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MARIA BENUCCI

 

Studio di un caso di disabilità: analisi e prospettive di intervento

  

Introduzione.

            Il mio primo ricordo consapevole di incontro con la disabilità risale ai tempi della scuola elementare: nella mia classe eravamo appena in 15 alunni tra cui Paolo, un bambinone con problemi visibili soprattutto agli arti inferiori al quale piaceva giocare a palla, sorridere, abbracciarti, ti baciava sempre avvolgendoti, talvolta con troppa forza (che non riusciva tanto a controllare) per cui faceva male. Eccetto per questo aspetto, ricordo sensazioni piacevoli, con i miei compagni stavamo volentieri insieme a lui e qualche volta andavamo a casa sua a giocare.

Il ricordo successivo è di un’esperienza traumatica. Mia zia mi invitò all’età di 9 anni in gita in Spagna con l’Unitalsi, un’associazione che da anni si occupa di persone disabili. La maggioranza dei miei compagni di viaggio aveva problemi piuttosto gravi e probabilmente non ero ancora preparata a questo tipo di realtà. Ho impresso nella mente il volto di un ragazzo “grande” ai miei occhi di bambina, di cui non saprei neanche oggi definire esattamente l’età, che dicevano essersi “innamorato di me”: mi perseguitava in ogni momento e luogo, voleva sempre farsi le foto con me e mi abbracciava continuamente, mi sentivo soffocare. Una volta tornata a casa non ne ho più voluto sapere per molto tempo di handicap, sentendomi a lungo anche in colpa.

Dopo la laurea escludevo senza esitazione questo ambito di occupazione, ritenendo che il rifiuto radicato nel mio Io bambino nei confronti di questo mondo non mi avrebbe permesso di svolgere un buon lavoro; finché un giorno ho incontrato Emma [nel rispetto della legge sulla privacy il nome è stato modificato], ignara della persona che avrei conosciuto e con cui avrei cominciato un cammino di crescita comune.

In questo lavoro saranno brevemente illustrati alcuni concetti base relativi alla disabilità, al suo percorso storico di riconoscimento culturale e sociale ed alle sue principali conseguenze nello sviluppo dell’individuo facendo particolare riferimento alla situazione di Emma. Quindi si procederà all’analisi di questo caso secondo il modello di Prevenire è possibile e si delineerà una prospettiva di intervento di counseling, esplicitandone l’utilità in tale contesto.

 

Il lungo percorso storico e sociale della diversità.

            Il concetto di handicap affonda le sue radici in un millenario immaginario collettivo, dove la diversità determina paura, dubbio, esorcizzazione di ciò che va oltre il conosciuto. L’accettazione e l’integrazione sociale dell’handicap è stata in ogni periodo e in ogni contesto storico-geografico direttamente proporzionale alla concezione sociale dell’handicap stesso.

            La riflessione intorno agli svantaggiati fisici, psichici e sensoriali ha in realtà una storia relativamente recente, seguendo le tappe dell’elaborazione concettuale scaturita attorno alla figura di ciò che oggi viene definito “disabile”, dall’esclusione e dai margini nell’antichità fino alla ribalta del dibattito sociale, culturale ed educativo nel corso del Novecento. Si potrebbe parlare di quattro periodi, attraverso i quali si evidenzia il ritardo nella comprensione scientifica del diverso nella nostra società.

            L’antichità escludeva a priori la categoria dell’handicap, riconoscendo valori dell’uomo la forza fisica e la perfezione delle linee del corpo. Anche una società democratica come quella ateniese dell’età classica non ammetteva la presenza dell’handicappato, nemmeno come categoria sociale marginale, che diveniva oggetto d’infanticidio o di esposizione. Lo spartano Licurgo stabiliva per legge che i bambini deboli e deformi fossero gettati o abbandonati presso il monte Taigeto. Lo stesso era a Roma presso la rupe Tarpea, mentre le Leges Regiae, anteriori a Romolo, dichiaravano non perseguibile chi uccidesse un neonato con deformità, purché lo facesse immediatamente alla nascita. In una cultura dominata dalla necessità della sopravvivenza fisica non c’era posto per la pietas e la mancanza di conoscenze scientifiche sul corpo e sulla psiche umana lasciavano largo spazio all’immaginario collettivo e al pregiudizio, che riconducevano lo status dell’handicap o ad una colpa individuale o al retaggio di colpe avite. La soluzione della morte o dell’abbandono era come una riconsegna alle sorti del destino, un rimettere alla Natura ciò che la stessa aveva voluto così (Zappaterra, 2003).

            Il Medioevo cristiano non si diversificò molto dalla cultura antica. La Chiesa enfatizzava la figura dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, portando all’inevitabile conclusione che l’anormalità psicofisica fosse l’evidente espressione della punizione divina per tutti coloro che avevano peccato in maniera grave (Mannucci, 2004). Nel mondo cristiano l’infanticidio era considerato con orrore, il che non significa tuttavia che non avesse luogo o fosse considerato una pratica assurda e severamente punita. Esso era infatti una pratica comune, insieme al fenomeno degli esposti per cui vennero aperte le ruote presso conventi o ospedali ed istituiti dei centri di raccolta per gli abbandonati, i poveri, i minorati, i deformi. La società dimostra pietà cristiana e l’handicappato viene tollerato, ma vive ai margini della società che è un altro modo di rifiutare. In più, quando si ragionava in termini economici, era il primo ad essere considerato “superfluo” dato che non poteva produrre (Trisciuzzi, 2003).

Il passaggio dal Medioevo all’Età moderna non modificò di molto questa visione, nonostante le idee illuministiche del Settecento. Le affermazioni di Rousseau, per il quale chi si accollava un allievo infermo e malaticcio perdeva tempo nel curare una vita inutile, erano assolutamente chiare: “Non ne voglio sapere di un allievo sempre inutile a se stesso e agli altri, unicamente occupato nello sforzo di sopravvivere, e il cui corpo pregiudichi l’educazione dell’anima” (cit. in Mannucci, 2004, p. 175).

            Il cambiamento avvenne con un approccio scientifico alla diversità, inizialmente in chiave medica, dell’abate de L’Epée, di Sicard, Itard, rivolgendosi ai sordomuti e ai ciechi. La vera rottura tuttavia avvenne nel XIX secolo con gli studi di C. Darwin sull’evoluzione della specie (1859), che aprirono la strada ad una definizione di uomo come organismo vivente e prodotto storico-culturale e indicarono nella malattia un accidente naturale, non una colpa individuale da espiare o meno. Si scoprono nella malattia i limiti dell’uomo e dei suoi caratteri psico-fisici, si rileva che il passaggio tra norma e anormalità è una sfumatura spesso non rilevabile chiaramente, si passa da un immaginario collettivo fondato su aspetti filosofici, etici e religiosi ad una visione storico-scientifica dell’uomo come “macchina umana”, utile per stabilire una prima ipotesi di funzionamento e per confrontare il sano con il disabile, che consente allo stesso tempo all’handicappato di acquistare dignità di persona al pari di tutte le altre (Zappaterra, 2003).

