gabbiani, procellarie e sule, sono dotati di un efficiente sistema di regolazione della concentrazione dei fluidi corporei: le ghiandole del sale. Poste generalmente al di sopra delle orbite oculari, queste producono una secrezione estremamente concentrata (più precisamente, iperosmotica rispetto al plasma sanguigno) che viene eliminata attraverso le narici. In questo modo, l'animale può cibarsi di organismi marini e bere l'acqua del mare, espellendo poi l'eccesso salino. Un simile meccanismo si trova anche in rettili marini, come le iguane delle Galápagos e la tartaruga Caretta, e in alcuni uccelli adattati all'ambiente terrestre, quali lo struzzo e l'oca domestica.

(Encarta Enciclopedia Richard During/ALLSTOCK, INC.)

 

Osmoregolazione in Artemia salina

Il minuscolo crostaceo Artemia salina è la specie dotata della maggiore capacità di osmoregolazione conosciuta. Organismo delle acque marine e salmastre, può sopportare una concentrazione del cloruro di sodio nell'acqua pari a dieci volte il valore originario, mantenendo costante la sua concentrazione interna. Ciò è possibile grazie ad adattamenti morfologici e biochimici, quali una superficie impermeabile che impedisce la perdita di acqua per osmosi e l'escrezione del sale attraverso le branchie, in cui sono presenti le cosiddette cellule dei cloruri capaci di trasportare attivamente gli ioni verso l'ambiente esterno.

(Encarta Enciclopedia Robin Williams/Ecoscene/Corbis)

 

 

 

Omeostasi nella cellula: meccanismi di trasporto

Per mantenere costanti i propri equilibri biochimici, la cellula possiede diversi tipi di meccanismi di trasporto passivo e attivo, nei quali, rispettivamente, non vi è consumo di energia oppure è richiesto un apporto energetico. Il trasferimento delle sostanze serve anche a trasportarle laddove l'organismo ne ha necessità; ma è soprattutto l'espressione di come l'omeostasi coinvolga non solo l'intero organismo ma anche le sue unità costitutive, in un continuo sforzo per mantenere le proprie caratteristiche rispetto all'ambiente esterno e la propria identità biologica.

Vacuolo contrattile del paramecio Il vacuolo contrattile, tipico di organismi unicellulari come il paramecio, è una struttura capace di regolare l'equilibrio dell'acqua e dei sali all'interno della cellula, in base alle variazioni dell'ambiente esterno. In tal modo, impedisce che la cellula si rigonfi eccessivamente se si trova in acque poco concentrate o che, al contrario, si raggrinzisca in ambiente iperconcentrato. (Encarta Enciclopedia © Microsoft Corporation. Tutti i diritti riservati.)

 

 


 

Neurotrasmettitori

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Un neurotrasmettitore è una sostanza che veicola le informazioni fra le cellule componenti il sistema nervoso, i neuroni, attraverso la trasmissione sinaptica. All'interno del neurone, i neurotrasmettitori sono contenuti in vescicole dette vescicole sinaptiche che sono addensate alle estremità distali dell'assone nei punti in cui esso contrae rapporto sinaptico con altri neuroni. Nel momento in cui il neurone viene raggiunto da uno stimolo, le vescicole sinaptiche si fondono per esocitosi con la membrana pre-sinaptica, riversando il proprio contenuto nello spazio sinaptico o fessura inter-sinaptica. I neurotrasmettitori rilasciati si legano a recettori o a canali ionici localizzati sulla membrana post-sinaptica. L'interazione fra i neurotrasmettitore e il recettore/canale ionico scatena una risposta eccitatoria o inibitoria nel neurone post-sinaptico.

In relazione al tipo di risposta prodotta, i neurotrasmettitori possono essere eccitatori o inibitori, cioè possono rispettivamente promuovere la creazione di un impulso nervoso nel neurone ricevente o inibire l'impulso. Tra i neurotrasmettitori inibitori, i più noti sono l'acido gamma-amminobutirrico (GABA) e la glicina. Al contrario, il glutammato rappresenta il più importante neurotrasmettitore eccitatorio del cervello.

Molti neurotrasmettitori vengono rimossi dallo spazio tra le sinapsi da specifiche proteine che risiedono nelle membrane dei neuroni e delle cellule della glia. Questo processo prende il nome di ricaptazione (reuptake) o, spesso più semplicemente, captazione (uptake). Senza la ricaptazione, i neurotrasmettitori potrebbero continuare a stimolare o deprimere il neurone post-sinaptico. Un altro meccanismo di rimozione dei neurotrasmettitori è la loro distruzione tramite un enzima. Ad esempio, nelle sinapsi colinergiche (quelle del neurotrasmettitore acetilcolina) l'enzima acetilcolinesterasi distrugge l'acetilcolina.

Sulla base della dimensione, i neurotrasmettitori possono essere distinti in neuropeptidi e piccole molecole. I neuropeptidi comprendono dai 3 ai 36 amminoacidi, mentre nel gruppo delle piccole molecole ci sono amminoacidi singoli, come il glutammato ed il GABA, e i neurotrasmettitori come l'acetilcolina, la serotonina e l'istamina. I due gruppi di neurotrasmettitori presentano anche modalità di sintesi e rilascio differenti.

Farmaci, droghe ed altre sostanze possono interferire con il funzionamento dei neurotrasmettitori. Molte sostanze stimolanti e anti-depressive alterano la trasmissione dei neurotrasmettitori dopamina, norepinefrina (o noradrenalina) e epinefrina (adrenalina), chiamati nel complesso catecolamine. Ad esempio, la cocaina blocca la ricattura della dopamina, consentendole di rimanere più a lungo nello spazio inter-sinaptico. In particolare, la cocaina altera i circuiti dopaminergici del nucleus accumbens, una regione del cervello che è coinvolta nella spinta motivazione e nel rafforzamento emozionale. La reserpina, che è stata impiegata dapprima come agente anti-ipertensivo e successivamente come antipsicotico nel trattamento della schizofrenia, causando una deplezione di neurotrasmettitori mediante la rottura delle vescicole sinaptiche e la degradazione da parte delle mono-ammino-ossidasi (MAO-A e MAO-B). Infine, l'AMPT impedisce la conversione della tirosina in L-DOPA ed il deprenile inibisce l'azione della monoammino ossidasi B, aumentando il livello della dopamina tra le sinapsi.

Trasporto intracellulare di neurotrasmettitori

La sintesi dei neurotrasmettitori avviene con modalità diverse a seconda della natura del neurotrasmettitore. I neuropeptidi vengono sintetizzati sottoforma di precursori (pre-propetidi) nel corpo cellulare a livello del Reticolo Endoplasmatico Ruvido (RER) e vengono successivamente processati in propetidi negli organuli del corpo cellulare. Al termine di questa fase, il propetide, contenuto in vescicole di trasporto, viene condotto attraverso l'assone fino alla terminazione sinaptica, ove viene impaccato nelle vescicole sinaptiche, chimicamente modificato e maturato in peptide.

Le piccole molecole a funzione di neurotrasmettitori vengono invece prodotte nel terminale sinaptico, dopo che gli enzimi necessari per il processo di sintesi sono stati prodotti nel corpo cellulare e trasportati fino al bottone sinaptico. Il trasporto fino al terminale sinaptico avviene lungo i microtubuli, che trasportano le vescicole con una velocità di 3 ... 4.5 µm/s corrispondente a 250 ... 400 mm/d (Brady & Lasek, Methods in Cell, Biol. 25: 365, 1982).

I microtubuli vengono costruiti (allungati di ca.1 µm/min corrispondente a 1.4 mm/d) oppure disfatti (raccorciati di ca. 7 µm/min corrispondente a 10 mm/d); si presume in funzione della loro necessità momentanea (Baylay et al. in Microtubules, Wiley-Liss Inc., p. 119, 1994). Vista la quantità di vescicole da trasportare in un neurone attivo, sono molti i microtubuli che svolgono questa funzione. La quantità di microtubuli anterogradi aumenta in fasi di grande attività neuronale e diminuisce in fasi di modesta attività.

Neurotrasmettitori comuni

  • derivati da amminoacidi
    • acido aspartico
    • acido glutammico
    • acido gamma-amminobutirrico (GABA)
    • glicina
  • monoammine (in ordine di sintesi)
    • dalla fenilalanina e dalla tirosina
      • dopamina (da)
        • norepinefrina (o noradrenalina, ne)
          • epinefrina (o adrenalina, epi)
    • dal triptofano
      • serotonina (o 5-idrossitriptamina, 5ht)
    • dall'istidina
      • istamina
  • polipeptidi (neuropeptidi)
    • neurotensina (NT)
    • galanina
    • bombesine
      • bombesina
      • peptide rilasciante la gastrina (GRP)
      • neuromedina B
    • gastrine
      • gastrina
      • colecistichinina (CCK)
    • insuline
      • insulina
    • neuroipofisiari
      • vasopressina
      • ossitocina
      • neurofisina I
      • neurofisina II
    • neuropeptide Y
      • neuropeptide Y (NY)
      • polipeptide pancreatico (PP)
      • peptide YY (PYY)
    • oppioidi
      • corticotropina (ACTH)
      • beta-lipotropina
      • dinorfina
      • endorfina
      • encefalina
      • leumorfina
    • secretine
      • secretina
      • motilina
      • glucagone
      • peptide vasoattivo intestinale (VIP)
      • fattore di rilascio dell'ormone della crescita (GRF)
    • somatostatine
      • somatostatina
    • tachichinine
      • neurochinina A
      • neurochinina B
      • neuropeptide A
      • neuropeptide gamma
      • sostanza P
  • ammine biogeniche
    • acetilcolina (ACh)
  • altri
    • ossido di azoto (NO)
    • ossido di carbonio (CO)
    • anandamide

 

Serotonina

La serotonina (5-idrossitriptamina, 5-HT, 3-(2-amminoetil)-1H-indol-5-olo) è un neurotrasmettitore monoaminico sintetizzato nei neuroni serotoninergici nel sistema nervoso centrale, nonché nelle cellule enterocromaffini nell'apparato gastrointestinale. Possiede formula chimica C10H12N2O, peso molecolare 176,22, numero CAS 50-67-9.

