LA FORMAZIONE ALLA GENITORIALITA’
NELL’AFFIDAMENTO E NELL’ADOZIONE
Paola Betti
Figli
Ha osato qualcuno bagnarvi
di lacrime il ciglio:
le fauci feline dischiuse
a difesa dei teneri nati.
Mangrovie al mio cuore ferito:
in mano la falce a tagliare
con forza di madre
le spire mortali.
Dal fondo più nero del cielo
richiamo la luce,
a schiarire il cammino
per nuovi destini.
Questi versi di mia cognata, moglie di mio fratello, che con noi e come noi hanno vissuto le ansie, i dubbi e le gioie dell’adozione, interpretano le sensazioni e i sentimenti che ci hanno guidato sulla strada di genitori. Abbiamo cercato di “tagliare …le spire mortali” che avrebbero ostacolato la conquista della pienezza di vita dei nostri figli seguendo il percorso “dal fondo più nero del cielo….per nuovi destini” con la maggiore disponibilità possibile, con amore e rispetto, con forza e pazienza.
INDICE
PREFAZIONE
Tramite la televisione, internet, i giornali periodici e quotidiani e anche vari libri, nella società è in atto un grande dibattito sulla famiglia, la sua eventuale crisi, il fenomeno della denatalità, quello della sterilità e dell’infertilità di coppia e delle loro soluzioni. I temi sono ampi e profondi, ma non tutti gli interventi sono significativi o costruttivi. Nemmeno io ho la pretesa di affrontare una problematica così complessa e tanto meno di proporre delle spiegazioni.
Quello che ho cercato di fare è stato di collegare queste questioni all’istituzione dell’affido e dell’adozione proponendo poi di sciogliere quello che considero il nodo cruciale, la formazione alla genitorialità, con la metodologia della “Scuola Genitori” di Prevenire è Possibile.
Anche la famiglia, come tutti gli altri fatti relazionali, cambia perché non esiste una relazione statica, se deve essere viva. Ma la società o la legge è capace di cogliere le risposte migliori e di promuoverle? Non sempre. Il mio lavoro tenta di indicare una via per capire e progredire.
Nella prima parte ho cercato di individuare le istanze che stanno sorgendo nella società, a seguito dei cambiamenti in atto nelle strutture familiari, per aggiornare la definizione di famiglia che risulta molto importante per la cultura della tutela dei minori. Di seguito ho esaminato le esigenze e le situazioni relative alle coppie che affrontano il problema della filiazione e da lì sono passata ad approfondire il concetto di genitorialità.
Nella seconda parte ho cercato di cogliere le caratteristiche della famiglia che sceglie il percorso dell’adozione e dell’affidamento e nel contempo ho esaminato gli elementi comuni e distintivi di questi due istituti.
Esiste sempre uno scollamento tra le indicazioni della legge e la realtà che a sua volta, si presenta molto diversa tra le varie regioni ed in queste, tra i comuni o comprensori. Spesso le iniziative per dare risposte alle esigenze dei minori in difficoltà non sono nemmeno costanti nel tempo.
Le interviste con le responsabili del Centro Affidi di Lucca e dell’Istituto per minori “De Sortis” di Viareggio, mi hanno permesso di avere un quadro aggiornato dei problemi vissuti sul territorio a me più vicino.
Ho poi esaminato le motivazioni verso l’adozione, descrivendo il percorso delle coppie che presentano domanda e i punti critici di questo iter.
Nella terza parte ho presentato la proposta della “Scuola Genitori” di “Prevenire è Possibile” . Questa vuole essere l’indicazione di un metodo per aiutare e sostenere sopratutto le coppie che vivono l’adozione o l’affidamento, ma anche tutti i genitori che vogliono “crescere” come tali in modo consapevole. Credo infatti che occorra un lavoro di riflessione per prendere coscienza della genitorialità in modo semplice ma affatto semplicistico, chiaro ma affatto banale, profondo ma affatto ermetico.
Nelle Conclusioni, insieme alle considerazioni sugli scarsi effetti che la legge 149/2001 porterà nel mondo dell’infanzia istituzionalizzata ho ripreso il tema dei cambiamenti in atto nella società, riferendo il pensiero di due autorevoli esponenti della scienza e della Chiesa, per ribadire infine la funzione della “Scuola Genitori” e del counselor all’interno di essa.
In definitiva questo impegno mi ha portato a riflettere di nuovo sul mio essere genitore e mi ha dato la consapevolezza che mio marito ed io avremmo desiderato di poter usufruire della Scuola Genitori come sostegno sulla via dell’adozione intrapresa venti anni fa. Anche per questo motivo ho provato ad approfondire questo metodo, ritenendolo un valido contributo allo sviluppo di una compiuta genitorialità.
E’ da sottolineare però, che non è esclusivamente rivolta ai genitori affidatari o adottivi, come se questi fossero “tanto bravi, ma poverini!”, ma a tutti coloro che genitori lo vogliono diventare realmente. La sua flessibilità, infatti, permette di cominciare, andare avanti, fermarsi e poi ancora ripartire, insomma scegliere quello di cui si ha più bisogno pur in un continuum formativo.
Capitolo 1 - LA FAMIGLIA
La costituzione italiana afferma che “ la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (art.29).
Per il codice civile (Libro primo, art.79 e segg.) la famiglia è un’unione stabile fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna, generalmente ampliata in conseguenza della nascita dei figli che convivono con i genitori, tutti legati da vincoli affettivi e di sangue ed in cui la solidarietà si traduce in norme di comportamento poste dalla morale, dal costume dalla religione che i consociati osservano spontaneamente.
Queste due visioni riflettono la famiglia quale essa è nelle sue forme tradizionali, ma in questi ultimi anni essa è al centro di un importante fenomeno: la pluralizzazione delle forme familiari. Nel dibattito che ne è seguito – ed ancora in atto – il quesito principale è: esiste una famiglia o tante famiglie?
Ci si chiede se si può ancora parlare della famiglia come di un tipo di relazione specifica, con una qualità propria oppure se si stia trasformando in tante relazioni diverse in cui a prevalere è più l’aspetto privato che quello sociale. Ciascuno può definire famiglia la relazione che costruisce a suo piacimento?
“ Sembra che parlare di pluralizzazione della famiglia equivalga a legittimare l’idea secondo cui sarebbero da considerare famiglie tutte le forme di convivenza, con o senza matrimonio, fra sessi diversi o uguali, con due genitori o uno solo (e genitori naturali, oppure solo legali) fino a tutte le forme di living arrangements virtualmente possibili, sempreché gli individui coinvolti si sentano legati da relazioni particolarmente forti dal punto di vista affettivo, quale che siano il tempo di durata e le modalità dei legami” [1]
Personalmente ritengo che il confine ci sia e si possa operare una distinzione tra la relazione familiare e quello che tale non è.
“ La definizione corrente più accettata è quella di unità di persone interagenti con un ciclo di vita familiare suddiviso in diverse tappe (fidanzamento, matrimonio, allevamento dei figli, nido vuoto, vecchiaia). Ma la definizione post-moderna di famiglia diventa unità di condivisione tra persone solidali costruita su basi biologiche, naturali e parentali o su basi affiliative e comunitarie. In tale unità di condivisione esiste il matrimonio, la riproduzione e l’educazione dei figli ma anche la cura delle persone che a tale unità si affiliano e che costruiscono “stato di famiglia” comune pur se con diversa residenza anagrafica dei singoli.”[2]
Tutte le relazioni di cura, amicizia, affetto e anche intimità, sono da considerarsi relazioni primarie. La famiglia tradizionale è indubbiamente una relazione primaria e, come tale, partecipa di quelle caratteristiche relazionali, ma non sarebbe vero il contrario, perché la famiglia è un modello che si costituisce dalla combinazione anche di altri elementi: l’affinità, la generatività, la sessualità e solo dalla convivenza di tutti questi deriva la sua identità.
Invece che di affinità, alcuni parlano di reciprocità intesa come un rapporto tra persone che si scambiano “beni relazionali”. La proposta dell’Artigianato Educativo[3] invece è quella di usare affinità che “ non sono confinabili nel rapporto a due, consentono di individuare molteplici livelli e piani da affinità tra due o più persone, consentono di leggere la modulazione delle personalità e delle affinità anche lungo la dinamica del cambiamento soggettivo, dipendente o indipendente dalle modificazioni dell’altro, consentono una concezione del dono di sé…. possono essere contemporaneamente molteplici e dislocate nella relazione con soggetti contemporanei e diversi senza che si possa determinare in nessun caso una sorta di circuito chiuso ed autoreferenziale.”[4]
In base a questa prima analisi nella società attuale si riconoscono diversi modelli di aggregazioni familiari:
Ø famiglie estese: più nuclei familiari che convivono sotto lo stesso tetto, più tipica della cultura contadina del passato.E’ una forma che tende a diminuire in modo drastico;
Ø famiglie allargate: con la presenza di più di due generazioni all’interno dello stesso nucleo (es. figli, genitori, nonni). Anche queste hanno la tendenza a diminuire, ma si ripresentano sotto un’altra forma che si può definire “famiglia estesa modificata”. In particolare dalla nascita dei figli, la famiglia giovane sceglie di risiedere vicino alla famiglia dei nonni, ma non sotto lo stesso tetto. Questo permette uno scambio di aiuti sia verso i bambini da parte dei nonni, sia, nel futuro, dei figli verso i vecchi magari non più autosufficienti, ma mantiene anche una certa autonomia dei due nuclei;
Ø famiglia nucleare normocostituita: la coppia con i propri figli. E’ la più diffusa, ma con la tendenza al calo per il fenomeno della diminuzione della natalità e dei matrimoni;
Ø famiglie di genitori soli: madre/padre soli con figli. La maggior parte di questi nuclei sono l’effetto di separazioni e divorzi, alcuni di vedovanze, pochi di libere scelte di vita, specialmente in Italia;
Ø convivenze (more uxorio): unioni di un uomo e di una donna senza matrimonio che sono in aumento. Tali unioni hanno natura diversa, ma la caratteristica fondamentale è la loro costante rinegoziabilità. Ne è un esempio chiaro la “convivenza di prova” in cui un uomo e una donna si legano per un periodo allo scopo di verificare la loro effettiva consistenza come coppia, prima di affrontare un legame formale come il matrimonio. In questo tipo possono anche essere inserite le convivenze omosessuali di cui peraltro è abbastanza difficile valutare il numero a livello demografico, ma che sono in un certo aumento;
Ø famiglie ricostituite: nate da un nuovo matrimonio di persone precedentemente divorziate. Anche queste sono in aumento;
Ø 0000famiglie multietniche: nate dal matrimonio di persone appartenenti a etnie diverse;
Ø single: nascono da condizioni naturali di vedovanza, ma sono anche scelte di nubili/celibi. Può suonare contraddittorio considerare aggregazione familiare un single, ma sia la tipologia dei vedovi sia quella dei separati/divorziati hanno spesso rapporti con i figli o con le famiglie di origine quindi fanno parte di una reale rete familiare.
La società e lo Stato hanno la necessità di definire la famiglia per fornire servizi e assistenza in modo adeguato. Facciamo un esempio: per decidere chi può ereditare o avere diritto all’assegnazione di una casa, quali parametri si usano?
Le risposte possibili sono varie.
Si può affermare che lo Stato non deve distinguere la famiglia o altri tipi di relazione, ma deve considerare i diritti come neutri, appartenenti a tutti gli individui (e solo agli individui) che godono di un eguale complesso di diritti-doveri. In questo caso la solidarietà familiare verrebbe ad essere penalizzata perché priva di qualsiasi riconoscimento come “famiglia” sia a livello economico, fiscale e di qualsiasi aiuto nel sistema dei benefici sociali (cittadinanza neutra [5]).
Si può affermare che lo Stato deve distinguere la specificità delle relazioni e promuovere quelle che si assumono obblighi pubblici e svolgono una funzione sociale, cioè la generazione di un bene comune che richiede la tutela della collettività.(cittadinanza societaria [6] ). La vita familiare assolve il compito della continuità generazionale attraverso i figli, per cui acquista un evidente ruolo pubblico. Inoltre attraverso l’esperienza della confidenza e della fiducia familiare apre ai valori della partecipazione e della responsabilità, educa al senso etico e sollecita i suoi componenti al valore della solidarietà. In definitiva la vita familiare può costruire il senso della comunità per l’inter-scambio che esiste tra la famiglia, che prepara le nuove generazioni ad inserirsi positivamente nel mondo, e la società, che ha bisogno del contributo dei giovani per rinnovarsi.
C’è anche chi propone di considerare il bambino come figura centrale della famiglia e di pensare la struttura familiare partendo da quello. Questa linea è assai semplice da seguire, valorizza i diritti del bambino come individuo ed ha una forte componente simbolica, ma esclude le coppie sposate senza figli sottovalutando le relazioni familiari ed esalta il bambino come un bene di utilità collettiva.
Non esiste ancora una soddisfacente e definitiva risposta alla domanda che cosa è famiglia e che cosa non è famiglia.
Un tentativo di soluzione è stato il Pacs (Patto civile di solidarietà) già introdotto in Francia dal 1999. Esso tutela tutte le unioni di fatto attraverso una forma di riconoscimento legale. La legge infatti sancisce una convivenza tra persone adulte e consenzienti a patto che non danneggi un’altra persona.
Questa legge determina una sfera di relazioni giuridicamente protette e la famiglia, secondo il legislatore francese, non ne sarebbe toccata poiché il Pacs non modifica lo stato civile dei partner. Non è un matrimonio, ma un contratto a tempo indeterminato.
Per contrasto, questa legge sembrerebbe confermare la visione più tradizionale per cui “la famiglia” è solo quella legata da un patto pubblico e con figli. Restano aperti comunque alcuni problemi a livello sociologico in quanto il Pacs annulla il principio della differenziazione sessuale mentre crea delle perplessità relativamente alla tutela dei figli che sembra essere sempre più addossata alla società.
Il dibattito è molto ampio, ma non avrà a breve una soluzione perché dovrebbe coniugare il riconoscimento dei diritti sociali degli individui che vivono come partner di unioni libere (es. il mantenimento dei figli anche nel caso di separazione) e il riconoscimento della peculiarità dell’unione sancita da un patto pubblico che implica un patto di reciprocità completa.
Per tutte queste considerazioni si può arrivare ad una definizione della “famiglia di fatto” come allargamento della definizione di famiglia normocostitutita nel senso “di unione o convivenza libera fra un uomo e una donna, ed eventuali figli o altri membri aggregati, che fanno coppia, la quale è pensata, anche se provvisoriamente, come stabile, se e in quanto presenta analogie concrete con la famiglia legale”[7].
In questo senso risultano tre tipi:
Ø famiglia di fatto con matrimonio non perfezionato: si tratta di coppie in cui non è possibile legittimare la situazione perché già sposati e non ancora divorziati, oppure di anziani che non vogliono perdere, con un secondo matrimonio, la pensione di reversibilità ecc.. Normalmente la coppia nel tempo tenderebbe a sposarsi se ci fosse una legislazione che rimuovesse gli ostacoli;
Ø famiglie di fatto in prova: si tratta di coppie che vogliono “provare” la loro unione prima di renderla definitiva. Qui si tratta di attuare delle politiche familiari che aiutino (a livello economico, lavorativo, della casa ecc.) a rimuovere gli ostacoli che possono presentarsi al momento della decisione;
Ø famiglie di fatto come scelta: una convivenza libera per volontà dei due membri della coppia e che non hanno intenzione di cambiare la loro posizione. Ci si può chiedere se questi tipi di coppie vogliano veramente rispondere ad una “registrazione”, es. il Pacs, o non preferiscano mantenere un patto privato.
Una considerazione a parte merita la coppia omosessuale che non può essere considerata, in termini sociologici, famiglia perché tale unione non lega la differenza dei sessi alla differenza delle generazioni che è il cuore simbolico del matrimonio. La possibilità di sancire queste unioni di fronte alla società può creare molte tensioni (basti ricordare il duro scontro fra Chiesa e Stato in Spagna) ma viene ammessa in un numero di paesi europei sempre maggiore. Tuttavia tra il riconoscimento legale di queste unioni e la possibilità di avere figli attraverso l’adozione c’è una certa distanza perché “credo che in questo caso possa venire a mancare un modello corretto di identificazione. Ognuno di noi nasce con una parte maschile e una femminile. E l’equilibrio di questi due elementi si forma anche grazie al modello dei genitori……Un conto è discutere di diritti di uomini e di donne, qualsiasi sia il loro orientamento sessuale, altro è interrogarsi se l’adozione di un bambino rientri fra questi diritti.[8]”
Alla conclusione di questa analisi, che indubbiamente richiederebbe un più esteso approfondimento, ritengo che soprattutto nella società italiana ancora legata al modello tradizionale, più di altri Stati europei, si possa parlare di famiglia quando si considerano relazioni stabili e riconosciute di coppia eterosessuale e delle relazioni generazionali che ne derivano. La reciprocità di coppia e la generatività sono i due elementi caratterizzanti il “familiare”[9]. Certe tutele proprie della famiglia possono essere estese anche alle famiglie di fatto a patto che abbiano carattere di stabilità e che si possano riscontrare caratteristiche analoghe a quelle della famiglia.
Unicamente in questo spazio relazionale è valido, a mio avviso, parlare dell’affido e dell’adozione.
In Italia il fenomeno più evidente in relazione alla famiglia, è il decremento della natalità. Il sintomo abbastanza critico può provenire da molteplici fattori:
Ø il ritardo con cui i giovani lasciano le famiglie di origine (famiglia lunga) e giungono a loro volta, alla decisione di avere figli;
Ø la crescita della instabilità coniugale e delle convivenze libere;
Ø la difficoltà di conciliare i ruoli all’interno della coppia e della famiglia in una cultura che aderisce al modello dell’uguaglianza, ma che nella realtà spesso, la nega, con una divisione squilibrata degli impegni familiari a carico della donna, soprattutto se lavora;
Ø le difficoltà economiche legate a lavori precari, a tempo determinato, al costo della vita, ecc.;
Ø la difficoltà di avere una casa “adeguata”;
Ø la difficoltà di conciliare il lavoro di ambedue i genitori con la presenza di più figli;
Ø l’assenza di una “genitorialità diffusa” che nel passato, anche recente, esisteva nelle comunità di cortile o nelle famiglie estese;
Ø il desiderio di mantenere uno stile di vita soddisfacente;
Ø la sterilità di coppia apparentemente in aumento.
In Europa siamo il paese con un minore numero di figli fra 0-14 anni[10]
E la tendenza sembra destinata a continuare. [11]
E’ pur vero che le politiche di sostegno alla famiglia sono state e continuano ad essere deficitarie. Non è previsto che genitori e famiglie formino una collettività con istanze specifiche: avere una famiglia è considerato nella realtà un fatto privato. I genitori si sentono spesso soli e non riconosciuti nella loro funzione.
La società a sua volta, si muove all’insegna del “tutto e subito”, dell’utile immediato e dell’egoismo. Non c’è interesse da parte delle istituzioni a creare possibilità di aiuto ai genitori con il confronto, il sostegno, l’occasione di incontrarsi. La scuola stessa, che pure ha in carico i figli, mantiene con i genitori rapporti formali e solo in pochi casi cerca di favorire la formazione genitoriale come una risorsa per il miglioramento della società e di se stessa.
Nei media è presente, soprattutto nei programmi televisivi e nella pubblicità, una visione stereotipata dello spaccato familiare. E’ la classica famiglia nucleare che si radica nella tradizione, in cui i ruoli sono nettamente divisi, in cui la struttura comunicativa è rigida, in cui le relazioni sembrano snodarsi sempre secondo un percorso predeterminato: la crisi della coppia o la rivendicazioni di autonomia dei figli, la verbalizzazione della situazione di crisi, il confronto aperto e infine la ricostruzione del dialogo all’interno del nucleo e pertanto la ricomposizione della famiglia con grandi slanci affettivi.
Anche in quei serial dove la professione femminile (generalmente di alta specializzazione e grande impegno) è il tema principale, alla fine la donna si ricompone nella sua interezza femminile solo nella famiglia, quasi che un lavoro impegnativo sia una colpa. Laddove invece la famiglia appare in crisi, il desiderio di spettacolarizzazione prevale su quello di approfondimento, le persone diventano “personaggi” a volte grotteschi, per cui si ottiene l’effetto di bloccare il dialogo, e di passare, attraverso l’opposizione normale-diverso, a riferirsi ad un modello familiare ideale attraverso il quale definire la crisi. Il risultato di queste rappresentazioni superficiali e “patinate” non è la riflessione sulla relazione familiare ma spesso sensazione di incapacità, di inadeguatezza della propria realtà quotidiana, di inferiorità rispetto al modello proposto dai media che tende, perché conosciuto e condiviso, a sostituire quelli possibili nella realtà.
Se la società sta cambiando in tutti i suoi aspetti, la famiglia sta gradualmente perdendo i suoi principali caratteri strutturali: la divisione dei ruoli (uomo-donna, coppia-genitori, genitori-figli) non esiste più e l’assegnazione dei “compiti” passa attraverso una costante rinegoziazione; l’unicità come agenzia di socializzazione e di formazione per i giovani è stata perduta mentre acquistano crescente importanza la formazione scolastica che sottrae per molte ore e molti anni i figli al contesto familiare, le attività sportive extra-scolastiche e la frequentazione (specialmente nelle aree urbane) degli amici[12]. Ma la famiglia non è più neppure la sola responsabile del soddisfacimento di cura dei suoi membri delegato, almeno in parte, ad agenti esterni (asili nido, scuole dell’infanzia ecc.).
Il complesso di questi elementi si ripercuote sulla famiglia in una realtà densa di pressappochismi e banalizzazioni che generano insicurezza e, cosa ancor più grave, sfiducia. Estremizzando un po’(ma non credo troppo), potrei dire che la famiglia rischia di apparire qualcosa per cui non valga la pena di lottare, soffrire, sacrificarsi, spendere il proprio tempo ed energie come per il successo lavorativo, sociale o economico.
Da qui la tendenza a rischiare di meno (convivenze di prova, matrimoni e filiazione tardivi), ma anche a limitare la propria “fecondità” per difficoltà sociale ed economiche a gestire una prole numerosa, ma anche per lasciare maggiori spazi alle istanze sociali o lavorative.
Ma quali sono allora le caratteristiche dei nuovi genitori? Si tratta per lo più di giovani che provengono dalla cosiddetta “famiglia lunga”, che sono approdati perciò al matrimonio dopo una lunga convivenza con la famiglia di origine, anche se erano nelle condizioni culturali e lavorative di avere una vita propria. Il rapporto tra le generazioni assume così un carattere ambivalente e ha sicuramente conseguenze evidenti nel modo di sentirsi generati dei figli e sulla loro capacità di generare. Questi genitori tardivi valorizzano spesso la relazione con le famiglie d’origine, soprattutto quella della donna, facendone l’asse portante della riorganizzazione familiare al momento della nascita del figlio[13].
Il figlio nasce sempre più spesso dopo una lunga attesa e come frutto di programmazione.