            Il quarto periodo diventa una conseguenza tanto scientifica quanto soprattutto economica del precedente, pur non tralasciando l’aspetto umanitario. La possibilità di recuperare i disabili, in primo luogo sensoriali (successivamente nel primo dopoguerra si guarderà anche ai molti rimasti disabili fisici), riceve un impulso non solo da una più approfondita conoscenza scientifica delle disabilità, ma anche dalle trasformazioni sociali ed economiche, dagli inizi del terziario, dalla grande necessità di forza lavoro e di persone produttive. Il Novecento può quindi a buon diritto definirsi “il secolo dell’handicap” per le sinergie della scienza, della normativa e della sensibilità umana che hanno dato l’avvio ad un processo, tuttora in atto, di integrazione e riconoscimento sociale, culturale, politico del disabile che fino ad oggi ha visto quali tappe maggiormente significative:

-         la sua accettazione nella scuola italiana fino all’integrazione nelle classi comuni di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie;

-         la definizione di criteri fornita a livello internazionale nel 1981 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS);

-         la sua integrazione in senso globale, nella famiglia, nel lavoro e nella società (legge-quadro 5 febbraio 1992, n. 104 per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).

 

Problemi di lessico e definizione.

            In realtà anche il termine stesso “handicap” nasce nel Novecento. Nell’antica Roma venivano utilizzati hebes, stupidus, stultus, deminutus con i significati rispettivamente di “ottuso”, “sciocco”, “pazzo”, “inferiore” oppure “imbecille” da in- e baculus, cioè “senza bastone”, senza appoggio, quindi debole. Nel corso dell’Ottocento, sull’impulso degli studi del medico Séguin sui disabili mentali, veniva utilizzato e si diffondeva il termine “idiota”. Soltanto nel Novecento appaiono “handicappato” e “disabile”, con alterne fortune e intervallati ad esempio da “diversamente abile”. Tale variegata terminologia affonda le radici nella mutazione del concetto attraverso i secoli (Zappaterra, 2003).

            Appare difficile tentare di definire il termine “handicap” sia perché è necessario avere quali punti di riferimento la “definizione del concetto di normale e di patologico” (Trisciuzzi, 1993, p. 37) che varia da cultura a cultura, sia perché la sua concezione sociale varia continuamente. Di per sé il termine non ha un’accezione negativa, derivando etimologicamente dall’inglese “hand in cap” che significa letteralmente “mano nel cappello”. Tale espressione indicava in ambito anglosassone il sorteggio della posizione dei cavalli allo starter nelle corse al trotto e la relativa penalizzazione onde evitare privilegi e favoritismi (Trisciuzzi, 2001). Così da uno svantaggio nelle gare sportive il termine è passato metaforicamente a designare uno svantaggio nella corsa della vita.

Questo poteva avere molteplici sfaccettature, dipendenti da fattori di vario tipo - organici, psicologici, sociali, culturali - e dalla loro interazione. Ciò ha spinto l’OMS nel 1981 a cercare di portare ordine nella concettualizzazione di questo problema, proponendo criteri univoci di classificazione che potessero essere usati dagli operatori sociali e sanitari di tutto il mondo e che sono alla base dell’ International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps (Icidh). Qui si trova la distinzione tra i concetti di menomazione, disabilità ed handicap, che vengono rispettivamente così definiti:

-         la menomazione (o danno) si riferisce a qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche, a carattere permanente o transitorio;

-         la disabilità è la riduzione parziale o totale della capacità di svolgere un’attività o una funzione nei tempi e nei modi considerati “normali” in una data cultura e società, che ne stabilisce anche il valore (disturbi come la dislessia, per esempio, sono figli del nostro tempo e della nostra cultura). Può essere una conseguenza diretta di una menomazione o una reazione psicologica a una menomazione fisica, sensoriale o di altro tipo, che può essere transitoria o permanente, reversibile o irreversibile, progressiva o regressiva;

-         l’handicap è invece una condizione di svantaggio vissuta da una persona risultante da un danno o da una disabilità, che ne limita o impedisce lo svolgimento di un ruolo “normale” in rapporto all’età, al sesso, ai fattori sociali e culturali. È quindi una condizione soggetta a possibili cambiamenti migliorativi o peggiorativi.

In Italia la legge-quadro 104/92, che ha segnato una svolta importante in materia, definisce persona handicappata “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione” (art.3). Pertanto il concetto di handicap si è molto dilatato fino ad essere considerato un fenomeno sociale perché vissuto soggettivo di svantaggio della persona in relazione alle aspettative della società nei propri confronti e alla condizione culturale in senso lato, pur presentando anche un’importante connotazione biologica (Zanobini, Usai, 2005).            

            Nelle definizioni dell’OMS attualmente in uso il termine handicap è decaduto a favore di disabilità, inteso come reciproco del termine funzionamento. Sono infatti il funzionamento e le sue eventuali limitazioni in specifici ambiti di attività che il nuovo sistema di classificazione si propone di descrivere, sulla base di parametri e di definizioni condivisi a livello internazionale. Questo perché nel tempo si è andata affermando la necessità di valorizzare, a livello diagnostico e di progettazione degli interventi, le abilità e non solo le disabilità, le potenzialità e non soltanto i limiti della persona. Bisogna poi tenere presente che siamo di fronte ad una problematica complessa, necessariamente multidisciplinare e multifattoriale, per cui nel determinare l’entità e la gravità di una disabilità intervengono fattori non desumibili direttamente dal tipo e dalla gravità del danno di partenza, ma dall’insieme di elementi personali (es. personalità individuale, stabilità emotiva, grado di fiducia nelle proprie possibilità, barriere psicologiche relative all’impatto che la disabilità ha sul soggetto stesso e sulle persone che lo circondano) e ambientali che gravitano intorno alla persona disabile (famiglia, insegnanti, gruppo dei pari, operatori socio-sanitari, stato economico, barriere sociali e architettoniche, ecc).

 

Presentazione di un caso di disabilità multipla: Emma.

