Tiziana Cirillo
Sindrome del “Culture Shock” nei Militari USA
in Transito nelle Basi Oltreoceano
I see my Light come shining
From the West unto the East,
Any day now, any day now
I shall be Released..
Vedo la mia luce risplendere
da Ovest verso Est,
da un momento all’altro,
sarò liberato…
Bob Dylan
Indice
- INTRODUZIONE p. 4
- MA CHE COSA SI INTENDE PER CULTURA? 6
- CULTURE NELLE CULTURE 8
- DIFFERENZE CULTURALI (parte I) 10
- UN ESEMPIO DI ETNOCENTRISMO 12
- STEREOTIPI CULTURALI 16
- DIFFERENZE CULTURALI (parte II) 19
- BASI USA E PERSONALE MILITARE OLTREOCEANO 26
- CULTURE SHOCK 29
- Sintomi del Culture Shock 31
- Le fasi del Culture Shock 32
- LA SINDROME DEL “BURN OUT” 34
- PREVENIRE E’ POSSIBILE, ANZI AUSPICABILE. L’ICRT,
il programma preventivo delle U.S. Forces 36
- Qual’è la medicina o l’antidoto al Culture Shock? 37
- Chi è lo Specialista Interculturale?
- ITALIA – USA, CULTURE A CONFRONTO 40
- ITALIA – USA, GRAFICI A CONFRONTO 45
- IL DISAGIO DEL CULTURE SHOCK APPLICATO AI 7 ARCHETIPI 49
- IL RUOLO DI SUPPORTO DEL COUNSELING 51
- Origini del Counseling
- Significato del Counseling
- Chi è il Counselor
- QUELLO CHE I COUNSELOR DEVONO SAPERE SUL CULTURE SHOCK 58
- COUNSELING MULTICULTURALE 60
- C’Era un Ragazzo che Come Me… 65
- Bibliografia 69
- Ringraziamenti 72
Introduzione
Sono le 0715 del mattino e sono ferma davanti al cancello aspettando un cenno della guardia che mi dica che posso avanzare. Finalmente alza un braccio e io, con la mia auto, lentamente, mi avvicino. E’ importante che mi fermi proprio alla sua altezza. Se non rallento in tempo potrei essere nei guai. Le misure di sicurezza qui sono altissime.
Guarda il mio badge, controlla la foto e poi mi fa segno di andare. Riparto e sempre lentamente guido fino al parcheggio dinanzi al mio ufficio.
Sono dentro una Base Navale Militare USA. Qui dentro è un altro mondo, molto diverso da quello che ho lasciato pochi minuti fa. Qui si ha a che fare con un’altra cultura, un altro sistema, una differente organizzazione. Se non accetti questo puoi impazzire. Il militare inoltre, è una subcultura con diverse codificazioni. Persino la lingua è parzialmente diversa. Lo slang militare è veloce, pieno di codici, abbreviazioni. L’inglese dei libri serve a poco qui dentro, bisogna re-imparare molte cose.
Sono all’interno di questa base da quasi 20 anni. Per questi 20 anni ho avuto modo di osservare queste due culture a confronto, quella italiana/napoletana e quella americana/militare. Due mondi che sembrano andare insieme paralleli. Si muovono entrambi verso le stesse finalità ma, apparentemente, senza incontrarsi mai. Come mai? Cosa evita l’integrazione di queste due culture?
L’adattamento culturale non è cosa semplice. Ne sanno qualcosa i nostri nonni che furono costretti ad emigrare agli inizi del ‘900.
Avere a che fare con un’altra cultura vuol dire dover rimettere in gioco tutto cio’ che abbiamo appreso e dato per certo: la nostra lingua, il cibo, il modo di rapportarsi agli altri, l’uso dello spazio e del tempo e, massimamente, i nostri valori culturali.
La mancanza di adattamento può portare disagi anche gravi e, prima di tutto, quello che si chiama ‘withraw’, vale a dire l’abbandonare tutto per tornare nella propria realtà, nel proprio paese.
Ogni anno un certo numero di impiegati italiani abbandona il lavoro perchè non riesce a gestire (copying) il cambiamento. Allo stesso modo, intere famiglie di militari chiedono il rientro in patria perchè il militare o il dipendente (sposo/a) non è riuscito ad adattarsi. Considerato che ogni rientro in patria di un militare, accompagnato o meno dalla famiglia, costa al governo americano moltissimi dollari, è stato deciso che ogni militare, obbligatoriamente, al suo arrivo in base, partecipi all’ICR Training.
L’ICRT (Intercultural Relations Training) è un corso di 3 giorni dove viene discusso il ‘culture shock’ (sintomi e problematiche), le differenze culturali, come gestire e alleviare lo stress ed evitare il burn out, introduzione alla nuova cultura (informazioni generali, lingua, trasporti, ricreazione, etc.).
Io sono uno dei trainers che conduce queste classi da 17 anni. In questo lavoro siamo affiancati dai counselors. Significa che se il nostro intervento non è sufficiente, è possibile rivolgersi ai counselors.
Prendendo spunto dal mio lavoro di questi anni e i migliaia di casi osservati, ho deciso di trattare questo tema del “culture shock”, cosa comporta la mancanza di adattamento culturale: il disagio, lo stress, il burn out.
MA CHE COSA SI INTENDE PER CULTURA?
Ma cosa intendiamo esattamente per cultura? Vediamo alcune
definizioni date:
La Cultura comporta una serie di modelli condivisi fatti di comportamenti e interazione, costrutti cognitivi e affettivi che vengono appresi attraverso un processo di socializzazione. Questi modelli condivisi contraddistinguono i membri di un gruppo culturale e al tempo stesso contraddistinguono quelli appartenenti a un altro gruppo.
Culture is the acquired knowledge people use to interpret experience and generate behaviour. (La cultura e’ la conoscenza acquisita che la gente usa per interpretare l’esperienza e generare un comportamento) J. Brantley, antropologist
Culture is the shared assumptions, values, and beliefs of a group of people which result in characteristic behaviours. (La cultura consiste in una serie di presupposti, valori e credenze condivisi da un gruppo di persone che dà origine a un caratteristico comportamento) Craig Storti
La cultura regola, in un modo, ogni aspetto della nostra vita
e noi ne siamo spesso totalmente inconsapevoli. Se chiediamo
ad un italiano o europeo cos’è la cultura, probabilmente
risponderà: l’arte, la musica, la pittura, la letteratura. In
fondo questa risposta non è del tutto sbagliata ma neppure
totalmente giusta. Questi aspetti, infatti, sono propri della
nostra cultura ma non necessariamente di altre.
Per cultura intendiamo tutta la conoscenza che si accumula di
generazione in generazione, tutto ciò che possiamo imparare
da altri e che quindi possiamo anche trasmettere ai nostri
simili, tutto quell’insieme di comportamenti e di costumi, di
modi di pensiero e di espressione, di conoscenze e di
tecnologie, di cui ogni gruppo umano dispone.
La trasmissione culturale avviene sia in verticale, da
generazione in generazione, sia in orizzontale.
La trasmissione orizzontale può portare cambiamenti anche
rapidi. Lo vediamo nella veloce diffusione di nuove
tecnologie (internet, cellulare, pod, etc) o di mode, di
atteggiamenti, di parole nuove, di stili di pensiero.
CULTURE NELLE CULTURE
Quando ero bambina vivevo nei pressi di un grosso spazio aperto dove frequentemente venivano ad accamparsi gli zingari. Mia nonna mi portava spesso li per giocare e farmi prendere un pò d’aria. Ricordo che io le chiedevo sempre chi fossero quelle persone dagli abiti multicolori che vivevano in quelle roulottes e avevano quei grossi macchinoni neri. “Gli zingari” rispondeva puntualmente mia nonna. “E chi sono gli zingari?” chiedevo io. “Gli zingari sono persone che vanno sempre in giro. Non hanno una fissa dimora, la casa se la portano dietro e vivono un pò qui e un pò li.
Che bello, pensai, vivere così, girare il mondo. Chissà quante cose hanno visto che io non vedrò mai. Si gli zingari sono fortunati non sono costretti a stare sempre nello stesso posto come noi, fare sempre le stesse cose, vestirsi come noi. Loro possono fare quello che vogliono. Anche io voglio diventare una zingara..mi dissi. (Quel giorno non sapevo che stavo scrivendo un capitolo fondamentale del mio copione…)
Noi Rom abbiamo una sola religione: la libertà. In cambio di questa rinunciamo alla ricchezza, al potere, alla scienza e alla gloria. Il nostro segreto sta nel godere ogni giorno le piccole cose che la vita ci offre e che gli altri uomini non sanno apprezzare: una mattina di sole, un bagno nella sorgente, lo sguardo di qualcuno che ci ama. E’ difficile capire queste cose, Rom si nasce. Ci piace camminare sotto le stelle, la nostra è una vita semplice, primitiva. Ci basta avere per tetto il cielo, un fuoco per scaldarci e le nostre canzoni quando siamo tristi.
(Un popolo sconosciuto, gli Zingari - Marco Cagol)
Culture sedentarie e culture nomadi. Quale la differenza
sostanziale? La cultura sedentaria tende a prendere per
scontato che i valori e gli assunti della propria gente, del
proprio paese siano in qualche modo universalmente
riconosciuti e/o accettati. La cultura nomade si sposta
aknowledging (riconoscendo) le diversità culturali ma
mantenendo più o meno intatta la propria.
Siamo nel ventunesimo secolo e l’immigrazione è in aumento
dovunque, anche nel nostro Paese. Ogni anno centinaia, a
volte migliaia di clandestini arrivano da ogni dove. Questi
clandestini portano con sè un bagaglio culturale. Sanno che
dovranno adattarsi alla cultura dominante(mainstream) ma
cercano di mantenere intatti i valori della cultura
d’origine. Ne è stato un esempio l’America e la sua melting
pot dove sono occorsi moltissimi anni prima che le varie
culture si amalgamassero nel tentativo di fondersi.
Siamo ancora lontani da una realtà multiculturale. La
cultura dominante tende spesso a vedere l’ospite come un
invasore e ciò crea una conflittualità iniziale.
La gente ha paura dello straniero e in generale dei diversi.
Questa paura genera spesso pregiudizi e incomprensioni che
possono portare alla nascita dell’odio e dell’intolleranza.
Come dichiara Sue Derald Wing: L’etnocentrismo è una strada che la maggioranza segue con successo perche’ le regole sono state imposte principalmente dalla cultura dominante del Paese. E’ una strada che è tornata utile a molti e continua a farli sentire a loro agio e al sicuro.
DIFFERENZE CULTURALI (parte I)
Ecco un racconto interessante di un Counselor nigeriano
durante un Workshop di Counseling Multiculturale:
Un’insegnante bianca di una scuola elementare degli Stati Uniti un giorno fece alla sua classe questa domanda di aritmetica: “Supponiamo che ci sono 4 merli sopra un ramo e un cacciatore spara ad un uccello, quanti ne rimangono?”
Un ragazzino bianco prontamente rispose “Se colpisce un uccello, quattro meno uno fa tre. Restano tre uccelli sul ramo”.
Un bambino di colore, figlio di emigranti africani rispose con la stessa sicurezza “Zero”.
La maestra spiegò che il primo studente aveva ragione, che 4 meno 1 fa tre e, guardando il piccolo africano, aggiunse che avrebbe dovuto impegnarsi di più nello studio.