“ Se volessimo sintetizzare i caratteri della relazione filiale odierna … potremmo usare quattro aggettivi: ridotta, differita, contratta, prolungata. Ridotta perché il genitore è tale per un numero sempre inferiore di figli, differita perché la nascita del primo figlio avviene sempre più tardi, contratta perché si smette molto prima di fare figli, prolungata perché si resta genitori “ a tempo pieno” (coi figli in casa) fino ad un’età sempre più avanzata”[14]
Il pericolo della lunga famiglia estesa può essere quello per cui la strategia della solidarietà appare sbilanciata verso la soggezione ostacolando la piena emancipazione dei giovani genitori.
La famiglia necessita di un reale riconoscimento che promuova una concreta politica sociale che tenga conto anche del ciclo vitale di ogni nucleo.
Intendo l’attuazione di programmi che aiutino i giovani a formare la loro famiglia e che la sostengano nelle prime fasi di sviluppo, che valorizzino l’associazionismo su problemi relativi ai vari cicli di vita delle famiglie (la presenza di piccoli, di anziani, di persone diversamente abili, l’infertilità ecc.) in un modo che la legislazione dovrebbe definire per il vantaggio di tutti.
Riconoscere i diritti della famiglia non significa negare l’esistenza e i diritti di forme plurime di unioni, ma ribadire che fare famiglia oggi significa voler comunicare con maggiore sincerità, lealtà, fiducia e fedeltà del passato, e che essa deve coniugare i numerosi scambi con enti esterni (la scuola, ambiti di divertimento e sport, servizi sanitari ecc.) con la riscoperta della propria identità, come relazione stabile avente funzione sociale.
Famiglie nuove sono quelle che vivono profondamente i legami interni ed esterni, sia quelli di trasmissione del patrimonio culturale e materiale ai figli, sia l’impegno in ambito sociale così da divenire soggetto che partecipa della vita della scuola, che cerca nuove forme di vivere il tempo del lavoro e della famiglia, che collabora a forme di auto-aiuto familiare e che si apre alle esigenze dell’infanzia anche attraverso le forme dell’affidamento e dell’adozione.
1.3 LA FAMIGLIA MANCATA
Allorché una coppia ha preso la decisione di avere un figlio, di fronte ad essa appaiono due vie: nella prima direzione si va verso il soddisfacimento del proprio bisogno entro un arco di tempo adeguato, nella seconda direzione si va verso una crisi ampia e profonda: la consapevolezza di non poter avere figli, di essere sterili. La crisi non nasce dalla mancanza di percorsi di cura o alternativi, ma dalla coscienza che da quel momento in poi, quasi niente apparirà semplice e spontaneo, ma tutto dovrà essere pensato e deciso con cognizione di causa perché gli effetti di ogni passo non saranno mai lievi né a livello personale, né di coppia e nemmeno a livello sociale.
La prima domanda che la coppia si dovrà porre è quella relativa al concetto di maternità e di paternità: coincide con la procreazione fisiologica o ha un orizzonte più ampio? Se il desiderio primo è quello di non sentirsi “mancati” perché sterili, la via da seguire è quella della procreazione medicalmente assistita.
Il problema dell’infertilità e della sterilità negli ultimi decenni, è stato trattato e discusso con crescente interesse e sono stati ottenuti molti successi per la sua cura.[15]
La P.M.A. (procreazione medicalmente assistita) è ormai divenuta una prassi regolamentata da una legge dello stato [16], pubblicizzata da numerosi enti ai quali rivolgersi per risolvere i propri problemi di sterilità. Parecchi sono anche i viaggi all’estero di quelle coppie che, ritenendo la legge italiana troppo restrittiva, cercano di soddisfare il loro desiderio di filiazione altrove. La legge a sua volta è stata ampiamente discussa e contestata e ancora non tutti la ritengono adeguata a risolvere problemi e bisogni.[17]
Una buona parte di questo coppie pensa che la sterilità sia una malattia e che debba essere curata in ogni modo possibile. Se si è malati, ovviamente, si ha diritto alle cure adeguate, ma considerare le coppie sterili come “malate”, a mio avviso, sottolinea una diversità, un’anomalia, un essere altro che non è reale. La coppia senza figli, non per sua scelta, non è diversa se non si sente diversa, non è malata se non fa del figlio l’elemento portante della relazione familiare che solo su di lui si basa e si monopolizza.
E’ assolutamente giusto che la sterilità debba essere affrontata a livello medico-scientifico per trovare e provare ogni possibile soluzione, ma che anche qui si giunga a forme di accanimento terapeutico mi sembra del tutto aberrante.
“ Io ho cercato un figlio naturale con la fecondazione assistita. Non sono riuscita ad averlo, ma rifarei tutto quello che ho fatto. E’ difficile rinunciare al figlio naturale. E’ difficile rinunciare alla gravidanza. E’ difficile guardare la propria realtà. Eppure se c’è una strada, anche difficile, per avere un figlio naturale, noi la vogliamo percorrere. Le coppie che affrontano la fecondazione assistita sono sole con i loro desideri di genitorialità e l’impossibilità di soddisfarla naturalmente. Riescono a condividere pienamente e profondamente il loro dolore solo con chi, come loro cerca i figli che non vogliono arrivare”[18]
. “ Sono d'accordo con te che di sterilità non si muore e chiedo scusa se ho usato un esempio stupido come quello dei malati di cancro (ma in quel momento avevo tanta rabbia!), ma anche se non si muore il dolore è forte,ti fa piangere e soffrire. Non tutti riescono ad accettare questa condizione, non tutti riescono ad accettare il fatto che non potranno MAI avere un figlio proprio, non potranno MAI vedere la loro pancia crescere e il loro piccolo scalciare, non potranno MAI partorire (che è l'esperienza più bella, a parere mio, che una donna possa vivere), non potranno MAI allattare. Non tutti sono pronti all'adozione ma non per questo sono mostri da rinchiudere e da lasciare nella sofferenza.”[19]
“Esito del test negativo: beta zero. Nessuna speranza.
Ci speravo parecchio, nonostante il test del supermercato già mi avesse
avvertito ieri.
Fa male: il sangue del ciclo non ancora arrivato non farà che ribadire il
sangue della ferita sempre aperta nel cuore, nel ventre di mamma che mamma
non è. Mi faceva paura pensare ai miei figli dentro una provetta, ma il
vuoto di adesso fa più paura e lacera.
Il silenzio di M. al telefono vale più di tutte le parole che leggo dal suo
cuore... il suo senso di colpa, per il seme malato, lo ingoia ogni giorno.
Adesso ho bisogno di piangere e stare male; poi, quando non avrò più
lacrime, riprenderemo a cercare un bimbo che so verrà. Ho anni di fertilità
davanti a me e un uomo per cui il patrimonio genetico non è più importante
dei calcetti che suo figlio gli darà dal pancione. Ma il tempo logora la
vitalità anche di un carattere forte e determinato.
Bruxelles è la nostra scelta, in primavera. Intanto farò in modo di essere
più accogliente possibile: vorrò bene al mio corpo imperfetto e cercherò di
vivere il mio non essere madre al meglio. Ma l'immagine della culla vuota è
scolpita nella mia mente come una cicatrice sul viso.”[20]
Un figlio, in realtà, non dovrebbe essere un bisogno dell’adulto, perché se è un bisogno rivela una situazione di “mancanza”, di povertà originaria, di privazione che si ritiene intollerabile e che si deve comunque soddisfare, di un vuoto che attende un pieno. L’adulto parla di sé e non del figlio da cui si aspetta delle soddisfazioni e che è considerato utile per il conseguimento di uno stato di benessere soggettivo.
Un aspetto che colpisce è che la disillusione rappresentata dalla difficoltà a procreare diviene vero e proprio tormento quando anche i tentativi di superare gli ostacoli divengono inefficaci. Quando si giunge alla definitiva interruzione dei ripetuti trattamenti di P.M.A che non hanno dato come risultato la nascita di un bambino “vivo”, per alcune persone gli aborti, gli embrioni che non hanno attecchito e quelli magari congelati rimasti in sospeso, rappresentano un vero lutto che deve essere psichicamente elaborato.[21]
L’elaborazione di questo vissuto è fondamentale per qualsiasi valutazione la coppia intenda fare per il suo futuro. Qualsiasi sia la scelta (vivere senza figli, indirizzarsi versi l’affido e/o l’adozione) prima di tutto la coppia dovrà ripensarsi come un tutto e non una parte. Pensarsi, prima ancora di sentirsi, liberi nel senso di poter accogliere la propria storia senza subirla, meditarla per poi magari migliorarla; autonomi perché consapevoli delle relazioni a cui già partecipano o a cui possono dare origine; responsabili come persone impegnate a dare senso a quei “talenti” di cui sono portatori, non ultimo la propria unica vita.
Il contadino, del resto, non pota la vite per il gusto di tagliare i rami che da essa provengono o per punirla, ma perché porti più frutto[22]
Quale frutto? Ogni persona deve in qualche modo cercare la sua risposta.
1.4 ESSERE GENITORI O AVERE UN FIGLIO?
Ritengo necessario chiarire, fin dall’inizio di questo capitolo, il valore semantico che intendo dare alle parole “fertilità” e “ fecondità”. Non le considero sinonimi, ma due facce di una stessa realtà: la genitorialità.
La procreazione è indubbiamente l’aspetto più normale quando si considera una coppia che abbia scelto di vivere una relazione stabile e proiettata nel futuro, ma non esaurisce il senso completo della fecondità.
Esistono coppie che, pur avendo generato dei figli, vivono in una condizione di ripiegamento su di sé, di mancanza di dialogo e di scambio affettivo gestendo i figli con poca gioia e speranza. La famiglia vive una forte privatizzazione, agisce gli scambi e gli aiuti fra le generazioni (nonni, figli, parenti) in forma utilitaristica, vive le relazioni allargate (amici, vicini ecc.) non come un arricchimento relazionale, ma come una celebrazione del “io faccio, io dico, io penso….”, ascolta e vede i problemi degli altri come un reality televisivo che li coinvolge per una minima frazione di tempo.
In questi casi, a mio avviso, si tratta più di fertilità che di fecondità.
La fertilità di una coppia si prova con la procreazione. La fecondità si esprime sì con la procreazione, ma anche con l’amore, il rapporto della coppia con la società, l’accoglienza, l’attenzione alle persone come tali, la solidarietà e le corresponsabilità con gli altri.
La filiazione, cioè la generazione fisiologica, riguarda certamente la maggior parte delle coppie, ma se si esce dal vecchio ritornello del “legame di sangue”, ci si può finalmente liberare da un mito che è servito soltanto a giustificare i desideri possessivi degli adulti, non certo a tutelare il diritto dei bambini ad avere una famiglia idonea e stabile. Ancor oggi, attraverso il bombardamento mediatico sui cento e un modo di fare figli attraverso la fecondazione artificiale, si lascia intendere, tra le righe, che la genitorialità è in primis biologica.
Una coppia che non ha potuto realizzare il desiderio di avere figli è feconda allorché concretizza un amore disponibile a sentire e vivere la vita in tutte le sue possibili manifestazioni.
Il desiderio di curare la propria sterilità appare più che legittimo, ma la ricerca del figlio biologico a costi personali veramente molto alti, fa intravedere la necessità che questo figlio deciso, voluto e cercato, nasca per soddisfare il proprio bisogno di filiazione, il bisogno di “avere un figlio” inteso in una logica di possesso, come un’estensione personale, un bisogno di riconoscimento sociale, una conferma della propria capacità di diventare genitori per non sentirsi “difettosi”.
Essere genitori ha la valenza della disponibilità della coppia verso le esigenze dei figli perché al di là dei diritti degli adulti, esiste un diritto ancora più significativo, che è quello del bambino: il diritto ad una famiglia, alla crescita, al benessere fisico, morale e psichico e alle opportune condizioni di vita.
Ogni figlio è una persona. E’ un essere e non un avere, è un dovere e non un diritto, è un mistero così come tutta la vita di ciascuno di noi che affonda nel mistero.
Ogni figlio ha necessità di genitori soddisfatti di sé e maturi, pieni e non vuoti, equilibrati perché la personalità di ciascuno è un processo-prodotto di identificazioni continue nella relazione con i genitori soprattutto nei primi anni di vita.
Quello a cui dobbiamo aspirare, quindi, è la formazione di padri e madri che sappiano educare con le parole, ma anche con i silenzi, e che sappiano formare figli autonomi e responsabili.
“La donna materna è il femminile maturato e divenuto adulto. La sua connotazione è quella di essere madre non necessariamente in senso biologico riproduttivo, ma essenzialmente in senso costitutivo ed esistenziale…..Nella maternità l’essere umano trova il compimento di sé nell’altro poiché da dignità alla persona facendola sentire amata. L’uomo scopre la sua paternità solo se riesce a conciliarsi con la sua Eva intima, evocando in sé quelle stesse caratteristiche che nell’infanzia e nell’adolescenza venivano etichettate come quelle di <donnicciola>“[23]
Ma è anche importante avere degli adulti che sappiano essere padri e madri anche di bambini “senza famiglia” nella prospettiva di una fecondità allargata, senza per questo negare il profondo e irrinunciabile valore della genitorialità biologica. Questa fecondità allargata è quella che permette ai bambini soli di essere figli e realizza l’incontro tra essere genitori e essere figli in un’etica di relazione affettiva e non di possesso.
Se molti affermano che dalla qualità della vita familiare dipende la vita della società, tutto ciò che ci serve davvero oggi è la concreta promozione di politiche di sostegno. Tutti i “tipi” di genitori hanno bisogno di aiuto in qualche fase della loro vita impegnativa: economico, socio-educativo rivolto ai bambini perché siano accuditi e educati anche quando i genitori non ci possono essere, sociale per l’integrazione delle famiglie in difficoltà di ogni genere, ma anche un offerta di luoghi, tempi e strumenti per l’approfondimento della funzione genitoriale.
Negli incontri proposti dalle scuole o da associazioni di vario tipo, i genitori partecipano proprio per la necessità di rompere l’isolamento in cui si trovano, per approfondire la motivazione della loro scelta, per confrontarsi e condividere problemi e soluzioni, per agire meglio il loro rapporto famiglia-società.
La persona è il fondamento di ogni società per cui la famiglia, qualsiasi valenza culturale si dia a questa comunità, dovrebbe essere il soggetto cardine degli interessi di uno Stato per preparare al meglio il suo futuro.
Capitolo 2 - GENITORI SI DIVENTA
2.1 LA FAMIGLIA APERTA
“ –Nato da- non è sinonimo di –figlio di- “[24]
L’affermazione forse un po’ cruda, non vuole tanto negare la speciale e intensa realtà del rapporto biologico, ma vuole ribadire che il rapporto procreativo non si esaurisce in quello fisiologico. Dal solo legame di sangue non può dipendere il futuro di un bambino né tanto meno un assoluto ed inattaccabile diritto del genitore di origine sulla prole.
Le capacità di amare e di educare sono quelle di cui il bambino ha un bisogno per svilupparsi nella sua integrità. E nella specie umana il rapporto che unisce il nuovo nato ai genitori si protrae per molti anni prima che egli divenga autonomo e possa liberamente organizzare la sua vita.
La famiglia aperta è qualificata da genitori che concepiscono e agiscono la maternità e la paternità come la generazione spirituale di un nuovo essere umano attraverso il dono di una costante assistenza materiale, una continua opera educativa ed una relazione affettiva duratura e profonda.
“Quando si parla di maternità si è detto non debba trattarsi solo della capacità di generare figli, ma di uno speciale dono di sé che è fecondativo dello spirito di un altro vivente”[25]
Ma quale famiglia aperta?
La legge 28 marzo 2001 n. 149 con l’Art. 6 recita così:
1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto.
2. I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare.
3. L’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando.
4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto.
Al di là del conteggio degli anni della “convivenza prematrimoniale”, la legge non prevede alcuna deroga al concetto di famiglia come “famiglia normocostituita”, eludendo le istanze delle coppie di fatto e dei single i quali invece possono avere un minore in affidamento. La discussione in atto sulla definizione di famiglia (vedi 1.1 Quale famiglia oggi) potrà portare dei cambiamenti nel rapporto famiglia-adozione, ma questo è un aspetto ancora da definire soprattutto a livello etico, culturale e politico prima che legislativo facendo attenzione essenzialmente all’interesse del bambino.
Nel caso della coppia senza figli che si avvii sul cammino dell’adozione, c’è un passaggio assolutamente rilevante che deve essere percorso per essere prima genitori e poi nell'evenienza genitori adottivi. E’ necessario che compia quel percorso che gli psicologi chiamano “elaborazione del lutto”, cioè elaborare il senso di perdita per il figlio desiderato e mai nato. La sofferenza vissuta non deve essere negata né rimossa, ma ha bisogno di essere narrata, perché nella narrazione si possano riscoprire e superare le sensazioni e le emozioni del lutto. Ad ogni dolore della psiche corrisponde un lavoro dell’Io e ogni lavoro rifiutato dall’Io si trasferirà pesantemente sulle spalle di qualcun altro.
Il passaggio verso “l’altro bambino” diverso da sé è più difficile per quello coppie che lo attuano dopo aver interrotto la PMA, magari agita a lungo.Sembra che si rinforzi la sensazione di essere “difettosi, mancanti” e che la delusione spesso sofferta e risofferta, possa generare un senso di inadeguatezza senza speranza tale da provocare un dolore distruttivo.
Se poi il lutto comprende anche quegli embrioni congelati di cui si deve decidere la destinazione o pagare la conservazione, può lasciare una ferita che provoca dolore ad ogni riferimento esterno, con ripercussioni negative nel rapporto con il figlio adottivo.
Se la frustrazione e il lutto per il figlio non nato non sono elaborati, questi occupano la mente e il cuore della coppia, riducendo lo spazio vitale per l’accoglimento dell’altro bambino al quale inconsciamente viene affidato il compito di cancellare i sentimenti dolorosi collegati alla sterilità.
Se la decisione di rivolgersi all’adozione avviene contemporaneamente ai trattamenti di PMA, si può creare una commistione tra le potenzialità creative, le angosce di fallimento della terapia e le fantasie su un bambino nato da altri.
E’ anche vero che, in alcuni casi, l’adozione rappresenta un fattore di “sblocco psicologico” per cui a poca distanza di tempo dall’arrivo del figlio adottivo, inizia una gravidanza. La situazione può essere positiva se si supera l’ambivalenza tra la cura del figlio adottivo che ha “permesso” la gravidanza e la protezione del figlio ancora non nato. E’ un lavoro mentale molto impegnativo.
“ Nella maternità adottiva, il rapporto madre-figlio è caratterizzato dall’assenza, fino all’incontro con il bambino reale, di un rapporto corporeo, somatico; a ciò corrisponde invece un intenso coinvolgimento mentale, emozionale. Mentre durante la gravidanza, la madre percepisce i movimenti fetali e il suo corpo si trasforma per dare spazio alla crescita nell’utero del bambino, nella <gravidanza adottiva>, lo spazio da creare per accogliere il figlio è uno spazio interno, psichico, mentale.”[26]
La coppia che decida di intraprendere la strada dell’adozione dovrà essere “aperta” nel senso della disponibilità a lasciarsi plasmare, ad essere duttile fin dal primo momento in cui si comincia a pensarci. Non sarà mai più la stessa e la fase di crisi si risolverà solo nel momento in cui il sistema (la famiglia all’interno della sua rete di rapporti vicini ed allargati) avrà raggiunto un nuovo assetto.
Non bisogna pensare però che la disponibilità a fare spazio sia solo un lavoro mentale, quasi che si risolvesse tutto in un’elaborazione e soluzione di problemi legati a fattori di ordine razionale (la domanda o le domande, nazionale/internazionale) economico o organizzativo (la casa da predisporre, il lavoro ecc.). Lo spazio da fare è nelle emozioni perché l’adozione è un patto reciproco tra persone che si sono desiderate e “sognate”, ci si adotta a vicenda, si ama e si è amati, ma non tutto è facile, né ovvio, perché a differenza del figlio generato fisiologicamente, questo all’inizio è “altro” dalla madre e dal padre. Per la sua storia innanzi tutto, ma talvolta anche per la razza, la cultura e l’età. I bambini adottivi “nascono” a tutte le età.
Allora l’apertura e la plasmabilità sono necessarie per modificare i rapporti familiari in funzione dei bisogni reali del bambino e quindi per modificare anche le aspettative e le prospettive elaborate durante l’attesa adattandole alla storia reale della coppia e alla storia reale del bambino prima dell’adozione.
La coppia avverte cambiamenti profondi nella sua relazione. Bisogna fare spazio a quel bambino tra i due coniugi, ridefinire i ruoli, ma anche passare tanto tempo a pensare, discutere, concordare atteggiamenti, comportamenti, idee sia per quanto riguarda la vita dentro la famiglia sia per quella al di fuori. Non tutto è spontaneo e immediato, molto deve essere conquistato giorno per giorno, che significa che spesso bisogna rimettere in discussione quanto deciso il giorno prima o rivedere da capo alcune scelte o iniziative. La coppia subirà per parecchio tempo una forte pressione interna non sempre positiva. Si può rischiare anche la crisi se non si è abbastanza elastici e capaci di credere che quel bambino è il vero e autentico futuro per tutti.
“Quando si consegna un bambino a due genitori, non si offre loro un simpatico diversivo, si altera tutta la loro vita, se va bene passeranno i prossimi venticinque anni cercando di risolvere il problema che abbiamo loro posto”[27]
La legge 28 marzo 2001 n. 149 stabilisce che con l’adozione il bambino italiano o straniero acquisti lo stato di figlio legittimo degli adottandi, dei quali assume e trasmette il cognome. Cessano i rapporti verso la famiglia di origine, salvo i divieti matrimoniali. Il minore straniero assume la cittadinanza italiana.
Sono considerati adottabili i minori da 0 a 18 anni privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a cause di forza maggiore di carattere transitorio.
Possono dichiarare la loro disponibilità all’adozione i coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni con o senza figli e i coniugi che abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per almeno tre anni.
L’età degli adottanti deve superare di almeno 18 e non più di 45 anni l’età dell’adottato. Ma la legge prevede delle deroghe : senza limiti nel caso che, a discrezione dei Tribunali per i minori, dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile, ma anche nei casi che il limite massimo sia superato da uno solo degli adottandi in misura non superiore a 10 anni, oppure nel caso che siano già genitori di figli “naturali” o adottivi (forse quelli adottivi sono artificiali, non bastava figli? – n.d.r.) dei quali almeno uno sia in età minore, oppure quando l’adozione riguarda un fratello o sorella del minore già adottato.
La domanda di adozione decade dopo tre anni.
Il tribunale per i minorenni dispone l’esecuzione di accurate indagini da parte dei servizi socio-assistenziali degli enti locali e delle aziende sanitarie e ospedaliere.
Per l’adozione nazionale il tribunale sceglie fra le coppie disponibili, quella in possesso delle caratteristiche atte a meglio rispondere alle esigenze dei minori adottabili
Per l’adozione internazionale il tribunale, se ritiene idonei gli aspiranti genitori adottivi, emette un decreto di idoneità. Entro un anno la coppia deve conferire ad uno degli enti autorizzati per l’adozione internazionale, l’incarico di curare la propria procedura di adozione.