La sostanza fu isolata a Roma da Vittorio Erspamer nel 1935, inizialmente considerata un polifenolo; due anni più tardi, in seguito a degli studi su ghiandole cutanee di Discus glossus e ghiandole salivari di polpi, fu rinominata enteramina, la quale fu definitivamente rinominata serotonina nel 1948.

Distribuzione, biosintesi e degradazione formula di struttura

Le più alte concentrazioni di 5-HT si trovano in tre diversi siti corporei:

  • Nella parete intestinale. Le cellule enterocromaffini contengono circa il 90% della quantità totale di 5-HT presente nell'organismo: queste sono cellule derivate dalla cresta neurale, simili a quelle della midollare del surrene, e mescolate alle cellule mucosali, principalmente nello stomaco e nell'intestino tenue.
  • Nel sangue. La 5-HT è presente in elevate concentrazioni nelle piastrine, che la accumulano dal plasma attraverso un sistema di trasporto attivo e la rilasciano in seguito all'aggregazione che si verifica nei siti di danno tissutale.
  • Nel sistema nervoso centrale. La 5-HT è un importante trasmettitore del SNC ed è presente in elevate concentrazioni in specifiche aree del mesencefalo.

La biosintesi della 5-HT endogena segue una via simile a quella della noradrenalina, con la differenza che l'aminoacido precursore è il triptofano, invece della tirosina. Il triptofano viene convertito in 5-idrossitriptofano grazie all'azione della triptofano-idrossilasi. Il 5-idrossitriptofano così prodotto viene decarbossilato a 5-HT, a opera dell'aminoacido decarbossilasi. Le piastrine accumulano la 5-HT durante il loro passaggio attraverso la circolazione intestinale, dove la concentrazione locale è relativamente alta. La 5-HT viene spesso immagazzinata nei neuroni e nelle cellule enterocromaffini come co-trasmettitore insieme con vari ormoni di natura peptidica, come la somatostatina, la sostanza P, e il polipeptide vasoattivo intestinale.

La degradazione della 5-HT avviene principalmente attraverso una deaminazione ossidativa, catalizzata dalle monoaminossidasi, seguita dall'ossidazione ad acido 5-idrossiindolacetico (5-HIAA).

 

Effetti Farmacologici

  • Tratto gastrointestinale. La 5-HT determina aumento della motilità intestinale, in parte per un effetto diretto sulle cellule muscolari lisce e in parte per un effetto indiretto di tipo eccitatorio sui neuroni enterici. La 5-HT stimola anche la secrezione di fluidi; inoltre provoca nausea e vomito mediante la stimolazione del muscolo liscio e dei nervi sensoriali nello stomaco. Il riflesso peristaltico, evocato dall'aumento della pressione in un segmento d'intestino, è mediato, almeno in parte, dalla secrezione di serotonina da parte delle cellule enterocromaffini, in risposta allo stimolo meccanico. Le cellule cromaffini rispondono anche alla stimolazione vagale determinando la secrezione di 5-HT.
  • Vasi sanguigni. Solitamente ha un'azione contratturante sui grandi vasi, sia arterie sia vene. L'attivazione dei recettori 5 − HT1 dà origine alla vasocostrizione dei grandi vasi intracranici, la cui dilatazione contribuisce all'emicrania.
  • Piastrine. La 5-HT causa aggregazione piastrinica attraverso i recettori 5 − HT2A, e le piastrine che si raccolgono nei vasi rilasciano altra 5-HT. Se l'endotelio è intatto, la liberazione di 5-HT dalle piastrine adese causa vasodilatazione, che permette lo scorrimento del flusso sanguigno; se esso è danneggiato, la 5-HT causa costrizione e ostacola ulteriormente il flusso ematico.
  • Terminazioni nervose. La 5-HT stimola le terminazioni nervose sensoriali nocicettive, principalmente attraverso i recettori 5 − HT3. Se iniettata a livello cutaneo provoca dolore.
  • Sistema nervoso centrale. La 5-HT eccita alcuni neuroni e ne inibisce altri; inoltre agisce a livello presinaptico determinando inibizione del rilascio di neurotrasmettitori dalle terminazioni nervose.

Nel sistema nervoso centrale, la serotonina svolge un ruolo importante nella regolazione dell'umore, del sonno, della temperatura corporea, della sessualità e dell'appetito. La serotonina è coinvolta in numerosi disturbi neuropsichiatrici, come l'emicrania, il disturbo bipolare, la depressione e l'ansia. Inoltre bisogna dire che alcune droghe (quali le amfetamine e l'ecstasy in particolare) agiscono su questo neurotrasmettitore. In questo caso, nel momento dell'intossicazione, si presenta non di rado il cosiddetto "colpo di calore", cioè la temperatura corporea si alza (fino a condurre alla morte se non si interviene) in quanto la serotonina è inibita dalla sostanza.

Esercita anche funzioni a livello periferico, ad esempio sulle piastrine, nel processo di coagulazione del sangue e nella peristalsi gastrointestinale.

È prodotta dall'organismo per decarbossilazione di un amminoacido essenziale, il triptofano, e pare che sia influenzata anche dalla luce. (La serotonina è anche convertita in melatonina e viceversa: L'epifisi produce un ormone, chiamato melatonina, che fu isolato per la prima volta nel 1958. Tale sostanza viene secreta quasi esclusivamente di notte e agisce sull’ipotalamo; attraverso questo, essa indirettamente può influenzare le funzioni di altri organi endocrini come la tiroide, le ghiandole surrenali e le gonadi. I risultati di alcuni esperimenti sembrano, inoltre, indicare che i mutamenti del livello della melatonina possano interferire con il ciclo riproduttivo degli animali a procreazione stagionale e, nella specie umana, con il ritmo sonno-veglia e con il ciclo mestruale.)

Molti psicofarmaci noti, come ad esempio gli antidepressivi SSRI (come il Prozac e Zoloft), antidepressivi triciclici e inibitori delle monoammino-ossidasi interferiscono con la sua azione.

La serotonina costituisce il freno naturale del riflesso dell'eiaculazione e un basso livello di questo neurotrasmettitore è la causa costituzionale principale dell'eiaculazione precoce.

Farmaci che agiscono sui recettori serotoninergici

  • Agonisti del recettore 5 − HT1D (sumatriptan). Sono utilizzati per il trattamento dell'emicrania.
  • Antagonisti del recettore 5 − HT3 (ondasetron). Sono utilizzati come farmaci antiemetici, in particolare per controllare la grave nausea e il vomito provocati da molti tipi di chemioterapia antitumorale.
  • Antagonisti del recettore 5 − HT2 (metisergide). Bloccano anche altri recettori 5-HT, così come i recettori α-adrenergici e istaminergici. Vengono utilizzati per la profilassi dell'emicrania.
  • Agonisti del recettore 5 − HT4 (metoclopramide). Stimolano l'attività peristaltica coordinata.

 


 

Alcaloidi dell'ergot

Gli alcaloidi dell'ergot sono prodotti da un fungo (Claviceps purpurea) che infesta i raccolti di cereali. I sintomi dell'avvelenamento sono costituiti principalmente da disturbi mentali e da un'intensa e dolorosa vasocostrizione periferica che determina gangrena. Gli alcaloidi dell'ergot sono molecole complesse la cui struttura base è l'acido lisergico (un alcaloide tetraciclico naturale).

Azioni

Gli effetti degli alcaloidi dell'ergot sembrano mediati prevalentemente da recettori 5-HT, adrenergici o dopaminergici. Tutti gli alcaloidi dell'ergot determinano stimolazione della muscolatura liscia. I principali effetti farmacologici sono i seguenti.

  • Effetti vascolari. L'ergotamina causa un forte aumento della pressione sanguigna, dovuto alla attivazione dei recettori α-adrenergici con conseguente vasocostrizione. Allo stesso tempo, l'ergotamina antagonizza l'effetto pressorio dell'adrenalina.

Uso clinico

L'unico impiego clinico dell'ergotamina è nel trattamento degli attacchi di emicrania che non rispondono a semplici analgesici.

 

Dopaminaformula di struttura

(Nome IUPAC: 4-(2-amminoetil)benzen-1,2-diolo.nomialternativi:2-(3,4-diidrossifenil)metilammina, 3,4-diidrossifeniletilammina, 3-idrossitiramina, DA, oxitiramina). Aspetto: polvere bianca dall’aspetto caratteristico. Solubile in acqua.

La dopamina (o dopammina) è una ammina biogena naturalmente sintetizzata dal corpo umano.