“Non ho sbagliato”, gridò il piccolo africano guardando la maestra “Ho ragione io. Se colpisci un uccello gli altri volano via e non rimane nessun merlo sul ramo”.
Questa piccola storia insegna parecchie cose sul
multiculturalismo. Primo, non ci sono risposte giuste e
risposte sbagliate. Infatti, entrambi gli studenti avevano
ragione dalla loro prospettiva culturale. Secondo, c’è sempre
più di una risposta a un problema e, probabilmente, più di
una strada per arrivare alla soluzione. Infine, molto
importante, l’incapacità di comprendere una diversa
prospettiva può avere serie conseguenze. In questo caso il
bambino può sentirsi inferiore e percepire che essere diversi
è inaccettabile.
Oggi il Counseling si trova a un bivio. Fino ad ora si è
sempre percorsa una strada, quella del
monoculturalismo/etnocentrismo.
Il multiculturalismo riconosce e valuta la diversità. E’ la
strada che ci sfida a studiare diverse culture e ad insegnare
ai nostri figli come crescere sviluppando prospettive
diverse.
WHAT IS DIFFERENT IS DANGEROUS! (Ciò che è diverso è
pericoloso)
E’ questa una sorta di equazione comune all’interno delle
nostre società. L’etnocentrismo fa sì che un gruppo dominante
guardi alla propria cultura come quella giusta, quella
superiore.
Per un indiano, il cui paese è vecchio di 5000 anni, la
giovane Europa sembra piuttosto ‘incivile’.
L’etnocentrismo ci acceca, porta molti a considerare altri
gruppi culturali come inferiori, di serie B (class B
citizens).
L’etnocentrismo fonda le sue radici nella difficoltà di
relazionarsi con persone di una cultura diversa in termini di
parità. Siccome siamo quasi tutti etnocentrici, ecco che
abbiamo bisogno di prepararci prima di scegliere di vivere in
una cultura diversa dalla nostra.
Una volta, durante un’intervista, un giornalista americano chiese a Ghandi: “Lei cosa ne pensa della civiltà occidentale?” e Ghandi, dopo una pausa interminabile, rispose “Penso che sarebbe una magnifica idea”.
UN ESEMPIO DI ETNOCENTRISMO?
Tratto da una piccola guida che lessi anni fa di un eminente giornalista americano, Arthur Gordon, che si prese la briga di girare gli Stati in lungo e in largo intervistando studenti stranieri residenti in USA. Ecco, più o meno, cosa gli studenti pensavano della cultura dominante:
Questi americani rappresentano meno del 6% della popolazione
mondiale ma a volte sembrano fare il 60% del rumore.
Sono una nazione giovane ma il loro impatto sulle altre
nazioni e culture è enorme. Piuttosto socievoli in superficie
ma difficili da conoscere intimamente. Sono convinti che per
essere uno che riesce ad ottenere successo bisogna essere uno
che fa! Gli americani sono molto meglio nel fare che
nell’essere. Infatti è noto che non appena privati dal fare,
si deprimono.
Se si è abituati a un ritmo leggermente più comodo, si
troverà il ritmo americano stressante ma la maggior parte
degli americani lo apprezza.
Non importa da quale parte del mondo arrivi, ti sembrerà che
un americano ha sempre fretta. Sono tremendamente time-
conscious. Hanno un fortissimo senso della puntualità e
odiano sprecare tempo in attese inutili. Se chiedete a un
europeo quanto è lontana Parigi da Bordeaux, vi risponderà in
Km, un americano in ore.
Sono strafelici quando ciò che realizzano è misurabile. Un
businessman vuole i suoi grafici rigorosamente aggiornati. Un
libro viene giudicato in base al numero di copie che vende.
L’ossessione americana per le statistiche spesso stupisce i
non-americani. Loro desiderano esattamente sapere quanti
fanno cosa.
E’ facile rendersi conto che l’americano è molto più
interessato alle cose materiali che spirituali. L’uomo non è
visto come una parte passiva di uno schema (fato, destino) ma
come un organizzatore e riorganizzatore di quello schema.
Sono individualisti, credono nella legge e nell’ordine. I
loro figli sono spronati fin dall’infanzia a divenire
indipendenti. I ragazzi non possono bere prima dei 21 anni ma
possono comprare una pistola facilmente.
E vediamo ora cosa aggiunge la divertente ‘Xenophobe’s Guide
to the Americans’ di Sthephanie Faul:
Gli americani sono come bambini: rumorosi, curiosi, incapaci
di mantenere un segreto. Questo è il Paese dove la più
importante relazione sociale è una conoscenza casuale.
Solo il 10% degli americani possiede un passaporto. Un
americano può viaggiare per una settimana ed essere ancora a
casa.
Siccome visitano paesi stranieri molto raramente, tendono ad
assumere che tutto il mondo sia come loro con la sola
eccezione che non parlano inglese e non hanno delle docce
decenti. Anzi, credono che in realtà tutti conoscono
l’inglese perché lo studiano a scuola ma si rifiutano di
parlarlo.
Hanno un’idea piuttosto confusa dell’Europa. Spesso, quando
fanno un tour in Europa tendono a coprire 5 nazioni in 7
giorni e così confondono la torre di Pisa con la torre
Eiffel.
Being number ONE is very important to an American. Gli
americani considerano il loro Paese l’unico in grado di
VINCERE. Vincere per loro è fondamentale, li fa star bene.
(ma se gli abbiamo dovuto regalare un goal ai mondiali???
N.d.R.)
Incredibile ma vero, l’americano convive con molte paure: La
paura di perdere il lavoro, la paura di essere derubati, la
paura che i figli possano diventare dei criminali, la paura
di mangiare ostriche crude, la paura di morire di cancro, la
paura di non sposarsi… e se si sposano, la paura di
divorziare, etc.
Per evitare questi tristi eventi vanno a vivere fuori città,
installano allarmi alle auto e alle case, evitano i frutti di
mare, sono perennemente in terapia, si iscrivono ai clubs per
singles e, dopo il matrimonio, vanno dai counselors
familiari.
In alcuni paesi, politici corrotti si ammazzano. In America
si candidano come presidenti.
Gli americani possiedono migliaia di attrezzi specifici che
possono essere utilizzati per qualsiasi necessità umana.
Questo è il paese dell’ asciuga-lattuga elettrico,
dell’apriscatole elettrico, dell’arriccia capelli elettrico,
del profuma-ambienti elettrico, dello sbattitore di uova in
guscio… elettrico e non vado oltre…
Quando vanno in vacanza gli americani diventano ancora più
americani del solito… se possibile. Portano degli shorts
dalle fantasie assurde, magliette dagli slogan offensivi, le
solite scarpette da tennis e l’immancabile cappellino da
baseball.
L’America è una melting pot ma ogni ondata di immigranti è
guardata con ostilità da quella precedente.
L’auto, insieme con la casa col giardino è un elemento
essenziale del sogno americano.
Gli americani sanno che qualsiasi tipo di sesso fanno,
potrebbe essere meglio. Le librerie sono piene di libri su
come migliorare le proprie performances e solitamente entrano
con disinvoltura in qualsiasi pornoshop. Nel frattempo la
nudità è illegale nella maggior parte degli stati e in
spiaggia le donne portano costumi ascellari tre volte più
castigati di qualsiasi costume da bagno castigato europeo.
…E tutto questo per introdurre il prossimo capitolo sugli stereotipi culturali.
STEREOTIPI CULTURALI
Americans have no capacity for abstract thought and make bad coffee.
George Clemenceau
Cosa è uno stereotipo? Lo dice l’etimologia del termine:
Stereo deriva dal greco e significa “rigido” e tipo, in
greco, vuol dire “modello” = modello rigido.
Lo stereotipo si basa su un processo di semplificazione. Esso
orienta la ricerca e la valutazione dei dati dell’esperienza.
Ci serve per mettere persone e avvenimenti dentro categorie.
E`un processo di generalizzazione definito come tendenza
costante della mente umana ad estendere ad ampie serie di
eventi le osservazioni effettuate sui pochi eventi
disponibili.
Gli stereotipi culturali vengono considerati piuttosto
pericolosi anche se inevitabili. Persino gli stereotipi
positivi sono considerati tali in quanto supportano un intero
sistema di stereotipi.
La minaccia che segue la disseminazione di stereotipi nella
società di oggi, e il modo di rapportarsi ad essi, sono stati
oggetto di studi da parte di molti autori. Negli Stati Uniti
l’espressione “stereotipo etnico” è divenuta sinonimo di
“pregiudizio etnico”. Stereotipi e/o pregiudizi culturali
all’interno di un Paese conducono a conflitti e animosità fra
i diversi gruppi.
E` ovvio che gli sterotipi influenzano negativamente il
processo di comunicazione poichè impongono una certa
percezione e attitudine che porta a impliciti assunti,
spesso errati, sul come comunicare coi membri di un’altra
cultura.
In un’ indagine condotta nel 1991 da A. Pavloskaya, docente
dell’ Università di Mosca, su un gruppo di studenti russi,
vengono fuori i più comuni stereotipi culturali.
Agli studenti fu chiesto di scrivere le prime 5 associazioni
con il nome dei Paesi riportati sul foglio. Interessante
notare che la maggior parte degli studenti non aveva mai
visitato quei paesi:
USA: hamburger, coca cola, dollaro, New York, grattacieli
G. Bretagna: nebbia, Regina, Londra, Sherlock Holmes, thè
Francia: Parigi, amore, Napoleone, champagne, ingannare
Germania: birra, Berlino, guerra, Goethe, Mercedes
Italia: Roma, rovine, donne, pizza, emotività
Spagna: corrida, sole, danze, passione, vino
Russia: vodka, ospitalita`, Mosca, vastita`, inverno
Ma qual è la differenza fra uno stereotipo e una
generalizzazione?
Lo stereotipo si applica a tutti in tutte le situazioni senza
eccezioni. La generalizzazione è soltanto un’idea iniziale
che viene poi scartata quando non si rivela più utile o
accurata. Non si applica mai a tutti e a tutte le situazioni.
Da circa 20 anni lavoro in una base U.S. Navy a Napoli.
All’interno di questa base convivono circa 10.000 americani
(militari e civili) e 1000 italiani. La difficoltà ad
integrarsi è da ambo le parti. Gli americani devono
apprendere il nostro sistema culturale e noi dobbiamo
imparare il loro. Essendo una Specialista Interculturale, da
anni mi occupo di migliorare l’adattamento culturale per il
personale USA del Comando. Nelle mie classi ho sviluppato
vario materiale didattico fra cui un questionario ‘caccia-
stereotipi’ che ho sottoposto a oltre 3000 U.S. che include
le seguenti domande:
- Giunto in Italia, quali sono le differenze che hai osservato fra Italiani e Americani?
- Nella tua breve esperienza in Italia ha mai notato un comportamento che potresti definire tipicamente italiano?
- Secondo te cosa pensano gli americani degli italiani?
- Se un americano dovesse attribuire dei pregi o difetti agli italiani, cosa direbbe?
- Se un italiano dovesse attribuire dei pregi o difetti agli americani, cosa direbbe?
Quando sottopongo un questionario ai partecipanti di una
classe, dico loro che la firma è optional, se vogliono
possono restare anonimi. Questo mi assicura la veridicita`
delle affermazioni.