Con l’entrata in vigore della legge di ratifica della Convenzione de L’Aja sull’adozione internazionale (legge n. 476 / 1998) è obbligatorio avvalersi degli enti autorizzati che operano in stretto rapporto con la Commissione per le adozioni internazionali anche per i minori provenienti da paesi che non hanno aderito alla Convenzione.
L’adottato raggiunta l’età di 25 anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Il tribunale assunte tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico e deciso che questo non comporti grave turbamento dell’equilibrio psico-fisico del richiedente, autorizza l’accesso alle notizie richieste.
Questa legge ha modificato in alcuni punti quella precedente (legge 184/1983) e alcuni cambiamenti hanno attirato molte critiche da varie parti.
Ritengo rilevante analizzare, se pur brevemente, queste novità.
Nell’art. 6 comma 1, la legge innalza la differenza massima di età fra adottato e adottanti a 45 anni, poi al comma 5 prevede la possibilità di ampliare questa differenza nei casi in cui uno solo dei coniugi la superi di non più di 10 anni : quindi un uomo di 55 anni con una moglie di 45 potrebbe richiedere un neonato.
Come è ampiamente dimostrato da tutte le ricerche e banche dati, non c’è difficoltà a trovare una famiglia ai bambini piccoli, il problema sussiste con quelli diversamente abili o con quelli che hanno superato i 7/8 anni.
In applicazione delle leggi precedenti (legge n. 431/1967 e legge n.184/1983) alla data del 31 dicembre 1999 in Italia erano stati adottati 62.715 minori italiani e 29.059 minori stranieri, ma il numero delle domande è notevolmente superiore al numero dei provvedimenti che si realizzano.
Quindi questa deroga al limite di età di 40 anni della legge precedente chi vuole favorire?
Forse le coppie che, dopo aver raggiunto tutti i personali obiettivi di soddisfacimento del sé (carriera, benessere economico, casa, divertimento, ecc.) decidono di avere figli ad un’età non proprio giovanissima e non riuscendo nell’intento si rivolgono all’adozione, ma desiderano assolutamente fare un’esperienza il più simile possibile a quella biologica con un bambino molto piccolo anche se proveniente da altri paesi?
Ma le deroghe continuano perché se i richiedenti hanno almeno un figlio minorenne oppure se la domanda riguarda un fratello o una sorella del bambino già adottato, non ci sono più limiti di età.
La differenza può anche essere annullata “qualora il tribunale accerti che dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore” (art 6, comma 5). La situazione più comune che risponda a questo è quella di un minore che abbia già trascorso un periodo di tempo abbastanza lungo con gli aspiranti genitori i quali ne chiedono alla fine l’adozione.
Qui c’è il rischio che coppie che probabilmente non otterrebbero l’idoneità o comunque avrebbero poche possibilità di vedere soddisfatta la loro richiesta, si procurino, all’insaputa dei servizi sociali un bambino (ogni anno in Italia entrano molti minori soli per soggiorni turistici, per cure o per studio), lo accolgano nella loro casa per poi chiederne l’adozione. E’ uno dei casi che la Convenzione dell’Aja ha giustamente condannato.
L’innalzamento della differenza di età non porterà ad un maggior numero di adozioni, ma farà crescere il numero di domande, anche i quarantacinquenni richiederanno un bambino piccolo cosicché quelli più “grandi” avranno ancora maggiori probabilità di restare negli istituti.
L’art. 24 comma 1 afferma il diritto del bambino di essere informato sulla sua condizione di figlio adottivo da parte dei genitori. Naturalmente la disponibilità a dire la verità al figlio secondo modalità adeguate all’età e alla situazione, dovrebbe essere una condizione assolutamente indispensabile da accertare dai servi sociali nell’ambito della valutazione della coppia.
Ma è anche vero che l’adottato e gli adottandi sono una vera famiglia e sarebbe giusto che avessero gli stessi diritti-doveri della famiglia biologica. Il comma 5 disciplina le modalità di accesso degli adottati maggiorenni all’identità dei loro procreatori mortificando il ruolo dei genitori adottivi, avvicinando l’adozione ad un affidamento, riaffermando in modo implicito, ma chiaro, il vincolo del legame di sangue. Il bambino è unico e il suo passato, pur se doloroso è un tutt’uno col presente e con il futuro, per cui ha bisogno di conoscerlo, di capirlo e di rielaborarlo in vari modi e momenti della sue esistenza. Riconoscere, per legge, diritti ai procreatori significa però ridurre l’importanza e la preminenza dei rapporti affettivi e educativi.
Del resto l’art. 2 afferma giustamente che” le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale, non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia”, poi nell’art. 3 prosegue “Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia.”
La legge 27 agosto 1997 n. 285 costituisce materia per garantire, per lo meno a livello nazionale, che non esistano situazioni di prevaricazione sociale nei confronti dei genitori biologici avendo a cura la creazione di centri/osservatori dell’infanzia, banche dati informatizzate dei piani e dei progetti e banche dati della situazione dei minori “in osservazione” sia negli istituti sia nelle famiglie a livello regionale.
“Pur in presenza di elementi di difficoltà inerenti la congruità dei dati e l’integrazione di sistemi regionali in un quadro nazionale che li ricomponga, la riflessione ha reso evidente quanto fosse condivisa la consapevolezza sull’impossibilità di lasciare all’imparzialità dei dati giudiziari la definizione del fenomeno del disagio, del maltrattamento e dell’abuso all’infanzia. La costituzione di robusti meccanismi di raccolta e organizzazione delle informazioni sulle vittime, gli autori, le cause, le caratteristiche delle violenze e degli interventi, è un impegno strategico.”[28]
L’art. 19 comma 4 definisce gli ambiti e i tempi dell’indagine sugli aspiranti genitori: quattro mesi rinnovabili una sola volta. E’ vero che spesso la lungaggine delle indagini tagliava drasticamente i tempi di permanenza della domanda presso i tribunali, ma è anche vero che i servizi saranno costretti ad affrettarsi nelle valutazioni con conseguenze a volte negative.
L’art. 2 comma 4 prevede che “ Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia.” L’affermazione di questi principi è validissima, peccato che la legge si fermi qui e non definisca in maniera univoca che cosa intenda per comunità familiare e che rimandi alle regioni la definizione degli standard minimi dei servizi e dell’assistenza alle quali, però, non da scadenze per la loro emanazione.
Proprio questo articolo della legge ha assoluto bisogno della collaborazione di famiglie accoglienti e aperte che si rendano disponibili a rispondere a questa nuova esigenza sopratutto in relazione ai 15-20.000 minori che ancora sono negli istituti, ma che nella maggioranza non sono adottabili e che necessitano quindi dell’affidamento familiare.
Con l’affidamento un minore è temporaneamente allontanato dalla famiglia:
o per difficoltà temporanee dei genitori o per loro gravi malattie o ricovero;
o per morte di uno o di entrambi i genitori;
o per disgregazione del nucleo familiare (separazione, carcerazione, ecc.);
o per problemi di diverso genere (sociali, di conflitto, di incapacità educativa, ecc.);
L’art. 4 comma 3 afferma che “ Nel provvedimento di affidamento familiare devono essere indicate specificatamente le motivazioni di esso, nonché i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario, e le modalità attraverso le quali i genitori e gli altri componenti il nucleo familiare possono mantenere i rapporti con il minore. Deve altresì essere indicato il servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza, nonché la vigilanza durante l’affidamento con l’obbligo di tenere costantemente informati il giudice tutelare o il tribunale per i minorenni, a seconda che si tratti di provvedimento emesso ai sensi dei commi 1 o 2. Il servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza, nonché la vigilanza durante l’affidamento, deve riferire senza indugio al giudice tutelare o al tribunale per i minorenni del luogo in cui il minore si trova, a seconda che si tratti di provvedimento emesso ai sensi dei commi 1 o 2, ogni evento di particolare rilevanza ed è tenuto a presentare una relazione semestrale sull’andamento del programma di assistenza, sulla sua presumibile ulteriore durata e sull’evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo familiare di provenienza.”
Le difficoltà in cui può trovarsi una famiglia sono molteplici: possono essere più o meno gravi e quindi risolvibili in un tempo più o meno lungo. Per questi motivi vi sono vari tipi di affidamento.
Un bambino può essere affidato a un’altra famiglia:
Ø per parte della giornata o della settimana, quando i genitori sono nell’impossibilità di assicurare una presenza costante accanto ai figli;
Ø per un tempo breve e prestabilito, quando c’è una necessità transitoria dei genitori, come ad esempio il ricovero in ospedale; il bambino, quindi, sarà affidato a un’altra famiglia, possibilmente già conosciuta dal minore. Superata l’emergenza, il minore rientrerà nella sua famiglia e per tutto il periodo dell’affidamento manterrà un rapporto costante con i suoi genitori e gli altri congiunti;
Ø per un tempo prolungato: è la soluzione di affidamento più comune, ma anche la più problematica, in quanto non si può stabilire in anticipo la durata precisa; è solo possibile fare un progetto di affidamento per un certo tempo e verificare di volta in volta se è attuabile il rientro oppure se bisogna ricercare altre soluzioni.
Queste situazioni, che sono generalmente complesse, richiederebbero un costante sostegno da parte degli operatori dei servizi assistenziali. Non sempre l’affidamento può concludersi con il rientro del minore in famiglia. Talvolta si protrae oltre la maggiore età, fino al suo autonomo inserimento sociale. La legge al comma 4 dell’art 4 fissa l’affidamento a 24 mesi e la sua proroga solo nel caso che la sua sospensione rechi pregiudizio al minore. Scadenze così brevi e un po’ perentorie possono introdurre elementi di contrasto nel rapporto tra le famiglie affidataria e di origine, rapporto sempre delicato. E’ pur vero che se non si attuano delle verifiche si può rischiare di giungere a situazioni in cui si “aggira” la normativa sull’adozione per molti motivi. Le verifiche sono indubbiamente uno strumento necessario, ma altrettanto lo sarebbero momenti di aiuto e sostegno per ambedue le famiglie.
Viene da chiedersi anche, perché la legge non preveda anche una verifica biennale dei ricoveri negli istituti.
L’affidamento è un’istituzione importante perché è ormai assodato che le cure materne e paterne (il soddisfacimento dei bisogni fisiologici di nutrimento, assistenza e protezione e la capacità di assicurare adeguate risposte ai bisogni affettivi e intellettivi del bambino) nei primi anni di vita rivestono un'importanza fondamentale per l'armonico sviluppo della salute mentale del bambino.
Infatti è ormai dimostrato che la privazione prolungata di cure familiari nell'infanzia può avere ripercussioni gravi, talvolta permanenti, sulla formazione del carattere. La totale assenza di cure familiari è ancora più grave per cui il collocamento in un istituto, che non può in alcun modo fornire ai bambini relazioni interpersonali stabili ed affettivamente rassicuranti di cui ha bisogno,deve essere il più breve possibile.
Le cure familiari possono essere fornite da persone diverse dai genitori biologici, purché esse assicurino un legame affettivo intimo e costante, fonte di soddisfazione e gioia.
Nelle famiglie disposte a realizzare un affidamento si verificano frequentemente condizioni favorevoli: la fede ferma nei valori fondanti la famiglia come luogo dove crescono le “persone” e la disponibilità a viverli in modo aperto.
La disponibilità deve essere di entrambi i coniugi e degli altri componenti della famiglia (figli e nonni) e bisogna essere preparati ad accettare il bambino con i problemi suoi e della sua famiglia. In alcuni casi l’affidamento è più semplice perché determinato da motivi contingenti (es. la malattia di un solo genitore) che si risolvono anche rapidamente, ma nella maggioranza dei casi ci sono maggiori difficoltà perché si tratta di bambini che sono stati segnati, anche pesantemente, da una lunga permanenza in istituto o da una situazione familiare critica che non può essere cancellata: fa parte di loro. E’ quindi importante che gli affidatari sappiano accettare il bambino non solo di "di testa" ma "col cuore", cioè capire che quel bambino che si presenta diverso di quelli nati in casa, proviene da un ambiente, da una famiglia formata da persone che hanno avuto spesso poco dalla vita e sono in grado di dare poco ai loro figli.
"Bisogna entrare in punta di piedi nella vita di questi bambini": non è un compito facile certo, ma è un compito possibile e le positive esperienze maturate in questi anni lo confermano.
L’idoneità all’affidamento non è determinata, tuttavia, dal livello culturale o di istruzione e nemmeno da particolari competenze in campo psicologico-pedagogico degli affidatari che appartengono a tutte le classi sociali e hanno diritto a un rimborso spese per il servizio sociale che svolgono. L’art. 5 comma 4 infatti prevede ci sia un intervento di sostegno, ma anche economico in favore della famiglia affidataria, sebbene l’inciso “nei limiti delle disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci” ottenga che ogni Comune deciderà come ritiene più opportuno e che le famiglie non avranno alcun strumento reale per esigere questo aiuto.
Le famiglie affidatarie devono essere soprattutto preparate ad affrontare - anche se non da sole ma con l'aiuto degli operatori sociali - i problemi che nascono dai rapporti con i familiari del bambino: questi possono collaborare all’educazione del figlio e preparare il terreno per il suo rientro, ma possono anche esser un ostacolo interferendo pesantemente nell’andamento dell’affidamento con richieste e comportamenti errati.
In ogni caso i genitori non devono essere giudicati o colpevolizzati dagli affidatari e soprattutto i bambini affidati non devono percepire che i loro genitori sono giudicati dalla famiglia in cui stanno vivendo. Questo non significa che gli affidatari devono sopportare tutto, né adottare gli stessi metodi educativi dei genitori d’origine. Per le situazioni più conflittuali - quando non basta l’intervento degli operatori sociali - è previsto anche l’intervento del Tribunale per i minorenni per tutelare le condizioni di vita e di crescita dei bambini.
“Considerando che il bambino in affido trarrebbe enormi vantaggi dalla collaborazione della sua famiglia d’origine, è estremamente importante dedicare tempo, energie e competenze degli operatori a preparare la famiglia d’origine. La famiglia d’origine non deve, almeno dove è possibile, diventare la famiglia che subisce l’intervento degli altri, che viene messa in una situazione di marginalità; ogni caso è molto diverso dall’altro ed è veramente difficile generalizzare. Solo il rispetto, l’attenzione ai vissuti degli altri, la comprensione per vicende non sempre fortunate possono pian piano indicare la strada più giusta. La famiglia d’origine si trova senz’altro in una situazione di debolezza.”[29]
Come ho già detto, la legge prescrive che il 31 dicembre 2006 ci sia “il superamento” del ricovero in istituto, allora credo che sarebbe necessario un grande sforzo sociale per instaurare un reale e concreto supporto agli affidamenti, una grande campagna promozionale per creare una mentalità diffusa di accoglienza nelle famiglie italiane, perché o si imposta una risposta di “cuore” o si prepara un grande fallimento.
2.3 ASPETTI DELLA REALTA’ TERRITORIALE
Le considerazioni fin qui svolte mi hanno ricordato quanto sia complesso il mondo dell’adozione e dell’affido e come i genitori siano lasciati soli ad affrontare le preoccupazioni e le incognite. La personale esperienza di adozione è stata caratterizzata da vuoti e assenze da parte delle istituzioni: a cominciare dalle Assistenti Sociali che, dal momento della consegna della domanda al Tribunale dei Minorenni, malgrado le costanti ed estenuanti sollecitazioni, ci impiegarono un anno e mezzo per consegnare la relazione di idoneità (allora la domanda aveva la durata di due anni), al Giudice Tutelare sempre introvabile, alle visite domiciliari durante l’anno di preaffidamento che dovevo richiedere più e più volte per non far scadere i termini senza avere completato tutto l’iter.
Con la speranza che la situazione fosse migliorata durante i venti anni trascorsi da allora, ho voluto fare un riscontro in due istituzione significative sul territorio:
v il Centro Affidi di Lucca
v l’Istituto per minori “De Sortis” di Viareggio
Le due interviste hanno ribadito la permanenza di difficoltà sia inerenti ad una crescita culturale della popolazione nei riguardi dell’adozione e dell’affido familiare, sia relative alla formazione delle coppie interessate e alla loro assistenza. La carenza di formazione, di attenzione e di sollecitudine sono, a mio avviso, le cause principali della problematicità che persiste e che impedisce il decollo sia dell’adozione che dell’affido.
Ma il dato più doloroso resta la presenza di bambini negli istituti, dove si registrano permanenze lunghe, spesso fino ai diciotto anni. Fiumi d’inchiostro sono stati usati per dire che il bambino istituzionalizzato si depersonalizza, perde sicurezze, diventa abulico o iperattivo, manca di un’esperienza fondamentale, anche per la sua vita futura, che è quella delle relazioni familiari. All’abbondanza di letteratura fa riscontro la scarsità di interventi concreti, di ricerca di soluzioni nuove o di alternative.
Solo i bambini ricchi, come potenziali consumatori, sono oggetto dell’attenzione della società, quelli poveri o in difficoltà, sono elementi deboli, di importanza molto marginale.
2.3.1 Il Centro Affidi di Lucca
A Lucca esiste un Centro Affidi Intercomunale che dovrebbe coordinare le disponibilità delle famiglie e le richieste dei servizi sociali per effettuare affidamenti di bambini.
La responsabile Ass. Soc. M. G. Corsetti, da me intervistata, ha innanzi tutto riconosciuto che l’affidamento in Italia non è mai veramente decollato (nel 1986 sono stati fatti 9.000 affidi, nel 1998 ne sono stati fatti 10.000). I motivi possono essere tanti e diversi rispetto anche alle varie zone del paese.
Nel nostro territorio le ragioni principali possono essere così sintetizzate:
Ø maggiore facilità da parte dei servizi sociali e del Tribunale ad inserire un minore in un istituto, malgrado gli alti costi, perché questo tipo di soluzione provoca una resistenza minore anche da parte della famiglia di origine ed è più prontamente disponibile;
Ø difficoltà a gestire e risolvere le situazioni familiari degradate, anche in assenza dei figli, da parte dei servizi per la presenza di personale sempre meno specializzato, sempre meno stabile e sempre meno numeroso;
Ø paura della famiglia di origine che i figli si possano estraniare per la convivenza con una famiglia diversa con maggiori possibilità di ogni tipo;
Ø disagio delle famiglie affidatarie a gestire il bambino e i rapporti con la famiglia di origine in una relazione molto delicata e difficoltosa;
Ø frequente incertezza circa i tempi di durata dell’affidamento non facilmente determinabili in base alla situazione della famiglia di origine e alla sua capacità di recupero;
Ø frequenti difficoltà dell’affido sine die nel periodo adolescenziale, quando la propria identità è già normalmente sofferta;
Ø carenza culturale generalizzata per cui ancora esiste nella popolazione lo stereotipo del voler togliere i bambini ai poveri per darli ai ricchi;
Ø insufficiente conoscenza di questo istituto e scarsa formazione per le famiglie che potrebbero dichiararsi disponibili.
Il Centro Affidi ha il compito di promuovere questa istituzione sul territorio anche insieme alle Associazioni presenti (es. ANFAA – Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie), di creare occasione di formazione, di reperire le disponibilità delle famiglie creando un archivio, di recepire le richieste dei servizi circa le necessità dei minori, di procedere all’abbinamento della famiglia con il bambino, di effettuare l’incontro tra le due famiglie nell’affido consensuale, di sostenere e verificare il percorso dell’affido stesso. L’inserimento nell’archivio delle famiglie disponibili viene attuato attraverso colloqui con gli operatori, attraverso lo studio della famiglia (storia di coppia, composizione familiare, elasticità interna) e la disponibilità a un certo tipo di affido(temporaneo, sine die, part time ecc)
Il sostegno alle famiglie affidatarie si svolge attraverso gruppi di discussione delle famiglie con alcuni conduttori in cui si trattano e si condividono i problemi o colloqui personali con gli operatori del centro. Le Associazioni hanno un ruolo importante perché, data l’esiguità e la costante riduzione delle risorse a disposizione del Centro, il loro aiuto risulta prezioso, ma le Associazioni a loro volta non si possono basare solo sulla ricchezza di esperienze e di vissuti presente tra i loro membri, ma hanno bisogno di operatori che li aiutino in modo più professionale.
In relazione alla scadenza del 31 dicembre 2006 prevista dalle Legge 149/01, in cui tutti gli istituti dovrebbero essere chiusi, la responsabile del Centro prevede che ci saranno pochi cambiamenti: alcuni istituti verranno ristrutturati per essere considerati comunità familiari, forse ci sarà qualche adozione e qualche affidamento in più, ma non ci sarà un movimento che implichi un reale e profondo cambiamento culturale verso le relazioni familiari e la genitorialità. Non è cambiata la mentalità delle famiglie, non si sono arricchite e diversificate le offerte dei servizi, per cui la situazione rimane stagnante. Il contributo di figure come i counselor, essendo meno connotate a livello medico come lo psicologo o a livello dei Servizi sociali, ma nello stesso tempo capaci di analizzare le situazioni in modo professionale, sarebbe utile per formare e seguire le coppie verso e durante l’iter dell’affido.
2.3.2 L’Istituto “DE SORTIS” di Viareggio
A Viareggio esiste da molti anni l’Istituto “De Sortis”, una comunità educativa che ospita bambini che hanno dovuto lasciare le loro famiglie. La responsabile, Dr. G. Bergamini lo dirige da più di venti anni e attualmente collabora anche come giudice presso il tribunale per i minorenni di Firenze e gentilmente mi ha fornito i dati qui presentati. Attualmente la struttura ospita 31 bambini (parecchi stranieri) di cui 5 sono in semiresidenza. Sono stati tutti allontanati dalle famiglie con provvedimento del Tribunale per i minorenni di Firenze e provengono da varie parti della regione. L’istituto che è espressione della Misericordia della città e si avvale del servizio di alcune suore, ospita femmine da 3 a 18 anni con prolungamento fino a 21 anni, su richiesta dei Servizi Sociali e disposizione del Tribunale, e maschi da 3 a 10 anni. Una volta inserito il minore si stabilisce un progetto personale con i Servizi Sociali, il Tribunale, la Psichiatria infantile ed eventualmente la riabilitazione. La maggioranza degli ospiti ha una lunga permanenza presso la struttura e quando escono a 18 anni non hanno risorse per organizzare la loro vita da capo.
La possibilità di uscire dall’Istituto è rappresentata dall’adozione e dall’affido, ma l’ultima adozione risale a 10 anni fa e l’affido, secondo la Dr. Bergamini, è quasi completamente fallito perché molto frequentemente le famiglie affidatarie si sono sentite abbandonate in balia della loro ansia, di quella del bambino che viveva una situazione di cambiamento difficile e di quella della famiglia di origine che temeva di perdere il figlio e quindi si poneva in una posizione ostile. Senza adeguati sostegni il carico era eccessivo. Il tipo di affido che invece si dimostra attivo è quello part time, che provoca minori ansie da parte di tutti.
Le adozioni nazionali (nel 2005 a Firenze sono state 30) sono un numero ridotto,ma sono in aumento quelle con minori partoriti nell’anonimato e abbandonati senza riconoscimento. Sono spesso figli di donne straniere che magari anche in assenza del permesso di soggiorno, lavorano “al nero” e non possono permettersi un figlio che significherebbe la perdita del lavoro.