All'interno del cervello la dopamina funziona da neurotrasmettitore, tramite l'attivazione di recettori specifici D1, D2 e D3 subrecettori.

La dopamina è anche un neuro-ormone rilasciato dall'ipotalamo. La sua principale funzione come ormone è quella di inibire il rilascio di prolattina da parte del lobo anteriore dell'ipofisi.

La dopamina non può essere utilizzata come farmaco ma viene comunemente somministrato un suo precursore: la L-dopa (profarmaco), che subisce decarbossilazione ad opera dell'enzima decarbossilasi degli amminoacidi aromatici. La dopamina agisce sul Sistema nervoso simpatico causando l'accelerazione del battito cardiaco e l'innalzamento della pressione sanguigna. Gli antagonisti dopaminergici sono farmaci che trovano ampio utilizzo come neurolettico in ambito psichiatrico, mentre agonisti dopaminergici sono usati sia come terapia di prima scelta nel morbo di Parkinson, sia -in misura minore- come antidepressivi.

La biosintesi della dopamina avviene, a livello centrale, a partire da L-tirosina che viene idrossilata a L-dopa. La successiva decarbossilazione porta alla dopamina. Successivi passaggi biosintetici portano prima alla noradrenalina e poi all'adrenalina. La dopamina viene rilasciata a livello centrale dalla substantia nigra e la sua azione è mirata a modulare l'attività inibitoria dei neuroni GABAergici. Dopo aver interagito con i suoi recettori, la dopamina viene metabolizzata da due enzimi diversi:

  • dalle MAO B (Mono-Amino-Ossidasi) ad acido 3,4-diidrossi-fenilacetico;
  • dalle COMT (Catecol-O-Metil-Transferasi) ad 3-metossi-tiramina.

 

Noradrenalina (Norepinefrina) (Nome Iupac: 4-(2-ammino-1-idrossietil)benzen-1,2-diolo)

La noradrenalina o norepinefrina (NE) è una catecolamina ed una fenetilamina con formula chimica C8H11NO3. Lo stereoisomero naturale è la L-(−)-(R)-norepinefrina. Rilasciata dalle ghiandole surrenali come ormone nel sangue, è anche un neurotrasmettitore nel sistema nervoso, dove è rilasciato dai neuroni noradregenici durante la trasmissione sinaptica. In quanto ormone dello stress, coinvolge parti del cervello umano dove risiedono i controlli dell'attenzione e delle reazioni. Insieme all'epinefrina, provoca la risposta di 'attacco o fuga' (fight or flight), attivando il sistema nervoso simpatico per aumentare il battito cardiaco, rilasciare energia sotto forma di glucosio dal glicogeno e aumentare il tono muscolare. La noradrenalina è rilasciata quando una serie di cambiamenti fisiologici sono attivati da un evento. Questo è provocato dall'attivazione di un'area nel tronco encefalico chiamata locus ceruleus. Questo nucleo è all'origine della maggior parte delle azioni della noradrenalina nel cervello. I neuroni attivati inviano segnali in entrambe le direzioni dal locus ceruleus lungo diversi percorsi verso varie parti, inclusa la corteccia cerebrale, il sistema limbico e la colonna vertebrale.

La Noradrenalina agisce su alcuni recettori adrenergici, in particolare su tutti gli α e sui β1.

 

 

Fisiologia della trasmissione adrenergica

Il neurone noradrenergico

I neuroni noradrenergici periferici sono neuroni simpatici postgangliari, i cui corpi cellulari sono localizzati all'interno dei gangli simpatici. Ad eccezione della midollare del surrene, le terminazioni nervose simpatiche contengono tutta la noradrenalina presente nel sistema nervoso periferico.

Biosintesi

La noradrenalina è sintetizzata da una serie di passaggi enzimatici nel midollo surrenale a partire dall'amminoacido tirosina. La prima reazione è l'ossidazione in diidrossifenilalanina (L-DOPA), seguita dalla decarbossilazione nel neurotrasmettitore dopamina, e infine dalla β-ossidazione in noradrenalina. Questa può essere ulteriormente metilata dalla feniletanolamina N-metiltransferasi (PNMT) in adrenalina (o epinefrina com'è chiamata negli USA).

Tirosina

L-DOPA

Dopamina

Noradrenalina

Accumulo della noradrenalina

La maggior parte della noradrenalina presente nelle terminazioni nervose o nelle cellule cromaffini è contenuta all'interno di vescicole. La concentrazione intravescicolare è molto elevata e viene mantenuta grazie a un meccanismo di trasporto. Alcuni farmaci, come la reserpina, bloccano questo trasporto causando la deplezione della noradrenalina della terminazione nervosa.

Liberazione della noradrenalina

La depolarizzazione della membrana della terminazione nervosa determina l'apertura dei canali del calcio nelle membrane della terminazione stessa e il conseguente ingresso di Ca2 + promuove la fusione e il rilascio del contenuto delle vescicole sinaptiche. Il rilascio di noradrenalina può essere prodotto in assenza di esocitosi, [37] mediante farmaci che la spiazzano dalle vescicole.

Regolazione della liberazione di noradrenalina

La liberazione di noradrenalina è controllata da una serie di sostanze che agiscono sui recettori presinaptici. La noradrenalina, agendo sui recettori presinaptici, può regolare la propria liberazione, e anche quella dell'ATP co-rilasciato. Si ritiene che questo sia un evento fisiologico, mediante il quale la noradrenalina rilasciata esercita un effetto inibitorio localizzato sulle stesse terminazioni dalle quali è stata liberata, il cosiddetto meccanismo di feedback auto-inibitorio. Questo meccanismo opera attraverso i recettori α2, che inibiscono l'adenil ciclasi e prevengono l'apertura dei canali del calcio.

Captazione e degradazione metabolica delle catecolamine

Il principale meccanismo alla base della terminazione dell'azione della noradrenalina rilasciata è quello della ricaptazione del trasmettitore nelle terminazioni nervose noradrenergiche.

Captazione delle catecolamine

Vi sono due meccanismi, chiamati uptake 1 e uptake 2, che corrispondono rispettivamente alla captazione neuronale ed extraneuronale. L'uptake 1 - che porta la noradrenalina dalla sinapsi all'interno del neurone - è un sistema ad alta affinità, relativamente selettivo per la noradrenalina e con una velocità massima di trasporto delle catecolamine relativamente bassa, mentre l'uptake 2 - il quale porta l'adrenalina, la noradrenalina ed altre sostanze simili (anfetamina, tiramina, efedrina, isoprenalina) dal bottone sinaptico all'interno di specifiche vescicole - è caratterizzato da bassa affinità, ma ha una velocità massima di trasporto molto più elevata.

Degradazione metabolica delle catecolamine

Le catecolamine endogene ed esogene vengono metabolizzate essenzialmente da due classi di enzimi, le monoaminossidasi (MAO) e le Catecol-O-Metil-Transferasi (COMT). Le MAO si trovano all'interno delle cellule, legate alla superficie delle membrane mitocondriali. Le MAO trasformano le catecolamine nelle corrispondenti aldeidi, che, a livello periferico, vengono rapidamente metabolizzate dall'aldeide deidrogenasi, formando i corrispondenti acidi carbossilici. La seconda via responsabile della degradazione enzimatica delle catecolamine implica la metilazione di uno dei due ossidrili del gruppo catecolico per dare origine a un derivato metossilico. La COMT è un enzima diffuso che si trova sia nei neuroni sia in cellule non neuronali.

A livello periferico, la terminazione della trasmissione noradrenergica non è determinata in maniera sostanziale né dalle MAO né dalla COMT, in quanto la maggior parte della noradrenalina liberata viene rapidamente captata ad opera dell'uptake 1. Le catecolamine circolanti vengono solitamente inattivate dall'azione combinata di uptake 1, uptake 2 e COMT. L'importanza relativa di questi processi varia in funzione del tipo di catecolamina. La noradrenalina circolante viene infatti rimossa essenzialmente dall'uptake 1, mentre la rimozione dell'adrenalina è imputabile soprattutto all'uptake 2.

Il metabolismo della noradrenalina nel SNC presenta un andamento differente. Il ruolo più importante per la terminazione dell'azione del trasmettitore a livello centrale è rivestito dalle MAO.

 

Farmaci attivi sui recettori adrenergici

Relazione struttura-attività

La struttura molecolare della noradrenalina può essere modificata in modi diversi per dare origine a composti che interagiscano con i vari recettori adrenergici.

  • Aumentando le dimensioni dei gruppi sostituenti sull'atomo di azoto: si ottengono composti (adrenalina, isoprenalina e salbutamolo) di potenza relativamente superiore come β-agonisti e meno sensibili all'uptake 1 e all'azione delle MAO.
  • L'aggiunta di un gruppo α-metilico aumenta la selettività nei confronti del recettore α2 e rende i composti resistenti alle MAO.
  • La rimozione del gruppo -OH dalla catena laterale (dopamina) riduce significativamente l'interazione con i recettori α e β adrenergici.
  • La modificazione dei gruppi -OH catecolici rende i composti resistenti all'azione delle COMT e all'uptake 1 (salbutamolo).
  • La rimozione di uno o entrambi i gruppi -OH (tiramina, amfetamina, efedrina) abolisce l'affinità per il recettore, ma mantiene le caratteristiche di amine simpaticomimetiche indirette, dato che i composti derivati sono substrati dell'uptake 1.
  • L'allungamento della catena laterale alchilica, con l'inserimento di un gruppo isopropilico legato all'atomo di azoto, e la modifica dei gruppi -OH catecolici (propanololo, oxprenololo) determinano la generazione di potenti antagonisti dei recettori β.