Ecco un sommario di quanto è venuto fuori statisticamente
dalle loro risposte:
- Gli italiani hanno un’attenzione eccessiva per l’immagine. Sono ossessionati dal dover essere alla moda e dalla ‘bella figura’.
- Il concetto di tempo è diverso. Hanno un’idea del tempo molto vaga. La puntualità non esiste. Rimandano impegni. Se vai in un ufficio devi sempre tornare domani.
- Mancano di disciplina, troppa flessibilità riguardo le norme sociali. Casinisti, poco affidabili, guidano come pazzi, non rispettano i semafori e gli stop.
- Sono dei mammoni, degli eterni adolescenti. Restano in famiglia fino a 40 anni.
- Il cibo è ottimo ma l’importanza data alla cucina e al cibo è eccessiva. Siedono a tavola per ore.
- Gli italiani direbbero di noi che siamo stupidi, che ci vestiamo male e lavoriamo troppo.
In quel momento apparve la volpe.
"Buon giorno", disse la volpe.
"Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide
nessuno.
"Sono qui", disse la voce, "sotto al melo…."
"Chi sei?" domandò il piccolo principe, " sei molto carino…"
"Sono la volpe", disse la volpe.
" Vieni a giocare con me", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah! scusa ", fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
" Che cosa vuol dire addomesticare?"
" Non sei di queste parti, tu", disse la volpe" che cosa cerchi?"
" Cerco gli uomini", disse il piccolo principe.
" Che cosa vuol dire addomesticare?"
" Gli uomini" disse la volpe" hanno dei fucili e cacciano. E' molto noioso!
Allevano anche delle galline. E' il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?"
"No", disse il piccolo principe. " Cerco degli amici. Che cosa vuol dire
addomesticare?"
" E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…"
" Creare dei legami?"
" Certo", disse la volpe. " Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino
uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno
di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi
addomestichi, noi avremo bisogno uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo,
e io sarò per te unica al mondo."
" Comincio a capire", disse il piccolo principe. " C'è un fiore…. Credo che mi
abbia addomesticato…"
"E' possibile", disse la volpe "capita di tutto sulla terra…"
"Oh! Non è sulla terra", disse il piccolo principe.
La volpe sembrò perplessa:
" Su un altro pianeta?"
" Sì"
" Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?"
" No"
" Questo mi interessa! E delle galline?"
" No"
" Non c'è niente di perfetto", sospirò la volpe.
…dal Piccolo Principe, A. De Saint Exupery
DIFFERENZE CULTURALI (parte II)
Durante il Trattato di Lancaster, in Pennsylvania (1744), fra il Governo della Virgina e le Sei Nazioni, la commissione del governo della Virginia, offrì l’opportunità a 6 giovani indiani, di essere educati e istruiti secondo il sistema dei bianchi.
Il capo degli Indiani rispose:
“Siamo convinti che voi intendete farci del bene con la vostra offerta e vi ringraziamo di cuore ma voi, che siete saggi, dovreste sapere che nazioni diverse hanno concezioni diverse rispetto alle cose e voi non la prenderete personalmente se vi faccio notare che la vostra idea di educazione e di istruzione non coincide con la nostra. Abbiamo già avuto esperienza, in passato, quando alcuni dei nostri ragazzi hanno frequentato il vostro college. Erano istruiti in tutte le materie ma quando tornarono agli accampamenti erano diventati dei pessimi corridori, ignoranti per tutto quello che concerne il vivere nella foresta, incapaci di sopportare il freddo o la fame, incapaci di mettere su una tenda, cacciare un cervo o uccidere un nemico. Parlavano male la nostra lingua e non erano più abili né come cacciatori, né come guerrieri, né come consiglieri. Erano dei buoni a nulla.
Apprezziamo molto la vostra offerta anche se ci sentiamo obbligati a rifiutarla ma, per dimostrare la nostra riconoscenza, il governo della Virginia può mandarci una mezza dozzina di ragazzi bianchi e noi ci prenderemo cura di loro e della loro educazione trasformandoli in veri uomini..”
Studi Cross-culturali si basano sul paragonare e
differenziare le culture. Studi Inter-culturali si occupano
invece dell’interazione fra gente di diverse culture. Oggi
sappiamo che comunichiamo soprattutto con il non verbale
(93%): l’espressione del viso o degli occhi, il tono di voce,
la postura, la prossemica, etc.
Il modo in cui noi usiamo questo ‘Silent Language’ produce
una comunicazione che può avere effetti diversi a seconda
della cultura. Prendiamo ad esempio le due culture di cui ci
stiamo occupando, quella italiana e quella americana.
In Italia, quando passeggiamo per strada consideriamo normale
guardare la gente intorno a noi e stabilire un contatto
visivo. Questo è inaccettabile nella cultura americana, viene
considerata un’invasione.
In Italia, quando parliamo con qualcuno, stiamo più o meno a
un braccio di distanza. Gli Americani hanno bisogno di più
spazio, almeno 150 cm.
Gli americani usano vestiti che noi consideriamo a volte
osceni. Troppo cheap! Pantaloncini, flip flop ai piedi
(infradito) e t-shirt. Gli italiani danno molta importanza
all’eleganza e allo stile e non si sognerebbero mai di
camminare in città in quelle condizioni (Valori di base:
comfort v/s eleganza).
Gli americani mostrano sempre un perfetto self-control anche
quando parlano di eventi tragici della propria vita. Gli
italiani parlano con veemenza, a volte urlando e agitandosi
anche quando discutono di una partita di calcio.
Gli americani considerano che è stupido passare 2 ore a
cucinare qualcosa che ingurgiti in 5m, più pratico comprarlo
già fatto.
Gli italiani, nella classifica delle sciagure, dopo il cancro
ai polmoni e i loro politici, mettono senza esitazioni al
terzo posto i fast food.
Dovunque un americano si insedia, porterà con sè le sue brave
bandierine a stelle e strisce. In qualsiasi città americana,
le abitazioni private, oltre agli uffici pubblici, ostentano
stendardi di ogni dimensione.
Gli italiani associano la bandiera italiana e l’inno
nazionale alle partite di calcio degli azzurri. Finiti i
mondiali, le bandiere finiscono nelle pattumiere.
L’impatto tra due culture diverse provoca trasformazioni
culturali significative, irrigidimenti, conflitti,
incertezze, disorientamento.
Secondo Gary Weaver, (School of International Service, American
University, International Communication Division), entrare in
contatto con un’altra cultura è come avere due iceberg in
collisione. Sulla superficie si vedono solo le due punte
(comportamento) ma la collisione avviene sotto la superficie
dove i valori, le credenze, i presupposti e i modelli di
pensiero entrano in conflitto.
Analizziamo ora quali sono gli aspetti più profondi delle
differenze culturali, quello che accade sotto la superficie:
Concept of Self
US UK India Middle East Italia SE Asia
____________________________________________________
Individualist Collettivist
Individualist: Indipendente, conta sulle sue forze, sta in
piedi da solo, preferisce lavorare per conto suo o fare le
cose da solo piuttosto che essere parte di un team. TO DO
(fare)
Collectivist: Fa riferimento alla famiglia, cerca protezione
e aiuto dagli altri, orientato verso il gruppo. TO BE
(essere)
Personal v/s Societal Responsibility
US UK Japan Italia Middle East
____________________________________________________
Universalist Particularist
Universalist: Quel che è giusto è sempre giusto, ci sono
verità assolute. La legge è uguale per tutti senza eccezioni.
Tutti dovrebbero essere trattati allo stesso modo
Particularist: Non ci sono verità assolute, dipende dalle
circostanze, ci possono sempre essere delle eccezioni. Ognuno
va trattato a seconda della situazione e delle circostanze.
Subjective & Objective
US UK Japan Italia Africa China
____________________________________________________
Logic of the Head Logic of the Heart
Logic of the Head: Niente favoritismi. Le persone non devono
portare i loro affari personali all’interno del setting
lavorativo. Il successo dipende da ciò che fai e non da chi
conosci.
Logic of the heart: Il favoritismo è accettato e fa parte
del sistema. Le connessioni, chi conosci, conta più di ciò
che sai fare. Si favoriscono amici e parenti. I sentimenti
personali possono interferire con gli affari.
Le culture possono anche essere low context oppure high
context:
Nelle culture low context (U.S.) i messaggi sono molto
espliciti. La parte verbale contiene quasi tutte le
informazioni. Gli appartenenti a una cultura low context sono
massimamente individualisti. Vivono in maniera più
indipendente e hanno meno esperienza di condivisione e di
conseguenza c’è meno comprensione intuitiva. Il messaggio non
va interpretato poichè è contenuto totalmente nel verbale.
Nelle culture high context la parte verbale contiene solo
parte dell’informazione perchè essa si trova massimamente nel
contesto (Giappone, Arabia, Italia). In questo tipo di
comunicazione, si tende a interferire, suggerire, usare
metafore piuttosto che dire le cose direttamente. Queste
culture sono più collectivist, orientate verso il gruppo.
Tendono ad evitare un confronto diretto. La comunicazione
contiene messaggi non verbali e intuizioni. Lo scopo
principale della comunicazione è preservare e rinsaldare le
relazioni con gli altri.
Ed ancora, le culture si dividono in Monocronic e Polycronic.
Germania, US Paesi mediterranei,
Scandinavia latini, arabi
_______________________________________________
Monocronic Polycronic
Monocronic: Una cosa alla volta
Il tempo è una risorsa limitata
Schedule e pianificazioni sono importanti
Gli schedule sono seguiti rigorosamente
Modo di ragionare induttivo, basato su fatti
Non c’è coinvolgimento personale nel parlare
Razionali
Orientati al confronto
Le circostanze non devono interferire con le
pianificazioni
La puntualità è molto importante
Impegni importanti includono il tempo,le date, la
durata e i soldi
locus of control interno
Polycronic: Fanno più cose contemporaneamente
Il tempo è una risorsa illimitata
Le persone sono più importanti degli schedule
Interruzioni e cambiamenti nei programmi sono
consentiti
La puntualità non è essenziale
Il modo di ragiornare e` deduttivo o concettuale.
Il concetto prima
Non è necessario terminare un progetto prima di
iniziarne un altro
Gli eventi dipendono anche dalle circostanze
Coinvolti e passionali nel parlare
Orientati all’accordo
Intuitivi
Gli impegni più importanti hanno a che fare con
le persone
Locus of control esterno
BASI USA E PERSONALE MILITARE OLTREOCEANO
“Potrebbe dirmi per cortesia quale strada dovrei prendere da qui?”
“Questo dipende molto da dove vuoi andare” disse il gatto
“Non è che mi importi molto” disse Alice
“E allora non importa neanche da che parte vai”
Alice nel Paese delle Meraviglie
Sin dalla fine della seconda guerra mondiale i militari
americani sono andati “overseas” (oltreoceano), come si dice
in gergo, in numero sempre maggiore. Nelle loro basi si sono
portati un pezzo di America.
Molte analisi sono state condotte per comprendere
l’efficienza degli americani nel portare a termine la loro
missione oltreoceano, per capirne l’impatto sulla popolazione
locale e l’immagine che ne sarebbe derivata di questi
abitanti della “Little America” (anche definiti ghetti
dorati). Queste basi rappresentano delle comunità etniche
esistenti all’interno di una cultura ma nello stesso tempo
separate da essa. Molti hanno osservato che vivono in maniera
piuttosto isolata rispetto alla cultura locale.