C’è un maggior numero di adozioni internazionali, ma con maggiori rischi, infatti sono aumentati anche i fallimenti. Proprio nel marzo 2006 il Tribunale ha dovuto trattare il fallimento di due adozioni internazionali nel corso dell’anno di preadozione. Le minori sono state poi inserite in istituti. Questi esiti negativi hanno varie cause: all’estero spesso non viene detto quasi niente dei bambini, gli stessi non sono preparati all’evento della partenza verso un mondo sconosciuto; in Italia il personale dei Servizi Sociali è spesso impreparato perché precario, proveniente da cooperative o con contratto a termine. Manca loro assolutamente una specializzazione, per cui si chiede a questi operatori di passare dalla cura degli anziani, a quella dei tossicodipendenti, a quella delle famiglie in difficoltà, ai colloqui per le adozioni, a seguire i minori in istituto che sono loro affidati e così via. Non ci si può meravigliare se le famiglie affidatarie e adottive si sentono sole, non trovano sostegno e se molti bambini rimangono negli istituti per molto tempo.
Le future strutture, in base alla legge 149/2001 dovranno essere comunità familiari con un massimo di 10 ragazzi dai 6 ai 18 anni. Certamente le fasce d’età verranno selezionate per permettere una organizzazione migliore. Saranno inseriti in una abitazione di tipo familiare e anche i ragazzi dovranno collaborare al buon andamento della comunità.
Anche l’istituto “De Sortis” verrà ristrutturato in modo da avere meno bambini insieme, dovrà raddoppiare il personale laico, per la permanenza anche notturna, pur continuando ad avvalersi anche dell’aiuto di alcune suore. Ma gli alti costi di tutto questo (a parte le ristrutturazioni il costo giornaliero per il mantenimento di un bambino in questo tipo di comunità è di circa € 180) sono già al di là delle possibilità degli enti locali, per cui i tempi non potranno essere quelli previsti dalla legge.
La cosa più triste è che anche queste comunità di familiare avranno il nome, perché il personale avrà giustamente i suoi turni, periodi di riposo, ferie, malattia ecc. e i punti di riferimento per i bambini, specialmente i più piccoli, saranno sempre molto labili.La presenza di due figure “genitoriali” che vivano pressoché stabilmente nella comunità, come previsto dalla legge, dando a questa una sostanziale impronta “familiare”, è una possibilità molto difficile da realizzare.
2.4 GLI INTERPRETI: LA FAMIGLIA E IL BAMBINO
Tanti sono i motivi che possono portare una coppia verso l’adozione:
§ adozione come atto caritatevole: può comportare risultati negativi in quanto il bambino potrebbe non sentirsi completamente figlio, ma solo un “povero bambino”;
§ adozione come attribuzione di senso: coppie che dopo aver condotto una vita di movimento e soddisfacimento di sé, si sentono vuote e decidono di adottare un bambino. Può accadere che l’adozione sia una ricerca di completamento di sé, di conquista di uno status sociale e non una scelta di amore;
§ adozione utilitaristica: desiderio di un erede per trasmettergli dei beni, può essere pericolosa perché il bambino appare come un contratto e non una persona;
§ adozione per compensare la sterilità: la maggior parte delle richieste proviene da questo tipo di coppia. L’importante è capire come è vissuta e rielaborata la sterilità, se e in quale modo potrebbe riflettersi sul bambino adottato e se il figlio è vissuto come la proiezione di sé in cui si ricercano soddisfazioni;
§ adozione per un figlio… in più: è importante capire i motivi che portano a questa scelta: il desiderio di competere con i genitori propri della coppia con un’esperienza che oltrepassi la loro genitorialità, la ricerca del figlio “diverso” per provare tutto, il desiderio di rimpiazzare un figlio morto o abortito, l’esigenza di corrispondere ad un ideale sociale o religioso. Essenziale è valutare le risorse atte a fronteggiare il lavoro psichico a cui tutti i componenti della famiglia si dovranno sottoporre per gestire la nuova situazione;
§ adozione come esperienza familiare: si tratta di scegliere l’adozione per permettere ad un bambino di trovare finalmente una famiglia stabile, completando anche negli adulti la visione della famiglia.
Importante ricordare ancora una volta che questo istituto ha lo scopo primario di dare una famiglia a dei bambini soli e non un mezzo che consente di avere un figlio a chi non è riuscito a “farselo”.
Attraverso questa esperienza la famiglia può uscire arricchita da una disponibilità verso gli altri. Nel porre una persona più debole al centro dell’accoglienza riconoscendo il suo diritto ad essere compresa e a camminare verso il raggiungimento della sua soggettività adulta, malgrado le ferite lasciate dal passato, si attua una rivoluzione che porta ad una visione delle relazioni umane come più accettanti, accoglienti e disponibili.
Dal momento in cui all’interno della coppia si è giunti alla decisione di presentare domanda di adozione si passa alla sua stesura e ai colloqui che devono valutare l’idoneità all’adozione (legge 149/2001 art. 19 comma 3, 4, 5). Lo studio di coppia è generalmente realizzato da diverse figure professionali, l’Assistente Sociale che lavora prevalentemente sulla realtà esterna, lo Psicologo che lavora sugli aspetti e le dinamiche del mondo interno. A questo si unisce un rapporto con il Tribunale dei Minori, e con tutte quelle strutture che in Italia o all’estero sono coinvolte nel percorso adottivo.
Questa può essere definita la fase della gestazione, in cui ci si chiarisce riguardo alle motivazioni, alle fantasie ma anche alla disponibilità a mutare le abitudini, i ruoli di entrambi i coniugi e alle reazioni di coloro che vivono intorno alla coppia. Queste reazioni non saranno sempre adeguate o piacevoli, ma anzi mostreranno spesso delle enormi ignoranze o superficialità.
“ Una delle battute più gettonate che capitano indiscriminatamente a tutti i genitori adottivi è: - Voi sì che avete fatto una buona azione!- E’ così infatti che viene definita, dalla maggioranza (purtroppo non silenziosa) delle persone che si incontrano, quella tal cosa dell’aver adottato un bambino”[30]
Quando la parte relativa ai colloqui è finita, inizia una fase di “ non tempo”. L’attesa si popola di fantasie sia sul bambino sia sulla famiglia che si formerà. E’ frequente che si tenda a pensare ad un bambino la cui storia di vita cominci con l’adozione tralasciando le esperienze precedenti. Per questo motivo tendenzialmente sono preferiti bambini molto piccoli che permettano così di percorrere “quasi normalmente” l’iter genitoriale. Ma la storia precedente esiste sempre, sia nelle adozioni nazionali che, tanto più evidente, in quelle internazionali. Si presentano alla mente montagne di dubbi e paure. La convinzione, magari rimasta nell’inconscio, che in fondo la genitorialità adottiva sia inferiore a quella biologica e che niente basterà a colmare il divario e la paura di non essere all’altezza del compito, sono spesso laceranti.
Il problema è che sovente questo “non tempo” è una lunga fase, soprattutto nelle adozioni nazionali.
Talvolta per accelerare i tempi (da parte dei Tribunali per dare una soluzione a situazioni infantili già troppo dolorose) si prospettano soluzioni particolari come l’adozione a rischio giuridico o quella così detta “difficile”.
Nel primo caso, dopo che il tribunale ha spedito il decreto che definisce lo stato di abbandono, la controparte (genitori o parenti) può ricorrere tre volte. In questo iter passano anni e nel frattempo il bambino vive in istituto o nel migliore dei casi viene affidato ad una famiglia che non è detto però che possa o desideri adottarlo nel momento in cui la situazione si sbloccherà. “Il tribunale per i minorenni …può decidere di affidare il bambino ad una coppia scelte fra quelle che hanno presentato domanda di adozione….e che hanno manifestato la loro disponibilità per questi particolari affidamenti”[31].
Nessuna coppia può essere obbligata a dare il consenso a questo tipo di adozione (solo il 20% di coloro che presentano domanda di adozione sottoscrive la disponibilità a questa formula), ma bisogna anche ricordare che questo tipo di bambini sono, in percentuale, un numero maggiore rispetto a quelli già definiti. E’ vero anche che frequentemente, il rischio giuridico evolve in adozione.
L’adozione “difficile” è una contraddizione in termini perché riguarda tutti quei bambini “grandi” o diversamente abili per cui l’adozione non è affatto giuridicamente difficile.
Se l’adozione è sentita come un atto compensatorio di una sorta di torto subito, il bambino dovrà essere piccolo, da non aver avuto almeno altra origine psicologica che quella della coppia stessa.
L’adozione di un bambino disabile è possibile nella misura in cui ci sia una forte responsabilità, un ben-essere della coppia, una buona disponibilità allo spirito di servizio, ma anche delle politiche sociali di valido sostegno.
L’adozione di un bambino grande (sopra 7/8 anni) porterà all’interno della coppia uno sconvolgimento e più difficile sarà ritrovare un nuovo assetto. In effetti, in percentuale, si rivelano più problematiche le adozioni in cui il bambino è ormai grande (o per una lunga istituzionalizzazione o perché divenuto grande nella sua famiglia da cui poi viene allontanato) sia per il vissuto spesso pesante che il bambino si porta dentro sia per le maggiori difficoltà di inserimento. Questo vale anche per le adozioni internazionali, dove bisogna fare i conti anche con l’aspetto culturale.
Quando poi si arriva all’incontro, tanto atteso e sognato, questo sembra l’inizio di tutto.
Spesso nella mente delle coppie c’è una sorta di film in cui il bambino corre loro incontro e li abbraccia e li bacia. E’ assolutamente necessario preparare le coppie invece, al disagio, a volte persino la freddezza dell’incontro perché se esso è fonte di tensione ed emozione per gli adulti, figuriamoci per i bambini! Non sono un padre e una madre, sono due estranei, forse diversi da come lui se li era immaginati, sicuramente diversi dalle persone fino allora conosciute, a volte “stranieri” che non parlano nemmeno la sua lingua.
Nessuna carta di tribunale potrà sostituire il vero riconoscimento da parte del figlio adottato dei suoi genitori. Dal momento in cui l’adozione diventa reciproca, cioè il figlio riconosce il padre e la madre adottivi, inizia la vera famiglia. Quando avviene? Può accadere dopo pochi giorni o dopo anni, dipende prima di tutto dalla storia del bambino, dalle esperienze precedenti che gli hanno insegnato quanto può o non può fidarsi degli adulti. Questo patto andrà poi rinegoziato nell’adolescenza quando affiora la coscienza di essere persona e il ragazzo si chiederà “chi sono?”.
I problemi che possono sorgere coinvolgono il ragazzo che può desiderare di chiarire le sue origini, e i genitori che si possono sentire svalorizzati da questi desideri di autonomia e ricerca di sé. La ricerca del passato è il desiderio di trovare la propria identità, di riunire il sé, di costruire, insieme ai genitori, una continuità senza negare le differenti origini.
Le famiglie in cui l’adozione è “riuscita” hanno fatto dei patti in cui c’è un riconoscimento delle differenze, ma al contempo la consapevolezza che si ha bisogno l’uno dell’altro: i genitori per essere famiglia, il bambino per essere figlio vivo e vero.
Si può ingenerare in questo periodo la paura che certi comportamenti “sopra le righe” dell’adolescente, possano risalire ai genitori biologici, ma questo timore deve essere prontamente cancellato per non guastare qualsiasi rapporto educativo, anche con l’aiuto di un esperto che offra la possibilità di vedere le cose da un’altra prospettiva.
Ma chi sono i bambini adottabili e adottati? Sono sicuramente bambini che hanno sofferto e che in un modo o nell’altro conservano traccia del loro dolore, che non scomparirà mai, ma che potrà essere accettato solo se rielaborato nella sicurezza affettiva e di appartenenza.
Oltre all’età cronologica del bambino inserito nella famiglia adottiva devono essere presi in considerazione altri fattori che pesano sulla riuscita dell’inserimento:
§ la modalità e il momento in cui è avvenuta la separazione dalla madre o da chi ne ha fatto le veci;
§ le cure che ha ricevuto nella primissima infanzia;
§ la discontinuità della relazione e il grado di deprivazione vissute nell’infanzia;
§ eventuali maltrattamenti o abusi subiti.
o Nei bambini precocemente abbandonati e istituzionalizzati la sensazione di pericolo per il timore che i propri bisogni non possano essere soddisfatti, è molto presente e spesso è confermata dalla realtà con un conseguente insorgere dell’angoscia.
“Se la permanenza del bambino si protrae troppo a lungo, anche la comunità alloggio (intesa come una struttura costituita da una normale abitazione con un numero limitato di minor 6-8 al massimo) – pur necessaria per rispondere alle emergenze – può presentare le stesse caratteristiche negative per i minori: anonimato, rotazione degli operatori, carenza di stabili legami”[32]
Possono diventare bambini iperattivi, che esprimono il loro bisogno di sentirsi vivi, ma anche la mancanza di contenimento materno durante i primi mesi. Hanno per lungo tempo bisogno di rassicurazione, valorizzazione e conferme al punto tale che continuano a “sfidare” l’amore dei genitori con punte di aggressività e rifiuto fino ad arrivare a mettere in crisi chi non avesse una buona sicurezza personale.
o I bambini diversamente abili sperimentano poi difficoltà ulteriori, non solo legate alla loro particolare condizione, ma anche al tipo di rapporto che si può instaurare all’interno dell’istituzione che li ospita.
“ Il bambino diverso trascorre così la sua infanzia senza alcun legame vero; per coloro che lo circondano perde quasi la connotazione di un bambino bisognoso di affetto, di contatto, di tenerezza: si cerca di assisterlo o di curarlo dal punto di vista sanitario perdendo di vista il fatto che spesso l’handicap o la malattia sono aggravati dalla sua condizione di solitudine e di abbandono. Senza affetto il bambino si lascia andare sempre più, non reagisce, quasi si rifiuta di crescere perché non c’è nessuno che tenga a lui e per cui senta di essere un valore.”[33]
o I bambini che vengono adottati tardivamente, hanno a volte comportamenti opposti, non hanno difficoltà di inserimento, se stranieri, già dopo pochi giorni sanno alcune parole della nuova lingua, sembrano aver cancellato la loro vita precedente. Questo in genere gratifica molto i genitori, ma nel lungo periodo questa modalità porta alla dipendenza, all’adesività con scarsa aggressività e capacità di simbolizzazione, quindi ad un bambino “che non cresce”.
o Nei bambini che hanno subito maltrattamenti fisici o psicologici si conservano le cicatrici esterne ed interne. In alcuni casi si verifica che il bambino cerca la punizione fisica come una modalità già sperimentata per allentare la tensione dell’adulto, ma anche come ricerca di un contatto intenso che non riesce a veicolare attraverso i normali canali di affetto e tenerezza.
o Nel caso di bambini abusati c’è spesso la difficoltà a rapportarsi con la figura genitoriale che ricorda l’abusante o, in seguito, l’instaurazione di una relazione di tipo seduttivo come unica modalità imparata per essere al centro dell’attenzione. Non sempre queste situazioni possono essere risolte all’interno della famiglia, perché il vissuto del bambino può essere così doloroso da avere la tentazione di rimuoverlo, di negarlo impedendosi una serena crescita affettiva e relazionale. E’ allora necessario l’intervento di una psicoterapia che permetta la rielaborazione del vissuto.
Ogni bambino, quando è inserito nella nuova famiglia, prima o poi, in una maniera o nell’altra, chiederà “la prova” di essere amato per quello che è, e non sarà così facile darla.
“ Ogni rapporto, ogni affetto, se volete che abbia un senso, una radice, una certezza, e quindi un futuro, va conquistato, e questo costa sempre fatica. La fatica dell’incontro con l’altro, la fatica di cercare di comprendere, di modificarsi per aprirsi, di ascoltare, di essere pazienti. “[34]
Un nodo essenziale della costruzione della famiglia e del sé del bambino è la consapevolezza delle sue origini. La legge n. 149 all’art. 24 comma 1 afferma che il minore deve essere informato della sua condizione dai genitori “ nei modi e nei termini che essi ritengono più opportuni”.
I genitori adottivi di bambini molto piccoli, a volte hanno la tentazione di tacere, perché pensano che in fondo non c’è una storia da ricostruire, ma non è vero. L’abbandono, in alcuni casi il non riconoscimento, sono una storia che va capita ed integrata nel proprio sé per non scinderlo. I bambini grandicelli fanno finta di dimenticarlo, ma non dimenticano mai e possono accettare il dolore del passato solo nella confidenza del presente.
“Un’informazione corretta e tempestiva presuppone, oltre che una personale sicurezza sul proprio amore, una capacità che non è trasmessa culturalmente e va quindi appresa. Bisogna imparare a spiegare al figlio le ragioni che hanno portato alla sua adozione senza incrinare la sua autostima e aiutarlo a rispondere alle domande dell’altro senza essere turbato. Perché il figlio adottivo possa strutturare un adeguato senso di identità e giungere a un’effettiva autonomia, è necessario che non rifiuti il suo passato, che se ne possa parlare, che si senta autorizzato a far domande e a cercare risposte. Solo in questo modo potrà rendere il passato parte integrante della sua vita.”[35]
Non è sempre facile sapere che cosa dire e come dirlo e ci sono diversi modi per le diverse età e le diverse situazioni. L’informazione andrà ripetuta nel tempo con modalità diverse, ma questo presuppone anche che poi si parli di lui come del proprio figlio senza fare continui riferimenti all’adozione (non “mio figlio adottivo”, ma “mio figlio”) e sopratutto non devono essere espresse critiche o giudizi sui genitori d’origine; non si deve vergognare di loro, non li deve odiare, potrebbe odiare se stesso.
Il modo più classico e semplice è quello della fiaba, la fiaba-arcobaleno come qualcuno la chiama, nel senso che costruisce un ponte tra là ieri e qua oggi. A seconda dell’età le fiabe possono essere tante, ma possono anche venire utili alcuni film (Superman, Tarzan, Lilo e Stitch ecc).
In particolare vorrei fare riferimento a “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” di Luis Sepùlveda che può essere una fiaba da narrare, ma è anche un libro da leggere insieme e un film da vedere insieme.
Kenagh è una povera gabbianella che in punto di morte strappa al gatto Zorba la promessa di prendersi cura dell’uovo che lei ha deposto e del piccolo che ne uscirà. Zorba non solo accoglierà la nuova gabbianella, Fortunata, ma la difenderà, e infine le insegnerà a volare.
Il messaggio non è solo quello dell’accoglienza del diverso, ma quello di riuscire ad infondere consapevolezza e orgoglio delle proprie radici e autonomia.
“. < E perché devo volare?> strideva Fortunata tenendo le ali ben strette al corpo. < Perché sei una gabbiana e i gabbiani volano > rispondeva Diderot….< Ma io non voglio volare. Non voglio nemmeno essere un gabbiano..voglio essere un gatto…e i gatti non volano >”[36]
La tentazione di adeguarsi alle richieste di un figlio che si vuole identificare con i genitori è molto forte, ma è necessario non cedere perché sulle menzogne non si costruisce una famiglia vera.
“<Sei una gabbiana…..ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa….. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto…Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo i tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene che tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, rispettare ed amare un essere diverso. Devi volare >(disse Zorba) < Volare mi fa paura > stridette >Fortunata. < Quando succederà io sarò con te > miagolò Zorba”[37]
Per insegnare a volare è necessario a volte l’aiuto di qualcuno che possa vedere le cose in modo diverso. Zorba si piega a chiedere l’aiuto di un umano dimostrando umiltà e consapevolezza dei propri limiti. Chiedere aiuto agli operatori che hanno seguito l’adozione non è sinonimo di sconfitta o fallimento, anzi serve proprio ad evitarli ricomponendo le proprie ansie, fantasie, aspettative o trovando le strade per costruire il racconto.
Nel momento in cui Fortunata vola, con l’aiuto di Zorba che la incoraggia, inizia la sua vita secondo la sua natura. Zorba non poteva diventare un gabbiano, né Fortunata un gatto, ma nel rispetto reciproco si crea il legame più profondo, quello dell’amore per colui che ti ha fatto volare e per colui a cui insegni a volare.
La cosa più difficile da dare ai figli, in una famiglia biologica, sono le ali.
La cosa più difficile da dare ai figli, in una famiglia adottiva sono le radici.
La cosa più necessaria, in una famiglia biologica, è l’amore
La cosa più necessaria, in una famiglia adottiva, è l’amore[38]
Ecco il bersaglio a cui mirare allorché si voglia formare dei genitori veri sia biologici che adottivi. Non c’è legame di sangue che costruisca il futuro, o la felicità, c’è solo il vincolo affettivo che giorno dopo giorno nella routine della quotidianità, edifica ogni persona nella sua integrità.
La metodologia della Scuola Genitori di Prevenire è Possibile si muove in questa direzione e per questo la propongo come possibile scioglimento dei punti critici che ho precedentemente esaminato.
Capitolo 3 - VERSO LA GENITORIALITA’ DI CUORE
“L’Artigianato Educativo” è un’espressione che dà forma a tutte le attività svolte con il progetto Prevenire è Possibile.
“ Artigiani dell’educazione sono tutti quegli uomini che, nella semplicità della vita quotidiana, agiscono con interventi educativi rivolti al loro prossimo e trasferiscono, da una generazione all’altra, la cultura dei valori costruita dall’umanità nel corso dei secoli. Il loro è un sapere artigianale, come è artigianale il sapere educativo genitoriale tramandato, quello del tutore o del mentore (figure la cui efficacia viene oggi riscoperta e rivisitata), degli animatori di gruppi giovanili, quello di insegnanti che non hanno abdicato alla loro vocazione educativa, nonostante la burocratizzazione dell’istituzione scolastica, quello di uomini e donne che esprimono la loro missione nel portare un messaggio di orientamento positivo nei più svariati contesti.”[39]
Intendo qui delineare le linee guida di questo progetto allo scopo di rendere comprensibile il percorso verso la genitorialità che sarà esaminato in seguito.
L’obiettivo di ricerca sono le emozioni di base intese come le prime esperienze emozionali vissute dal bambino e il loro costituirsi in copioni e sentimenti.
I copioni sono la ripetizione involontaria di una serie di emozioni a seguito di eventi esterni o interni, i sentimenti sono una gestione volontaria del comportamento che viene deciso in base a personali valori.
L’Artigianato Educativo è un metodo che, agendo sul riconoscimento dei vissuti emozionali, cerca di evitare la formazione di copioni involontari per mezzo della comprensione dei valori, che significa dare ad una persona la possibilità di esperire emozioni e sentimenti a lei negati perché impossibili per i suoi personali copioni.
Si basa su modalità diffuse nella pratica educativa come il rimprovero, l’incoraggiamento, l’insegnamento, il coinvolgimento emotivo, la tranquillizzazione, il sostegno, la gratificazione.Ma l’artigiano è colui che sa attivare la modalità più giuste in relazione alla persona per coglimento empatico del vissuto dell’altro.