            Ho conosciuto Emma nel dicembre 2004 nell’ambito di un intervento di assistenza scolastica e domiciliare (ancora in corso) per conto di una Cooperativa sociale che si occupa di servizi socio-sanitari ed educativi. Emma ha compiuto da poco 18 anni, è nata in una grande città del Nord Italia e si è trasferita in seguito con i genitori in una piccola frazione-dormitorio della Toscana piuttosto isolata, dove vive attualmente, con pochi servizi di qualunque tipo. La mamma, di origine svizzero-tedesca, è casalinga ed è la figura familiare maggiormente deputata alla cura fisica e quotidiana della figlia, che trascorre anche più tempo con lei. Il padre, di origini meridionali, appartiene ad un corpo militare di Stato e trascorre buona parte del tempo al lavoro, per quanto sia comunque vicino alla figlia e se ne occupi se c’è bisogno. Proprio grazie al suo impiego ha un’ottima conoscenza della normativa italiana in materia di handicap ed è riuscito finora ad assicurare ad Emma quanto più possibile relativamente all’assistenza sanitaria, economica, educativa e sociale, mantenendosi in contatto con alcune associazioni di riferimento e quasi “ricattando” gli Enti locali con leggi dello Stato alla mano. In tre vivono in una bella e spaziosa villetta con giardino e piscina, sempre tutta ordinata e linda, che ospita anche un cane.

Emma è affetta dalla nascita da una triplegia spastica, cui sono associati un notevole deficit visivo (corretto solo in parte dalle lenti ottiche) ed una difficoltà nella comunicazione sia verbale che scritta. Il danno ha origine perinatale, in quanto sembra sia dovuto ad un problema da parto. Seguita da subito da un’equipe multidisciplinare di validi specialisti, è riuscita a compiere notevoli progressi nello sviluppo facendo leva sulle potenzialità residue (ad es. in riferimento all’arto superiore sinistro, l’unico meno compromesso su cui può esercitare del controllo, ed al senso dell’udito fortemente sviluppato).

Ha frequentato la scuola materna al Nord, mentre a partire dalle scuole elementari è stata inserita nella zona dove risiede attualmente. Mi racconta di un’esperienza scolastica piuttosto penosa almeno inizialmente: gli altri bambini parlavano e lei invece riusciva a comunicare soltanto per mezzo di una cartella contenente dei disegni. Grazie all’aiuto di una logopedista e di una notevole forza di volontà, che la contraddistingue, all’incirca in quarta elementare ha imparato a comunicare con gli altri. Ad oggi riesce a comunicare oralmente articolando alcune sillabe o singoli fonemi e compensando gli altri con i segni dell’alfabeto muto, sa leggere, scrivere minimamente anche con la penna, ma per lo più si avvale dell’ausilio del computer. In parte è autonoma negli spostamenti grazie ad una carrozzina a motore.

Attualmente frequenta il Liceo delle Scienze sociali con un programma ridotto e semplificato, ottenendo buoni risultati se raffrontati alle ripercussioni a livello cognitivo dei gravi deficit motori e visivi di partenza. Predilige le discipline umanistiche e sociali, mentre ha maggiori difficoltà nell’ambito scientifico dov’è richiesta una notevole capacità logica e di astrazione. Possiede una buona capacità mnemonica, ridotti tempi di attenzione, una grande forza di volontà e autodeterminazione.

Per quanto riguarda l’area affettivo-relazionale si evidenzia una notevole solitudine, attualmente accentuata dal periodo adolescenziale e dal confronto inevitabile con i compagni di scuola. L’ambito scolastico riesce a compensare solo in parte questa carenza di relazioni, non essendosi creato per lei in classe, né con i professori né con gli alunni, un contesto accogliente, ma spesso di semplice indifferenza o al limite di tolleranza. Al di fuori di questo contesto trascorre molto tempo con i genitori oppure con qualche loro amico; ha soltanto un paio di amiche con cui trascorrere un po’ di tempo, sempre tuttavia sotto l’occhio vigile dei genitori.

In passato ha avuto come hobby la pittura, per cui è stata premiata a livello nazionale; tuttora con la madre si diletta a dipingere a tampone degli oggetti in legno, che poi vengono lavorati con la tecnica del découpage. Per il resto lo studio assorbe gran parte del tempo a sua disposizione.

Prima di passare ad analizzare l’intervento pluridisciplinare svolto con Emma fino ad oggi credo sia utile inquadrare brevemente la sua situazione psicofisiologica e in che modo la disabilità multipla possa aver influenzato il suo sviluppo motorio, psicologico, cognitivo, affettivo e sociale, proprio per avere una visione il più possibile d’insieme che contempli la complessità e la numerosità dei fattori in gioco. Essendo la mia esperienza professionale in materia piuttosto limitata e non avendo accesso diretto ad informazioni sullo sviluppo pregresso di Emma, quanto segue sarà sicuramente parziale e per lo più basato su conoscenze teoriche generali (cfr. Zanobini, Usai, 2005).

 

Breve analisi delle implicazioni evolutive della disabilità multipla.

Da un punto di vista medico il quadro di Emma appare riconducibile ad una paralisi cerebrale infantile (Pci), ovvero ad un disordine del movimento e della postura dovuto ad una lesione stabile e precoce a carico del sistema nervoso centrale. In questo caso la lesione interessa sicuramente le aree deputate alla motricità, essendo presente una triplegia spastica caratterizzata da un disturbo del tono muscolare e del movimento degli arti, ma probabilmente anche altre aree, data l’associazione della patologia motoria a disturbi visivi, cognitivi e della comunicazione.

Tali disturbi hanno determinato importanti ripercussioni sul suo sviluppo motorio, ostacolato direttamente dalla spasticità, ma anche dal deficit visivo. E’ presumibile ipotizzare ci siano stati e permangano per Emma notevoli difficoltà nell’esplorazione dell’ambiente circostante, nella prensione e manipolazione di oggetti, nella costruzione dello spazio e del reale, che si traducono in una maggiore insicurezza. L’impedimento motorio non le ha permesso di sperimentare completamente il proprio corpo, di muoversi liberamente nello spazio in modo autonomo, di realizzare un’organizzazione psichica integrata e una piena consapevolezza della propria identità separata dagli altri.

Da un punto di vista cognitivo c’è stato sicuramente un ritardo a partire dall’intelligenza senso-motoria, nella capacità simbolica e di astrazione, nello sviluppo linguistico; è presente una maggiore rigidità del pensiero e resistenza al cambiamento. C’è tuttora una difficoltà a superare la posizione egocentrica e a sganciarsi dal proprio corpo come punto di riferimento centrale per le rappresentazioni spaziali.

Per quanto riguarda il suo sviluppo affettivo e sociale, al di là di quelle che possono essere state le reazioni dei genitori alla grave patologia di Emma, i deficit multipli hanno sicuramente determinato un ritardo nel processo di attaccamento e di separazione-individuazione dalle figure genitoriali, oltre che nelle relazioni con i pari, con importanti ricadute sul suo funzionamento emotivo e sociale, ostacolato anche dai suoi problemi nella comunicazione.