Una base militare è un’unità indipendente. All’interno vi si
trova di tutto: negozi, scuole, ospedale, chiesa, ufficio
postale, veterinario, piscina, ristoranti, l’Intelligence, i
servizi legali, i vigili del fuoco,la sicurezza, etc. Una
base è totalmente autosufficiente. Una piccola città nella
città. Una volta varcati i cancelli di una base sei sul
territorio americano. Non importa se la base si trova in
Indonesia o in Spagna o in Giappone, una volta dentro sei
soggetto alle loro regole. Ovviamente c’è un accordo con il
governo locale sui punti più salienti. Prendiamo ad esempio
la base di Napoli. Il governo americano e quello italiano
hanno stipulato anni fa un accordo, SOFA (Status of Forces
Agreement). Questo accordo sancisce diritti e responsabilità
degli Stati Uniti verso il Paese che li ospita. Per fare un
esempio il Sofa stabilisce che un LN (local national), in
questo caso un italiano che lavora per il governo americano,
abbia un contratto che sia anche conforme alle regole del
proprio Paese. Il Sofa stabilisce lo spazio aereo da
destinare ai piloti, etc.
In una base lavora un folto gruppo di militari, un numero
minore di US civili e un numero ancora minore di LN (locali).
I militari e civili USA possono portare con sè la famiglia.
Chi sceglie la carriera militare e` sogetto a delle rotazioni
per cui ogni 2 o 3 anni deve cambiare sede. Nelle basi
overseas possono restare due anni, al massimo tre dopodichè
vengono riassegnati.
Quando un militare arriva overseas, Zio Sam (il governo USA)
gli spedisce tutte le sue proprietà: auto, mobili, etc. Ogni
spostamento di militare costa al governo migliaia di dollari.
Una volta arrivato nella nostra base, il militare può
scegliere un appartamento o vivere in base se ci sono le
strutture adatte come da noi.
Cosa accade nella maggior parte dei casi quando un militare
viene assegnato ad una base fuori del suo Paese? Quando, per
esempio, viene in missione nel nostro Paese senza conoscerne
lingua, usi e costumi? A cosa va incontro?
Vediamolo nel prossimo capitolo..
CULTURE SHOCK.
Life is what you focus on.
Anthony Robbins
Anno dopo anno il numero di gente che viaggia, lavora o
studia all’estero è in costante aumento. La mancanza di
equilibrio che la persona avverte quando si sposta da un
contesto familiare, dove è abituato a muoversi con successo
ad uno dove non vi riesce, determina il Culture Shock.
Il termine ‘Culture Shock’ (shock culturale) fu inizialmente
coniato da un antropologo, Kalvero Oberg nel 1955. Kalvero lo
definì un disagio occupazionale che riguarda tutte quelle
persone che sono state trapiantate in culture diverse. Il
culture shock si traduce in una forma ansiosa che deriva dal
perdere tutte le nostre indicazioni sociali e culturali.
Olberg lo considerava un vero e proprio disturbo con dei
sintomi specifici e cura.
Oggi il termine culture shock viene applicato a qualsiasi
forma di disagio fisico e/o psichico sperimentato da coloro
che devono adattarsi ad un nuovo ambiente.
I sintomi del Culture Shock possono andare da un disordine
emozionale di media intensita` a svariati tipi di disturbi
psicologici subordinati allo stress fino alla psicosi.
L’intensità del disagio e la durata dipendono massimamente
dal tipo di situazione e dalle strategie di copying
dell’individuo.
La risposta al culture shock è diversa da individuo a
individuo. Alcuni tollerano meglio la stress dato dal
cambiamento e cercano di integrarsi nel nuovo ambiente, altri
si pongono sulla difensiva, rifiutandosi di accettare la
diversità dando origine a seri disagi psicologici che possono
sfociare nell’alcolismo, nella violenza o addirittura nel
suicidio.
Nel militare il culture shock si misura anche con il “drop
out rate”, vale a dire il numero di persone che fa rientro in
patria prima di aver completato il mandato overseas. In
alcuni casi il ‘drop out rate’ può arrivare fino al 30/40%.
Anni fa fu stimato da Leweis Griggs, co-produttore della
serie di film “Going International”, che il rientro prematuro
di una coppia con due bambini costa all’organizzazione circa
$250.000.
La severità del culture shock è di gran lunga maggiore quando
è richiesto un adattamento a una cultura totalmente diversa
dalla propria. Un militare americano potrà trovare maggiore
difficoltà nel doversi adattare in una base in Guam o
Giappone piuttosto che in Italia.
Poche cose nella vita riescono a turbare più del cambiamento.
Adattarsi a un nuovo Paese non significa adattarsi e
comprenderne la sua cultura. Adattarsi al cappuccino non
significa adattarsi alle persone che bevono il cappuccino!!
L’adattamento deve avvenire in due sensi. Mentre noi
cerchiamo di abiutarci al comportamento dei locali che ci
disturba, confonde e turba, al contempo dobbiamo adattare il
nostro comportamento in modo da non disturbare, confondere o
turbare i locali.
Mentre Oberg considerava il culture shock una vera e propria
malattia, Adler (1975) diceva invece che il culture shock è
una reazione totalmente normale in un processo di transizione
culturale. Come in ogni processo di crescita o di adattamento
c’è un disorientamento iniziale, una sofferenza ma, conclude
Adler, se ne può venir fuori più forti e centrati di prima.
Sintomi del Culture Shock
Il sintomo più comune del culture shock è il sentirisi
incapace di controllare le situazioni, il senso di impotenza,
la mancanza di risorse, il sentirsi indifeso.
Il culture shock è inizialmente un processo inconscio. Le
persone non hanno alcuna idea del perchè si sentono in un
certo modo o perché stanno sperimentando alcuni stati
d’animo.
Altri sintomi comuni sono:
- Nostalgia di casa e del proprio Paese (cibo, amici,
attivita`)
- Malesseri fisici (mal di testa, nausea, diarrea,
stanchezza)
- Rabbia
- Il bisogno di stereotipare il nuovo ambiente e le persone
- Desiderio di mangiare o dormire troppo o troppo poco
- Bere o fumare di piu`
- Allergie
- Voglia di fuggire, di tornare a casa
- Irritabilità
- Ipersensibilità
- Solitudine
- Paura di essere truffati, feriti, derubati (diffidenza)
- Depressione
- Burn out
Le fasi del Culture Shock
Adler ha classificato il Culture Shock in 5 fasi:
1. Honeymoon (luna di miele): Comporta un’euforia iniziale (prime 3 settimane). La persona è entusiasta e ha delle forti aspettative, spesso poco realistiche. In questa fase tende a mettere a fuoco le somiglianze con la propria cultura e ad essere molto positiva (questo stadio viene anche definito: del turista)
2. Disintegration: Comincia quando la persona viene a contatto con le differenze culturali e inizia a sentirsi diverso e incapace di interagire. Questo porta lentamente a una mancanza di autostima e vulnerabilità.
3. Reintegration: In questo terzo stadio (culture shock) le differenze culturali vengono rifiutate (dopo i primi 3 mesi). Avviene una sorta di ribellione e la persona è in contatto con rabbia e frustrazione. Questo atteggiamento, che include lo stereotipare e criticare la nuova cultura, serve a ridimensionare i propri sentimenti di incapacità e fallimento.
4. Autonomy: Questo stadio subentra quando si cominciano ad accettare somiglianze e differenze culturali e la persona ha iniziato a familiarizzare con l’ambiente, gli usi e i costumi della nuova cultura diventando più autonomo.
5. Indipendence: Quando la persona ha assimilato la nuova cultura ed è in grado di comprenderne i concetti e differenze e di accettarli. La persona può anche preferire cose della nuova cultura alla propria e si rende conto che ci sono modi diversi di vivere la propria vita e che un modo non è migliore di un altro.
Il Culture Shock si ripresenta una volta che il militare fa
rientro nel proprio Paese e si accorge di essere cambiato e
che anche le cose intorno a sé sono cambiate.
Imparare a conoscere un’altra grande cultura vuol dire arricchire la propria vita, comprendere meglio la propria cultura, sentirsi a casa in ogni luogo e, indirettamente, aumentare la benevolenza cosi` che, di generazione in generazione, si potra’ moderare l’uso cinico del potere nazionale.
V. Seth
LA SINDROME DEL “BURN OUT”
I militari conoscono molto bene cos’è il burn out ma fanno
una distinzione. Burn out è qualcosa che ha a che fare
soprattutto con lo stress lavorativo mentre il burn out che
deriva da una missione di guerra viene chiamato ‘battle
fatigue’ (stanchezza da combattimento). Questa ‘stanchezza da
combattimento’ come è stata gentilmente definita, è ben nota
a moltissimi reduci del Vietnam, della guerra del golfo e,
ultimamente, della guerra in Iraq.
Un militare affetto da battle fatigue riporta sintomi quali:
eccessiva irritabilita`, depressione, senso di colpa (per
essere sopravvissuto mentre altri sono morti), incubi
ricorrenti, flashback degli scenari di guerra e reazione
spropositata ai rumori. Molti di questi militari non
rispondono alle terapie e sono costretti a convivere con
questo inferno.
Un esempio clamoroso fu quello di un valorosissimo top gun,
uno dei migliori piloti militari USA durante la II Guerra
Mondiale, che dovette scortare il B-29 (Enola Gay) che
avrebbe sganciato la prima bomba atomica su Hiroshima. La
‘stanchezza da combattimento’ lo ha portato alla follia e ha
finito i suoi giorni in un ospedale psichiatrico.
Dopo questo breve ‘fuori pista’ rientriamo per definire il
burn out. Negli USA, il termine burn out (bruciato,
incenerito) si applica a qualsiasi forma di esaurimento
psico-fisico dovuto ad un eccesso di stress. E` considerata
una forma di affaticamento, logoramento, una patologia
comportamentale che più che la personalità, intacca il ruolo
lavorativo.
Allo stadio conclamato si manifesta di solito attraverso tre
categorie di sintomi che possono essere sequenziali o
combinati fra loro:
- Comportamenti che dimostrano un forte disinvestimento sul lavoro
- Eventi autodistruttivi (disturbi psicosomatici o del comportamento, diminuzione delle difese immunitarie, incidenti)
- Comportamenti eterodistruttivi (indifferenza, spersonalizzazione, crudelta’, violenza).
Nelle nostre basi in Europa o overseas, il burn out è una
possibile conseguenza del Culture Shock. In questo caso,
prendendosi cura del Culture Shock automaticamente si
riducono i sintomi del burn out.
PREVENIRE E’ POSSIBILE ANZI AUSPICABILE: L’ICRT, Il programma preventivo delle U.S. Forces
Per molti anni il governo americano ha dovuto fare i conti
con le vittime del Culture Shock fra i militari. In passato i
tassi di divorzio, alcolismo, violenza e suicidio erano
altissimi a causa della mancanza di adattamento culturale e
al senso di isolamento. Ancora oggi il Natale viene definito
in base: “Suicide Season” (stagione dei suicidi), questo
perché durante questo periodo il senso di solitudine si
acuisce maggiormente.
Al fine di ottemperare a queste incresciose situazioni, il
governo USA ha stabilito che nelle basi overseas (fuori i
confini nazionali), sia obbligatorio che il militare, entro
due, tre settimane dal suo arrivo, partecipi all’
Intercultural Relations Training (ICRT).