Agonisti dei recettori adrenergici

Azioni

  • Muscolatura liscia. Tutti i tipi di muscolatura liscia, ad eccezione di quella del tratto gastrointestinale, si contraggono in risposta a stimolazione dei recettori α1-adrenergici. L'azione più importante si manifesta sulla muscolatura liscia vasale, e particolarmente nei letti vascolari sottocutaneo e splancnico, che si contraggono fortemente. Anche le grandi arterie, le vene e le arteriole si contraggono, causando una riduzione della perfusione degli organi, un aumento della pressione del ritorno venoso e un aumento delle resistenze periferiche. Tutto ciò contribuisce all'aumento della pressione arteriosa sistolica e diastolica. La stimolazione dei recettori β determina il rilasciamento di buona parte della muscolatura liscia, con un meccanismo che coinvolge un aumento della concentrazione intracellulare di cAMP. L'attivazione dei recettori β2 provoca un potente rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale e gli agonisti selettivi di tipo β2 risultano pertanto molto importanti nel trattamento dell'asma.
  • Cuore. L'azione sui recettori β1 delle catecolamine determina un potente effetto stimolatorio sul cuore. Sia la frequenza cardiaca (effetto cronotropo) sia la forza di contrazione (effetto inotropo) risultano aumentate, con conseguente marcato aumento della gittata cardiaca e del consumo di ossigeno. Le catecolamine possono anche provocare disturbi del ritmo cardiaco, culminanti nella fibrillazione ventricolare.
  • Metabolismo. Le catecolamine promuovono la conversione dei depositi energetici (glicogeno e grasso) in combustibili prontamente disponibili (glucosio e acidi grassi liberi) e causano iperglicemia e iperlipidemia. Anche la secrezione di insulina viene influenzata, prevalentemente in modo inibitorio, attraverso i recettori α2, un effetto che contribuisce ulteriormente all'iperglicemia.
  • Altri effetti. Il muscolo scheletrico viene influenzato dall'adrenalina tramite la sua interazione con i recettori β2. La forza di contrazione delle fibre muscolari veloci (bianche), viene aumentata dall'adrenalina, particolarmente nel muscolo affaticato, mentre la contrazione delle fibre lente (rosse) viene ridotta. L'adrenalina e altri agonisti β2 provocano inoltre marcato tremore.

 

 

Antagonisti dei recettori adrenergici

Diversamente da quanto avviene per gli agonisti, la maggior parte degli antagonisti adrenergici risulta selettiva nei confronti dei recettori α o β.

Antagonisti dei recettori α-adrenergici

  • Antagonisti non selettivi del recettore α-adrenergico (fenossibenzamina, fentolamina). Questi farmaci provocano una caduta pressoria (determinata dal blocco della vasocostrizione mediata dai recettori α) e ipotensione posturale. La gittata e la frequenza cardiaca sono aumentate, come risposta riflessa alla caduta della pressione arteriosa, mediata dai recettori β.
  • Antagonisti α1-selettivi (prasozina). Causano un'elevata vasodilatazione e caduta della pressione arteriosa, ma con minore tachicardia riflessa rispetto agli antagonisti non selettivi del recettore α.
  • Antagonisti α2-selettivi (yohimbina). Hanno effetti vasodilatatori e grazie a questa proprietà sono noti come afrodisiaci.
 
Uso clinico generale ed effetti indesiderati degli antagonisti α-adrenergici
  • Ipertensione: antagonisti α1-selettivi
  • Ipertrofia prostatica benigna
  • Feocromocitoma: fenossibenzamina

L'impotenza è un frequente effetto collaterale degli antagonisti α-adrenergici.

Antagonisti dei recettori β-adrenergici]

Azioni

Gli effetti più importanti si manifestano a carico del sistema cardiovascolare e sulla muscolatura liscia bronchiale. In un soggetto a riposo, il propanololo provoca modeste alterazioni della frequenza cardiaca o della pressione arteriosa, ma riduce gli effetti dell'esercizio fisico o dell'eccitazione su queste variabili. La tolleranza allo sforzo massimo è considerevolmente ridotta nel soggetto normale, in parte a causa della ridotta risposta cardiaca, e in parte perché la vasodilatazione nel muscolo scheletrico mediata dal recettore β è ridotta.

Un'importante effetto dei β-antagonisti è l'azione ipertensiva. Il meccanismo responsabile di questo effetto è complesso e implica i seguenti eventi:

  • riduzione della gittata cardiaca;
  • riduzione della liberazione di renina dalle cellule iuxtaglomerulari renali;
  • azione centrale che riduce l'attività simpatica.

Molti antagonisti dei recettori β-adrenergici sono provvisti di un effetto antiaritmico sul cuore.

Nei soggetti asmatici un β-antagonista non selettivo può causare grave broncocostrizione, che naturalmente non risponde alle dosi usuali di salbutamolo o di adrenalina.

Impiego clinico
  • Sistema cardiovascolare:
    • ipertensione
    • angina pectoris
    • dopo infarto miocardico
    • aritmie cardiache
  • Scompenso cardiaco clinicamente stabile
  • Altri impieghi:
    • glaucoma
    • tireotossicosi
    • stati d'ansia, per controllare i sintomi somatici associati all'iperattività simpatica, quali tremore e palpitazioni
    • profilassi dell'emicrania
    • tremore benigno essenziale (malattia ereditaria)
Effetti indesiderati
  • Broncocostrizione. È di scarsa importanza in assenza di malattie delle vie aeree, ma nei pazienti asmatici questo effetto può avere conseguenze drammatiche fino a mettere in pericolo la vita.
  • Scompenso cardiaco
  • Bradicardia
  • Ipoglicemia. Il rilascio di glucosio in risposta all'adrenalina è un meccanismo di sicurezza che può diventare assai importante nel paziente diabetico e in altri individui soggetti ad attacchi di ipoglicemia.
  • Affaticamento. Sensazione di fatica dovuta alla ridotta gittata cardiaca e alla ridotta perfusione dei muscoli durante l'attività fisica.
  • Estremità fredde. Questo effetto deriva dalla perdita della vasodilatazione mediata dai recettori β nei vasi cutanei.

 

Farmaci attivi sui neuroni noradrenergici

Farmaci attivi sulla sintesi della noradrenalina

L'α-metiltirosina inibisce la tirosina-idrossilasi; la carbidopa, un derivato idrazinico della DOPA, inibisce la DOPA-decarbossilasi e trova impiego nel trattamento del parkinsonismo.

Farmaci attivi sull'accumulo di noradrenalina

La reserpina, a concentrazioni molto basse, blocca il trasporto della noradrenalina e di altre amine nelle vescicole sinaptiche, legandosi alla proteina di trasporto. La noradrenalina si accumula così nel citoplasma, dove viene degradata dalle MAO. Il contenuto di noradrenalina nel tessuto si riduce progressivamente fino a raggiungere livelli molto bassi e la trasmissione sinaptica viene bloccata.

Farmaci attivi sul rilascio di noradrenalina

I farmaci possono influenzare la liberazione di noradrenalina in quattro modi principali:

  • Bloccandone direttamente la liberazione (farmaci bloccanti i neuroni noradrenergici).
  • Evocando la liberazione di noradrenalina in assenza di depolarizzazione della membrana (farmaci simpaticomimetici ad azione indiretta).
  • Interagendo con i recettori presinaptici che inibiscono o aumentano la liberazione del neurotrasmettitore evocato dalla depolarizzazione.
  • Aumentando o diminuendo la quantità di noradrenalina disponibile (reserpina, inibitori delle MAO).

Farmaci che bloccano i neuroni noradrenergici

L'effetto principale della guanetidina consiste nell'inibizione del rilascio di noradrenalina dalle terminazioni simpatiche. I farmaci appartenenti a questa classe riducono o aboliscono la risposta dei tessuti alla stimolazione dei nervi simpatici, ma non influenzano gli effetti della noradrenalina in circolo. La guanetidina è accumulata all'interno delle vescicole sinaptiche mediante un trasportatore vescicolare, e agisce interferendo con l'esocitosi vescicolare e spiazzando la noradrenalina dalle vescicole stesse. In questo modo la guanetidina causa una lenta, progressiva e duratura deplezione della noradrenalina nelle terminazioni simpatiche, effetto simile a quello indotto dalla reserpina.

 

 

Amine simpaticomimetiche ad azione indiretta

I farmaci più importanti di questo gruppo sono la tiramina, l'amfetamina e l'efedrina. La loro azione sui recettori adrenergici è molto scarsa, ma la loro analogia strutturale con la noradrenalina permette il trasporto dall'uptake 1 all'interno delle terminazioni nervose. Una volta all'interno della terminazione, sono accumulate nelle vescicole grazie a un trasportatore vescicolare delle monoamine; questo avviene per scambio con la noradrenalina che viene rilasciata nel citosol. Una parte della noradrenalina citosolica viene degradata dalle MAO, mentre il resto sfugge dalla terminazione stessa attraverso un processo di trasporto mediato dall'uptake 1 per agire sui recettori postsinaptici. Una caratteristica importante degli effetti delle amine simpaticomimetiche indirette è rappresentata dalla loro capacità di sviluppare tolleranza (anche agli effetti centrali).