“ Il coglimento empatico è la capacità di accettare e fare proprie le emozioni altrui, evitando la fusionalità e mantenendo la differenziazione tra persone, senza confusione tra sé e l’altro. Quando l’emozione verso l’altro non è strutturata, ma è aperta, quando non vi è immedesimazione o identificazione proiettiva e cioè quando l’altro è incontrato come persona e non come rappresentazione, diventa possibile penetrare nella sua soggettività e lasciarsi ricolmare da ciò che l’altro sta vivendo nell’istante in cui lo vive. Perché questo accada è necessario che l’apertura interiore sia massima.”[40]
La persona empatica sa cogliere il vissuto altrui non perché ci sia fra questi una riduzione della distanza interpersonale, ma perché sa fare attenzione all’altro, sa ascoltarlo con la mente sgombra da preconcetti, misconcetti e sovrapposizioni, sa accogliere dentro di sé il vissuto cercando poi di capire come riecheggia, che “sapore ha”, a quali emozioni rimanda e mette in gioco.
Con lo slogan Prevenire è Possibile si evidenzia che attraverso questa competenza si può individuare nell’altro l’origine dei copioni, in riferimento alle modalità con cui il bambino ha empatizzato i sentimenti vissuti dai genitori verso di lui, e offrirgli l’occasione di sperimentare emozioni e sentimenti che gli mancano o che ha rifiutato.
Per attuare questo percorso l’educatore deve essere in grado di percepire con mente libera,il significato del messaggio trasmesso dall’altro; cogliere l’emozione specifica del vissuto trasmesso per poter dare un nome al suo sentimento vissuto e rispondere adeguatamente attraverso la comprensione, la tranquillizzazione o l’incoraggiamento per rovesciare le tensioni trasformandole in potenzialità da dirigere verso nuovi obiettivi.
Nel processo educativo di Prevenire è Possibile l’emozione da cogliere empaticamente è quella che manca. Non si lotta contro un’emozione perché la si rafforzerebbe es. la rabbia, ma si cerca di far sperimentare a quella persona la calma, la quiete in modo da arricchire il suo vissuto di un’emozione affine che la contrasti e la assorba. La persona ne risulta più ricca ed equilibrata.
Il bambino costruisce la sua identità attraverso le tre fasi dell’empatizzazione (percezione, fusionalità, distanziamento). Quando emerge dalla fusione con la madre, scopre l’oggetto madre, ma anche il sé diverso dalla madre e allarga poi il suo orizzonte ad altri oggetti diversi da sé. Attraverso le fondamentali emozioni che empatizza in questo processo, il bambino costruisce il sé come un modo tutto personale di rapportarsi a se stesso, agli altri intorno a lui e al mondo.
Secondo la teoria dell’Artigianato Educativo queste emozioni di base sono sette e corrispondono ad altrettante tipologie di personalità. Queste tipologie sono qui descritte tenendo conto della componente negativa (-) per capire in modo più evidente quali siano gli elementi che si oppongono ad un equilibrio personale, ma anche di quella positiva (+) per dare il senso della possibile evoluzione che ciascuna emozione può avere:
1. - L’avaro: (la paura) dall’esperienza del dolore, nasce la paura di non poter controllare gli eventi e il desiderio di difendersi affinché nulla possa ferire. La paura poi si può trasformare in inquietudine, diffidenza, apprensione fino ad avere paura di avere paura. L’avaro si circonda di difese per cui non riesce ad aprirsi all’esterno e ha bisogno di trattenere tutto nel suo interno. E’ conservatore e sistematico, non tollera l’indecisione e il dubbio, ama l’ordine ma il suo è un ordine formale, il suo apparente equilibrio è solo la mancanza di comprensione del vissuto altrui. E’ manipolatorio nel senso che pensa di essere servizievole riempiendo di cure, ma in cambio vuole sottomissione, il suo non è un amore incondizionato, non riesce a dare un sentimento sincero di cui l’altro avrebbe bisogno, ma chiede all’altro di farsi totalmente gestire da lui. Il suo tipo potrebbe essere definito un inquieto ansioso perché caratterizzato dalla irrequietudine e dalla tensione, non sopporta l’idea di essere stanco o di star male.
+ Il saggio: i suoi valori sono la responsabilità, l’attenzione e la cura, la capacità organizzativa. Quando non “è responsabile di” ma “si sente responsabile” allora la capacità di cura e di attenzioni che è in grado di attivare lo rendono veramente importante per gli altri verso i quali non si volge per imporre la sua strategia, ma per dare quello che è davvero utile. La sua notevole capacità organizzativa e impegno lo rendono prezioso.
2. - Il Ruminante: (la rabbia) la sua rabbia deriva dall’aver empatizzato un impedimento nell’appagamento dell’attaccamento alla madre che ha portato il bambino a caricarsi per distruggere l’ostacolo. Il movimento dell’Io che è all’origine delle varie espressioni dell’ira è il ruminamento: una voce interna che non tace mai. La carica interna che mobilita le sue risorse e spinge all’azione è percepita come un’emozione intensa: quando si arrabbia sta bene, vive la pienezza di vita. Se la rabbia si spenge, ha paura di spengersi anche lui. E’ capace di trascinare perché trasmette energia e motivazione, ma non ha capacità organizzative e spende troppe energie, per cui non ha successo. Le sue attività sono frenetiche, non per ansia, ma per la grande energia che sente dentro di sé. L’ira può portarlo a sensazioni di esaltazione e l’esito può essere rappresentato dall’arroganza, la prepotenza, l’aggressività che diventa il nucleo centrale della personalità.
+ L’attivo: Il ruminante evoluto possiede anch’egli una grande energia, ma che è riuscito a convogliare verso un obiettivo da raggiungere e, poiché ha un grande senso della giustizia, si realizza nel sentirsi utile agli altri. La comprensione degli altri porta alla luce il suo nucleo di tenerezza che, una volta esplicitato, lo arricchisce e lo rende capace di grande impegno.
3. - Il delirante: la sensazione da cui muove è il disgusto che ha provato quando ha scoperto altre cose o persone oltre la madre che non gli sono piaciute e le ha rifiutate, come se le avesse “vomitate”. Nel periodo dello svezzamento l’attaccamento della madre che promette amore e non lo concede mai, può produrre o una dipendenza o una forte indipendenza perché i nuovi gusti, la sorpresa che ne deriva e il successivo eventuale disgusto-allontanamento (vomito), segnano il passaggio dalla sensazione all’emozione del distacco che diventa il motore delle successive conquiste. L’apprendimento avviene nello spazio tra il sé e l’adulto, nell’area dell’autonomia, ma l’eccessivo distacco porta ad una differenziazione addirittura conflittuale. Il suo modo di analizzare la realtà si basa sull’intuizione, cioè la capacità di separarsi dal modo tradizionale di leggere le cose, cercando soluzioni originali, ma rischiando di perdere il senso del confronto, della concretezza fino ad arrivare alla superbia dell’intelligenza. Il mondo non è mai percepito attraverso gli strumenti dell’affettività ma attraverso quelli dell’intuizione e alla fine ciò lo può rendere instabile, confuso, perso nella sua solitudine.
+ Il creativo: il delirante evoluto, che ha umilmente accettato la possibilità di sbagliare, è una persona intelligente e creativa, portatore di libertà, ma nello stesso tempo capace di concretezza. E’ quindi in grado di trovare in modo acuto soluzioni innovative ai problemi o di aiutare gli altri a liberarsi dalle dipendenze attraverso il ragionamento.
4. - Lo sballone: (il piacere) il bambino, prima della formazione della coscienza, sperimenta uno stato di fusionalità con la madre che gli provoca una sensazione di piacere, ma se il percorso di separazione da lei si rivela problematico, la pienezza emozionale del piacere condiviso con un altro diverso da sé, non riesce mai a realizzarsi pienamente. Lo sballone cerca sempre di vivere in tutt’uno con l’altro, alla ricerca di emozioni intense. E’ romantico, appassionato, spontaneo, ma privo di stabilità. Sta bene quando è in attesa dell’emozione, ma quando essa finisce, la malinconia, il pessimismo, se non addirittura l’angoscia, lo pervadono.
+ Il generoso: lo sballone evoluto è colui che ha trovato nella responsabilità il rimedio alla volubilità, ai sogni, all’inconsistenza. Diventare importanti per qualcuno perché se ne assume la responsabilità, è una conquista e gli permette di esprimere la sua capacità di coinvolgere anche le persone più difficili per la sua tenerezza e amicalità.
5. - L’apatico: (la quiete) tende ad essere inattivo, demotivato, da l’impressione di essere assente, questo gli permette di diventare insensibile agli stimoli ed alle sensazioni in modo da non essere coinvolto. Non riesce a tener dietro a più cose contemporaneamente perché è rigido e non vuole cambiare i propri ritmi, di fronte a situazioni critiche si dichiara inadeguato e si appoggia a coloro che lo circondano lamentandosi per il suo senso di impotenza e di debolezza. Ma tutto questo non porta la quiete, ma un forte senso di vuoto ed una penetrante tristezza fino ad arrivare fino all’astenia che lo fa cadere nella noia per la mancanza di impulsi.
+ Il pacifico: capace di non lasciarsi coinvolgere dai conflitti e di spengere le tensioni intorno a lui, sa trasmettere la pace intesa come trasformazione al positivo di tutte le emozioni di base conosciute. Ha cambiato la rabbia in impegno, la vergogna in umiltà, il piacere in condivisione emotiva, la dissociazione in libertà riuscendo così a conquistare la vera quiete attiva e contemplativa che è un rapporto di amore con il mondo tutto.
6. - L’invisibile: (la vergogna) nel momento del distacco dalla madre scoprendo accanto a lei altre figure, si percepisce sminuito e sente di “essere meno” soprattutto se è anche oggetto di squalifiche. Legata alla bassa stima di sé si instaura la vergogna: cerca di non mostrare nulla di sé per il timore di essere giudicato, fugge dalle relazioni non per amore della solitudine, ma perché ha paura di essere scoperto, non ama mettere in mostra i suoi sentimenti perché li sente inadeguati, cerca di scomparire del tutto per la vergogna di vergognarsi. Talvolta compensa questo stato di cose con un senso di superiorità interna per cui ritiene che gli altri non siano in grado di capire la ricchezza del suo mondo interiore, ma non riesce a concretizzare in nulla questo suo sentire. Può diventare invidioso e crudele perché vede gli altri come migliori e ha piacere di sminuirli anche se a lui non ne viene niente.
+ L’umile:la sua capacità di sopportare il dolore che lo attraversa e poi lo lascia con un’esperienza che lo rende disponibile a sostenere gli altri, insieme alla sua attitudine al coglimento empatico, lo rendono capace di riconoscere la sofferenza anche nascosta, e di mettersi in un rapporto di aiuto attraverso l’umiltà e le condivisione. Può aumentare la stima di sé attraverso la disciplina perché questa gli offre la possibilità di ottenere risultati verificabili che gli forniscono l’energia per continuare a mettersi in gioco.
7. - L’adesivo: (l’attaccamento) il bambino sazia il suo bisogno di attaccamento quando scopre l’attaccamento della madre verso di lui che si ripete in modo routinario. In seguito il bambino, per piena sazietà della vicinanza, può cominciare a volgere il suo sguardo sul mondo intorno a sé. Se il figlio però vede la sazietà a portata di mano, ma questa non gli viene mai concessa per insufficiente capacità affettiva della madre, la sua insoddisfatta tensione di attaccamento rimane sempre accesa. Crescendo con la speranza che l’amore gli venga concesso, rimane dipendente da questo tipo di relazione. La bocca è l’organo con cui il bambino incontra il cibo insieme al contatto fisico con la madre, così l’adesivo tende a ricercare proprio nel cibo un appagamento sostitutivo di quello mai ricevuto. Pur di essere considerato, è disposto a fare il “pagliaccio”, è appiccicoso, ma se rifiutato diventa ancora più insistente, vuole imitare le persone che gli piacciono. Per questo desiderio di essere accettato rischia di essere manipolato e condizionato anche perché considera l’altro sempre come buono e positivo. Se qualcuno lo ascolta, lo gratifica e poi lo minaccia di andarsene, lo può “comprare” visto che la carenza affettiva sofferta non gli permette di avere un corretto metro di misura dell’affettività.
+ Il fedele: se il suo bisogno di attenzione viene soddisfatto, diventa affettuoso, premuroso, sa coltivare le relazioni, ha un grande senso dell’amicizia e sa discriminare le persone che lo hanno ferito da quelle che lo hanno amato. Sa stare nei gruppi perché sa accettare il ruolo di “collante” in quanto quello che gli interessa è il successo di tutti e non il suo personale.
Questa delineazione è funzionale alla descrizione di personalità pur tenendo conto che ogni persona è l’espressione dinamica di copioni multipli e alla ricerca di percorsi di trasformazione delle emozioni in sentimenti.
Lo strumento che di solito viene usato per delineare le caratteristiche individuali è il questionario di Artigianato Educativo. Una volta compilato e interpretato esso diventa un mezzo per il raggiungimento della consapevolezza del sé: prima di tutto l’osservazione delle aree in cui i punteggi sono più bassi, perché ciascuno conosce bene le emozioni o i sentimenti dei propri copioni, ma spesso non ha idea di quanto altro il mondo delle emozioni gli potrebbe riservare espandendo il sé verso quei sentimenti difficilmente o mai sperimentati. Se una persona riesce ad entrare in qualche ambito tipologicamente a lui estraneo, ciò significa che ha attuato un processo di crescita e questo processo è quello che è costantemente e assolutamente ricercato.
Nel percorso verso la genitorialità è fondamentale acquisire la capacità di sperimentare le varie emozioni per riconoscerle, coglierle nel vissuto della famiglia e saperle agire nelle relazioni perché voler bene significa dare a ciascuno quello di cui ha bisogno cercando di tirar fuori quello che di meglio c’è in ognuno (inutile e assolutamente oppressivo rimproverare un’invisibile per la mancanza di ordine, la sua non è pigrizia, ma assenza di una gerarchia interiore. Serve piuttosto un ragionamento che lo aiuti a delineare delle scelte organiche).
Gli interventi educativi per spostare le emozioni sono di tre tipi.
§ Nel primo tipo si attuano processi volti allo spostamento delle emozioni verso altre emozioni adiacenti, cioè quelle più prossime. La comunicazione deve prima di tutto destare l’attenzione del soggetto, ma in seguito si articolerà secondo la modalità più consona alla necessità della persona o del momento per mezzo di una oggettivazione che impedisca un feedback negativo: dopo aver gratificato un adesivo si potrà modulare l’intervento su un piano di ragionamento per portarlo a riflettere sul sé avvalendosi magari di fatti esterni. Gli strumenti della comunicazione educativa sono apparentemente semplici, ma devono essere ben capiti per agirli in modo corretto ed efficace: il rimprovero, l’incoraggiamento, l’insegnamento, il coinvolgimento emotivo, la tranquillizzazione, il sostegno, la gratificazione.
§ Nel secondo tipo si configura la trasformazione delle emozioni in sentimenti. Questi sono molto più complessi delle emozioni e frutto della consapevolezza piena che riflette sui propri comportamenti: un sentimento di amicizia può nascere dall’attaccamento, dalla fusionalità, ma per essere tale acquista la consapevolezza dell’altro nel rispetto delle sue esigenze, nel controllarsi per non ferirlo oppure nel confidarsi per la fiducia che l’altro ci capisca. In questo percorso l’educatore è un mentore[41] che è presente in modo continuativo.
§ Nel terzo tipo si configura la scoperta dei valori che sono il frutto di un processo di elaborazione di ciascuna emozione in base al proprio vissuto. Non tutti i valori hanno la stessa importanza nelle varie persone e nelle varie culture. L’obiettivo educativo è quello di far scoprire i valori che a quella persona sono sconosciuti per la sua tipologia. Ognuna di esse possiede un valore centrale (vedi descrizione delle tipologie), l’educatore ha il compito di far scoprire altri valori. Il valore della responsabilità supera il senso del semplice dovere, inteso come ricerca di sicurezza, rigido e categorico. Lo arricchisce della generosità e della tolleranza che permettono di rimanere ad una certa distanza dalla persona pur mantenendo la propria disponibilità ad effettuare tutti gli interventi necessari con l’umiltà che riconosce la libertà dell’altro.
In tutti questi processi è sempre in gioco l’empatia intesa come esperienza comunicativa che è in grado di dare aperture affettive verso l’altro, le più competenti possibile per “nutrire” e crescere.
3.2 LA FORMAZIONE ALLA GENITORIALITA’
L’Artigianato Educativo presuppone strumenti educativi diversi così come sono diversi i bisogni. In relazione agli obiettivi e gli argomenti di questo lavoro intendo analizzare il percorso della Scuola Genitori, i problemi e i bisogni delle famiglie e dei bambini.
Tale progetto prevede una occasione di formazione alla genitorialità con alcune tematiche fondamentali:
· sviluppo delle capacità di maternità e paternità;
· armonizzazione della coppia/famiglia nei diversi momenti della sua vita;
· apprendimento della comunicazione educativa nei confronti dei figli.
· valori essenziali per lo sviluppo dell’atteggiamento genitoriale
3.2.1 Sviluppo delle capacità di maternità e paternità
La relazione madre-figlio è unica e generatrice del progressivo aprirsi alle emozioni di base da parte del bambino e della capacità di coglimento empatico. In questa relazione la figura del padre è quella che, pur integrandosi con quella della madre, risponde a linguaggi ed emozioni diversi rendendo ricco il rapporto e iniziando il processo di distacco dalla fusionalità materna. Tale distacco deve essere però “consentito” dalla madre consapevolmente per far uscire il figlio dalla sua dipendenza. I genitori devono essere in grado di modulare le proprie emozioni e sentimenti a seconda dei bisogni del bambino, di quello specifico ed unico bambino, e nelle diverse situazioni ed età (l’errore tipico è quello del genitore che dice: ho trattato i miei figli tutti allo stesso modo, ma come mai sono così diversi?). E’ importante perciò seguire un percorso che faccia prendere coscienza degli ostacoli che certi copioni rigidi e bloccati solo su alcune emozioni di base, possono frapporre ad una reale maternità e paternità.
Gli ostacoli psicologici alla maternità:
L’attaccamento:l’attaccamento biologico è indispensabile al neonato per sopravvivere, ma il non superamento porta a concepire l’amore materno come un fatto biologico(“il sangue non mente!” oppure “sangue del mio sangue”) creando dipendenza nel figlio visto come l’unica fonte di senso alla propria vita (il mammismo). Se non si esce da questa visione questa donna potrà amare solo i figli biologici e non crescere verso una maternità matura.
L’ansia: è dettata dalla paura della perdita del figlio per cui le cure e le attenzioni sono moltiplicate nel desiderio che questi dipenda totalmente da lei e non possa allontanarsi(“Senza di me, mio figlio non sa far niente”). Attraverso questo vissuto manipolatorio si impedisce l’autonomia e il distacco.
L’iper-protezione: la protezione materna tende a creare una barriera contro quello che può essere minaccioso per il figlio, ma questa barriera può arrivare ad impedire al figlio di uscirne per crescere. Il figlio coinvolto in questa relazione riceve sempre proposte di impegno, di attività senza sosta, tanto da rischiare l’inquietudine e l’insoddisfazione.
La liberazione: è intesa come la creazione di un rapporto materno al di là degli schemi culturali diffusi, con una idealizzazione e “mentalizzazione” della relazione che però non produce affettività.
Il compiacimento: la ricerca della fusionalità, che può addirittura sfociare in una seduttività ambivalente, può portare la madre ad un rapporto di gelosia nel confronto del figlio e del mondo che lo circonda.
La distanza materna: è dettata dall’indifferenza, dalla imperturbabilità nei confronti delle scelte dei figli, per cui ogni cosa, negativa o positiva, sembra scivolare via senza lasciare traccia.
Il non-sostegno: si realizza quando non si riesce ad amare e sostenere il proprio figlio per quello che è perché ci si vergogna di qualche aspetto e lo si rifiuta.
Gli ostacoli psicologici alla paternità:
Non-stima di sé: si concretizza nel desiderio che il figlio realizzi quello che il padre non è riuscito a fare. Non nel senso di dare al figlio le possibilità di realizzarsi in pienezza e credere che possa diventare migliore del padre stesso, ma nel senso di tradurre in realtà le aspettative del padre che si realizza nel figlio, a volte impedendogli scelte personali.
L’indifferenza: al momento della nascita l’uomo si sente espulso dal rapporto particolare tra la madre e il neonato. Se non riesce a coinvolgersi nella relazione con il figlio si può giungere alla conflittualità con la figura materna, e alla figura di un padre “assente” da tutta la vita del figlio di cui non riesce a “gustare” le emozioni trasmesse.
L’angoscia: se il piacere della vita in tutti i suoi aspetti viene vissuto come un “peccato”, si crea il senso di colpa, l’insicurezza per non saper distinguere quello di cui si può legittimamente godere e quindi l’angoscia che viene trasmessa al figlio proprio attraverso l’affermazione e la negazione continue del “piacere”, in modo da non riuscire a riconoscersi come guida morale.
Perdita e ritrovamento: se ogni distacco del figlio viene visto come una perdita della relazione, come se la paternità si interrompesse, non si può insegnare la libertà che è scegliere di andare e tornare.
L’iper-protezione: il mondo è percepito come ingiusto e falso perciò da combattere, ma questo richiede coraggio ed energia, allora si sviluppa un senso di protezione del figlio dal male del mondo fino ad arrivare a lottare per lui, senza dargli la possibilità di imparare a difendersi da solo.
Il dubbio: il timore per le scelte da prendere sul figlio può portare all’insistenza sull’adesione a convinzioni radicate ma esterne (famiglia, tradizione, morale, ecc.). Il valore di tali convinzioni diventa ossessivo e il figlio, a cui si vuol dare senso di responsabilità, in realtà risulta oppresso senza ricevere alcuna sicurezza profonda.
La non-accettazione: molto profondamente e spesso inconsciamente l’uomo vive l’incertezza della paternità che risolve con “mi assomiglia”. L’accettazione di paternità, aiutata dalla madre, è importante per il figlio per vivere modi di rapportarsi, di giocare e di interagire con il mondo diversi da quelli materni. Il problema può diventare considerevole nel caso di PMA eterologa, in cui la paternità biologica sia effettivamente diversa da quella legale. L’attaccamento paterno si origina dal senso del ruolo difensivo della prole già presente nei maschi di varie specie animali, oppure l’uomo diviene capace di affettività in modo intenzionale, in una assunzione di responsabilità? Il problema non è secondario se si considerano due fatti: il primo che in Italia in questi ultimi anni sono aumentate del 15 % le richieste di Test di paternità effettuati nei laboratori, senza considerare quindi quelli effettuati privatamente attraverso i kit acquistati tramite Internet per lo più dalla Germania; il secondo che la Corte di Cassazione, in assenza di una legislazione precisa, con la sentenza n. 2315/99 ha dichiarato l’impossibilità di disconoscimento della paternità nel caso che il marito abbia precedentemente dato il suo consenso all’inseminazione eterologa. Questi elementi danno il senso di quanto l’accettazione della paternità sia complessa e abbia bisogno di una elaborazione che dalle emozioni vada verso i sentimenti ed i valori, verso il valore della paternità: “ Nel concetto di valore c’è una tensione alla sua scoperta ed un appello alla realizzazione. Se un valore è scoperto, attorno ad esso si organizza un vissuto il quale, a sua volta, diventa bussola per la crescita umana più ampia ed orientante”[42].
La discussione su questi aspetti dovrebbe essere condotta in gruppi di padri e/o madri con la stessa tipologia di personalità per rendere più approfondita l’analisi e ampio il coglimento empatico.