Riferendomi al modello delle intelligenze multiple di H. Gardner (1987) è presumibile ipotizzare che Emma abbia avuto modo di sviluppare meglio le due intelligenze relazionali, ovvero quella interpersonale ed intrapersonale, piuttosto che intelligenze come quella corporeo cinestetica, spaziale, linguistica o logico matematica; relativamente all’intelligenza musicale a mio avviso potrebbero esserci importanti potenzialità da esplorare, probabilmente al momento poco utilizzate. In sintesi pertanto credo che l’ambito maggiormente deficitario riguardi l’intelligenza intuitiva.

 

Linee guida dell’intervento multidisciplinare fino ad oggi: alcune problematicità.

            Da quando ho iniziato a lavorare con Emma il mio intervento si è inserito nel più generale lavoro riabilitativo-terapeutico ed educativo in senso lato svolto, a livello ufficiale, in equipe con neuropsichiatra, assistente sociale, scuola e genitori. Nella realtà la situazione del lavoro di rete si profila abbastanza complessa, pur essendo presenti intenti e motivazioni importanti su cui eventualmente far leva.

            I miei contatti più frequenti sono con l’assistente sociale, da cui la Cooperativa per cui lavoro dipende. A mio avviso tale figura professionale ha lavorato finora in modo efficace soprattutto garantendo ad Emma servizi importanti come l’accompagnamento a scuola ed un’assistenza scolastica (per il tempo che rimane scoperto dall’insegnante di sostegno) e domiciliare in alternativa ai periodi non scolastici, che resta comunque un punto di riferimento costante sia per lei che per la sua famiglia.

La neuropsichiatra attualmente vede Emma un paio di volte l’anno, dato che non risultano particolari problemi. Tale intervento, a mio parere indispensabile soprattutto in questo momento di crescita e sviluppo adolescenziale per garantirle uno spazio esclusivamente personale dove potersi esprimere autonomamente, in pratica viene ad essere inesistente se non per le certificazioni di cui la famiglia via via ha bisogno.

La scuola, pur avendo probabilmente delle risorse per un lavoro educativo con i disabili, in realtà resta fortemente ancorata all’apprendimento di contenuti disciplinari e lascia per lo più al caso aspetti fondamentali nell’ottica della costruzione di un progetto di vita per ciascuna persona in età evolutiva: ambiti come l’autonomia, la consapevolezza di sé, le relazioni con gli altri vengono semplicemente constatati “potenzialmente scarsi”, ma non ritenuti aspetti in cui anche la scuola possa dare il proprio contributo. Diversi dei suoi insegnanti, che per altro durante i quattro anni sono cambiati molto di frequente, sembrano avere per primi difficoltà nelle competenze relazionali e comunicative in generale con tutti gli studenti della classe. L’atteggiamento risultante, nonostante alcuni tentativi ci siano, è secondo me tutto sommato di indifferenza nei confronti di Emma, il loro compito di educatori concluso con spiegazioni e verifiche cui assegnano voti abbastanza alti. L’insegnante di sostegno, che lavora con lei da un paio di anni, è riuscita a costruire una buona relazione, ma il suo operato viene spesso messo in discussione davanti a lei (e talvolta anche a me) dalla famiglia.

I genitori di Emma hanno il merito di essersi fatti in quattro per la figlia, di preoccuparsene ogni giorno, avendo fatto scelte positive come assicurarle tutta l’assistenza possibile, una buona apparecchiatura tecnologica a casa, puntare sulla sua realizzazione scolastica, ecc. Tuttavia dal mio punto di vista, comunque parziale, si possono evidenziare alcuni aspetti del loro comportamento poco condivisibili nell’ottica del benessere della figlia. In primo luogo la forte dipendenza che hanno instaurato da ambo le parti: Emma non può fare a meno di loro e loro, soprattutto la madre, faticano ad allontanarsi dalla figlia. Questo aspetto, evidente a tutti, viene ricondotto sempre a cause esterne o di forza maggiore (es. non hanno trovato nessuno cui poterla affidare in caso di necessità, Emma è tranquilla soltanto con loro, il tal loro amico non va bene perché ha un bagno troppo stretto nel caso lei abbia bisogno, nessuno è in grado di fare a Emma “tutto” come lo fanno loro).

Alla dipendenza si associa un forte controllo, ancora una volta in particolare della madre, sia dei comportamenti di Emma che di quanti le ruotano attorno. E’ la madre che decide tutto, nei minimi particolari (la pettinatura, i vestiti, i panini per mangiare a scuola, cosa Emma deve fare nei vari momenti della giornata, i negozi da visitare durante le passeggiate, a quale bar si deve andare a fare colazione, a chi fare regali e per quali occasioni), anticipando richieste, desideri ed anche le parole della figlia: quando noi tre ci troviamo a parlare la madre si pone sempre nel ruolo di mediatore (nonostante dopo due anni io riesca a capire bene cosa Emma voglia comunicare), le fa dire un paio di sillabe o parole e poi termina sempre lei i discorsi. Chiaramente (da buona “avara”) per ogni aspetto deciso ha una motivazione pronta e studiata con cura dopo anni e anni di routine; sì, perché la vita di Emma è rigidamente strutturata in routine, a tal punto che mi è stato detto che la sua pettinatura, ad esempio, non cambia dalle scuole elementari: frangetta e coda alta. La madre tende a riproporre questo tipo di relazione, centrata sul controllo e la manipolazione, anche con gli operatori della figlia (ho avuto modo di osservarlo con me, ma anche ad esempio con l’insegnante di sostegno): tanto per citare alcuni aspetti, ogni volta che mi presento a casa loro vengo puntualmente squadrata da capo a piedi, analizzate le novità, espresse opinioni sull’abbigliamento, ecc; pur avendole fatto notare che, se si verificano problemi o ha delle comunicazioni urgenti da fare, come punto di riferimento ha già la Cooperativa che penserà ad avvertirmi, ha carpito il mio numero telefonico di casa tramite l’identificazione chiamata e si è tranquillamente permessa di telefonarmi diverse volte; in alcune occasioni non ha avvertito di una riduzione di orario scolastico decidendo per tutti che Emma (e di conseguenza io) sarebbe comunque rimasta a scuola come gli altri giorni “perché altrimenti avvertire tutti sarebbe stato un problema”; ha provato ad avanzare richieste del tutto improprie come andare ad imbucarle la posta “perché domani partiamo per le vacanze e portarla dietro…”; quando sono con Emma sta sempre nei pressi ascoltando e notando tutto ciò che diciamo o facciamo. Dal canto suo anche Emma tende alcune volte a porsi nello stesso modo: controlla l’ora in cui arrivo, protesta se non scatto appena lei mi chiede qualcosa, ecc. Questo stile si osserva talvolta anche con i genitori: ad esempio, se non è particolarmente impegnata in qualche compito, anche quando sono presente io, li chiama più volte, vuol sapere cosa fanno, chi è presente se sente più voci provenire da un’altra stanza. Ovviamente in questo clima familiare Emma non riesce a trovare spazi personali, né ancora è capace di richiederli verbalmente benché in alcuni momenti il bisogno venga espresso diversamente (la scorsa estate ha passato un periodo di forte crisi durante il quale ha morso più volte la madre).