Le azioni periferiche delle amine simpaticomimetiche indirette comprendono broncodilatazione, aumento della pressione arteriosa, vasocostrizione periferica, tachicardia, aumento della forza di contrazione del miocardio e inibizione della motilità gastrointestinale.

Inibitori della ricaptazione della noradrenalina

La ricaptazione neuronale della noradrenalina libera (uptake 1) è il meccanismo più importante grazie al quale viene terminata la sua azione sui recettori. Molti farmaci inibiscono questo trasporto e di conseguenza aumentano gli effetti sia dell'attività del nervo simpatico sia della noradrenalina in circolo. La classe principale di inibitori dell'uptake 1 è costituita dagli antidepressivi triciclici, quali la desipramina (causa tachicardia e aritmie cardiache). La cocaina è nota soprattutto per la possibilità di abuso e per la sua attività di anestetico locale (potenzia la trasmissione simpatica, causando tachicardia e aumento della pressione arteriosa).

Usi clinici

Disturbo da deficit di attenzione ed iperattività

La noradrenalina, insieme alla dopamina, è ritenuta svolgere un importante ruolo nell'attenzione e nella sua focalizzazione. Per i pazienti affetti da ADD/ADHD, sostanze psicostimolanti come il Ritalin/Concerta (metilfenidato), la Dexedrina (dextroanfetamine), e Adderall (una mistura non-racemica di sali anfetaminici) sono prescritte per supportare l'aumento dei livelli di noradrenalina e di dopamina. La strattera (atomoxetina) è una inibitore selettivo del riassorbimento della noradrenalina (SNRI), ed è la sola cura per l'ADD/ADHD, in quanto agisce solo sulla noradrenalina, e non sulla dopamina. Come risultato la strattera ha un più basso potenziale d'abuso. Comunque, può non essere così efficace come altri psicostimolanti sulle molte persone che hanno l'ADD/ADHD.

Depressione

Differenze nel sistema della noradrenalina sono implicate nella depressione. Gli inibitori di riassorbimento della serotonina e della noradrenalina (SNRIs) sono antidepressivi che trattano la depressione aumentando la quantità di serotonina e noradrenalina disponibili ai recettori postsinaptici del cervello. Si hanno prove che il trasportatore della noradrenalina trasporta anche la dopamina, con l'effetto che i SNRI possono anche aumentare la trasmissione di dopamina. Questo perché i SNRI lavorano inibendo il riassorbimento, ad esempio evitando che i trasportatori di serotonina e noradrenalina riportino i rispettivi neurotrasmettitori nelle vescicole presinaptiche per utilizzi futuri. Se il trasportatore di noradrenalina normalmente "ricicla" anche un po' di dopamina, allora i SNRI miglioreranno la trasmissione dopaminergica. Pertanto, gli effetti antidepressivi associati ai crescenti livelli di noradrenalina sono anche in parte o largamente dovuti al concomitante aumento della dopamina (particolarmente nella corteccia prefrontale).

Altri antidepressivi (per esempio alcuni antidepressivi triciclici (TCAs) agiscono ugualmente sulla noradrenalina, in alcuni casi senza agire direttamente su altri neurotrasmettitori.

Vasocompressione

La norepinefrina è anche usata come vasocompressore nei pazienti con ipotensione critica. Si introduce per via endovenosa e si lega sui recettori adregenici alpha-1 per provocare la vasocostrizione, e beta-1 per accelerare il ritmo cardiaco aumentare la pressione e la gittata cardiaca. Viene usata soprattutto per trattare i pazienti in setticemia i quali mostrano una percentuale di sopravvivenza superiore a quelli trattati con la dopamina.

Metaboliti

Nei mammiferi la noradrenalina è rapidamente degradata in vari metaboliti. I principali metaboliti sono:

  • Normetanefrina (attraverso l'enzima COMT)
  • Acido 3,4-diidrossimandelico (attraverso la monoammina ossidasi)
  • Acido 3-Metossi-4-idrossimandelico (attraverso la monoammina ossidasi)
  • 3-Metossi-4-idrossifenilglicolo (attraverso la monoammina ossidasi)
  • Adrenalina (attraverso la N-metiltransferasi

 


 

SCHEDA 5

Urgenza psichiatrica e psicopatologia dell'urgenza

Vincenzo MANNA Medico, Psicoterapeuta, Specialista in Neurologia, Specialista in Psichiatria, Dirigente Responsabile del Centro di Salute Mentale di Genzano di Roma, Docente di Neurologia nel Corso di Laurea in Logopedia dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma

 

Nella pratica clinica per urgenza psichiatrica s’intende una condizione di sofferenza mentale acuta, grave, espressa con sintomi psicopatologici tali da richiedere un intervento rapido, contenitivo, diagnostico e terapeutico nel minor tempo possibile.

È opportuno distinguere l’urgenza dall’emergenza, che pur essendo una condizione acuta, è più legata a situazioni di disagio o disadattamento sociale, motivata prevalentemente da una richiesta ambientale, con soluzioni adeguate psicosociali e, solo secondariamente, psichiatriche.

La sofferenza psichica acuta deve essere innanzi tutto accolta e contenuta, per permettere un’eventuale successiva diagnosi e programmare una terapia. Questo significa fornire in via prioritaria una presa in carico medica, volta ad escludere eventuali malattie internistiche o neurologiche attraverso un esame fisico generale, in particolare neurologico, e a provvedere anche eventuali prove di laboratorio. In fase iniziale è importante raccogliere notizie anamnestiche, se possibile direttamente dal paziente, ma anche dagli eventuali accompagnatori, in specie sulla modalità di esordio della sintomatologia attuale e sugli eventuali disturbi mentali pre-esistenti.

Va razionalmente perseguita una terapia immediata, che risponda ai criteri d’efficacia, rapidità d’azione e ridotti effetti collaterali, senza perdere di vista il disturbo di base sottostante. A volte può essere opportuno indurre una sedazione rapida, con modalità adeguate e razionali, per ottenere un contenimento dei sintomi, specie quando i pazienti sono molto agitati o sono distruttivi verso sé o verso l’ambiente. Tutto ciò non deve comportare la rinuncia all’aspetto relazionale interpersonale tra medico e paziente che, proprio per il clamore circostante e le pressioni esterne, può essere tralasciato inopportunamente.

L’importanza di un trattamento rapido non deve indurre a risposte a corto circuito, ad azioni immediate e non ponderate, a contenere e tamponare senza prima avere cercato di capire. La terapia dell’acuzie psichiatrica non è il semplice ed immediato controllo dei sintomi disturbanti. Deve, invece, essere la premessa per un riadattamento rapido del soggetto, cioè occasione preziosa d’elaborazione soggettiva dell’esperienza, che, se adeguatamente gestita, può facilitare cambiamenti esistenziali duraturi verso livelli più adattivi di vita.

Valorizzare l’aspetto soggettivo e psicopatologico proprio dell’acuzie significa anche aprire un punto di vista alternativo a quello che è il modello prevalente in psichiatria, tradizionalmente evolutivo e lineare. In una prospettiva d’approccio strategico alla “crisi” la valorizzazione degli aspetti intrapsichici, biografici ed interpersonali dell’urgenza/emergenza psicopatologica può permettere, talvolta, interventi fortemente efficaci sul piano terapeutico.

Negli ultimi decenni l’area dell’urgenza psichiatrica ha assunto una rilevanza sempre maggiore, non solo in ambito clinico, ma anche nell’approfondimento delle problematiche collegate alla sofferenza psichica, con sempre maggior tendenza a sfumare i limiti tra normale e patologico.

 

Definizioni

La definizione d’urgenza, in ambito medico, non è agevole sebbene la maggior parte degli Autori tende a considerarla come «una situazione acuta e grave che richiede un intervento terapeutico immediato». Un ruolo viene giocato nella definizione di urgenza da parametri diversi: quello descrittivo e nosografico (acuzie), quello prognostico (gravità) e quello terapeutico (necessità di un trattamento immediato). (Cuzzolaro, 1982) Una definizione d’urgenza psichiatrica più dettagliata può essere la seguente: “Situazione acuta e grave in cui la sofferenza psichica di un soggetto richieda un intervento psichiatrico immediato per i rischi che tale stato comporta alla persona stessa o agli altri”. Per altri Autori «….non è il quadro cinico in sé che sembra caratterizzare la richiesta di intervento urgente, ma una serie di variabili dipendenti dal luogo dell’incontro medico-paziente, dal ruolo dei familiari, dal grado di “sopportazione” dell’ambiente di lavoro e dalle variabili sociali, che condizionano, in genere, la tolleranza nei confronti dei comportamenti che si discostano dalla norma». (Casacchia e Sconci, 1990)