3.2.2 Armonizzazione della coppia/famiglia nei diversi momenti della sua vita
Uno dei più importanti strumenti di lavoro con le famiglie, per armonizzare il loro percorso, è quello di offrire alla discussione gli elementi di descrizione delle diverse tipologie di famiglia.
“ La famiglia percorre un ciclo di vita articolato in diverse fasi, dalla coppia innamorata agli anziani coniugi con i figli che hanno ormai abbandonato il nido. Ad ogni fase della storia familiare corrispondono diverse tappe evolutive del rapporto tra persone e, ad ogni fase, si adatta una tipologia familiare che può riuscire a superare gli elementi di crisi o rimanere bloccata sulla ripetizione di comportamenti involuti.”[43]
“Per personalità di gruppo si intende quel modo di essere del gruppo centrato sulla qualità delle esperienze condivise, con una particolare struttura(e gerarchia) di relazioni interne, uno specifico stile comunicativo, valori(o disvalori) di riferimento e, soprattutto, una qualità emozionale di base che è di sfondo al sentire collettivo del gruppo.”[44]
Per giungere quindi ad una descrizione delle tipologie di famiglia, bisogna tener conto di due fattori essenziali: il cambiamento che avviene nel corso della vita e le tipologie di personalità collettive. L’evoluzione che il nucleo attua dal momento dell’innamoramento, quando cioè inizia la sua vita di coppia, può avvenire secondo un processo che comporta variazioni della qualità emozionale di base del nucleo familiare per influenze esterne, elementi imprevisti e situazioni particolari, ma anche per valutazioni relative al proprio vissuto che la famiglia può fare. I processi cognitivi e le emozioni sono inscindibili e, mentre quelli hanno una funzione valutativa, queste sono strumenti che realizzano i conseguenti adattamenti per il conseguimento del proprio benessere. Basta pensare alla coppia che dopo aver scelto l’adozione, comincia il suo percorso familiare con un bambino che all’inizio è altro da sé. I rapporti di coppia stessi vengono disequilibrati non solo a livello logico per le nuove necessità e ruoli, ma anche nel profondo vissuto emozionale. I due non sono più quelli di prima e il rapporto circolare esistente tra individui e gruppo(coppia e famiglia) condurrà verso nuove acquisizioni e spostamenti emozionali.
Ogni emozione indubbiamente ha la possibilità di trasmutarsi verso un’altra a quella somigliante, cioè adiacente nella rappresentazione circolare del grafo delle sette emozioni di base(la persona priva di autostima sperimenta la vergogna e percepisce come fonte di dolore la sua sensibilità che gli provoca disagio; per spengere tale dolore si dirige verso la ricerca dell’indifferenza, della quiete). Naturalmente il percorso di maturazione/spostamento emozionale non è così schematico e rigido; fatti drammatici o particolarmente propizi, possono variare il percorso, ma credo che possa essere utile cercare di coglierne le variazioni per capire meglio quali interventi e con quali modalità possono essere attuati per produrre un maggiore equilibrio.
La famiglia effusiva/appariscente: l’inizio del percorso di innamoramento si caratterizza con una notevole effusività, il clima è molto vitale ed emozionale, si basa sulla fusionalità, la ricerca del piacere di amare ed essere amati. Si esprime sovente con atteggiamenti esteriori di effusioni costanti. Finirà in breve perché appena si conclude il periodo dell’unità, ciascuno definisce la sua identità e si separa.. Se la relazione continua e l’effusività non si evolve nel senso della coesione, si ha una scarsa capacità effusiva verso i figli oppure un rapporto affettivo eccessivo verso di loro con gelosie reciproche tra i coniugi. Se la coppia diventa consapevole che l’innamoramento può cambiare nella capacità di coesione e comunicazione allora il rapporto subirà dei cambiamenti positivi di maturazione.
La famiglia comunicativa/atomizzata: la coppia, in cui l’emozionalità non è più totalmente coinvolgente, ridefinisce la famiglia e costruisce il suo modo di porsi di fronte al mondo attraverso la comunicazione e l’approvazione reciproca dei propri comportamenti. Tale risultato non è meccanico, ma consapevole e deve mirare ad un progetto di vita stabile e condiviso E’ questo il momento in cui , acquisita una certa stabilità emotiva,generalmente si affronta la procreazione. Il progetto comune dovrebbe anche permettere al nucleo di affrontare il mondo con le difese adeguate per salvaguardare la propria identità. Nel caso in cui però il dialogo prenda il sopravvento sulla comprensione ed ognuno cerchi di far valere la propria visione della vita, si rischia di attivare continue discussioni che possono indebolire i vincoli personali e far perdere l’affettività che coagula i vari componenti attraverso gesti di amore. Le tensioni causate dalle controversie continue possono portare ad un clima relazionale di contrasto.
la famiglia difensiva/antagonista: la difensività è un elemento importante perché crea il senso di appartenenza senza il quale i figli non riescono ad avere una condizione di sicurezza che permetta loro di affrontare il mondo. Solo se i figli si sentono amati e capiti dentro la famiglia, possono affrontare il mondo con la necessaria fiducia in se stessi. La difesa dei figli piccoli, o meglio, delle scelte educative su di loro da parte dei genitori è importante per definire le caratteristiche della famiglia come un’entità unica. Se però la relazione di coppia si esprime in modo conflittuale, con risentimento reciproco perché ciascuno pensa di fare più dell’altro tanto che il legame principale sembra il desiderio di rivincita, invece della volontà di realizzare un comune progetto, i figli assumono atteggiamenti ricattatori aumentando le tensioni interne, oppure possono diventare il capro espiatorio delle rivalità.. Sono spesso ragazzi iperattivi con difficoltà di apprendimento, oppure tendenti alla depressione allorché si sentono responsabili delle tensioni familiari. Se questo tipo di famiglia riesce a convogliare all’esterno la sua conflittualità verso un qualche nemico comune, può ricompattarsi allo scopo di proteggersi.
La famiglia protettiva/oppressiva: la protezione è un elemento importante nella vita di una famiglia quando i figli affrontano il mondo perché questo infonde loro fiducia e serenità. Una struttura protettiva solida offre loro la capacità di vivere le relazioni sociali con una buona autostima: la famiglia è il riparo nei momenti di tensione, è il luogo dove ci si sente accolti per quello che si è, è l’occasione per provare la propria forza di persuasione, di sfida, di lotta. La protezione e la sicurezza possono creare un clima relazionale di scambio affettivo molto positivo. Ma se la famiglia esercita la protezione sostituendosi ai figli nelle difficoltà della vita, questa diventa in realtà un’oppressione. All’interno c’è una forte tensione verso un costante processo di rafforzamento dell’unione attraverso l’organizzazione, l’ordine, la sistematicità, manca un’affettività che permetta di sentirsi uniti anche senza “norme”. Nella situazione più estrema è capace di accettare anche comportamenti devianti purché non si conoscano all’esterno. Si incentra sulla madre che cerca di trattenere i figli all’interno della famiglia mentre il padre ha la funzione di “carabiniere”. Quello che veramente conta è “il legame di sangue” che unisce tutti, ma che arriva a imprigionare tutti.
La famiglia affettiva/invischiata: l’affettività unisce i membri della famiglia e li rende consapevoli della sua unità nella quale ci si muove con confidenza. Questo clima permea la vita quotidiana che viene accettata con serenità perché ciascuno può esprimere le proprie caratteristiche ed amare ed essere amato secondo quelle stesse caratteristiche. Ciò può condurre a relazioni aperte e comprensive. Se invece le persone non riescono a trovare la loro personale libertà per esprimersi senza per questo sentirsi traditori, si rischia di restare imprigionati. A volte per rimanere unita la famiglia esercita una forte pressione sui membri del nucleo non permettendo loro una adeguata indipendenza e costringendoli a rimanere legati a ruoli prestabiliti
La famiglia comprensiva/rassegnata: la capacità di sentire e accogliere i bisogni dell’altro è un elemento di grande importanza nelle relazioni familiari perché permette l’intendimento, l’aiuto, il sostegno reciproco. Se l’affettività porta ad un clima di comprensione reciproca, ciascuno scopre di riuscire a donare il proprio affetto umilmente secondo le necessità dell’altro, e non secondo il proprio estro. Ma a volte proprio per questa attitudine a porsi umilmente di fronte agli altri, si rischia di essere oppressi. All’oppressione si può reagire con una spallata oppure, ci si può rassegnare tentando poi di aggirare l’ostacolo con sotterfugi. Questa operazione non aumenta né le difese né la fusione tra i membri della famiglia, ma può portarli verso la ricerca di un anestetico che permetta loro di non sentire il dolore dell’oppressione. La famiglia rassegnata è talvolta rappresentata dalla coppia molto anziana i cui figli e magari anche i nipoti, sono ormai autonomi. In quel momento si crea un vuoto di obiettivi e di aspettative a cui ci si rassegna per non sentire il senso doloroso della fine della vita.
La famiglia pacifica/astenica: l’amore è vissuto in modo maturo perché attinge in profondamente ai sentimenti condivisi da tutti. La soddisfazione del dare amore è aumentata dalla rivelazione degli effetti positivi del nutrimento affettivo nell’altro. L’affettività interna alla famiglia si muove da una persona all’altra dando appagamento, ma si modula secondo le caratteristiche di ciascuna persona. Il clima affettivo di benevolenza è lo sfondo delle relazioni che permettono a ciascuno di esprimersi a suo modo, pur partecipando degli stessi valori. Anche gli eventi esterni (il lavoro, gli impegni associativi, sociali ecc.) possono essere affrontati con la necessaria saggezza che permette di impegnarsi, ma di mantenere una comunicazione con il mondo lucida e mite. Ma se la famiglia invece non è in grado di assorbire l’onda d’urto degli attacchi esterni perché troppo poco coesa e dinamica, si instaura un meccanismo di difesa attraverso l’autoanestesia. Quando un individuo ha una forte sensazione di dolore, cerca di non fare alcun movimento che gli possa acutizzare la sofferenza. Così la staticità e il dissolvimento sono le strategie di questi nuclei per resistere al dolore, ai problemi, alle difficoltà.
Le tipologie familiari indicano alcune difficoltà relazionali che devono essere rese consapevoli per poterle trasformare in risorse. Occorre infatti che la famiglia, una volta che sia chiarita la dinamica interna che provoca problemi, sia avviata verso processi di cambiamento e di superamento dei copioni sottintesi. Lo strumento di analisi di personalità collettive relative alla famiglia è un questionario formato da questi elementi:
v quantità delle persone e legami tra di loro;
v storia della famiglia
v rete esterna primaria e secondaria;
v rete interna di affinità (con grafo);
v eventi in cui si riunisce( ricorrenze, festività, vacanze, divertimento,quotidianità) come e con chi;
v analisi della routine (giornata tipo, ordine della casa, compiti e ruoli, pranzi e cene, spesa, lavoro, scuola ecc.);
v analisi dei conflitti e delle concordanze;
v ambiente culturale (provenienza delle routine dalle famiglie di origine);
v stili di vita;
v progetti collettivi o individuali in atto
I risultati possono indicare in quale tipo di relazioni la famiglia sia eventualmente rimasta bloccata e la riflessione può rimettere in moto la dinamica di cambiamento avviando un processo di superamento delle insoddisfazioni e dei conflitti. Il luogo in cui affrontare questo lavoro è il gruppo d’incontro o di discussione. Nelle situazioni più problematiche potrà essere opportuno avviare un dialogo individuale e/o familiare.
3.2.3 Apprendimento della comunicazione educativa nei confronti dei figli.
“Ogni relazione, ogni incontro umano è educativo; è cioè portatore di significati, valori o anche semplicemente opinioni che assumono un peso educativo nella crescita di colui che riceve. Poiché in una relazione ogni attore riceve qualcosa (a volte un riconoscimento, altre una squalifica, un incoraggiamento o un sostegno o solamente un’informazione da elaborare o un’assenza di alcunché) è chiaro che ogni relazione assume per entrambi gli attori un significato che, implicitamente o esplicitamente avrà un peso nel futuro della persona. Il problema che dobbiamo dunque porci è quello, sempre che si scelga di accettare il senso e la responsabilità che inevitabilmente abbiamo nell’incontro con le persone, relativo alla quantità e alla qualità delle relazioni che costruiamo.
…..La mia scelta e la mia prospettiva d’azione è comunque quella di voler avere un peso positivo nelle relazioni che costruisco. Per far questo devo chiedermi quando e come potrei averne di negativi.
Cosa vuol dire non averne di negativi? Vuol dire essere buoni con tutti?
Assolutamente no. Vuol dire imparare a riconoscere ciò di cui una persona ha bisogno o, più semplicemente, ciò di cui sicuramente non ha bisogno.”[45]
La Scuola Genitori propone alla riflessione modalità di comunicazione educativa che sono alla portata di tutti, ma che devono essere agite secondo il vissuto altrui se si vuole raggiungere un obiettivo corretto e modulare la comunicazione in funzione educativa.
“Il motivo di tale esposizione sta nel fatto che l’intervento educativo è centrato sulle caratteri-stiche della persona e non sul copione personale dell’educatore. Esporre le modalità educative come < tecniche > applicabili a chiunque fa cadere tutto il costrutto dell’artigianato educativo; se l’educatore non intuisce il copione dell’educando il suo intervento è inefficace.” [46]
Ci sono diverse comunicazioni educative finalizzate ad uno spostamento emozionale a seconda delle necessità della persona a cui vengono rivolte ma anche a seconda delle tipologie di personalità che agiscono la comunicazione:
Il rimprovero: serve a criticare o a prevenire un comportamento scorretto. Occorre un tono fermo, deciso, con una comunicazione breve, forte, incentrata su fatti concreti seguita da un silenzio completo che fa entrare il messaggio in profondità. Colui che sa rimproverare con efficacia è l’avaro perché sa comunicare in modo sintetico e concreto ed ha le difese adeguate per sostenere il feedback della sua azione. Serve soprattutto allo sballone e all’apatico. Il primo si può distaccare da azioni che in definitiva non gli danno tutto il gusto che cerca ed è importante il silenzio dopo il rimprovero che da il ritmo dell’interruzione del piacere verso il distacco. Il secondo viene rimosso dallo stato di calma, verso la realtà facendolo reagire alla sua pigrizia per vergogna. Con le altre tipologie si devono usare modalità un po’ diverse: un’analisi del fatto calma e precisa con il ruminante, un’espressione del fatto seguita dall’ordine di fare un’azione concreta a riparazione per il delirante, un’analisi dell’errore che metta in evidenza che si critica quello e non la persona per l’invisibile, un rimprovero seguito da un insegnamento che lo faccia pensare per l’adesivo e un prendere alla larga il problema per l’avaro.
L’incoraggiamento: serve a dare carica e motivazione. Occorre impegno e forza, un obiettivo preciso, un preciso destinatario senza alcuna critica. Colui che sa incoraggiare è il ruminante perché sa trasmettere coraggio e forza. Serve soprattutto all’apatico e all’invisibile. Il primo risponde ad un richiamo energetico di piacere, il secondo può conquistare un risultato che sia suo e che consideri come cosa che gli appartiene in modo da aumentare la stima di sé, oppure può sentirsi importante per qualcuno che ha bisogno di lui. Con le altre tipologie l’incoraggiamento non è efficace, rinforza il delirante e il ruminante, rende ancora più ansioso l’avaro, rende ancora più forte l’attaccamento dell’adesivo mentre l’incoraggiamento verso l’impegno cade nel vuoto con lo sballone.
L’insegnamento: serve a dare distanza da sé, dal mondo, a liberarsi dai pregiudizi, da impressioni superficiali e da misconcetti. Occorre capacità di sollecitare intuizioni, correlazioni fra varie informazioni, ragionamento, riflessioni. Colui che sa meglio insegnare è il delirante perché sa pensare in modo libero e creativo. Serve soprattutto all’adesivo e all’invisibile. Il primo si sposta così verso l’analisi della realtà attraverso l’analisi di fatti, persone, ecc. a cui non aveva fatto caso e una volta soddisfatto nell’attenzione verso il sé, può rivolgere la sua attenzione al mondo. Il secondo ha bisogno di trovare intorno a sé la pace che gli permette di spengere il dolore. La compassione rinforza la sua sofferenza, ma l’insegnamento lo fa operare senza ricevere ulteriori squalifiche. Per l’avaro l’insegnamento può risultare solo un insieme di informazioni da memorizzare senza cambiare i propri schemi mentali, per il ruminante rappresenta un nuovo incentivo all’azione, per il delirante è solo un nuovo schema in cui inserire la grande massa di informazioni della sua mente, per lo sballone è un nuovo gioco, per l’apatico può non rappresentare un motivo adeguato a smuoversi dalla sua pigrizia.
Il coinvolgimento emotivo: serve a sperimentare sensazioni ed emozioni. Occorre una carica emotiva che sappia far sognare, costruire un’immagine, una storia. Colui che sa meglio coinvolgere è lo sballone perché, senza inibizioni, sa trasmettere una vibrazione emozionale aiutando gli altri ad immedesimarsi nel suo vissuto. Serve soprattutto all’adesivo e all’avaro. Il primo, attraverso lo spostamento emozionale da sé su altro che ha bisogno di lui per essere salvaguardato, può attivare la sua componente di compassione e sostegno che sono tipiche dell’invisibile ed entrare in contatto con il vissuto altrui, uscendo dal copione di richiesta di attenzione per sé. Il secondo può essere coinvolto emotivamente verso una azione trasformando la paura e l’ansia in impegno(rabbia), senso di giustizia del ruminante. Per il ruminante il coinvolgimento emotivo è poco efficace perché già troppo attivato per cogliere una comunicazione espressiva, per gli invisibili l’emozione è fonte di disagio per cui tendono a difendersene chiudendosi, il delirante trasforma l’emozione in una nuova forma mentale, lo sballone come un rinforzo della sua ricerca di fusionalità, l’apatico tende a difendersi perché l’emozione lo porterebbe alla percezione del sé da cui tenta di anestetizzarsi.
La tranquillizzazione: serve a spengere le tensioni e chiudere quei meccanismi che alimentano la produzione di energia. Occorre possedere calma interiore, non contraddire l’interlocutore, non cadere nelle provocazioni, smorzare i toni. Colui che meglio sa tranquillizzare è l’apatico perché si esprime trasmettendo pace. Serve soprattutto all’avaro e al ruminante. Il primo si libera dell’ansia e della paura attraverso l’interesse di attaccamento a cose, persone o luoghi che, se non curati, degraderebbero inevitabilmente e così si sposta verso l’adesivo. Il secondo attraverso una comunicazione di sorpresa che distolga la sua attenzione dalla tensione dentro di lui. La tranquillizzazione è poco efficace con il delirante perché questi la rifiuta e non riesce a gustare la pace, con l’adesivo perché il bisogno di affetto e attenzione non si soddisfano nella pace, con l’invisibile perché la calma gli permette di sentire ancora di più le impressioni esterne così da sentirsi maggiormente impotente, con l’apatico perché rinforza il suo copione di demotivazione, con lo sballone perché la calma rappresenta solo il momento prima di una nuova eccitazione.
Il sostegno: serve per dare una presenza concreta e fiduciosa a chi viene aiutato allo scopo di sorreggere (portare con lui) difficoltà e sofferenze con la fiducia che possano essere superate. Occorre umiltà, fiducia, capacità di impedire il crollo dei processi emozionali altrui. Colui che meglio sa sostenere è l’invisibile perché è capace di agire senza mettersi in vista, impegnarsi senza aspettarsi gratificazioni, condividere un vissuto di sofferenza fino alla risoluzione. Serve al delirante e al ruminante. Il primo può trovare nel sostegno, un confine, un limite alla sua superbia, alla sua confusione mentale non attraverso il ragionamento, ma piuttosto con una presenza chiara e con la capacità di fissare la sua attenzione su un particolare elemento che dia concretezza al vissuto. Il secondo ha bisogno dell’umiltà dell’invisibile che non lo contraddice, pur senza rinforzarlo, ma capisce la sua sofferenza. Questo gli permetterà di esprimere la sua aggressività dando sfogo alla sua rabbia. Per sostenere uno sballone è necessario usare un richiamo alla responsabilità perché decida di uscire dall’angoscia, sostenere un apatico è solo un rinforzo del suo copione, per l’invisibile il sostegno è motivo di crogiolarsi nelle sue inibizioni, l’adesivo non ne riceve l’appagamento desiderato, l’avaro potrebbe moltiplicare la sua ansia.
La gratificazione: serve per apprezzare e mostrare riconoscimento, aiuta ad entrare in contatto con la parte positiva di sé. Occorre sincerità, acutezza nell’individuare gli elementi oggetto di un complimento, trasparenza nella motivazione. Colui che meglio sa gratificare è l’adesivo perché ha sperimentato il bisogno di complimenti e sa individuare quel qualcosa di positivo che l’altro non riesce a vedere di sé. Serve al delirante e allo sballone. Il primo, che immerso nella sua confusione mentale non riesce a soffermarsi e essere soddisfatto, può trovare in un complimento l’innesco per una percezione concreta che lo riporti a qualcosa già “gustato” precedentemente oppure che lo apra ad una visione di bellezza semplice, ma avvolgente. Il secondo può prolungare il gusto di un vissuto, rimanergli fedele perché la gratificazione gli fa sentire di nuovo l’emozione precedente o gliela fa sentire in altro modo confermandola e rendendola più stabile, più vicina alla fedeltà.
“Se l’educatore pensa di poter usare lo stesso atteggiamento nei confronti dei diversi soggetti che incontra, non ha capito la regola base dell’educazione e cioè il suo incentrarsi sulla persona…….…Quando però le problematiche educative si fanno complesse e diversi soggetti compaiono sulla scena con i loro diversi e specifici bisogni (sia in una comunità che in una famiglia con più figli), l’artigiano dell’educazione deve diventare duttile e crescere anche in quelle modalità d’intervento che non gli sono immediatamente congeniali.”[47]
Per questo è importante che nella Scuola Genitori si rifletta anche sulle tipologie di figli e sulle loro necessità educative per sottolineare ancora una volta che essere genitori significa guardare ai figli con l’intento di tirare fuori il meglio da loro amandoli e rispettandoli (altrimenti si rischia di essere allevatori)
L’artigianato educativo utilizza a questo scopo una terminologia ripresa dal mondo delle fiabe, ma che rende chiaramente l’idea del carattere di cui si discute:
Brontolo (avaro): è ordinato, preciso, rispetta le regole, non è molto emotivo, ha una buona logica, ma poca immaginazione. Ha bisogno di una mamma sballona che lo apra alla generosità attraverso l’apprezzamento e l’esercizio dei sentimenti, della tolleranza, della commozione di fronte alla vita. Ha bisogno di una papà apatico che spenga la sua ansia e lo indirizzi verso la pace attraverso una visione della vita accettata per quella che è con “ alti e bassi “, con vittorie e sconfitte, ma con la serena accettazione dell’impegno che essa comporta senza paura.