Un altro aspetto a mio parere poco condivisibile, che in parte si ricollega ai precedenti, è l’aver spinto Emma a puntare tanto, direi quasi tutto, sulla realizzazione scolastica, sull’apprendere ed il conoscere, che è certamente un obiettivo di crescita e di sviluppo importante, ma accanto ad altri fondamentali come le relazioni con i pari. A parte i compagni di scuola, Emma non è mai stata inserita in un gruppo di ragazzi. Anche il luogo isolato di residenza in cui i genitori hanno scelto di vivere secondo me è significativo a questo proposito, come a volersi tagliare fuori da una serie di opportunità. Pertanto Emma non è abituata a stare con i coetanei, spesso non riesce ad instaurare relazioni positive con loro che non siano sbilanciate (ovvero che non partano sempre dagli altri), talvolta a mio parere approfitta anche un po’ della sua difficoltà a comunicare per non partecipare agli scambi con gli altri, intenta a tenere dietro ai pensieri o agli interessi del momento, e tollera poco gli aspetti o i comportamenti altrui che non le piacciono, reagendo con urla (es. quando è stanca e c’è rumore di sottofondo oppure quando i suoi compagni vogliono fare un’attività che a lei non va).

Infine mi ha colpito, almeno per quanto ho avuto modo di vedere e di conoscere, la rinuncia di questi genitori in qualche modo a vivere la coppia, a qualche momento piacevole per loro, dediti alla figlia per gran parte del loro tempo, e desistendo soprattutto la madre anche da una propria realizzazione individuale e professionale.

 

Analisi dell’intervento svolto: e da qui in poi?

Non è stato semplice per me inquadrare tutta questa situazione, anche perché solo di recente sono riuscita ad essere invitata e presente ad alcuni momenti di coordinamento con le varie figure attorno ad Emma e ho avuto l’opportunità di rimettere insieme informazioni diverse. Comincio ora ad intravedere il quadro nella sua complessità. Lavorando a stretto contatto con Emma e le altre persone coinvolte nel processo mi sono resa conto dei limiti evidenti degli interventi settoriali, in cui ognuno si guarda bene dal riflettere appena oltre il dovuto: ci si preoccupa di fornire servizi e prestazioni il più possibile funzionali, ma spesso ci dimentichiamo che la vera essenza delle persone che vogliamo aiutare sta nelle loro emozioni, nei sentimenti, nelle relazioni che vivono ogni giorno, in cui si rispecchiano e ricostituiscono la propria identità. Nei nostri interventi settoriali rischiamo di perdere proprio la persona con la sua umanità. Dove trova Emma la possibilità di esprimersi e sperimentarsi nelle relazioni? A casa, dove la sua routine è rigidamente scandita dalla mattina alla sera? A scuola, dove in silenzio ascolta la spiegazione ed io le prendo appunti al computer? Nella pausa estiva, mentre guarda giocare i bambini ai giardini o i cartoni animati alla TV? Se penso a questo arco di tempo in cui l’ho seguita mi rendo conto di conoscere molto meglio le sue abitudini, decise da altri, piuttosto che quello che pensa, vuole, sente e prova durante le sue giornate.

Nonostante il mio incarico professionale richieda sostanzialmente di prenderle appunti in classe, accompagnarla in strada per alcuni spostamenti e tenerle un po’ di compagnia durante l’estate, mi sono chiesta da tempo cosa potevo fare di più per Emma, per vederla crescere e cominciare ad essere maggiormente autonoma fin dalle piccole cose. Cosa potevo fare per attivare un cambiamento anche piccolo, ma davvero significativo?

Ritengo che le linee di intervento seguite da ciascuno di noi fino ad oggi abbiano ormai raggiunto tutto ciò che potevano, per cui da differenti punti di vista ci troviamo in un vicolo cieco da cui non si esce se non con un salto di qualità. Infatti per quanto mi sembra di intuire siano state le preoccupazioni principali dei genitori, ovvero di proteggerla in una sorta di gabbia di cristallo di cui loro hanno la chiave e di assicurarle tutte le possibili prestazioni economiche, socio-sanitarie ed educative possibili, si intravede il capolinea, siamo quasi al top di quanto è consentito. Relativamente all’intervento scolastico, anche qui ci avviamo al traguardo finale dell’esame di stato che avverrà l’anno prossimo, con risultati ufficiali anche molto buoni. Per quanto riguarda l’intervento della neuropsichiatra Emma ormai è cresciuta, è diventata maggiorenne, per cui ci fermiamo qui. L’assistente sociale è forse l’unica che si pone qualche interrogativo in più, anche perché il suo compito per legge non finisce con la maggiore età e quindi si pone il problema di dove inserirla successivamente. Anch’io con lei mi sono fatta ripetutamente questa domanda negli ultimi mesi, conoscendo i tempi estremamente lunghi per la costruzione di un intervento intelligente su cui esista un accordo abbastanza ampio tra tutte le figure coinvolte (in primo luogo Emma e i genitori) e preoccupata all’idea che possa venire relegata ancora di più all’interno delle dinamiche manipolatorie e di dipendenza in atto.

Per prima cosa ho pensato bisognasse cominciare con il “costringerla” ad una maggiore autonomia, almeno nelle cose alla sua portata (prendere e restituire le verifiche ai professori, rispondere alle loro richieste, asciugarsi la saliva in eccesso, ecc.), e con il dare voce ai suoi pensieri e desideri per il futuro, ma mi sono subito scontrata rispettivamente con la sua resistenza passiva, l’inconsapevolezza riguardo a ciò che vuole e le piace fare e la sua tendenza a ripropormi pari pari le considerazioni che avevo sentito fare ai suoi genitori. Pertanto ho creduto potesse aiutarmi la somministrazione del questionario di Artigianato Educativo di Prevenire è Possibile, in modo da avere una chiave di lettura e di conoscenza delle sue personali caratteristiche, di quelli che sono i suoi bisogni educativi in questo particolare momento della sua vita, quindi intrecciarla alle mie osservazioni per poter capire in quale direzione muoversi.

 

Analisi della personalità di Emma secondo il modello di Prevenire è Possibile.