Il ruolo svolto dall’ambiente è più evidente nella definizione di un secondo concetto, quello d’emergenza, solo in parte sovrapponibile al primo. Per emergenza s’intende: «una situazione in cui non si assiste tanto ad un peggioramento del paziente o ad uno scompenso acuto, quanto piuttosto alla rottura di un equilibrio con l’ambiente». L’emergenza riguarda, perciò, più di uno scompenso nelle relazioni interpersonali e sociali in cui l’elemento psicopatologico giocherebbe un ruolo di secondo piano rispetto alle problematiche psicosociali. (Cuzzolaro, 1982; Casacchia e Sconci, 1990)
La distinzione tra urgenza ed emergenza in psichiatria ha solo un valore accademico per alcuni Autori. (Asioli, 1984) L’opportunità di dare, comunque, una risposta immediata a situazioni di disagio psichico e psico-sociale va sempre colta, al fine di evitare una preziosa occasione d’intervento diagnostico e terapeutico. Appare così evidente come si debba tener conto sempre della presenza, pur in grado diverso, in ogni condizione di crisi, sia degli aspetti francamente psicopatologici sia degli aspetti di tipo socio-ambientale. Il termine acuzie, in psichiatria è riservato alla «insorgenza improvvisa di una sintomatologia psichica ritenuta dal soggetto o da chi vive con lui tale da richiedere un intervento terapeutico immediato». (De Martire Vender, 1993) Al contrario il termine crisi è comunemente inteso come «rottura di un equilibrio, sia a livello individuale, sia a livello relazionale, fino allora relativamente stabile». Altrettanto importante è la definizione di rischio, in psichiatria. A questo proposito è necessario distinguere le variabili che possono costituire un fattore di rischio psico-patogenetico per un soggetto affettivamente fragile (adolescenza, senilità, gravidanza, lutti, malattia) dai rischi comportamentali associati a quadri psicopatologici eclatanti, soprattutto relati a danni irreparabili per l’individuo o per altri (suicidio, omicidio, sperpero dei beni, ecc.). I fattori di rischio psico-patogenetico, capaci di indurre la rottura dell’omeostasi del soggetto, si possono distinguere fattori scatenanti (affettivi, economici e culturali) da fattori favorenti (emarginazione, età, emigrazione, processi maturativi, cambiamenti, eventi stressanti). (De Martis e Vender, 1993) Alcuni quadri psicopatologici particolarmente intensi e rapidi nell’esordio, difficilmente contenibili e molto eclatanti, spesso hanno una prognosi più fausta rispetto ad altri ad esordio lento e a caratteristiche meno evidenti. Non sempre, in pratica, l’acuzie è sinonimo di peggiore prognosi, in ambito psicopatologico.

 

Classificazione delle urgenze

Nella pratica clinica possono essere distinti quattro tipi d’urgenza.

 - Urgenze che necessitano di risposta psichiatrica (sia essa farmacologica, psicologica o di contenimento e ricovero). Esse risultano essere prevalentemente legate al quadro propriamente psicopatologico (disturbi affettivi, depressivi e maniacali, disturbi d’ansia, scompensi deliranti, disturbi somatici su base funzionale). Sono in genere ad eziopatogenesi funzionale endogena, talora anche esogena o mista, come nel caso di un’intossicazione da farmaci, droghe o altre sostanze. In questo contesto rientrano anche le situazioni di grave conflittualità, con o senza specifici quadri psicopatologici, le reazioni psichiche abnormi ad eventi esterni (lutti, separazioni, violenze, arresti, etc.) o comunque le situazioni di crisi che vanno affrontate precocemente al fine di evitare lo strutturarsi di una patologia psichiatrica propriamente detta.

 - Urgenze che necessitano di risposta somatica. In queste la sintomatologia che richiede l’intervento immediato è quell’organica, anche se è presente una patologia psichiatrica o vi sono sintomi psicopatologici. È il caso delle psicosi esogene e degli stati di scompenso nell’alcolismo, come nel caso del delirium tremens, che necessitano più di un ricovero in reparto internistico che in reparto psichiatrico, giacché il bisogno di cure prevalente è medico. Altre situazioni di questo gruppo sono costituite dalle intossicazioni volontarie da farmaci, le lesioni auto-provocate a scopo suicidario e le urgenze somatiche legate alla tossicodipendenza.

- Urgenze che necessitano di risposta socio-ambientale e/o assistenziale. Esse rappresentano quelle condizioni cliniche in cui l’intervento va fatto in tempi rapidi, ma con risposte di tipo sociale più che medico, sui bisogni della quotidianità (cibo, igiene, alloggio), sulle relazioni familiari e sociali critiche o infine su quegli stati psicologici alterati, ma non legati a vera psicopatologia, che non richiedono un supporto psichiatrico propriamente detto. Per questo tipo d’urgenze è spesso coinvolto lo psichiatra, sia per la presenza di sintomi di tipo psichico sia per far da collegamento tra istituzione sanitaria, famiglia e istituzioni sociali.

- Urgenze che necessitano di risposte di tipo giudiziario sono quelle situazioni legate all’espressione di comportamenti violenti, aggressivi e/o anti-sociali. In questi casi è spesso richiesto impropriamente un intervento psichiatrico. Tali comportamenti devono essere affrontati e contenuti dalle forze dell’ordine a ciò preposte. La comparsa di crisi d’ordine psicopatologico, ad esempio, dopo un fermo di polizia (crisi d’agitazione, crisi d’ansia, atti violenti auto oppure eteroaggressivi) possono talora avvantaggiarsi di un intervento medico, in questi casi, rivolto esclusivamente al contenimento del quadro sintomatico presente. Valutazioni di tipo psichiatrico, rispetto ad eventuali atti delittuosi commessi, possono essere richieste, come perizia, solo successivamente e al di fuori della condizione d’urgenza.

 

Valutazione clinica in psichiatria d’urgenza

In seguito alla richiesta d’aiuto immediato da parte di una o più persone (paziente, familiari, ambiente sociale e professionale, forze dell’ordine, assistenza sociale, figure sanitarie, organi di giustizia), con l’invito più o meno esplicito ad effettuare un ricovero in tempi rapidi, considerati i tempi spesso brevi di consultazione, il carattere drammatico e spesso pubblico dello scompenso, la frequente scarsa compliance del paziente designato, nonché la scarsità d’informazioni o la loro contraddittorietà, è opportuno suddividere le priorità secondo il seguente schema.

 

SCHEMA DI PRIORITÀ

1. Raccolta delle informazioni disponibili sul paziente da tutte le fonti utilizzando:

 - colloquio attento con il soggetto, i familiari e conoscenti accompagnatori e quanti richiedano l’intervento;

 - visione dei documenti clinici a disposizione (cartelle cliniche, certificazioni, ricettazioni, ecc.);

2. Valutazione medica attenta al fine di accertare ogni possibile eziologia organica del quadro psicopatologico (danni organici neurologici o sistemici, intossicazioni, astinenza):

 - accurata anamnesi con domande su eventuale uso-abuso di sostanze e farmaci;

- valutazione attenta delle funzioni cognitive (vigilanza, coscienza, orientamento, ecc.);

- esame neurologico;

3. Informazioni sull’esordio dei sintomi ed i fattori scatenanti (anche su informazioni di più persone):

- organici o biologici;

- psicologici;

- relazionali-sociali;

4. valutazione tipologica della crisi:

- ansiosa;

- depressiva;

- delirante allucinatoria;

- aggressivo- comportamentale;

5. formulazione diagnostica presuntiva, con attenzione alla comorbidità;

6. valutazione dei rischi connessi a tipo di crisi e tipo di diagnosi (in particolare agiti e violenza auto o eterodiretta);

7. valutazione del sostegno sociale e della tolleranza ambientale alla crisi;

8. valutazione di compliance del paziente e dei familiari.

 

 

 

Aspetti psicologici dell’urgenza

Nell’urgenza psichiatrica qualcuno chiede un aiuto qualificato, in un determinato contesto socio-ambientale. Un primo quesito che ci si deve porre è conoscere da chi parta la richiesta d’aiuto. Non sempre è il paziente a rivolgere la domanda d’intervento. Il più delle volte può essere un familiare, talvolta un vicino di casa o ancora operatori sociali, sanitari o forze dell’ordine pubblico. Il secondo quesito riguarda il contesto ambientale in cui l’intervento è richiesto. La richiesta d’aiuto può avvenire nell’ambito di un pronto soccorso, nel territorio oppure all’interno di un reparto non psichiatrico dell’ospedale, ove si richieda una consulenza urgente. Sempre più spesso l’utenza tende ad utilizzare l’ospedale come punto di riferimento per la cura del proprio disagio, qualunque esso sia. All’ospedale ed in particolar modo al pronto soccorso giungono non solo le reali emergenze, ma anche le richieste d’aiuto psicologico più regressive (da quelle sul piano somatico, alle domande di passività, dipendenza, etc.) in cui il soggetto assume un ruolo di completa passività rispetto alla soluzione delle sue problematiche, con un atteggiamento mentale infantile, in cui ci si aspetta che la sanità, in un ruolo inconsciamente materno, dia accoglienza e sostegno, soprattutto per quelle situazioni soggettivamente allarmanti, per le quali procrastinare una risposta non sembra soggettivamente tollerabile. «La situazione acuta, consentendo la soddisfazione di bisogni regressivi così immediati, che difficilmente riescono ad essere mentalizzati, può favorire una sorta di tossicomania dell’urgenza» secondo De Martis e Vender (1993). L’ospedale è esperito, infatti, tanto come la struttura più idonea a dare una risposta globale (corporea, psichica, sociale) ad ogni domanda d’aiuto, quanto come l’unico contenitore capace di dare un “limite” (scientifico, organizzativo, ecc.) a difficoltà e bisogni esplosi e già trattati in un contesto territoriale, che è di per sé meno definito e visibile. Il pronto soccorso può svolgere per il paziente quella funzione di “pelle” temporanea capace di contenere l’angoscia e la disgregazione emergente. L’ospedale esprime anche una funzione paterna collegata al ruolo attivo, normativo, decisionale, che mette ordine alla fusione-confusione, assegnando un nome ad eventi e disturbi, storicizzando l’emergenza e stabilendo dei limiti spazio-temporali precisi con ricoveri e prescrizioni. La situazione d’urgenza, con il suo carattere di drammatica impellenza, richiede decisioni immediate che spesso mettono in crisi l’operatore. Quadri sindromici particolarmente intensi di tipo ansioso, delirante-allucinatorio, maniacale o depressivo, oppure di tipo aggressivo-comportamentale, mettono chiunque le osservi in contatto con le proprie parti angoscianti, psicotiche, confuse, scisse. Ciò può indurre nei familiari, negli accompagnatori e negli operatori psichiatrici stessi l’uso di modalità difensive, che può condizionare il tipo di risposta. Tali modalità possono includere reazioni di rifiuto ed espulsione, reazioni di negazione, reazioni di controllo e distanziamento, reazioni fusionali e riparative, reazioni d’empatia e contenimento. È frequente che, a fronte di spinte così forti ad intervenire da parte del paziente stesso, dei familiari, degli operatori sociali, delle forze dell’ordine, dei colleghi medici o anche degli stessi psichiatri, l’operatore si senta costretto ad agire subito, spesso con un ricovero o con farmaci, senza dare un primo contenimento mentale alle angosce del paziente. È invece importante una presa in carico immediata del problema ed una risposta in termini di presenza e sostegno a chi fa la richiesta, potendo rimandare anche ad un secondo tempo ulteriori misure terapeutiche. Prima di agire non è sbagliato riflettere, anche e soprattutto in urgenza/emergenza. In alcuni casi l’azione terapeutica più corretta ed efficace può essere l’attesa.