L’ ICRT è un training di 3 o 4gg che viene sviluppato da
professionisti locali seguendo un canovaccio che deve essere
simile in tutte le basi overseas. L’Istruttore deve essere al
contempo anche coach e counselor. In questi 3 o 4gg viene
trattato il Culture Shock, sintomi e disagio, le differenze
culturali, cenni generali sul Paese che ospita e consigli
pratici (trasporti, posti da visitare, lingua, etc.). L’ICRT
include una visita di orientamento in città così che i
partecipanti possano praticare quanto appreso in classe e
possano sentirsi a proprio agio nell’uscire dai confini della
loro “Little America”.
Qual è la medicina o l’antidoto al Culture Shock?
Cercare di conoscere il Paese che ci ospita.
Imparare un pò la lingua per riuscire a comunicare.
Partecipare ad attività.
Andare in giro, viaggiare, entrare nei ristoranti.
Fare amicizia con gente del posto.
Non aver paura di assaggiare il cibo.
Informarsi sul clima, sul modo di vestire, sulle regole
sociali e specialmente sui valori.
Mantenersi in contatto con gli amici e la famiglia di origine.
Fare un pò di sport o di movimento.
Avere una mentalità aperta.
Non aspettarsi di essere perfetto.
Tenere basso lo stress, se necessario cercare il supporto di un counselor.
Chi è lo ‘Specialista Interculturale’?
Lo Specialista in Relazioni Interculturali è il Trainer che
conduce l’ICRT. E’ obbligatorio che sia del posto, un
Italiano (se la base è in Italia), che abbia una conoscenza
approfondita della propria cultura e della città ospitante
(in questo caso Napoli). E’ necessario che abbia una buona
conoscenza della cultura americana e militare e dei loro
valori fondamentali. E’ preferibile che abbia vissuto per un
periodo negli Stati Uniti ed è fondamentale che abbia avuto
esperienza personale di Culture Shock.
L’ICR Trainer deve essere addestrato in USA da specialisti
nel settore, deve possedere doti di empatia, esperienza come
trainer e come coach e, a seconda delle situazioni,
interagire come trainer, coach o counselor.
E’ importantissimo che l’ICR Trainer sia accogliente, che
pratichi l’ascolto attivo, che non giudichi e che interagisca
con il gruppo creando uno spazio utile alla riflessione.
L’empatia è fondamentale in quanto le problematiche e i
disagi del gruppo sono amplificati dallo shock culturale. La
capacità empatica consiste principalmente nel riuscire ad
aprirsi al vissuto altrui. Essere in grado di ascoltare,
accettare e comprendere quanto gli altri stanno vivendo
sospendendo il giudizio. L’empatia, come dice il Prof. V.
Masini, è lo strumento centrale del gruppo di incontro e,
aggiungerei, rappresenta per alcuni una dote innata.
Il Trainer che, ripeto, è anche coach e counselor deve
mostrarsi per quello che è, senza maschera.
Nei primi 5m si farà osservare dai partecipanti, poi sarà il
suo turno di fare Audience Analysis. E’ necessario avere
delle buone doti di public speaking alternare una
comunicazione dinamica con una comunicazione simbolica e
narrativa. E’ importante adottare qualche tecnica di ricalco
e di integrazione delle parti unita a messaggi non verbali.
E’ fondamentale coinvolgere il gruppo cognitivamente ed
emotivamente. E’ inoltre importante, parlando del Culture
Shock, adottare una tecnica di normalizzazione e spiegare che
quello che sta succedendo è assolutamente normale e che è una
fase che attraversano tutti.
ITALIA – USA, culture a confronto
Si sa che nella vita è fondamentale avere un Logos, una sorta
di scopo, di significato, una missione. Il cervello lavora
per obiettivi e se lo lasciamo in balia delle onde non si sa
dove ci ritroviamo.
Delle innumerevoli missioni che mi ero proposta nella mia
vita, da brava delirante, mai avrei creduto che quella
principale sarebbe stata di aiutare i militari a superare il
disagio culturale, mitigare la loro rabbia e a volte il loro
disprezzo per le nostre ‘nefandezze’, quella di divenire
ambasciatrice della mia cultura e una sorta di stendardo
tricolore che gli si pianta li di fronte agli occhi.
Io, che amavo ed amo la libertà più della mia vita, come ho
fatto a trovarmi rinchiusa in un forte militare per otto
interminabili ore al giorno, lontano da Dio e dagli uomini?
Che se è vero che di tutte le strade ho sempre preso quelle
meno percorse (come diceva un poeta), chi avrebbe immaginato
che uno di questi sentieri mi avrebbe condotto al fianco o ai
piedi della Superpotenza?
Una pacifista come me, un’ex figlia dei fiori, una ex
anarchica fondamentalista…
E’ Karma o Sfiga??
Scherzi a parte, quando sono entrata qui dentro volevo solo
fare una consistente e interessante esperienza lavorativa. Ho
sempre considerato un arricchimento imparare dagli altri e
anche e soprattutto dalle culture straniere. Non e’ per caso
che faccio questo lavoro! Non è per caso che da quando avevo
22 anni ho cominciato a viaggiare toccando circa 35 paesi.
Avevo in programma di restare non più di 5 anni e invece sono
qui da quasi 20 anni. Come mai?
Mi tengono prigioniera? Nooooooooooooooooo
La CIA ha intenzione di farmi sparire misteriosamente mentre
l’Intelligence tiene tutti i miei files in un cassetto con su
scritto X-files? Noooooooooooooooo
George W. ha minacciato che se lascio i suoi ragazzi mi
considererà un’arma di distruzione di massa e sarà costretto
ad attaccarmi e distruggermi? Nooooooooooooo
La verità è che amo il mio lavoro e lo considero anche una
missione inoltre, inutile nasconderlo, mi rendo conto di
essere affetta da un sottile condizionamento (Skinner box?).
Il condizionamento nel militare è fortissimo: Bandiere, inni
nazionali, uniformi, paroloni come GIUSTIZIA, MISSIONE,
UGUAGLIANZA… Sei tagliato fuori dal resto del mondo e, di
conseguenza, da altre influenze. Giorno dopo giorno tutto ciò
si trasforma da pensieri in credenze, da credenze in
convinzioni, da convinzioni in valori.
Se a Pavlov bastò solo un campanello per condizionare il suo
cane, all’interno del militare ci sono strumenti molto più
potenti.
L’addestramento e il condizionamento, per i
militari, saranno maggiori a seconda del ruolo che
svolgeranno, della loro missione.
L’americano è piuttosto etnocentrico, se poi è pure
militare…è la fine. Zio Sam gli ha inculcato che appartiene a
una grande terra, la più grande in assoluto e che lui dovrà
salvaguardare la Sua libertà e quella degli altri popoli.
Molti americani hanno una cognizione molto vaga della
geografia e della storia di altri Paesi. Anche se non lo
ammetterebbero mai, danno per scontato che tutto il mondo
dovrebbe uniformarsi al loro stile di vita e parlare la loro
lingua.
L’Italia, per un americano medio che non ha granchè
viaggiato, è il Paese della pizza , degli spaghetti e della
mafia. In alternativa, il Paese di Versace e Gucci. Per i
militari, L’Italia è anche un alleato che non lo contrasterà
mai su nulla.
Ritornando all’analogia degli Iceberg di G. Weaver,(mio
adorato maestro. Sono stata sua allieva a Washington e ho
partecipato a molte sue conferenze in USA), quali sono le
punte dell’Iceberg italiano e quello americano?
Il problema maggiore che incontrano gli americani qui da noi
è la cognizione del tempo diversa. Per loro il tempo è
qualcosa di preciso e misurabile, per noi un’ indicazione.
Un’altra cosa inaccettabile per loro sono i favoritismi e il
nepotismo. Un concetto base della legge americana è l’EO,
Equal Opportunity. Tutti devono avere le stesse opportunità.
Non importa se sei figlio di un contadino o del Primo
Ministro. Da noi, non è esattamente così.
Un ultimo problema è lo spazio. Gli americani hanno un
concetto di spazio personale ben diverso dal nostro. La loro
bolla prossemica, come diceva Hall, fa si che per sentirsi a
loro agio debbano stare almeno a 1,50m dall’interlocutore.
SPAZIO RELAZIONALE
LA ZONA PUBBLICA = (quella più distante da sé). Si è parte
della massa. Non si ha il controllo sugli eventi ma il
controllo di te stesso in quegli eventi. Qui il centro
dell'attenzione è l'evento, ciò che succede intorno a noi.
LA ZONA SOCIALE = (quella in cui operiamo
professionalmente). Siamo poco vulnerabili emotivamente in
questa zona, perché portiamo una “maschera” che identifica
il ruolo che abbiamo nel sociale.
Si è nella zona sociale quando il centro dell'attenzione è
l'attività che si sta svolgendo. Qui ci sono persone che
condividono questo spazio e momento e vi è un basso rischio
dì vulnerabilità emozionale.
LA ZONA PERSONALE/PRIVATA = (condividiamo in modo
spontaneo). Cuore. Qui si stabiliscono e si sviluppano le
amicizie. In questa zona ciò che fai ha un'importanza
minore rispetto all'esperienza di farlo con qualcun altro.
Qui si condivide in modo spontaneo. Si è in questa zona
quando sì è se stessi e di conseguenza, si e`vulnerabili.
LA ZONA INTIMA = (siamo molto vulnerabili). E' dove si
trovano le relazioni e le condivisioni più profonde: il
rischio emozionale è maggiore, ma ci sono anche le massime
gratificazioni. Si è veramente nella zona intima quando tra
due persone non vi sono né difese né barriere.
E per concludere vediamo le differenze “alla base dell’iceberg” ?
Gli americani, come abbiamo visto in precedenza, sono
generalmente Individualisti, Universalisti, Monocronici e
usano la cosiddetta Logica della Testa.
Gli italiani sono tendenzialmente Collettivisti,
Particolaristi, Policronici e usano la Logica del Cuore.
Praticamente sono agli antipodi!!!
ITALIA – USA, GRAFICI A CONFRONTO.
Grazie alla scuola Prevenire e Possibile del Prof. Vincenzo
Masini, ci è stato fornito un utile strumento di indagine: il
Questionario di Artigianato Educativo. Un test con relativo
grafico per l’analisi dei copioni nei gruppi di incontro che
fornisce dati per la comprensione e l’interpretazione del
modo d’essere. Nel questionario vi sono 210 domande
contraddistinte da AV (avaro), RM (ruminante) DE (delirante),
SB (sballone), AP (apatico), IN (invisibile), AD (adesivo).
Queste 7 categorie rappresentano i 7 Archetipi di riferimento
e sono accompagnate da Altri, Mondo, Sé e cioè il rapporto
che ogni tipologia ha con gli altri, con il mondo e con sé
stesso. Il grafico che si costruisce con i punteggi del test,
rappresenta una foto del copione di quel momento. Nel
compilare il questionario è necessario marcare solo le
domande nelle quali ci si riconosce pienamente. Al termine
del questionario, i punteggi vengono raccolti in un’apposita
tabella e su un foglio Excell si costruisce il grafico a
radar. La prima lettura, quella generale, è data dal
perimetro dei punteggi totali. Quanto più la personalità è
armonica, tanto più il perimetro si avvicina a una forma
circolare.