             Emma si è sottoposta volentieri al questionario di Artigianato Educativo, trovandolo anche interessante visto che parlava di sé. In questo senso penso sia già stato benefico come input per stimolarla ad una maggiore consapevolezza di sé. La somministrazione si è svolta a scuola (ambiente maggiormente neutro affettivamente), in due tempi per facilitare la sua attenzione ed ha richiesto la mia mediazione sia per la lettura degli item che per la compilazione.

Questi i punteggi da lei ottenuti ed il grafico risultante:

 

 

Avaro

Ruminante

Delirante

Sballone

Apatico

Invisibile

Adesivo

 

Altri

2

5

2

5

3

5

8

30

Mondo

7

8

3

9

8

8

7

50

Se

7

7

8

2

6

5

8

43

Totale

16

20

13

16

17

18

      23

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Un primo aspetto da notare è il suo punteggio piuttosto alto e ben distribuito, indice di una personalità abbastanza armonica e sfaccettata, con buone risorse interne e relazionali da poter utilizzare. I suoi punti di forza appaiono proprio la relazionalità, centrata sull’attaccamento ed il bisogno di riconoscimento da parte degli altri, e la carica e l’energia interne che la animano e la mantengono attiva, il cui serbatoio è rappresentato dalla rabbia. Le sue principali carenze si trovano invece nella capacità di distaccarsi dagli altri, di autonomia, libertà, di pensiero divergente ed intuitivo, nella sensibilità emozionale intensa, nel lasciarsi attrarre e coinvolgere dal gustare fino in fondo il piacere della vita e dei cambiamenti, oltre che nel sapersi difendere soprattutto dalle persone più importanti e significative della sua vita.

Emma è una persona disponibile, in grado di capire e soddisfare i bisogni e le aspettative altrui ancora prima che vengano espressi verbalmente: sa cosa gli altri vogliono ed è disposta a saziarli pur di essere considerata e sentirsi loro vicina. Impulsivamente avverte la motivazione a lottare per gli altri, spinta da un profondo senso di giustizia, e capisce l’importanza di proteggerli e sostenerli con coraggio nei momenti di difficoltà.

Nel grafico totale si evidenziano due conflitti interni all’Io: l’equivoco e il fastidio. Il principale desiderio di Emma di andare verso gli altri per essere saziata di affetto, spesso verbalmente inespresso, si scontra con comportamenti aggressivi e irosi nei loro confronti, che esprimono in modo manifesto risentimento e finiscono per indisporre ed allontanare le persone sempre di più. La stessa dinamica è presente anche nei riguardi di se stessa, divisa tra il bisogno di volersi bene e la rabbia nei suoi confronti, che talvolta esplode dirompente con lamentele ed urla, senza trovare a livello verbale una ragione. Il suo forte bisogno di appagamento affettivo si scontra anche con il desiderio di trovare quiete, pace, in un angolo dove possa imperturbabile seguire l’onda dei suoi pensieri senza che nessun movimento, interno o esterno, possa animarla.

Ne risulta una personalità fortemente dipendente ed il sottografico più critico è rappresentato proprio dal rapporto con gli Altri significativi, quindi i genitori, verso cui Emma rivela una grossa carenza di difese e distacco, di identità ed autonomia. Come dicevo in precedenza soprattutto con la madre, la cui personalità mi pare fortemente centrata sul controllo e l’affettività, si è stabilito una sorta di doppio legame tendenzialmente patologico per cui ogni progresso in senso di autonomia di Emma, a parole fortemente ricercato e voluto dalla stessa madre, viene poi da lei vissuto come una sconfitta ed un allontanamento della figlia, attivando meccanismi che ne rinsaldano la dipendenza. Per il momento Emma non sembra in grado di separarsi dal vissuto altrui, preda di manipolazioni e condizionamenti, mentre se c’è una tendenza al distacco è proprio nel rapporto con se stessa, da ciò che pensa e sente, per aderire all’immagine ed alle aspettative degli altri. Stando così le cose è chiaro che non si piaccia e sia molto arrabbiata su tutti i fronti (Sé, Altri, Mondo), senza peraltro riuscire ad avere ben chiara la motivazione e a trovare l’appiglio per uscire da questa situazione: finché sei dentro una manipolazione non riesci a vederla e sei in balia dei vissuti positivi e negativi degli altri, sentendoti anche profondamente riconoscente e grato nei loro confronti.

 

Prospettive di un intervento di counseling.

            Dopo aver completato l’analisi generale credo che un counseling significativo in questo caso non possa prescindere dall’intervenire a più livelli, ovvero su Emma, sulla sua famiglia e sulle risorse che le altre figure professionali pensano di attivare per il futuro.

            A livello individuale le informazioni tratte dal questionario di Artigianato Educativo hanno confermato ed in parte ampliato quelle che erano le mie osservazioni precedenti. Complessivamente risulta che i bisogni educativi principali di Emma in questo momento siano innanzitutto definire e sviluppare la propria identità, imparando a difenderla dagli attentati degli altri, in particolare dei suoi genitori; quindi iniziare ad acquisire consapevolezza del suo forte bisogno di riconoscimento e affetto da parte loro e dei meccanismi di condizionamento che ne derivano. Soltanto in un secondo momento sarà possibile per lei cominciare ad assaporare il gusto ed il piacere della libertà, di decidere secondo le proprie aspirazioni e desideri e forse comincerà anche a piacersi ed a volersi più bene. Per poter fare questo Emma ha bisogno di un counselor che gli insegni a porsi con se stessa e gli altri alla giusta distanza ed a tracciare confini di identità più netti rispetto agli altri: riconoscendo le proprie caratteristiche di personalità, abilità, competenze, le proprie preferenze riferite ai vari aspetti della vita quotidiana (cibi, abbigliamento, attività, relazioni, ecc.); restituendole maggiore potere nelle cose, anche piccole, che è in grado di fare da sola; offrendole la possibilità di sperimentarsi e mettersi alla prova in alcune situazioni in modo autonomo, così da poter conoscere le sue potenzialità e le sue effettive limitazioni; integrando razionalità ed emozioni; insegnandole a distinguere cosa viene da lei e cosa invece appartiene agli altri e a salvaguardarsi. Chiaramente durante questo suo percorso avrà bisogno di esplorare ed immaginare nuovi scenari, di aprirsi verso orizzonti sempre più ampi, di concedersi piccoli piaceri, magari di riscoprire la bellezza di emozionarsi per piccole cose, di essere finalmente se stessa, di essere a volte incoraggiata, a volte sostenuta.