Eolo (ruminante): è facile ad accendersi, è energico, ama le attività manuali, i giochi attivi, è ribelle, ma tende a schierarsi dalla parte dei più deboli di cui si sente un po’ responsabile. Ha bisogno di una mamma apatica che insegni al figlio a spegnersi assorbendo “tranquillamente” la sua rabbia, la sua energia e facendogli poi vedere con soddisfazione quello che ha realizzato. Ha bisogno di un papà invisibile che lo aiuti con sensibilità e delicatezza a dirigere la sua energia verso le cose davvero importanti indicandogli anche il modo di conquistarle con minore fatica.
Dotto (delirante): è un bambino curioso, acuto, pronto a differenziarsi perché si sente libero, anche un po’ al di sopra degli altri. Per questo e per la difficoltà a manifestare le sue emozioni non socializza facilmente e può addirittura risultare un po’ antipatico. Ha bisogno di una mamma invisibile che, con la sua sensibilità, sappia cogliere tutte le sfumature delle emozioni del figlio e gliele restituisca non come buone intuizioni, ma come comprensione e condivisione del senso umano che esse contengono. Da lì si arriva pian piano alla concretezza. Ha bisogno di un papà adesivo che attraverso l’attenzione affettuosa e premurosa sia in grado di ricomporre la complessità mentale del figlio per riportarlo verso il centro di sé e verso la comprensione della sua storia.
Gongolo (sballone) : è simpatico, estroverso, generoso, fa amicizia con facilità, ma alterna momenti di tristezza, quasi di angoscia per la paura di non riuscire più a vivere la gioia di sentirsi tutt’uno con gli altri, e il mondo. Ha bisogno di una mamma adesiva che risponda con il suo affetto che non svanisce, anzi lo avvolge e lo fa sentire sicuro e protetto. Ha bisogno di un papà avaro che gli dia responsabilità insegnandogli la compostezza e l’ordine. Il figlio ne ricaverà un senso di sicurezza per gestire le proprie emozioni senza cadere nella cupezza.
Pisolo (apatico): è tranquillo, calmo, ama le attività ripetitive, ma è un po’ pigro e spesso demotivato a fare. Ha bisogno di una mamma avara che gli insegni che la cura, l’attenzione e l’ordine facilitano la vita e che, nello stesso tempo, con la sua ansia e controllo tenga desto il senso di responsabilità verso le proprie cose, perché solo quelle sono veramente proprie. Ha bisogno di un papà ruminante che gli trasmetta la sua energia prendendo il controllo della situazione ogni volta che il figlio ha bisogno di “accendersi” e insegnandogli a concentrarsi per aumentare la sua tensione interna, mantenerla viva per lanciarsi poi verso l’obiettivo.
Mammolo (invisibile): è timido, si vergogna, è indifeso, ma è molto sensibile ed è disponibile ad aiutare le persone che sente vulnerabili. Ha bisogno di una mamma ruminante che gli dimostri tutto il suo amore in modo intenso e forte. Se lui sente che la mamma, pur leggendo i suoi pensieri, ha per lui un affetto protettivo, può riuscire a cogliere e ritrovare in sé una carica imprevista che lo spinge verso l’azione. Ha bisogno di un papà delirante che, dall’alto della sua intellettuale libertà, riconosca le sue azioni e le apprezzi come frutto delle sue capacità. Questo apprezzamento permette al figlio di accrescere la stima di sé mentre sente che l’amore del padre lo conferma come persona importante.
Cucciolo (adesivo): piuttosto disordinato, appiccicoso, a volte sottomesso, ma anche premuroso e affezionato. Ha bisogno di una mamma delirante che gli insegni la libertà aiutandolo a riflettere e ragionare per trovare la strada per fare da solo, ma nello stesso tempo dimostrandosi disponibile ad aiutarlo quando è in reali difficoltà. Ha bisogno di un papà sballone che gli offra emozioni e sentimenti intensi che lo facciano sentire molto vicino al genitore e che lo riempiano tanto da permettergli di gustare questa prossimità anche quando il papà non c’è.
La riflessione sia sulla comunicazione educativa che sui bisogni dei vari tipi di figli si può fare in gruppo attraverso il role play in cui due persone sono i genitori ed una terza il figlio. L’obiettivo è sperimentare quanto sia essenziale capire quello di cui l’altro ha bisogno e rispondere non secondo quello che si è (io sono fatto così, che devo farci?: è una frase inutile e distruttiva), ma secondo quello che di cui il figlio ha necessità (a Mammolo non è possibile rimproverare la mancanza di impegno o di ordine, perché così lo si annulla, facendolo precipitare dentro di sé). Questo modo di procedere può essere difficile, ma non artificioso, perché in fondo ciascuno può riuscire a trovare dentro di sé, magari nascoste da un po’ di tempo, quelle qualità necessarie in quel momento con quel figlio. Ogni genitore desidera il meglio per suo figlio e il meglio è orientare la propria affettività verso le modulazioni più adeguate nei vari momenti della vita.
3.2.4 Valori essenziali per lo sviluppo dell’atteggiamento genitoriale
“Come ripetiamo, quello che si sta prendendo in considerazione è solo un particolare aspetto di una realtà più complessa, stiamo parlando dei ragazzi cosiddetti normali, che improvvisamente compiono qualcosa di aberrante. Ciò che più spaventa è la lucidità con cui portano a compimento le loro azioni e durante i processi l'estraniazione da ciò che è accaduto, quasi fosse stato commesso da altri. Allora si torna a discutere della categoria adolescente, con le sue caratteristiche e i suoi stati di sviluppo; è difficile pensare che in un individuo, poco più che bambino possa esserci tanta ferocia e tanta malvagità…… Sicuramente un modo efficace con cui la società può proteggere e difendere i suoi più giovani rappresentanti è creare una rete morale solida che si basi su valori condivisi che riguardano soprattutto la dignità della persona, il senso e l'importanza della vita individuale, il rispetto e l'accettazione.”[48]
“Ed è proprio il fattore ambientale/culturale ad influenzare maggiormente i comportamenti che potremmo definire devianti. Un rapporto deteriorato tra l'adolescente e la famiglia e tra l'adolescente e le agenzie di socializzazione, determina una mancata acquisizione delle norme culturali di convivenza”[49]
Le notizie di cronaca purtroppo ci portano a riflettere spesso sulle motivazioni che possono portare ragazzi a cui apparentemente nulla manca, a compiere azioni criminali gravi e feroci. La noia, causa che i mass media citano come origine di ogni male, è una spiegazione troppo semplicistica. Purtroppo bisogna ammettere che nelle famiglie e nella società la trasmissione dei “valori” viene considerata come qualcosa di stantìo, quasi che la convivenza civile fosse un prodotto naturale, istintivo, e non il frutto di una riflessione nel processo di formazione dell’Io adulto.
Proprio per questo è importante che la Scuola Genitori ritorni sul tema dei valori, per capire che essi non sono una forma di astrazione, né una riflessione cervellotica, ma piuttosto la scoperta di “una cosa che vale” e che permettono di valutare le azioni, aiutano a definire la realtà e sono impregnati di grande affettività. Ciascuna persona possiede per le sue caratteristiche di personalità alcuni valori, ma altri gli mancano per essere più equilibrata ed è in questa direzione che l’educazione deve volgersi (es. il ruminante possiede il valore della giustizia, ma gli manca quello della pace).
I genitori hanno il grande compito di far conoscere i valori della saggezza, dell’impegno, della libertà, della generosità, della pace, del sacrificio e della fedeltà. Naturalmente alla fine si arriverà ad un equilibrio tra di essi che esprima le predisposizioni di ciascuno e le affinità per un certo stile di vita pur considerandone tutto l’insieme: questo porterà alla personale scala di valori.
I valori di riferimento sono quelli propri delle sette tipologie di personalità:
La responsabilità: il dovere è rigido, e metterlo in atto diventa ritualismo. Soltanto attraverso la sua maturazione si giunge all’etica della responsabilità che comprende il dovere, ma lo arricchisce di tolleranza e generosità e si pone alla giusta distanza dall’altro considerandolo con sensibilità e umiltà, tanto da considerare le proprie azioni come disponibili, ma non dovute, pronte, ma non imposte. La responsabilità è un valore da trasmettere allo sballone, e all’apatico, ma anche all’invisibile e al delirante. Il primo e il secondo devono capire che non esiste relazione senza responsabilità e che tutto si deteriora se non ci si cura di esso, l’invisibile deve essere incoraggiato ad esprimere la sua responsabilità vedendone gli esiti positivi, il delirante invece deve imparare dalla concretezza delle azioni intraprese, che anche la continuità e la ripetitività sono azioni importanti e non squalificanti.
L’impegno: la sua portata positiva è nella costruzione della giustizia e del ben-essere e pertanto traccia l’edificazione del futuro. Il punto di partenza è la vittoria sulle proprie incertezze e la conquista dell’ottimismo, che non è la negazione dei problemi, ma l’accettazione della speranza.
“L’uomo vive di speranze quotidiane, ma può rischiare di vivere al futuro anteriore (quando avrò fatto, quando avrò visto…). Bisogna vivere qui ed ora, ma con un senso. La speranza è il frutto di una relazione, accompagna la vita, rende possibile l’apertura all’inedito. La speranza impegna la volontà, un impegno per il destino comune e solo chi ha speranza può educare le nuove generazioni.”[50]
Grazie alla speranza l’impegno trova la forza per realizzare i propri desideri, sogni e aspettative. L’impegno è un valore da trasmettere all’apatico che dovrà essere acceso e “spinto” verso l’azione, all’invisibile dandogli progressivamente coraggio e conferma del suo agire, allo sballone mettendolo in crisi di fronte alla sua demotivazione, all’adesivo sfruttando la sua fedeltà, ma rendendolo anche consapevole delle aspettative della sua azione.
La libertà: essa è il frutto del distacco dagli altri, dalle cose, da se stessi che produce solitudine, ma anche difesa dai condizionamenti e dalle dipendenze. Questo distanziamento permette di scegliere in libertà le proprie azioni. La libertà è essenziale per l’adesivo che deve prendere coscienza dei processi di dipendenza di cui è schiavo e trovare strade personali da percorrere e per l’invisibile che attraverso la riflessione sulla realtà può capire che agire deriva dall’aver pensato e scelto con la propria testa pur nella consapevolezza della complessità della vita e della possibilità di sbagliare.
La generosità: è l’etica del dono che vive nel gesto la sua bellezza e intensità e che richiede la capacità di lasciarsi andare a gustare la soddisfazione dell’altro che è anche soddisfazione di sé. Bisogna possedere il gusto di dare piacere per sentirne l’eco in se stessi perché si è la causa di quel piacere senza alcun fine utilitaristico. L’educazione alla generosità, ovvero al gusto della vita, è indispensabile e si attua con momenti di condivisione intensi e che lasciano profonda traccia nel vissuto emotivo di chi vi partecipa. La visione di uno spettacolo naturale, l’ascolto di una musica, e così via possono essere così intensi per i partecipanti da trasmettere un autentico “piacere di vivere” o “gusto di vivere”. L’avaro ha paura delle emozioni perché non vuole mostrare i suoi punti deboli, ma se viene più volte autenticamente coinvolto può scoprire la bellezza di lasciarsi andare, ma poi ritornare senza danno alcuno. L’adesivo vuole tenere per sé i suoi vissuti, ma l’intensità dell’emozione condivisa può nutrirlo e farlo sentire soddisfatto a lungo. Il ruminante rischia di non lasciar entrare le emozioni, bisogna fargliele condividere filtrandole attraverso l’impegno (es. a non rovinare l’atmosfera, a mantenere il silenzio ecc.), riuscirà così a imparare a gustarle. L’invisibile di fronte alle emozioni si nasconde, ne ha invece bisogno proprio per lasciarsi andare, ma in un gruppo in cui possa sentirsi il più sicuro possibile e in cui la percezione dei vissuti altrui lo tranquillizzino.
La pace: è il frutto di benevolenza, tolleranza e accettazione dell’altro possibile quando si è compiuta la giustizia. L’uomo deve essere capace di accettare la realtà e spengere i conflitti interni pur nella consapevolezza che in ogni momento è possibile lo scatenarsi di un nuovo scontro. L’educatore deve essere in grado anche di assorbire l’aggressività dell’educando senza reagire dando in cambio la sua calma e trasferendo poi l’energia su obiettivi positivi. Il ruminante può imparare che spengersi per evitare uno scontro, non significa perdere la propria carica, ma solo farla finire quando il risultato è raggiunto, senza rovinare tutto. L’avaro sempre sulla difensiva, può imparare dall’osservazione della realtà che la pace non è assenza di controllo, ma è accettazione delle cose così come sono per poterne finalmente godere. L’adesivo tende a difendere il cerchio della sua appartenenza per timore che gli venga tolto, solo il contatto con un mondo più ampio e vario può, saziandolo, portarlo verso la creazione di pace. Il delirante deve riconoscere coloro che potrebbero sfruttare le sue idee per creare conflitti e allontanarsi svelando le loro manovre.
Il sacrificio: il dolore fa parte integrante dell’esistenza umana e mette in contatto l’uomo con se stesso. Lottare contro il dolore è assolutamente un istinto naturale. Dal dolore si arriva al sacrificio quando non lo si fugge con paura ed è rivolto a qualcosa. “Soffrire per” non è usare la sofferenza per mostrarla ed usarla come una sorta di ricatto (quanti sacrifici faccio per te, e così mi ripaghi!), ma è accettare la sofferenza per la costruzione di sé, per la catarsi che porta alla compassione. Il ruminante non sa accettare la sofferenza perché gli impedisce l’azione e il delirante perché non riesce ad agirla secondo le sue categorie mentaliste, devono avere la possibilità di ascoltarla magari in situazioni sociali per imparare semplicemente a tacere, rispettare e provare a condividere quello che si sente per almeno accettarne l’esistenza. Lo sballone la nega cercandoci un piacere, l’avaro costruisce un castello di difese che gli permettano di “cercare un armistizio” con il dolore in modo così da poterne dettare i termini. Per ambedue solo la diretta consapevolezza che la sofferenza è ineliminabile e fa parte del mistero della vita può essere il principio educativo necessario.
La fedeltà: essere fedeli verso i figli significa fornire l’aiuto e il sostegno necessari a sviluppare le loro potenzialità e impegnarsi per migliorare la propria, la loro e la vita di tutti. La fedeltà produce sicurezza e si manifesta nella fiducia. Il delirante con il suo di stanziamento rischia l’individualismo, deve imparare a capire i motivi della sua perdita di fiducia nell’interpretazione della vita quotidiana per ritrovare l’unione con sé. Lo sballone così volubile, ha bisogno di scoprire nella sua realtà di vita il coraggio di amare se stesso e gli altri in modo diverso, ma pur sempre appagante proprio per la ripetitività e continuità. Il ruminante deve scoprire con l’esperienza, che esistono persone in cui si può avere fiducia perché non sono nemici, l’apatico può conoscere il gusto della fiducia attraverso il vissuto di altri che lo portino a condividere con loro questo valore.
“Ciascuno ha una sua < filosofia dei valori > che utilizza per definire la qualità delle persone, come categoria per valutare le cose degne di apprezzamento o come ideale assoluto che possiede una eccellenza di dignità. C’è dunque un appello alla realizzazione nel concetto di valore e, inerente a esso, una tensione alla sua scoperta ed alla sua realizzazione. Se un valore è scoperto, attorno ad esso si organizza un vissuto il quale, a sua volta, diventa bussola per una crescita più ampia e orientante.”[51]
Se i valori quindi si intendono come motori dell’agire umano quale responsabilità hanno i genitori e gli educatori in genere!
Gli strumenti che permettono di affrontare, discutere e approfondire queste tematiche sono vari:
la lezione : per affrontare gli elementi fondanti la teoria dell’Artigianato Educativo;
il gruppo di discussione: in cui si affrontano e chiariscono le tecniche educative: es. come si rimprovera, come si incoraggia, ecc.
il gruppo d’incontro : dove i genitori devono tornare persone che vogliono non tanto correggere i propri difetti, ma liberare le proprie risorse e allargare le proprie competenze; in questo tipo di gruppo si creano le condizioni per l’apertura reciproca, per rendere i partecipanti più consapevoli di sé, per dare di nuovo la possibilità di ascoltare gli altri, di narrare se stessi per come si è senza paura di essere giudicati, per arrivare a scegliere su quali risorse puntare per migliorare le proprie relazioni;
il Role Play : per evidenziare gli interventi educativi sui figli. I genitori imparano a riconoscere il comportamento dei figli, a collegarlo alle tipologie dei sette nani (vedi analisi delle suddette tipologie) e infine a modulare l’intervento più adeguato ai bisogni del figlio, di ogni singolo figlio;
il colloquio di counseling: laddove le situazioni abbiano bisogno di un’analisi più precisa e approfondita o i problemi siano abbastanza importanti, si può presentare la necessità di effettuare colloqui individuali o familiari con uno psicologo o un counselor per innescare una riflessione attenta e controllata.
Gli operatori che possono condurre i gruppi d’incontro, di discussione, i role play e anche i colloqui sebbene con la supervisione dello psicologo, sono i counselor della Scuola Transteorica di counseling che hanno la possibilità di intervenire in modo quasi “amicale” nei confronti dei genitori pur con la dovuta preparazione professionale.
La Scuola Genitori non è però un percorso rigido, precostituito, ma un insieme di approcci e di interventi che possono essere modulati in itinere a seconda delle esigenze e delle richieste. Se le lezioni di introduzione teorica sono necessarie a presentare il tema da affrontare, i gruppi di incontro possono avere uno sviluppo maggiore o minore secondo l’intensità di scambi che si vuole raggiungere e possono procedere quasi autonomamente dagli altri interventi e così via. L’adattabilità è una delle caratteristiche fondamentali che ne fa uno strumento prezioso proprio perché permette la conoscenza, l’approfondimento, lo studio e non è un vaccino che si fa una volta per sempre ma un ‘occasione di riflessione che può essere “usata” quando se ne ha bisogno.
Ritengo che la Scuola Genitori sia una risorsa per qualsiasi tipo di famiglia, perché tutti in qualche momento della propria vita, abbiamo avuto bisogno di essere aiutati, di sentirci sostenuti, di condividere emozioni e sentimenti. Ma in relazione alla tematica di questo lavoro ritengo questo metodo essenziale nei seguenti ambiti:
Ø quello della famiglia che si pone il problema della sterilità come riflessione su questo suo disagio e sulle possibili soluzioni che si presentano;
Ø quello della famiglia che, avendo preso la decisione di presentare domanda di adozione, deve affrontare, non solo l’iter burocratico, ma soprattutto la comprensione del valore della “genitorialità di cuore”;
Ø quello della famiglia che, avendo adottato un bambino ha bisogno di vivere quotidianamente sul campo e in prima persona la “genitorialità di cuore”;
Ø quello della famiglia che ha avuto un figlio con la PMA e deve pertanto imparare a raccontargli la sua origine;
Ø quello della famiglia che ha in affidamento un minore.
Il luogo di azione difficilmente saranno le istituzioni (assistenti sociali, ASL, comunità alloggio, Tribunali) perché già prigioniere di percorsi rigidi, fortemente burocratizzati, che tendono più a espletare delle pratiche che a capire i problemi, cercare delle soluzioni e concretizzarle con attenzione sensibile e continuativa. Il grande numero di associazioni nazionali o anche locali che si occupano di questi problemi, facilmente verificabile dal grande numero di siti su questi temi, sono la testimonianza più semplice di questo bisogno insoddisfatto di essere ascoltati, capiti e aiutati. I luoghi di azione sono tutte quelle occasioni di incontro che la società offre (la scuola, le associazioni ecc.), ma potrebbe essere anche un punto/luogo di riferimento costante a cui rivolgersi per poter accedere ai vari moduli ed esperienze della Scuola genitori.
“I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare.”[52]
Lo studio e la valutazione di quanto la legge richiede non è cosa di poco conto soprattutto perché la routine prevista di quattro colloqui con la coppia fatti distintamente e insieme dall’Assistente Sociale e dallo Psicologo possono sembrare un margine ampio di giudizio, ma non lo sono sempre. Lo studio di coppia assume, indipendentemente dalla volontà dei soggetti coinvolti, una connotazione valutativa e intrusiva in quanto la sua finalità è quella di esprimere un parere sulla idoneità all’adozione. Per tale motivo può accadere che le possibilità di rendere presenti le esigenze di un bambino e di cercare di capire se quella coppia saprà accoglierlo adeguatamente dal punto di vista affettivo, sia molto complesso
“Tenuto conto delle difficoltà di proteggere i bambini dalle esperienze reali di trauma, precedenti e successive all’adozione, risulta necessario lavorare intensamente sull’altro versante della relazione adottiva ovvero sui candidati genitori onde individuare quelle caratteristiche di personalità degli adulti che potrebbero permettere loro di accogliere non solo il bambino, quanto il bambino e il suo trauma. E’ in tal senso che si dovrebbero svolgere quegli importanti momenti di riflessione, durante i periodi che precedono l’arrivo del bambino e che dovrebbero costituirsi proprio come momenti di pensabilità riguardo le motivazioni profonde all’adozione, valutando le capacità genitoriali in termini di risorse e limiti interni, piuttosto che nei soli termini, come afferma la legge, di educare e mantenere un bambino (aspetti psicopedagogici).Voglio insistere su un aspetto che purtroppo rischia di costituirsi come un pericolo subdolo…..ossia il voler credere che la preparazione delle coppie candidate all’adozione passi attraverso la sola dimensione pedagogica….con la presunzione che ciò sia sufficiente a limitarne il rischio di fallimento.”[53]
L’arrivo del figlio adottivo comporta cambiamenti in ogni singolo componente del gruppo e nella famiglia tutta come gruppo. Il bagaglio emotivo di ciascuno deriva dalla propria storia personale e dalle esperienze emozionali e l’intreccio delle singole storie nella famiglia adottiva è quanto di più delicato si possa immaginare: da parte dei genitori l’elaborazione del lutto per i figli non nati, i fantasmi relativi alla famiglia d’origine del minore, la presa di coscienza del bambino “reale”, delle sue difficoltà e delle sue sfide; da parte del figlio l’elaborazione del dolore derivato dall’abbandono, a volte ripetuto, il senso di sradicamento, i tentativi, talvolta maldestri, di comunicare, le sfide per verificare se davvero si può fidare.
E’ sopratutto in questa fase che le istituzioni spesso brillano per la loro assenza perché aspettano che la famiglia chieda espressamente il loro intervento oppure che la situazione divenga così difficile da rischiare il fallimento.
Ecco che allora si forma la necessità di sopperire a queste carenze con iniziative diverse, con associazioni di vario tipo.Questo fenomeno presenta due aspetti: da un lato c’è la possibilità di incontro, ascolto e aiuto che viene offerta a molti attraverso corsi, conferenze, consultori, colloqui di counseling, documenti e così via che rappresenta un aspetto positivo, dall’altro lato però c’è un aspetto più ambiguo che riguarda la difficoltà di valutare effettivamente la “professionalità” di tante iniziative.