Ogni archetipo ha un valore e un’emozione dominante,
vediamoli:
TIPOLOGIA EMOZIONE VALORE
AVARO: Paura Responsabilità
RUMINANTE: Rabbia Giustizia
DELIRANTE: Distacco Libertà
SBALLONE: Piacere Generosità
APATICO: Quiete Pace
INVISIBILE: Vergogna Umiltà
ADESIVO: Attaccamento Fedeltà
Io ho una mia convinzione e cioè che oltre ai copioni
personali, esistano dei “copioni culturali”. Anche in una
cultura, come abbiamo visto, ci sono presupposti,
convinzioni, valori. Così mi sono detta, perché non provare a
creare un grafico di queste due sub-culture? (altrimenti
questo copione delirant-ruminante a cosa mi serve??)
Ho creato i due grafici basandomi sulle risposte ipotetiche
che avrebbe dato la maggioranza della popolazione militare
che ho conosciuto nella base di Napoli nell’arco di quasi 20
anni e quella di buona parte dei cittadini napoletani.
Naturalmente è una generalizzazione ma può esserci utile per
paragonare e contrastare le due culture.
Vediamo cosa ne è venuto fuori:
USA ITALIA
Militari Oltreoceano Napoletani
Militari Usa oltreoceano: Senso di responsabilità e ottima
organizzazione. Molto autorevoli, poco empatici verso gli
altri. Piuttosto rigidi, non mostrano i loro punti deboli.
Tendono a voler mantenere il controllo su tutto. Danno molta
importanza a norme, regole e gerarchia. Poco emotivi.
Sono degli attaccanti, persone che si attivano e sono sempre
in prima linea. Hanno bisogno di fare, si creano molti
obiettivi e vanno fino in fondo. Testardi, tendono a
sovraccaricarsi e a diventare aggressivi. Non si fanno
sottomettere, forte leadership. Emotività e affettività molto
basse. Hanno bisogno di liberarsi.
Molto indipendenti, individualisti, poca umiltà.
Non si danno pace, sono sempre impegnati in qualcosa.
Il copione si mantiene piuttosto invariato nel rapporto con
sé, il mondo e gli altri.
Hanno bisogno di sviluppare empatia verso gli altri, di
alleggerirsi, di sviluppare emotività e affettività, di
rilassarsi, di mollare la presa.
Napoletani (caratteristiche generali): Inseguono il piacere.
Amano stare in gruppo, divertirsi. Hanno bisogno di
attenzioni, di sentirsi amati. Spesso incostanti, non portano
a termine quanto iniziato. Abbastanza creativi, non amano la
solitudine. Hanno bisogno di toccare, abbracciare e possono
essere vissuti un po’ come invadenti.
Non si attivano molto e a volte cadono nell’apatia. Hanno
difficoltà a prendere azione o a prendersi delle
responsabilità. Peccano nell’organizzazione.
Allegri, affettuosi ma a volte inconcludenti, hanno bisogno
di responsabilizzarsi, di darsi da fare, di imparare a
difendersi, di impegnarsi.
Anche in questo caso il rapporto col sé, il mondo e gli altri
è molto simile.
IL DISAGIO DEL CULTURE SHOCK APPLICATO AI 7 ARCHETIPI
In che modo i 7 archetipi reagiscono al disagio del Culture
Shock una volta esposti a una nuova cultura?
Avari: Soffriranno della perdita di controllo, aumento
dell’ansia e della paura. Tendenza ad essere oltremodo
autoritari e intolleranti. Possibilità di sviluppare manie o
ossessioni.
Ruminanti: Amplificazione dell’autocarica, eccessiva
reattività; sdegno e possibile squalifica verso la nuova
cultura, rabbia. Possibilità di reazioni violente verso gli
altri (famiglia, peers).
Deliranti: Soffriranno inizialmente della mancanza di
libertà dovuta al non sapersi muovere in una cultura diversa.
Possibilità di squalifica verso la nuova cultura e snobismo.
Pericolo di dissociazione e tendenza all’alcol e le droghe.
Sballoni: Apparentemente fra quelli che si adattano più
velocemente perchè alla ricerca del piacere, del
divertimento, dello sballo. Possono tendere all’alcol, alle
droghe e possono finire coinvolti in incidenti stradali.
Apatici: Possibile demotivazione, mancanza di iniziativa,
apatia. Sono quelli che restano chiusi dentro la base e non
entrano in contatto con la nuova cultura. Rischio di
depressione.
Invisibili: Aumenta la mancanza di autostima, la vergogna, la
voglia di essere invisibile. L’adattamento culturale è
particolarmente doloroso per gli invisibili. Rischio alto
alcolismo,abbandono o suicidio
Adesivi: Sono quelli che una volta arrivati, soffrono
maggiormente la solitudine e la mancanza di affetti. Gli
adesivi si sentiranno particolarmente soli, vulnerabili e
tenderanno a sostituire la fame affettiva con uno smodato uso
del cibo o di alcol. Rischio alto: abbandono o suicidio
IL RUOLO DI SUPPORTO DEL COUNSELING
Origini del Counseling
Il Counseling nasce negli Stati Uniti intorno agli anni '50
quanto l'APA (American Psycological Association) dà vita alla
“Division of Counseling Psychology”.
Lo sviluppo del counseling negli USA è stato influenzato da
varie correnti anche di molti anni antecedenti la sua nascita
ufficiale:
- movimento di orientamento
- movimento psicoterapeutico
- movimenti orientati alla cura della salute olistica
Il movimento di orientamento
Il movimento di orientamento e guida professionale fu un
tentativo di migliorare la scelta professionale di chi
terminava le scuole superiori. Il primo programma fu varato
negli USA nel 1885 ed ebbe un tale successo che stimolò una
serie di sforzi legislativi che incoraggiarono e promossero
il movimento stesso.
Fin dal 1917 si svilupparono test di abilità mentale per
valutare l’idoneità dei soldati impegnati nella prima guerra
mondiale. Più tardi, nel 1920, iniziarono a circolare i primi
test attitudinali volti a misurare i reali interessi
professionali.
Nei primi anni ’50 si assistette al tentativo di spiegare i
processi di sviluppo e di gestione della carriera e le
modalità con cui gli individui prendevano una certa direzione
piuttosto che un’altra. Il passo fu breve: si arrivò a
studiare i meccanismi decisionali: perché un individuo compie
la scelta che compie.
Il movimento psicoterapeutico
E' grazie allo sviluppo delle teorie della personlità
promosse dalla ricerca psicoterapeutica, soprattutto
psicoanalitica, che il counseling inizia a diventare un
intervento per i problemi personali e sociali. Ma è intorno
agli anni ’50, grazie ad autori come Carl Rogers e Rollo
May, che il counseling prende forza. Complice ne è lo
sviluppo della psicoterapia ad orientamento umanistico.
Intorno a quegli anni, infatti, le teorie e le metodologie
applicate in campo psicoterapeutico, facevano riferimento
principalmente al modello psicoanalitico e a quello
comportamentista.
Molti studiosi tuttavia cominciarono a pensare che tali
paradigmi non potessero essere esaustivi. Rimasero
affascinati da alcuni temi cari al movimento esistenzialista:
la libertà di scelta dell’individuo, l’importanza del dialogo
io-tu (dialogico), l’impegno dell’individuo, la
responsabilità.
Tali tematiche vennero sviluppate sia in un contesto
culturale diverso (la psicologia) che in un contesto sociale
(l’America degli anni ’50). Questa corrente di pensiero si
organizza formalmente solo nel 1962 con la nascita del
movimento di psicologia umanistico esistenziale.
Movimenti orientati alla cura della Salute
Nel 1963 una legge sancì il principio e la necessità di
riorganizzare terriorialmente i servizi psichiatrici. La
finalità risiedeva nel prevenire i problemi psicologici non
solo negli ospedali, ma anche nei centri di igiene mentale
delle piccole comunità da poco costituiti.
Tali centri (paragonabili ai nostri quartieri piuttosto che
circoli ricreativi) avevano la piena accessibilità da parte
dei residenti in una certa zona ed offrivano contestualmente
una serie di servizi.
Il vantaggio principale era quello di poter essere accolti e
sostenuti all’interno della propria comunità, ma soprattutto
quello di sottolineare l’importanza della prevenzione.
Su quali assunti si basava tale legge:
- prevenire è meglio che curare;
- i fattori ambientali influenzano il comportamento per cui un intervento a livello comunitario può aiutare sia il comportamento del singolo che la società nel suo complesso;
- i problemi di salute mentale diventano evidenti in relazione a stress sociali (povertà, razzismo, etc.)
Il cambiamento di lì a poco sarebbe stato epocale: si stava
passando da un modello centrato sulla malattia ad un modello
orientato alla salute dell’individuo.
Ma è negli anni ’70 che inizia a svilupparsi e a diffondersi
la così detta “psicologia del benessere” alla cui base vi è
una concezione sostanzialmente positiva dell’essere umano.
Una concezione di tipo evolutivo.
Il concetto di “crisi” perde quel suo aspetto negativo e si
focalizza maggiormente sul concetto di “transizione”: ovvero
alternativa possibile e occasione di cambiamento.
A tutt’oggi l’obiettivo della psicologia della salute è
quello di migliorare la qualità della vita nonché di
accrescere la competenza della società in relazione alla
salute.
In Italia
Il Italia potremo provare a rintracciare le origini del
counseling nella storia dell’assistenza sociale che ebbe
inizio intorno agli anni ’20. Tuttavia le iniziative
assistenziali in Italia (formalmente costituitesi nel 1929)
avevano un carattere prettamente filantropico e volontario.
Solo negli anni ’60, grazie ad impulsi provenienti dalla
Francia, iniziò a formarsi il concetto di prevenzione.
Intorno agli anni ’70 alcune scuole di formazione in
psicoterapia iniziano a formare figure professionali
orientate alla relazione e centrate sull’individuo, pur
tuttavia non avendo ancora una definizione di competenza. E’
solo a partire dagli anni ’90 che la definizione di
“counselor” inizia ad essere utilizzata.
Lo sviluppo della professione, invece, parte dai primi anni
’90 quando iniziano a strutturarsi le prime associazioni di
Counseling con l'intento di regolamentare l'esercizio della
professione. Il 18 maggio 2000 il CNEL - Consiglio Nazionale
dell'Economia e del Lavoro, inserisce il Counseling tra le
professioni così dette non regolamentate.
Significato di Counseling
Il termine counseling deriva dal verbo latino consulo-ere
nella sua accezione etimologica di "venire in aiuto, avere
cura". E' importante non procedere ad effettuare la
traduzione del termine counseling con consulenza. In
italiano, infatti, il consulente è "un esperto, o perito,
capace di dare una soluzione ad un quesito di ordine
rigorosamente tecnico". Il counselor, invece, può essere
definito come "la figura professionale che attraverso le
proprie conoscenze e competenze è in grado di favorire la
soluzione ad un quesito che crea disagio esistenziale e/o
relazionale ad un individuo o un gruppo di individui"
(S.I.Co. -Società Italiana di Counseling).
A sostegno di quanto sopra riportato si ricorda come la
pratica del counseling vieti, da un punto di vista etico, il
"dare consigli" piuttosto che il "dare pareri" ovvero
l'attività tipica del consulente.
Il counseling è un intervento professionale orientato alla
prevenzione del disagio individuale e sociale. Si occupa di
problemi specifici come prendere decisioni, sviluppare la
conoscenza di sé, migliorare il proprio modo di relazionarsi
agli altri.