            A livello familiare la situazione si presenta maggiormente delicata. La necessità è quella di rompere le dinamiche manipolatorie in atto, ma non credo che una denuncia aperta otterrebbe il risultato sperato, anzi probabilmente nella mia posizione mi brucerei ogni possibilità. Forse la strategia migliore è cercare di far crollare piano piano tutta l’impalcatura su cui i condizionamenti si basano, ad esempio apportando con Emma piccoli ma sistematici cambiamenti nelle routine materne che finiscano per mandare in crisi la mamma. Il tutto senza darle appiglio ufficiale per allontanarmi, anzi facendo sì che da sola noti la bontà dei risultati di queste piccole novità sulla figlia. Altro aspetto importante è quello di riuscire a tirarsi fuori dai tentativi dei genitori di includermi nelle loro dinamiche familiari, in modo fermo e costante, senza però entrare in aperto conflitto con loro.

            Infine a livello di progettazione in equipe di interventi per il futuro per me sarebbe già cosa buona riuscire a far sì che si prospettino situazioni che non consentano di rinforzare i processi di dipendenza genitori-figlia, come invece i genitori hanno avanzato (es. l’apertura di un negozio di découpage da parte della madre e di Emma, intraprendere il percorso universitario con i genitori che a turno l’accompagnano e le prendono appunti), ma permettano ad Emma di inserirsi in contesti relazionali di coetanei o comunque in cui possa trovare uno spazio di “potere” ed azione il più possibile autonomi e di crescita personale.

 

Muovendo i primi passi.

            Durante il corso dell’attuale anno scolastico, avendo intuito alcuni aspetti che ad oggi mi sembrano maggiormente evidenti, avevo già apportato alcune modifiche al mio modo di lavorare con Emma e di muovermi nel suo contesto. Come ho accennato in precedenza durante il mio intervento a scuola ho cercato di fare in modo che se la cavasse il più possibile da sola, stimolandola ad assumersi alcune responsabilità nei confronti di ciò che la riguarda, ad esempio lasciandola libera di decidere che fare in momenti come la ricreazione o le supplenze, di uscire e riposarsi se era stanca, di stare un po’ a ridere o in compagnia con gli altri quando magari vedevo potesse essere una buona occasione. In questi ultimi mesi, poi, ogni giorno ha praticamente un compito o un’interrogazione ed è proprio stanca, spesso in tensione; allora cerco di sdrammatizzare e di scherzare con lei sugli episodi quotidiani che so la divertono.

Consapevole dell’importanza di un rapporto il più possibile armonico ed equilibrato tra mente e corpo per il benessere di qualsiasi individuo, anche sulla base del percorso di formazione svolto in seno alla Scuola Transteorica di Counseling di Prevenire è Possibile in cui è stato accennato ad insegnamenti fondamentali di discipline come la bioenergetica, lo shiatzu e la psicomotricità, sono riuscita a creare l’opportunità di poter lavorare in palestra insieme ad Emma sul suo corpo durante le ore settimanali di scienze motorie. Oltre allo spreco di questo tempo per come veniva utilizzato, sono stata spinta in questa direzione dall’osservazione di come Emma non viva il suo corpo se non in relazione alle difficoltà connesse (per lei, ad esempio, è estremamente problematico andare in bagno), quasi non sembri neanche il suo. Ho visto nel suo atteggiamento come una totale rinuncia nei confronti di questa importante dimensione del Sé, anche di quelle che potrebbero essere potenzialità inespresse, mentre d’altro canto con gli altri, ad esempio con alcuni compagni disabili presenti nella sua scuola, ha cominciato a ricercare fortemente il contatto anche fisico mediante carezze, ecc. Pertanto ho pensato che dei semplici movimenti, che le permettessero per prima cosa di cambiare posizione rispetto allo stare seduta in carrozzina, di rilassarsi per un po’ e di sentire le varie parti del corpo muoversi, potessero intaccare la sua rigidità, procurarle un momento di benessere e farle intravedere la possibilità di riappropriarsi del suo corpo per quanto consentito. Dallo scorso settembre, in cui ho avanzato presso gli insegnanti la richiesta di questa attività, previo accordo con la famiglia, soltanto ai primi di marzo una fisioterapista è venuta a scuola a farmi vedere come possa guidare Emma in alcuni movimenti di decontrazione muscolare. Si tratta di alcuni esercizi motori per sciogliere le articolazioni degli arti inferiori e superiori o distendere quei muscoli che abitualmente stanno maggiormente contratti (es. la pianta del piede, le braccia), in modo delicato, senza forzare, attendendo in primo luogo che il suo corpo si abitui ad essere manipolato e poi ceda in modo naturale alle distensioni. In senso psicologico alcuni di questi movimenti ampi e rotatori possono riflettersi progressivamente anche nell’espansione dell’Io di Emma, nell’ampliamento delle sue potenzialità, nell’apertura e chiusura nei confronti degli altri, nell’abbandonarsi alla loro cura. Finora abbiamo provato soltanto un paio di volte, ma è stata una bella esperienza di contatto e dono reciproco: avvertivo la sua fiducia nei miei confronti ed io le restituivo la sua voglia di partecipare ai movimenti, di riappropriarsi in qualche modo di una parte di sé capace ancora di darle emozioni positive, rilassamento e benessere. Mi ha colpito scoprire che lei pian piano non rimaneva passiva, ma cercava di essere attiva nei movimenti. Ho avuto modo di notare anche un aspetto accennato da Guglielmo De Martino durante una lezione sul rapporto mente-corpo: in riferimento alla personalità del Ruminante accennò all’importanza di trovare nel corpo una “messa a terra” affinché l’eccessiva carica interna, accumulata soprattutto a livello delle scapole, potesse trovare una via di fuga facilitata. Effettivamente Emma gradisce molto sia la posizione prona che le pressioni sulle scapole: in questo modo si ottiene una bella apertura del torace e dopo un po’ anche la perfetta distensione degli arti inferiori (cosa per me impensabile dopo averla vista in posizione supina) con i piedi che tendono ad aderire a terra (la messa a terra di cui si diceva).

Credo che questo tipo di intervento corporeo sia molto importante per una ragazza come Emma e potrebbe davvero darle tanto, se magari avessimo la possibilità di praticarlo in modo regolare a casa durante l’estate, sia in termini di benessere psicofisico, sia come progresso nella conoscenza di sé, sia anche come livello di appagamento affettivo. In ottica shiatzu, ad esempio, gli esercizi di decontrazione muscolare potrebbero essere alternati a massaggi molto delicati, come carezze su tutto il corpo, che diventano coccole. Partendo da un movimento circolare lento iniziale all’altezza dell’ombelico condotto in senso orario, che permette progressivamente l’apertura e la disponibilità ad un contatto corporeo, si possono eseguire delle pinzature lungo gli arti sia inferiori che superiori dal centro verso le estremità in modo da consentire una più equa distribuzione di energia in tutto il corpo (Emma ha sempre le mani gelide e violacee). Oltre ai piedi e alle mani anche il viso può essere massaggiato, ma in modo ancora più delicato, quasi impercettibile, come tracciando delle linee immaginarie con i pollici a partire dalla linea mediana del volto fino ad arrivare alle orecchie. L’aspetto fondamentale è che l’intenzione guidi l’energia e l’energia guidi il corpo: un pensiero positivo, al di là della tecnica, ha la potenzialità di sortire risultati positivi. L’effetto benefico del massaggio potrebbe essere rinforzato dall’unione di una musica di sottofondo, che inviti successivamente Emma a ritrovare ed ascoltare il proprio ritmo interno, ricostruendo una propria armonia personale che possa andare oltre la dimensione fisica.