 

Approccio al paziente ed ai familiari

La prima fase dell’intervento psichiatrico in urgenza / emergenza consiste necessariamente in un tentativo di drammatizzare la situazione, trasformandola da contesto d’emergenza, in cui è necessario fornire una risposta immediata e non dilazionabile, in un contesto in cui è possibile parlare dei problemi, cercando di capire ciò che sta succedendo. Non è possibile seguire in questa prima fase schemi preordinati. E’ importante che ogni operatore abbia consapevolezza del fatto che tutto ciò che egli farà, nel corso di questo primo contatto, segnerà inevitabilmente i suoi successivi rapporti con il paziente e con i familiari. E’ utile, perciò:

        evitare inganni o sotterfugi circa il proprio ruolo e le finalità dell’intervento;

         – utilizzare un linguaggio semplice, chiaro, facilmente accessibile e che non sia ambiguo;

         – trasmettere la disponibilità ad ascoltare e capire quanto sta succedendo;

        – tranquillizzare le persone che si sentono minacciate, spaventate o in colpa;

        – allontanare i presenti coinvolti sul piano emotivo;

         – evitare ogni collusione con familiari o altri accompagnatori;

        – non assumere atteggiamenti moralistici o punitivi verso il paziente o i familiari;

        – creare un’atmosfera di rispetto per la condizione di sofferenza del paziente e di partecipazione attenta ai problemi presentati;

         – accettare che sia il paziente a stabilire di cosa parlare, cercando di portare poi il discorso sulla crisi attuale e sulle sue eventuali motivazioni;

        – evitare commenti diretti sulle “convinzioni” del paziente e sui suoi comportamenti bizzarri;

        – manifestare sicurezza nelle decisioni, pieno controllo della situazione. Di fronte ad un paziente particolarmente agitato o violento, è importante che l’operatore eviti di mettersi in situazioni potenzialmente pericolose, di assumere atteggiamenti eccessivamente direttivi o minacciosi, di ostacolare la possibilità del paziente d'allontanarsi dalla stanza. Quando, nonostante tutte queste precauzioni, il paziente continui ad essere agitato, l’obiettivo immediato dovrà essere quello di ricorrere alla sedazione farmacologica, da attuare, se possibile, in maniera non drammatica ed evitando la contenzione fisica, in idonei spazi clinici. La necessità di adottare questi provvedimenti dovrebbe essere spiegata in maniera esplicita e decisa al paziente e ai suoi familiari.

 

Definizione del problema

Una volta ridotta la tensione, è necessario procedere ad una prima definizione del problema, attraverso la valutazione delle condizioni psicopatologiche del paziente e la raccolta delle informazioni anamnestiche (con particolare riguardo agli eventi che hanno preceduto la richiesta d’aiuto). In questa valutazione, non sempre sarà possibile seguire uno schema preordinato. Tuttavia, lo psichiatra utilizzando al meglio le sue capacità d’osservazione e la sua disponibilità all’ascolto, sarà sempre in grado di ottenere le informazioni necessarie ad un primo orientamento diagnostico. La raccolta delle informazioni anamnestiche riveste un’importanza fondamentale, non solo per la conferma dell’ipotesi diagnostica formulata sulla base delle caratteristiche del quadro clinico, ma anche per la successiva impostazione dell’intervento terapeutico. Tuttavia, il contesto in cui viene attuato l’intervento psichiatrico d’urgenza rende estremamente difficoltosa l’indagine anamnestica, che spesso viene differita nel tempo, compromettendo così la possibilità di acquisire informazioni essenziali sul piano diagnostico. D’altro canto, le gravi distorsioni del giudizio di realtà, le alterazioni dello stato di coscienza e l’inevitabile coinvolgimento emotivo, che caratterizzano l’acuzie psichiatrica, compromettono notevolmente l’attendibilità delle informazioni fornite da questi pazienti. Pertanto, la raccolta dei dati anamnestici dovrà inevitabilmente coinvolgere altre fonti d’informazione (familiari, amici, vicini di casa, colleghi di lavoro) che possano fornire ulteriori elementi per ricostruire un quadro più completo ed attendibile della storia del paziente e dell’evoluzione della malattia. È importante raccogliere il maggior numero d’informazioni, anche con domande dirette a tutti i presenti, cercando di prestare attenzione sia alle modalità attraverso cui gli eventi sono presentati, sia al tipo di relazioni interpersonali che così si delineano. Se disponibile, l’esame di documentazione clinica (cartelle cliniche, esami di laboratorio, consulenze specialistiche, eventuali trattamenti) e il contatto con il medico curante o con chi ha già in carico il paziente potrà risultare importante.

 Nel corso dell’indagine anamnestica particolare attenzione dovrà essere posta nel determinare:

– le condizioni del paziente prima dell’insorgenza della sintomatologia psichica (pregressi episodi psicopatologici, personalità premorbosa, adattamento sociale e lavorativo, sintomi prodromici);

- il ruolo d’eventuali fattori stressanti;

- l’uso di farmaci o droghe;

– la concomitanza di specifiche patologie somatiche;– le modalità d’esordio e l’evoluzione delle manifestazioni psicopatologiche;– gli interventi terapeutici già attuati (adeguatezza e specificità dei trattamenti, dosaggi, durata, effetti collaterali, compliance);– l’eventuale presenza di malattie psichiatriche o neurologiche tra i familiari.

 

 

Nota.

 Emergenza-urgenza

 

Emergenza

 

Per definizione, l’emergenza è una situazione che si verifica improvvisamente, è imprevedibile, fortunatamente non frequente, può interessare una o più persone, ed esige prontezza, efficienza e decisioni immediate. In questo contesto il carico di stress degli operatori che ruotano intorno all’evento è molto elevato.

 

 

Urgenza

 

L’urgenza invece è una condizione più frequente, in cui non esiste un immediato pericolo di vita, ma nella quale è necessario adottare entro breve tempo l’opportuno intervento terapeutico.

Le possibili cause di emergenza-urgenza in corsia possono essere:

 

1.     ARRESTO CARDIOCIRCOLATORIO

2.     ARRESTO RESPIRATORIO

3.     TRAUMA CRANICO GRAVE

4.     DOLORE TORACICO

5.     EMERGENZE PSICHIATRICHE

6.     INSUFFICIENZA RESPIRATORIA GRAVE

7.     PROBLEMI DEL RITMO CARDIACO LETALI

8.     EMERGENZE MEDICHE, CHIRURGICHE E NEUROLOGICHE

9.     MACROEMERGENZA.

 

 


 

[1] N. Dioguardi – G.P. Sanna, Moderni aspetti di semeiotica medica, Società Editrice Universo

[2] “Un atteggiamento riduzionista è tale se cerca di dare un particolare tipo di spiegazione che consiste nel "considerare certi ordini di fenomeni come soggetti alle leggi, meglio stabilite o più precise, di un altro ordine di fenomeni"”. Per meglio dire, si tratta di una “tesi epistemologica che postula un ordine gerarchico fra le varie discipline scientifiche a partire dalla fisica, considerata la prima e fondamentale: alla fisica sono subordinate, in ordine di importanza decrescente, la chimica, la biologia, la psicologia e la sociologia” (Cerruti, Abbagnano)

[3] N. Dioguardi – G.P. Sanna, Moderni aspetti di semeiotica medica, Società Editrice Universo

[4] Una componente della relazione medico-paziente che, come riferito in altra sede, riguarda il cosiddetto “effetto placebo”.

[5] I primi grandi folkloristi italiani furono proprio dei medici: Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino, entrambi siciliani.