Il counseling ritiene che ogni individuo sia autonomo e il
suo intervento è mirato ad incentivare il concetto di
responsabilità individuale. Per questo il counselor ha nei
confronti del proprio cliente un atteggiamento attivo,
propositivo e stimolante le capacità di scelta.
Il counseling si configura dunque come un intervento di tipo
psicopedagogico, e non psicologico in senso stretto. Non è
dunque una prerogativa dello Psicologo.
Chi è il Counselor
Il counselor è quel professionista che eroga la prestazione
di counseling. Il counselor è adeguatamente formato alla
gestione della relazione con interlocutori che manifestano
situazioni di disagio (emotivo, esistenziale, etc.)
Il counselor non va confuso con lo Psicologo.
Cosa non fa il Counselor:
- non fa terapia
- non fa psicoterapia
- non opera "cure" di alcun genere
- non somministra farmaci
- non fa consulenza psicologica
- non fa diagnosi
Se consideriamo il counselor come "il professionista che
favorisce lo sviluppo e l'utilizzazione delle potenzialità
già insite nel cliente, aiutandolo a superare quei problemi
di personalità che gli impediscono di esprimersi pienamente e
liberamente nel mondo" possiamo dire che è possibile operare
il counseling in qualunque contesto.
Avremo dunque:
- counseling individuale, di coppia, familiare, di gruppo
- counseling scolastico
- counseling aziendale
- counseling sessuologico (relativo alla coppia e alle varie tendenze sessuali o alle violenze e agli abusi sessuali)
- counseling per persone in stato avanzato di malattia (AIDS, cancro, etc.)
E' quindi possibile operare in diversi ambiti:
- comunitario (scolastico, religioso, interculturale, etc.)
- lavorativo (aziendale, socio-lavorativo, etc.)
- socio-sanitario (artistico, filosofico, esistenziale, sociale, sportivo, etc.)
Il counseling, come altre discipline, prende le proprie
tecniche di intervento dai grandi modelli della psicologia
(orientamento psicoanalitico, sistemico-familiare,
fenomenologico-esistenziale, cognitivo-comportamentale, etc.)
Requisiti sostanziali
Da un punto di vista sostanziale, invece, per esercitare il
counseling è necessario aver completato un’adeguata
formazione sia teorica che pratica. E' inoltre opportuno che
il counselor si sottoponga a un training personale,
individuale e/o di gruppo, per evitare di esercitare un
counseling "sulla base dei propri più o meno rigidi
pregiudizi" (Rollo May). Detto training dovrebbe cioè far
superare al counselor quella tendenza dell'Io definita
etnocentrismo ovvero la tendenza ad utilizzare la propria
cultura come paragone per le altre.
QUELLO CHE I COUNSELORS DEVONO SAPERE SUL CULTURE SHOCK
Cristina Casanova, psicologa, counselor e docente alla
Columbia University, sostiene che la nostra identità si
sviluppa in un contesto culturale. Chi siamo e come ci
comportiamo dipende massimamente da elementi sociali, etnici,
educativi e culturali del gruppo di appartenenza. Individui
che abbandonano la cultura d’origine per spostarsi in un
altro Paese, sperimentano uno stress culturale. Quanto più si
è in grado di percepire le differenze tanto maggiore sarà il
Culture Shock. E’ fondamentale per il counselor comprendere
che il Culture Shock non è soltanto negativo. Puo’ essere
un’opportunità e incoraggiare la crescita personale. Se
opportunamente guidato, lo stress culturale, può diventare
uno strumento per scoprire risorse e abilità che non sapevano
di possedere. Il Culture Shock può ispirare una metamorfosi
che può condurre a una maggiore consapevolezza e stima di sè
stessi.
Poiché il Culture Shock può essere una grande opportunità di
crescita personale, a volte richiede una dolorosa autoanalisi
e introspezione. La persona è costretta a guardare a sé
stessa e al mondo da una prospettiva diversa dalla propria.
Impara da sfide ed errori a trovare le giuste risposte alle
diverse situazioni, incrementando la creatività e
l’immaginazione.
Il counselor può aiutare l’immigrato/espatriato e la sua
famiglia, educandoli sul Culture Shock:
Aiutando il cliente a riconoscere che i problemi di
adattamento sono comuni e normali e lo stress è una parte
inerente alla fase di adattamento
Aiutando il cliente a mantenere l’integrità personale e
l’autostima. Gli immigranti spesso devono affrontare una
sorta di perdita di identità in una cultura dove i costumi,
la lingua e le norme sociali sono sconosciute.
Aiutando il cliente a comprendere che l’adattamento a una
nuova cultura è un processo e ogni persona sviluppa secondo i
propri tempi.
Etichettare i sintomi del Culture Shock aiuta il cliente a
gestire le sue risposte emozionali allo stress
COUNSELING MULTICULTURALE
Il Counseling Multiculturale nasce negli Stati Uniti dove,
già da tantissimi anni, le grandi città sono multi-etniche.
Dopo una prima differenziazione dal Couseling generale, oggi
si è venuti alla conclusione, come dice C. H. Patterson, che
il Counseling Multiculturale è generico e, di conseguenza,
tutto il counseling è multiculturale.
Il Movimento Multiculturale nel Counseling, nacque circa 40
anni fa. Uno dei primi a scrivere un articolo su questo
argomento fu Wrenn: The Culturally Encapsulated Counselor.
Fu osservato che clienti appartenenti a minoranze etniche
ricevevano un trattamento inadeguato. Immaginiamo un gruppo
di clienti formato da bianchi americani, neri, indiani,
asiatici, messicani, etc. Ovviamente le strutture sociali e i
paradigmi culturali sono molto diversi. A questo va
aggiunto, come riassumono Mays and Albee, che membri di
minoranze etniche non fruiscono di psicoterapia o counseling
nella stessa proporzione della cultura dominante. Le
minoranze etniche sperimentano un alto livello di stress
dovuto alla povertà e all’adattamento culturale. Nonostante
ciò, le minoranze etniche spesso hanno meno accesso a servizi
di counseling e psicoterapia.
Fu presto chiaro che il tipo di counseling sviluppato negli
Stati Uniti per i bianchi dell’ upper-middle-class era
inappropriato per gli altri gruppi persino all’interno della
stessa cultura. Il problema è che molti terapisti non hanno
familiarità con lo stile di vita e il background sociale di
altre culture. E’ evidente che il counselor non è preparato
ad interagire con individui di diversi gruppi etnici non
conoscendone i valori, le attitudini e lo stile di vita.
E’ fondamentale, oggi, che il counselor sappia che diversi
gruppi culturali e subculturali hanno bisogno di approcci
diversi. Il nuovo counselor è culturalmente sensibile,
culturalmente competente e culturalmente appropriato. La
conoscenza delle altre culture è necessaria ma non
sufficiente per un trattamento efficace. La conoscenza va
trasformata in strategie e trattamenti concreti.
Molti psicoterapeuti americani concordano nel dire che la
soluzione al problema di fare counseling multiculturale sta
nell’enfatizzare il “rapport” fra cliente e counselor. Pande
e Wohl scrissero che la terapia è un rapporto speciale di
amore e di vicinanza e enfatizzarono l’importanza del calore,
della genuinita’ e specialmente dell’empatia. Definirono il
“rapport” come il ponte emozionale fra il cliente e il
counselor basato sulla fiducia e stima reciproca.
D.W. Sue aggiunse che qualità quali il rispetto e
l’accettazione dell’individuo, il comprenderne i problemi
dalla sua prospettiva, il permettere al cliente di esplorare
i propri valori e arrivare a una soluzione individuale sono
qualita’ che prescindono ogni cultura.
Molti di questi counselors si rifanno ai 3 principi
fondamentali del counseling enunciati da C.Rogers:
Rispetto per il cliente: Questo include l’avere fiducia nel
cliente e assumere che il cliente sia capace di prendersi la
responsabilità per sè e in grado di fare scelte o prendere
decisioni.
Autenticità: Il counselor non assume un ruolo ma è se
stesso. Non è professionale, freddo, impersonale ma una
persona reale.
Empatia: La comprensione empatica significa che il counselor
sa cogliere e sentire le emozioni vissute e percepite del
cliente e sa essergli vicino
Alcuni terapisti americani, Myers, Cox, Highlen, affermano
che tutto il counseling può definirsi multiculturale in
quanto tutti gli esseri umani sono diversi in temini di
background culturale, valori e stile di vita. Questo si
applica principalmente agli Stati Uniti, un pò meno alla
nostra realtà in Europa o in Italia dove solo recentemente,
con l’avvento dell’immigrazione, si sono create delle
correnti subculturali. La strada verso il multiculturalismo è
ancora lunga e tutta da spianare e comincia con il rispetto
della diversità.
L’Italia oggi si trova ad un incorocio. Una strada è quella
percorsa fino ad oggi del monoculturalismo/etnocentrismo.
Questa strada pone le culture Ovest-europee al di sopra delle
altre. E’ anche la strada che conduce al nostro modo di fare
counseling o pscicoterapia e stabilire cosa è normale e cosa
non lo è.
Molte norme monoculturali sono parte rilevante delle nostre
istituzioni e organizzazioni. L’etnocentrismo è una pratica
molto diffusa in quanto si attiene a norme create
appositamente e unicamente per la cultura dominante.
L’altra strada, il multiculturalismo, riconosce e valuta la
diversità. Valuta il pluralismo culturale e riconosce una
nazione come un mosaico culturale piuttosto che un pentolone
con vari ingredienti (melting pot). E’ la strada che ci sfida
a studiare varie culture, a sviluppare prospettive multiple e
ad insegnare ai nostri figli come evitare pregiudizi e
stereotipi e a crearsi una mentalità più elastica ed aperta.
E’ attraverso questa strada che cominciamo un processo e
sviluppiamo nuove strutture, concetti e pratiche e diveniamo
più liberi e più disponibili alla comprensione e la
tolleranza di esseri appartenenti ad un’altra cultura, un
altro genere o un altro orientamento sessuale.
Per i counselors e gli psicoterapeuti la strada meno battuta
non è facile da scegliere in quanto ancora impervia e piena
di difficoltà e incertezze. Nonostante tutto, le realtà
demografiche non ci permettono di rimandare le nostre
decisioni. Oggi in Italia si calcola che ci siano almeno
3.000.000 di extracomunitari e il numero è destinato a
crescere velocemente. Il Paese sta cambiando e nei prossimi
20 anni ci troveremo anche noi a dover affrontare una società
multietnica: Spaghetti e cous cous.
I nostri figli e poi i nostri nipoti saranno seduti nei
banchi con piccoli africani, cinesi, polacchi e se noi non
avremo fatto un buon lavoro su di noi nell’accettare questo
cambiamento non potremo passare alle generazioni future una
mentalità finalmente libera da condizionamenti, razzismo e
discriminazioni.
Lei ha il suo biglietto
Lei ha il suo biglietto.
Penso che lo userà,
penso che volerà via.
Nessuno deve cercare di fermarla,
convincerla con la forza.
Lei dice che ha proprio deciso.
Perchè non partire?
perchè non andare via?
Troppo odio corruzione e ingordigia.
Dai la vita e in cambio ti lasciano
sempre con niente.
Lei non ha speranze,
non ha radici per tenersi forte.
Ha perso ogni illusione
di esserne parte un giorno.