“Nella relazione per l’ottenimento dell’idoneità che la coppia, ricevuta dal Tribunale per i Minorenni, ha consegnato all’Associazione, veniva più volte sottolineata l’importanza per questa coppia che il bambino da abbinare loro fosse uno e piccolo. Nonostante ciò, per ben due volte sono stati proposti alla coppia bambini in età scolare (6-10 anni) e di più fratelli (la prima volta 3 bambini, la seconda 2). Ci si chiede quali siano le motivazioni che hanno portato l’Associazione a non tenere conto del lavoro svolto precedentemente da altri colleghi e si colluda con aspetti difensivi della coppia.”[54]
La conclusione di questa esperienza è particolarmente drammatica perché si è chiusa con il ritorno dei due bambini in una comunità e con la separazione della coppia.
In questo difficile contesto la Scuola Genitori può rappresentare una strada importante perché basata su fondamenti teorici, perché portatrice di esperienze quasi decennali, perché capace di usare un linguaggio comprensibile, perché capace di modularsi secondo le necessità (gruppo d’incontro, di formazione, di discussione, la lezione, il counseling).
La differenza fra il percorso della Scuola Genitori di Prevenire è Possibile e i tanti offerti dalle associazioni sta nella flessibilità che lo distingue sia dalle associazioni più connotate a livello ideologico; sia da quelle che perseguono un obiettivo unico (es. l’informazione e il sostegno per le famiglie adottive e affidatarie oppure per le famiglie che intendono rivolgersi alla PMA), sia da quelle formate da persone che, avendo fatto positivamente una certa esperienza, pensano di poter estendere ad altri questo loro vissuto attraverso l’ incoraggiamento e alcuni consigli, sia da corsi organizzati dalle istituzioni che spesso si risolvono in ampie e circostanziate relazioni circa la situazione reale, ma con poche proposte agibili dalle famiglie nella quotidianità della loro vita.
La Scuola genitori appare invece uno strumento duttile che può affiancare tutti coloro che vogliono diventare o sono già genitori nella loro ricerca di miglioramento del senso della loro genitorialità con un lavoro su se stessi per capire le proprie individuali caratteristiche, sulle relazioni familiari per individuare gli ostacoli e le risorse alla comunicazione affettiva, sul significato di amore per i figli.
Non si è genitori perché si ha un figlio, si diventa genitori perché quel figlio lo si ama, lo si cura, lo si fa crescere sviluppando le sue potenzialità e costruendo con lui gli strumenti che gli permetteranno di essere un uomo o una donna il più completi possibili. Vorrei dire addirittura che si diventa genitori pian piano, imparando a dargli quel cibo spirituale di cui ha bisogno, ad ascoltarlo e a parlare con lui quando e come necessita, ad osservarlo per intuire i cambiamenti, non per farne un figlio “viziato e coccolato”, ma per permettergli di diventare adulto e di andarsene a costruire la sua vita.
4.1 DAGLI ISTITUTI ALLE COMUNITA’ DI TIPO FAMILIARE
La legge 149/2001 stabilisce che “ove non sia possibile per il minore crescere in una famiglia, quella di origine o quella affidataria, dovrà essere affidato ad una comunità di tipo familiare caratterizzata da organizzazione e rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia” (art. 2).
La stessa legge prevede anche la chiusura degli istituti per minori entro il 31 dicembre 2006.
“ Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali a tal proposito, sulla base di quanto contenuto nel Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva 2002-2004 ha istituito un gruppo di lavoro all’interno dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, preposto alla redazione di un piano straordinario per permettere la chiusura degli istituti entro il 2006 e parallelamente ha affidato al Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza una ricerca per monitorare la situazione dei minori negli istituti (al 30 giugno 2003) e la redazione di un opuscolo informativo-promozionale per l’affidamento etero-familiare.”[55]
L’indagine ha riscontrato una diminuzione delle presenze di minori negli istituti dal 2001 e la presenza di progetti di trasformazione di queste strutture per rispondere al dettato della legge. Bisogna tenere conto che un istituto è, secondo la definizione fatta per definire l’oggetto dell’indagine stessa, “una struttura socioeducativa residenziale di tipo assistenziale di grosse dimensioni che accoglie un alto numero di minori” mentre la comunità familiare è “una struttura educativa residenziale che si caratterizza per la convivenza continuativa e stabile di un piccolo gruppo di minori con due o più adulti che assumono funzioni genitoriali, offrono un rapporto di tipo familiare e per i quali la struttura costituisce residenza abituale. Le figure educative di riferimento possono essere affiancate e integrate da altro personale dipendente o convenzionato, volontario o obiettore, secondo le esigenze e le presenze del gruppo degli ospiti.”[56]
Tra le due definizioni esistono molte altre realtà intermedie che non avranno forse una collocazione immediata, ma del resto anche la definizione degli standard delle comunità familiari sono delegati alle singole regioni.
La legge non contempla nemmeno risorse finanziarie apposite per realizzare quanto prescritto, né l’obbligatorietà di istituire un servizio per l’affido cosicché le amministrazioni locali avranno grosse difficoltà a rispettare i termini previsti e potranno anche non rispettarli. C’è il rischio che quelle meno sensibili o meno dotate di risorse giungano all’appuntamento del 2006 così impreparate da costringere il Parlamento ad imboccare la via delle proroghe.
Da molto tempo sono state fatte esperienze con Comunità di Tipo Familiare. Nel nostro territorio sono state portate avanti prevalentemente da singoli o famiglie in cui l’affido è divenuta una costante per lungo tempo e dalle “Case Famiglia” quasi sempre volute e sostenute dalle strutture ecclesiali e più in generale dal mondo cattolico. I risultati sono stati generalmente considerati migliori rispetto alla istituzionalizzazione. Non risultano tuttavia, per mia conoscenza, indagini o studi specifici per valutare quanto abbiano realmente risposto alle esigenze di quelli che ne hanno usufruito. Spesso per queste realtà, in cui è stato prevalente e determinante l’aspetto volontaristico dei responsabili e degli operatori e che spesso si sono fatte carico dei casi più “difficili” e anomali, si sono fatte valutazioni con il metro del “quanto si era in grado di dare” e non di “quello che era necessario dare”
La creazione di queste comunità richiederà un grande sforzo, non solo economico, ma soprattutto di formazione di operatori specializzati o addirittura di coppie e/o famiglie, che in modo “professionale”, si assumano il compito di gestire le nuove forme di accoglienza e di monitoraggio costante dei risultati, che invece la legge non prevede.
4.2 LA LEGGE E I MUTAMENTI DELLA REALTA’ SOCIALE
Mi pare che sia necessario una periodica rilettura della legge per monitorarne l’attuazione e valutarla in rapporto alla realtà sociale che vive dei cambiamenti epocali in tempi brevissimi.
Alla presa di posizione della legge infatti non ha mai corrisposto una operazione di sensibilizzazione e promozione di altre forme di sostegno all’infanzia in difficoltà, né uno studio ampio e approfondito delle diverse forme che questo aiuto ha assunto in altri paesi. Sembra che da parte dei legislatori la legge in sé abbia rappresentato un modo sufficiente per liberarsi la coscienza affermando sani e importanti principi, ma senza il coraggio, la volontà e l’impegno di trovare anche gli strumenti applicativi e le risorse economiche per dare inizio ad un profondo cambiamento nella cura dell’infanzia.
Anche l’analisi da me fatta presso due istituzioni locali (Centro Affidi di Lucca e Istituto per minori “De Sortis” di Viareggio) ha confermato una sostanziale immobilità nella problematica della tutela dell’infanzia e della promozione di forme alternative che salvaguardino maggiormente i bambini.
Verrebbe anche da chiedersi se alcune delle novità della legge corrispondono a delle reali e interiorizzate istanze sociali; ad esempio l’innalzamento della differenza di età tra adottato e adottante venuta dopo alcune campagne mediatiche fatte da personaggi dell’attualità cinematografica o televisiva sul loro grande desiderio di adottare un bambino e la difficoltà dovuta all’età di uno dei partner.
In materia di affido dopo la separazione o il divorzio si è arrivati alla legge che prevede l’affidamento congiunto dei figli dei quali sono responsabili ambedue i genitori, indipendentemente dalla loro condizione. Visto anche l’aumento del numero delle separazioni, è un elemento di grande novità che richiede una riflessione forte sulla genitorialità come impegno costante e duraturo verso la prole.
La legge e la società dovrebbero essere in una posizione di interscambio per cui la prima interpreta, nel rispetto del bene comune, le variazioni della seconda che a loro volta costituiscono elemento di verifica per la prima. Questo è l’obiettivo.
4.3 NUOVE REALTA’ SOCIALI E LIMITI DA SUPERARE
La realtà sociale si va trasformando non solo nella sua composizione divenendo sempre più multietnica, ma anche nelle strutture familiari (famiglie estese e ricomposte, famiglia lunga, single, convivenze amicali, ecc.). Questo comporta non solo un riassetto degli equilibri, ma anche una presa di coscienza che il concetto di vita familiare di venti anni fa, adesso non va più bene e le attuali generazioni di genitori hanno bisogno di costruire la loro genitorialità su basi diverse. Un uomo deve poter comprendere ed esprimere la propria paternità con i figli della moglie da cui si è separato e con quelli avuti dalla seconda moglie, con un bambino indiano o brasiliano senza plagiarlo e, se single, deve ricercare il femminile in sé per esprimerlo nella sua condizione di padre.
Alcuni interventi autorevoli sottolineano questa linea di tendenza verso il ripensamento e l’innovazione: la corte di Cassazione invita “caldamente” a permettere oltre che l’affidamento, anche l’adozione ai single, il Prof. Marino I. direttore del Centro Trapianti del Jefferson Medical College di Philadephia, e il Cardinale Martini C.M. teologo e biblista, affermano “ Marino: < Ci sono poi altri problemi connessi allo sviluppo della vita, in particolare alla cura che la società deve avere per i bambini che non hanno una famiglia. Oggi in Italia le adozioni non sono ammesse per i single e, più in generale la legislazione è molto complessa e rende difficile ogni tipo di adozione. Mi chiedo, se dal punto di vista etico, sia preferibile che un bambino orfano o abbandonato dai genitori passi la sua vita in un istituto o sulla strada piuttosto che avere una famiglia composta da un solo genitore? Siamo sicuri che questa sia la strada giusta per garantire la migliore crescita possibile a quel bambino?……..la Chiesa sostiene che in presenza di un feto, in qualunque circostanza si debba invitare la donna a portare a termine la gravidanza, anche se il padre è assente o è contrario, e quindi si tratterà di sostenere una madre che nei fatti sarà single………>
Martini: … < Occorre cioè assicurare che chi si prende cura del bambino adottato abbia le giuste motivazioni e abbia anche i mezzi e le capacità per assicurarne una crescita serena. Chi è in tale condizione? Certamente anzitutto una famiglia composta da un uomo e una donna che abbiano saggezza e maturità e che possano assicurare una serie di relazioni anche intrafamiliari atte a far crescere il bambino da tutti i punti di vista. In mancanza di ciò e chiaro che anche altre persone, al limite anche i single, potrebbero dare di fatto alcune garanzie essenziali. Non mi chiuderei perciò ad una sola possibilità…..Lo scopo è di assicurare il massimo di condizioni favorevoli concretamente possibili. >[57]
Le dichiarazioni di questi due autorevoli esponenti del mondo della scienza e della Chiesa aprono le porte a nuove considerazioni che si possono esprimere con una sintesi estrema nella frase di M. Griffino, presidente dell’Associazione Amici dei Bambini “Perché ogni bambino ha diritto ad essere figlio”[58]
E’ triste rilevare che spesso i bambini continuano ad essere un oggetto di soddisfacimento dei propri bisogni. Il ricorso esasperato alla PMA, le affrettate partenze per paesi lontani per avere un bambino piccolo da adottare, i fallimenti adottivi in aumento, la stagnazione degli affidi e la finzione di certi affidi sine die che non si trasformano mai in adozioni non considerando la necessità di identità del minore, la presenza di circa 20.000 bambini in strutture pubbliche (comunità familiari, comunità alloggio, comunità educative), le vicende drammatiche di bambini uccisi dai relativi genitori o abbandonati nei cassonetti, nei parchi o nella strada, fanno stimare il rapporto adulto-bambino come una ricerca di integrazione di sé da parte dell’adulto, piuttosto che una ricerca di una relazione di amore tra adulto e infanzia e di dialogo tra presente e futuro.
4.4 CONTRIBUTO E RUOLO DEL COUNSELOR
Ogni genitore naturale e adottivo dovrebbe credere che il figlio è il suo progetto per il futuro e pertanto spendere in questo le sue energie migliori, non per farlo suo, ma per mandarlo alla ricerca della sua felicità.
I genitori e i figli non si possiedono, in questo i genitori adottivi sono avvantaggiati perché i loro figli sono i figli del loro cuore, il loro è un legame di amore e proprio per questo può essere fortissimo e superare tutti gli spazi fisici e non.
Essere genitore equivale a continuare a crescere nella conoscenza e nella consapevolezza di sé. Questo è un lavoro continuo perché i bambini hanno bisogno non soltanto del nostro affetto e della nostra simpatia, ma anche della nostra intelligenza e dei nostri seri e pazienti sforzi per capire la via del loro sviluppo mentale.
Questo lavoro lo si fa in molti modi e in molte occasioni, e nel caso dei genitori adottivi lo si fa anche per cercare di sanare delle ferite antiche, ma che dolgono ancora. Il percorso della Scuola Genitori da me presentato, è uno strumento per la maturazione, per la progettazione del futuro delle famiglie che ritengo essenziale sia per la semplicità con cui si rivolge a tutti, che per la profondità che in realtà raggiunge.
La figura del counselor in questo iter è essenziale perché lui è l’esperto che può aiutare a districare i nodi emozionali personali e familiari. Quando due coniugi vivono l’esperienza dell’adozione, cambiano intimamente il loro equilibrio: hanno bisogno di ridefinire tutta la vita E’ necessario loro un sostegno per non entrare in crisi a causa dell’ansia o per rispondere nel modo più adeguato possibile ai bisogni di quel bambino che spesso arriva dopo una lunga attesa, ma improvvisamente, con un’età varia, una storia di sconfitta, a volte una razza diversa e una lingua sconosciuta.
Deve essere una figura di riferimento sia per le attività di gruppo che da lui sono condotte, sia per i colloqui personali o familiari. Pertanto il counselor necessita, insieme alle sue competenze di esperto di counseling, di una conoscenza ampia anche delle problematiche specifiche relative al problema della genitorialità e in particolare di quella affidataria e adottiva. In questo senso potrà offrire un contributo costruttivo in quanto non è un medico che cura dei malati, non è uno psicologo che cura dei “disturbati”, non è un assistente sociale che controlla le persone, non è un giudice che può emettere sentenze, non è un semplice volontario ricco solo della sua esperienza, ma è un professionista in veste amicale che, lavorando per e con i genitori, cogliendo empaticamente il loro vissuto emozionale e usando anche gli strumenti di analisi a sua disposizione, ha la facoltà di far progredire le persone nel cammino verso una genitorialità matura. Per usare le parole del poeta Khalil Gibran, genitori che vogliano diventare “l’arco che lancia i figli verso il domani”
>
LA FECONDITA’ IN ITALIA
da www.istat.it
SONDAGGIO SULLA PMA
da www. madreprovetta.org
CHE FINE FANNO I NOSTRI EMBRIONI
da inserto IO DONNA del Corriere della Sera del 17/01/2004 - di Lia Damascelli
IL SOGNO DI UN FIGLIO
da settimanale GRAZIA 20/01/2004 – di Stefania Rossetti
ISTAT: LA FECONDITA’ IN ITALIA
SONDAGGIO SULLA PMA
Da MADRE PROVETTA ( madreprovetta.org)
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o segnalo.it : Politica dei Servizi Sociali. Materiali di formazione, ricerca e documentazione
î
Ä Morelli Clara “ I giorni dell’Oleandro” Ibiskos editrice Empoli 2003 pag 26
[1] Donati P: ( a cura di) “Identità e varietà dell’essere famiglia” S. Paolo Ediz. 2001 pag.37
[2] A.A.V.V.” Dizionario essenziale di counseling “ Città di Castello 2006 pag. 37
[3] Proposta di metodologia educativa di “Prevenire è Possibile” – vedi punto 3.1
[4] Masini V. “Conclusioni” pag. 36 in Mazzoni E. (a cura di) “Orientamento e counseling familiare a scuola” Valdarno 2005.
[5] Donati P: ( a cura di) “Identità e varietà dell’essere famiglia” S. Paolo Ediz. 2001 pag 112
[6] Donati P: ( a cura di) “Identità e varietà dell’essere famiglia” S. Paolo Ediz. 2001 pag 114
[7] Donati P: ( a cura di) “Identità e varietà dell’essere famiglia” S. Paolo Ediz. 2001 pag 475
[8] Quilici M. “Sì ai matrimoni gay, no alle adozioni” su Istituto di Studi sulla Paternità, www.isp.it
[9] Una cosa è l’accettazione del concetto di generatività, un’altra avere concretamente dei figli
[10] Donati P: ( a cura di) “Identità e varietà dell’essere famiglia” S. Paolo Ediz. 2001 pag 501
[11] Donati P: ( a cura di) “Identità e varietà dell’essere famiglia” S. Paolo Ediz. 2001 pag 506
[12] AA.VV. :” La vita quotidiana dei bambini” Istat, Ministero del Lavoro
[13] lunga famiglia estesa: intesa come la relazione importante da un punto di vista organizzativo ed a volte anche economico,che lega la famiglia giovane a quella dei genitori pur non vivendo sotto lo stesso tetto.
[14] Donati P: ( a cura di) “Identità e varietà dell’essere famiglia” S. Paolo Ediz. 2001 pag 184
[15] STERILITA’ DI COPPIA
La sterilità è generalmente definita dai medici come l’incapacità a concepire dopo due anni di rapporti sessuali non controllati con metodi contraccettivi.
Il numero di coppie incapaci di avere bambini è considerevole: si calcola che oltre il 20% delle coppie ha problemi riproduttivi. Con una nuzialità annua nel nostro paese di circa 300.000 matrimoni, si può stimare che ogni anno 60.000 nuove coppie abbiano difficoltà nel concepire, le quali vengono ad aggiungersi a quelle degli anni precedenti.
[16] Legge n. 40 del 19 febbraio 2004
[17] vedi Allegato : Risultati di un sondaggio da “www. madreprovetta.org”
[18] Intervento sul Forum di Madre Provetta : madreprovetta.org
[19] idem
[20] Intervento sul Forum di “Cerco un bimbo onlus” : cercounbimbo.net
[21] vedi Allegato: dalla rivista “Grazia”20 gennaio 2004 e dal “Corriere della Sera” 17 gennaio 2004
[22] Vangelo di Giovanni cap 15, 2
[23] Masini V. “Conclusioni” pag. 42 in Mazzoni E. (a cura di) “Orientamento e counseling familiare a scuola” Valdarno 2005.
[24] Pavone M. Tomizzo F. Tortello M. “ Dalla parte dei bambini” Rosenberg § Sellier 1986 pag.37
[25] Masini V. “Conclusioni” pag. 44 in Mazzoni E. (a cura di) “Orientamento e counseling familiare a scuola” Valdarno 2005.
[26] Galli I. Viero F. ( a cura di) “Fallimenti adottivi” Armando editore 2002 pag 15-16
[27] Winnicott D. W. in Galli I. Viero F. ( a cura di) “Fallimenti adottivi” Armando editore 2002 pag81
[28] A.A.V.V. “ I progetti nel 2003. Lo stato di attuazione della legge 285/97” Istituto degli Innocenti Firenze 2005
pag. 152
[29] A.A.V.V. “ I bambini e gli adolescenti in affidamento familiare” Istituto degli Innocenti Firenze 2002 pag 85
[30] Miliotti A. G. “Abbiamo adottato un bambino” F. Angeli Milano 2002 pag 25
[31] Tonizzo F. Micucci D. “Adozione: perché e come”UTET Torino 2003 pag 39-40
[32] Tonizzo F. Micucci D. “Adozione: perché e come”UTET Torino 2003 pag 7
[33] Tonizzo F. Micucci D. “Adozione: perché e come”UTET Torino 2003 pag86
[34] Miliotti A.G. “Abbiamo adottato un bambino” F. Angeli/Le Comete Milano 2002 pag 18
[35] Tonizzo F. Micucci D. “Adozione: perché e come”UTET Torino 2003 pag 74
[36] Sepùlveda L.: “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” Salani editore Firenze 1997 pag 90
[37] Sepùlveda L.: “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” Salani editore Firenze 1997 pag 92-93
[38] Miliotti A.G. “Abbiamo adottato un bambino” F. Angeli/Le Comete Milano 2002 pag 132
[39] Masini V. “ Dalle emozioni ai sentimenti” Prevenire è Possibili Terni 2000 pag 19
[40] Masini V. “L’empatia nel gruppo di incontro” Istituto di Sociologia Luigi Sturzo Caltagirone 1996 pag 19-20
[41] L’educatore si pone come guida e come consulente per la sua maggiore esperienza. Il mentoring è un processo educativo che vuole far crescere le competenze nella persona attingendo all’esperienza di chi ha già fatto quel percorso.Trasferisce i suoi “segreti” nell’altra persona. Anche il genitore educante ha questa funzione
[42] Masini V. “Dalle emozioni ai sentimenti” Prevenire è possibile Caltagirone 2000 pag 221
[43] Masini V. “L’artigianato educativo e la pedagogia dei gruppi” Prevenire è Possibile Terni 1998 pag. 72
[44] Masini V. “Dalle emozioni ai sentimenti” Prevenire è possibile Caltagirone 2000 pag 254
[45] Barbagli L. “ Verso un’etica dell’educazione e della relazione” da Saggi e Ricerche in www.prepos.it
[46] Masini V. Dalle emozioni ai sentimenti Prevenire è possibile Caltagirone 2000 pag. 181
[47] Masini V. “Dalle emozioni ai sentimenti” Prevenire è possibile Caltagirone 2000 pag 181
[48] Stanzani D. – Stendardo V. “ Disagio e violenza : il perché di alcuni giovani” da www.dirittoefamiglia.it
[49] Stanzani D. – Stendardo V. “ Disagio e violenza : il perché di alcuni giovani” da www.dirittoefamiglia.it
[50] Bianchi A. Priore e fondatore della Comunità di Bose. Da “Speranza per chi crede e per chi non crede” 5 aprile 2006 a Lucca 1° incontro di “ La speranza”
[51] AA.VV. “Dizionario Essenziale di Counseling” Prevenire è Possibile Città di Castello 2006 pag 93
[52] Legge 149/28 marzo 2001 “Dell’adozione e dell’affidamento dei minori” Titolo III Dell’adozione, Cap. 1 Disposizioni generali art, 6, comma2
[53] Galli J-Viero F.”Fallimenti adottivi” Armando editore 2001 Roma pag.180
[54] Galli J-Viero F. ”Fallimenti adottivi” Armando editore 2001 Roma pag 145
[55] A.A.V.V. “I bambini e gli adolescenti negli istituti per minori” Istituto degli Innocenti Fi 2004 pag 7
[56] A.A.V.V. “I bambini e gli adolescenti negli istituti per minori” Istituto degli Innocenti Fi 2004 pag28
[57] da L’Espresso n.16/2006 “Dialogo sulla vita” colloquio tra Carlo Maria Martini e Ignazio Marino pag 56-57
[58] da Corriere della Sera 17/11/2005 “Mille minori abbandonati in cerca di nuove famiglie” di Gloria Pozzi