[6] Secondo le definizioni di Encarta: “ Che sa accettare con serenità avversità e contrattempi | (est.) Che sa attendere senza insofferenza e nervosismo | … Chi è affetto da una malattia e quindi sottoposto a cure mediche, analisi e sim.” Ma anche, secondo la definizione di Jung suggeritami da Emanuela Mazzoni, “colui che patisce”.

[7] Vincenzo Masini, Emanuela Mazzoni – Psicologia relazionale transteorica – Università di Pisa, Prepos

[8] Vincenzo Masini – Dalle emozioni ai sentimenti – Prevenire è possibile

[9] Vincenzo Masini, Medicina Narrativa: Comunicazione empatica ed interazione dinamica nella relazione medico-paziente, Franco Angeli Editore

[10] Stefano Canali, Luca Pani – Emozioni e malattia – Bruno Mondadori

[11] Milton H. Erickson – La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici – Casa Editrice Astrolabio.

[12] Thierry Janssen – La solution intérieure. Vers une nouvelle medicine du corps et de l’esprit – Libraire Arthème Fayard, 2006 – tradotto dal francese da Bruno Amato per la Feltrinelli: Respirare. Per una medicina integrata tra corpo e anima – 2007

[13] Jonas W.B. – Researching alternative medicine – “Nature Medicine”, 1997

[14] World Health Organization – Traditional Medicine – Who Publications, Washington, 1978.

[15] Anche Cartesio, in fondo, affermava che “il dono della parola è l’unico segno e la sola prova sicura del pensiero nascosto e rinchiuso nel corpo” (1662).

[16] Well A. – The body’s healing system: the future of medical education – “Journal of Alternative and Complementary Therapies” – 1995.

[17] Thierry Janssen – La solution intérieure. Vers une nouvelle medicine du corps et de l’esprit – Libraire Arthème Fayard, 2006 – tradotto dal francese da Bruno Amato per la Feltrinelli: Respirare. Per una medicina integrata tra corpo e anima - 2007

[18] Dr Luigi Santi, FIMMG – Federazione Italiana Medici di Medicina Generale –  in Counseling: imparare a comunicare l’aiuto, Avvenire medico 6 – 2006, a proposito di Mario Boni, famoso medico di quegli anni, cui si attribuisce la paternità della suddetta affermazione.

[19] Ibidem.

[20] Ibidem.

[21] in Counseling: imparare a comunicare l’aiuto, Avvenire medico 6 – 2006

[22] Storia e malattia spesso coincidono,  nei casi cronici, per esempio, o in pazienti geriatrici, come si dirà più avanti.

[23] E' quanto emerge da un sondaggio realizzato fra i camici bianchi da Quotivadis, quotidiano online di informazione medico-scientifica di Univadis.

[24] Doctor News, informazione medica on-line

 

[25] Paul Watzlawick, John H. Weakland, Richard Fisch – Change, sulla formazione e la soluzione dei problemi – Casa Editrice Astrolabio

[26] Carlo Romano – Corpo, itinerario  possibile – Giunti & Lisciani Editori

[27] “…ci sono due tipi di cambiamento: uno che si verifica dentro un dato sistema il quale resta immutato,  mentre l’altro – quando si verifica – cambia il sistema stesso… Una persona che ha un incubo può fare molte cose nel suo sogno: correre, nascondersi, lottare, strillare, saltare da un dirupo, ecc., ma nessun cambiamento da uno qualunque di tali comportamenti a un altro porrebbe mai fine all’incubo. D’ora in poi ci riferiremo a questo tipo di cambiamento come al cambiamento1. L’unico modo di uscir fuori da un sogno implica il cambiamento dal sognare all’esser desti. L’esser desti, evidentemente, non fa più parte del sogno, ma è un cambiamento a uno stato completamente diverso. D’ora innanzi ci riferiremo a questo tipo di cambiamento come al cambiamento2… Il cambiamento2 è quindi il cambiamento di un cambiamento – quel fenomeno di cui Aristotele negava l’esistenza in modo così categorico”. P. Watzlawick, J. H. Weakland, R. Fisch, Change, Casa Editrice Astrolabio.

[28] “…per esprimere o spiegare qualcosa occorre passare a un livello logico superiore a ciò che si deve esprimere o spiegare. Non si può dare nessuna spiegazione allo stesso livello: si deve impiegare un metalinguaggio, ma tale metalinguaggio non è detto che sia sempre disponibile. Una cosa è effettuare un cambiamento; una cosa ben diversa è comunicare su questo cambiamento – vale a dire che si tratta soprattutto di un problema di tipizzazione logica e di creazione di un metalinguaggio adeguato. Nel campo della ricerca psicoterapeutica (e non solo, nda) ci si imbatte spesso in terapeuti particolarmente dotati e pieni di intuizioni che pensano di sapere perché stanno facendo quello che fanno, ma le loro spiegazioni non reggono affatto. Al contrario, molti scrittori dotati restano stupefatti e anche irritati quando altri trovano nelle loro opere significati più profondi di quelli che erano nelle loro intenzioni. Dunque, mentre i primi credono di sapere ma a quanto pare non sanno, i secondi sembra che sappiano più di quanto siano disposti ad ammettere…” P. Watzlawick, J. H. Weakland, R. Fisch, Change, Casa Editrice Astrolabio.

[29] Vincenzo Masini, Medicina narrativa, Comunicazione empatica ed interazione dinamica nella relazione medico-paziente – Franco Angeli.

[30] Anche se gli idealtipi di personalità, cui sono sottese le rispettive emozioni di base,  sono “soltanto” sette – con tutte le implicazioni che un tale numero comporta – a onor del vero tra un idealtipo e l’altro intercorrono infinite differenze e sfumature:  viene così  mantenuta  integra la fondatezza biologica dell’unicità di ogni individuo.

[31] Per quanto il senso del counseling  non debba per forza essere inquadrato all’interno di un’emergenza-urgenza, anche in questo caso però  l’”intuito” del medico è fondamentale nell’indirizzare i propri interventi di soccorso.

[32] Tralascio ogni riflessione sul senso di un’eventuale prevenzione, poiché anche in questo campo, prima ancora che riferirsi a una serie di metodologie di chiara derivazione EBM, si dovrebbe imparare a intrattenere relazioni efficaci con le persone soprattutto mettendo in gioco il proprio ruolo anche sociale di medico, piuttosto che utilizzarlo per rafforzarne la propria posizione up.

[33] A partire da Ippocrate si sono sviluppate nel corso dei secoli varie teorie che tentano di catalogare i tipi umani Tipologia é un termine generale con cui la psicologia clinica e la medicina indicano certe teorie che, sulla base di ricerche sistemiche e diversamente orientate, propongono allo studio modelli di base a cui siano riconducibili gruppi di individui che presentano "tratti" relativamente comuni qualificanti e relativamente costanti. Essendo indagini portate avanti da correnti cliniche, questi quadri classificano espressioni che spesso si trovano ai limiti tra la normalità e la patologia collegate fra loro da forme intermedie. I punti di vista di queste classificazioni caratteristiche possono essere:

a) di natura psicologica come, ad esempio, i tipi psicologici di Jung;

b) di natura costituzionale e psicopatologica come quella di Kretschmer.

c) di natura prevalentemente morfologica, ma diretta a stabilire rapporti tra la struttura del corpo e la disposizione ad alcune forme morbose come le teorie di A. De Giovanni e quelle successive di G. Viola, che aprirono la via alle successive indagini di N. Pende che valorizzano i dati endocrinologici.

d) Una più completa classificazione di tipi costituzionali è quella di W. H. Sheldon. Le sue ricerche, statisticamente molto impegnate, risalgono allo sviluppo embrionale con predominanza delle tendenze endodermiche, ectodermiche e mesodermiche.

e) La tipologia più antica riguarda le indagini cliniche portate avanti da Ippocrate.

[34] Lorenzo Barbagli Fisiognomica - Dispense della Scuola di Counseling Transteorica di “Prevenire è Possibile”

[35] Si considerino come correlazioni non completamente coincidenti, ma semplificazioni utili per trovare punti di riferimento, senza scadere in eccessivi dogmatismi. Per la trattazione più ampia sul concetto di Controlli valutativi dello stimolo e processi dunque attivatori di relazioni si rimanda alla bibliografia in collana “Prevenire è Possibile”.

[36] Si tenga presente che questa distinzione si inverte nei casi di mancinismo nelle femmine.

[37] L’esocitosi è una modalità di trasporto che si avvale di vescicole circondate da membrana; le vescicole, contenenti materiali da esportare all'esterno (esocitosi), sono prodotte all'interno della cellula; esse vanno poi a fondersi con la membrana cellulare e riversano il proprio contenuto nell'ambiente extracellulare. In altri casi, il materiale deve essere portato dall'esterno all'interno della cellula (endocitosi), dentro una vescicola che si forma per invaginazione della membrana plasmatica e per successivo distacco della parte invaginata all'interno del citoplasma. I materiali trasportati in questo modo possono essere goccioline di soluzioni o anche particelle solide. Nel caso dell'endocitosi, in particolare, si parla di pinocitosi quando il materiale introdotto nella cellula è liquido, e di fagocitosi quando il materiale è costituito da particelle solide. L'endocitosi è un processo fondamentale, attraverso il quale si nutrono moltissimi organismi unicellulari; negli organismi pluricellulari, alcune cellule capaci di effettuare la fagocitosi in modo particolarmente attivo hanno assunto un ruolo di difesa (macrofagi).

 

 

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