Alcuni la chiamano vagabonda,
un fallimento della razza.
Ma lei sa dove la porta il suo biglietto
e troverà il suo posto al sole
e volerà.
Tracy Chapman
C’era un ragazzo che come me.....
Erano gli inizi degli anni 70, noi ragazzi respiravamo aria di Rivoluzione. I tempi stavano cambiando e noi con loro.
Abitavo nello stesso parco dove vivo tuttora, sulla collina di Posillipo. In fondo alla stradina di casa mia c’era un muretto dove noi ragazzi ci riunivamo: Io, Mario, Eleonora, Marina, Enrico, Giuseppe, Enzo, James e altri ancora.
James era un ragazzo americano. A quel tempo il mio parco era invaso da americani che arrivavano nelle basi USA di Napoli.
James era qui con la famiglia. Il padre, un colonnello dell’aereonautica, assegnato a Napoli in missione. La mamma, una bella donna, si occupava di volontariato in base. C’era poi F., Il fratellino piu’ piccolo biondo e riccioluto e Daniel, il fratello maggiore, anche lui nel militare negli Stati Uniti.
James, che noi chiamavamo Jimmy, era un ragazzo che ci piaceva tanto. Capelli biondi lunghissimi, abbigliamento hippy e uno spirito libero.
A quel tempo, avevo quasi 15 anni, ero una bella ragazza, grintosa, spirito ribelle, fermamente convinta di poter cambiare il mondo.
Un giorno James ci disse se volevamo salire da lui. Era arrivato il fratello dall’America per qualche giorno e voleva presentarci e stare un po’ tutti insieme. Salimmo su e, inutile dirlo, fra patatine e coca cola, cominciammo a familiarizzare con Daniel che, ovviamente, non parlava italiano.
Daniel aveva circa 21 anni, capelli corti castano chiaro, un bellissimo viso e dei profondi occhi grigi. Anche lui, come James era un bellissimo ragazzo. Io mi sentivo un pò in soggezione perche’ lo vedevo grande, un uomo. A un certo punto James prese la chitarra e comincio’ a intonare delle canzoni americane, Daniel cantava con lui divertendosi. Piano piano si creò un bellissimo feeling fra tutti noi. Daniel prese la chitarra e fu il suo turno di suonare e cantare. James rideva e cantava con lui. Noi facevamo un coro stonato massacrando quelle poche parole d’inglese che ricordavamo. Fu una giornata bellissima. Nessuno fece più caso al fatto che Daniel non parlasse la nostra lingua e noi la sua.
Quella settimana passò in fretta e un paio di giorni prima che Daniel partisse si ebbe notizia che stava per essere chiamato in Vietnam. Furono due giorni tremendi per la famiglia e noi ragazzi eravamo sconvolti. James non diceva nulla e noi non osavamo chiedere nulla. Arrivò il giorno della partenza di Daniel. Il padre lo portò all’aereoporto, doveva rientrare con un volo militare. Noi ragazzi eravamo tutti giù, sul muretto, sotto casa sua, quando lui scese. Era in divisa. Sembrava un’altra persona, diverso da quel ragazzo spensierato e crazy che avevo conosciuto.
Ci salutò ad uno ad uno, con un sorriso quasi accennato. Mi salutò per ultima. Mi abbracciò e per un attimo i suoi occhi si fermarono nei miei. Un attimo interminabile dove quegli occhi grigio cielo lasciarono presagire qualcosa. Un attimo che rimase stampato nei miei occhi.
Poco più di un anno dopo, Daniel tornò in Patria in un sacco di juta. Una delle tantissime vittime di quella maledetta guerra.
Come si fa a descrivere cosa si prova in un momento così. La disperazione silenziosa della famiglia, gli occhi assenti di James. La rabbia di noi tutti. Quel giorno io giurai che il giorno più bello della mia vita sarebbe stato la fine di quella dannata guerra. Quel giorno arrivò nel ’75.
Da allora passarono tantissimi anni quando un giorno, era più o meno marzo del ’99, mi trovai a Washington DC per una conferenza.
Ero già stata a Washington e non l’amavo tanto. Di sicuro preferisco i marciapiedi di New York dove si respira arte, musica e follia mista all’odore dei fast food.
Dopo la conferenza ero solita prendere la metro e andare in giro. Quello era l’ultimo giorno prima della partenza e, sfogliando le pubblicità in albergo, notai che c’era un bus tour che toccava varie zone della città compreso i Constitution Gardens, un parco nel quale era stato costruito il Vietnam Wall (il muro del Vietnam) in onore dei caduti.
Decisi di fare questo tour che cominciava nel tardo pomeriggio.
Washington era buia e umida quella sera. C’era anche un pò di nebbia. Ogni tanto scendavamo dal bus per vedere qualche cosa..poi, finalmente, dopo circa un’ora arrivammo in prossimità del parco.
Scesi dal bus insieme agli altri ma la gente si trattenne li intorno. Era buio, e in giro non c’era nessuno ed eravamo in America dove non puoi quasi mai sentirti al sicuro. Nonostante questo io mi avventurai da sola nel parco per raggiungere il Muro.
Dopo tantissimi anni stavo ripensando a Daniel. “Daniel, sto venendo a salutarti, finalmente posso salutarti” pensavo, e questo mi faceva sentir bene.
Arrivai finalmente davanti al muro e mi prese lo sconforto. Migliaia di nomi scolpiti su freddo granito grigio. Con ansia cominciai a scorrere quei nomi uno ad uno, non ce la facevo, non riuscivo a trovarlo, mi avvilii. “Come farò? Non posso andarmene di qui se non lo trovo”, pensavo.
Era un’ impresa impossibile. Vedevo tutti quei nomi e mi veniva male allo stomaco. Faceva freddo, era buio e avevo paura ma non mollavo. All’improvviso, alla mia sinistra vidi dei grossi libri sotto una luce fioca. Capii!!! “Sono i libri con i nomi delle vittime. Mio Dio, quanti!!” Erano enormi come dei grossi dizionari.
Era sempre buio, non c’era in giro un’anima. Il bus mi sembrava lontanissimo ma io restai. Non mi sarei mossa di li neanche se fosse sceso Dio dal cielo. Anzi! Se Lui fosse stato li gli avrei gridato con tutta la mia rabbia “Come hai potuto permettere tutto questo. TU dov’eri?”
Mi avvicinai ai libri, li aprii. Inorridii!
Decine e decine di piccoli nomi uno dietro l’altro. Erano in ordine alfabetico e cosi cominciai a cercare nella D, Daniel D.
“Non lo trovo, non e` possibile”. Andai in confusione, ero agitata quando all’improvviso mi resi conto che avevo sbagliato lo spelling. Il cognome si scriveva in un altro modo, ma come avevo fatto a sbagliarmi, era così facile..??
LO TROVAI! Ecco il suo nome li, sulla carta, sotto i miei occhi: Daniel D.
Scoppiai a piangere, un pianto disperato a singhiozzi, come quello di un bambino o forse come quello di una ragazzina di 15 anni.
Mi tornarono in mente i suoi occhi grigio cielo.
Tornai accanto al muro, poggiai la mia mano su di esso, “Ciao Daniel, riposa in pace. Ti chiediamo scusa per questo. Perdonaci, per favore”.
Feci ritorno al bus appena in tempo. Era sempre buio ma io non avevo più paura. Avevo chiuso un cerchio. Mi sentii finalmente sollevata.
Ed ora mi chiedo, è per caso che sono finita a lavorare in una base USA? Ed è sempre per caso che dopo aver finito di scrivere questa storia sono scesa al bar e sono letteralmente sbattuta contro F., il fratello più giovane di Daniel che non vedevo da tantissimi anni?? Chi potra` mai dirlo....
C'era un
ragazzo
che come me amava i Beatles
e i Rolling Stones
girava il mondo, veniva da
gli Stati Uniti d'America.
Non era bello
ma accanto a sé aveva mille donne se
cantava «Help» e «Ticket to ride»
o «Lady Jane» o «Yesterday».
Cantava «Viva la libertà» ma
ricevette una lettera,
la sua chitarra mi regalò
fu richiamato in America.
Stop! coi Rolling Stones!
Stop! coi Beatles.
Stop!
Gli han detto vai nel Vietnam
e spara ai Vietcong...
Ta ta ta ta ta ta ta ta ta...
C'era un ragazzo
che come me amava i Beatles
e i Rolling Stones
girava il mondo, ma poi finì
a far la guerra nel Vietnam.
Capelli lunghi non porta più,
non suona la chitarra ma
uno strumento che sempre dà
la stessa nota ratatata.
Non ha più amici, non ha più fans,
vede la gente cadere giù:
nel suo paese non tornerà
adesso è morto nel Vietnam.
Stop! coi Rolling Stones!
Stop! coi Beatles.
Stop!
Nel petto un cuore più non ha
ma due medaglie o tre...
Ta ta ta ta ta ta ta...
The Vietnam Veterans Memorial Wall, Washington D.C.
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Mirella Tarpati - I Figli del Vento, gli Zingari – La Scuola
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C.R. Rogers - I Gruppi di Incontro – Astrolabio
C.R. Rogers - La Terapia Centrata sul Cliente – La Nuova Italia
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Claudio Neri - Gruppo – Borla
R. Bandler - J. Grinder, La Metamorfosi Terapeutica – Astrolabio
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Wikipedia – Origini del Counseling - Articolo
Scuola Artigianato Educativo – Progetto dell’Uso e dell’Abuso di Sostanze Stupefacenti e Psicotrope nelle Forze Armate – Articolo
RINGRAZIAMENTI
E così siamo arrivati alla fine ed è giusto che concluda salutando e ringraziando i miei compagni di viaggio.
Namastè, caro Guglielmo! Mi sono imbattuta per caso (ma io non credo al caso), oltre un anno fa, nello stand del Siddharta durante una fiera. Lessi di questo corso di Counseling, qualcosa che avevo sempre pensato di fare prima o poi, ed eccomi qui…
Una scuola col nome del Buddha, non poteva essere altrimenti. Un percorso non deve escluderne un altro anzi, è l’insieme delle strade principali e secondarie che ci conduce alla meta.
Grazie per averci ospitato e per averci dato questa opportunità, te ne sono grata e soprattutto grazie per i tuoi insegnamenti.
Prof. Masini, è stato un piacere conoscerla e seguire le sue lezioni. Grazie al Siddharta ho avuto la possibilità di conoscere Lei e il suo staff e di apprendere, fra le tante cose, due strumenti di analisi molto potenti come i 7 archetipi e il questionario di Artigianato Educativo. Colgo l’occasione per ringraziare anche la carissima Manuela e Lorenzo. Non siamo stati un gruppo facilissimo e magari, dopo averci conosciuto, potrebbe considerare la messa a punto di un 8vo archetipo.. Grazie ancora!
Ringrazio i miei compagni di corso per la rocambolesca condivisione. In special modo ringrazio il mio amico e collega Corrado che mi è stato di supporto nei momenti più duri, quando la pressione mi portava a voler mollare.
Infine ringrazio me, Tiziana per le mie corse e rincorse, per non fermarmi, per non arrendermi, per la inesauribile curiosità verso la vita, per l’impegno e la forza e per i tanti dubbi. Grazie alla mia anima di caleidoscopio, al mio cervello di soldato e al mio cuore di bambina.
Un grande abbraccio a tutti..
Tiz