Passando ad un altro tipo di intervento anche degli esercizi di musicoterapia, che associno all’ascolto il racconto delle impressioni suscitate dalla musica oppure il disegno espressivo del brano musicale, potrebbero essere utili ad Emma nell’ottica di esplorare emozioni intense e coinvolgenti (Masini, 2001).

Dopo la somministrazione, poi, ho restituito ad Emma i risultati del questionario di Artigianato Educativo: è stato un momento significativo di confronto, avvenuto in un pomeriggio durante una passeggiata nel parco (rigorosamente fuori portata dei genitori). Quando le ho detto che ormai era grande e doveva lottare per venire fuori dal suo guscio, prendere un po’ di coraggio e fare scelte importanti per il suo futuro, superando il timore di non essere accettata dagli altri, lei ha sorriso e mi ha chiesto di parlarle dell’università…

             Per quanto riguarda il versante familiare ho sempre cercato di far cadere nel nulla i tentativi materni di “dirigermi”, sia evitando per quanto possibile di chiederle cosa fare con Emma, sia negandomi al telefono ogni volta che mi chiama a casa, tentando sempre di ricondurla ai canali comunicativi ufficiali e ad una relazione di tipo professionale: utilizzando una metafora, nei suoi confronti mi sento molto una saponetta che le sguiscia dalle mani. Del resto credo di essermi guadagnata una buona fiducia da parte dei genitori, rispettando gli accordi, interpellandoli sull’eventualità di qualche cambiamento come la fisioterapia, ecc. Tuttavia è vero che mi trovo costantemente a muovermi su un filo sottile: se da un lato è bene mostrarsi disponibile nei loro confronti, ma non troppo perché altrimenti ti risucchiano, dall’altro apprezzano l’interessamento a fare qualcosa di importante con la figlia, ma senza andare troppo oltre i limiti del dovuto (secondo loro) perché ti tagliano fuori. Credo basterebbe appena una telefonata in Cooperativa, dove la preoccupazione base è quella di non destare problemi affinché il Comune rinnovi l’incarico.

Ultimamente l’atmosfera familiare è un po’ cambiata: dovendo la madre sottoporsi ad un intervento alle mani, sono stati costretti a prendere in casa una ragazza per aiutarla sia con Emma che con le faccende domestiche: si tratta di una persona molto giovane, carina, di origini rumene. Questo, a detta degli stessi genitori, ha permesso loro per la prima volta in 18 anni di tirare un po’ il fiato. Effettivamente li ho visti entrambi molto più distesi in volto e sereni. La stessa Emma ha dovuto confrontarsi con una persona esterna e ciò, nonostante i primi momenti di scontro, credo sia stato salutare, anche solamente perché ha portato una ventata di novità. Non sarà una sistemazione definitiva perché troppo onerosa per la famiglia, ma intanto ha smosso un po’ le acque.

            Sul fronte della progettazione in equipe di un percorso per il futuro sono riuscita nell’immediato a portare avanti la richiesta di non ripetere un interevento domiciliare durante la prossima estate come quello dello scorso anno: concretamente andavo a casa di Emma per stare a guardare i cartoni animati o fare giochi frustranti per entrambe. L’idea è quella di accompagnarla – credo per due pomeriggi a settimana – presso un Centro Giovani o un Oratorio dei Salesiani di un paese vicino, dove possa fare qualche conoscenza in più di coetanei e magari partecipare a qualche attività che viene lì promossa, anche in modo spontaneo ed estemporaneo (altrimenti si corre il rischio di un eccesso di progettazione, l’importante è creare le opportunità).

In merito ad interventi a medio e lungo termine continua a profilarsi l’idea di un percorso universitario per Emma, che probabilmente riguarderà la psicologia, affiancata da uno studente tutor convenzionato. Un progetto migliore, a mio avviso, riguarda invece un suo eventuale inserimento all’interno di una compagnia teatrale locale più o meno di suoi coetanei, che in parte già conosce da esperienze precedenti, in qualità di scenografa: si tratterebbe di coinvolgerla nella scelta dei colori e, per quanto possibile, nella realizzazione delle scenografie degli spettacoli che andranno ad allestire via via, magari sempre affiancata da una persona che la possa aiutare. Credo che rappresenti un’occasione valida sia perché comunque riprende un filone di interessi in cui Emma ha delle effettive potenzialità (la pittura, il cinema e lo spettacolo), sia perché è un’ulteriore occasione di inserimento in un gruppo di coetanei in cui poter creare amicizie.

 

Conclusioni.

            Al termine di questo lavoro spero vivamente di poter continuare la relazione d’aiuto intrapresa con Emma e di avere l’opportunità, alla luce delle considerazioni emerse, di tradurre nella pratica quanto in queste pagine si è affrontato dal punto di vista teorico. Ripongo grandi speranze nel periodo estivo, che ormai è alle porte, dal momento che il tipo di intervento meno strutturato può consentire ad entrambe una maggiore possibilità di azione ed espressione.

            Naturalmente sono consapevole del fatto che non si tratti di una situazione di counseling “tradizionale”, in cui è il cliente stesso a chiedere un aiuto esplicito ed esistono sia un setting che un contratto di lavoro ben definiti; ciò comporta una maggiore cautela e trasparenza riguardo a quelle che sono le mie intenzioni e motivazioni di intervento. Tuttavia durante questo percorso di formazione credo di avere appreso che uno dei punti di forza della figura professionale del counselor è data proprio dalla sua flessibilità e capacità di adattamento alle diverse persone e situazioni che si trova ad affrontare, mettendo sempre al centro della relazione la persona con i suoi bisogni e ponendosi in una posizione di ascolto attivo. Il modo di accompagnare il cliente nel suo percorso di presa di coscienza, miglioramento e/o acquisizione di nuove strategie di fronteggiamento della propria esistenza ha uno specifico carattere educativo, non lontano nella sua essenza dall’alto compito di cui è investito un Educatore che sia davvero tale: fare counseling, infatti, significa anche individuare nella persona che si ha di fronte le potenzialità inespresse che costituiscono il nodo problematico in un particolare momento di crisi e che, una volta scoperte, permettano di superarlo e di crescere. Un professionista, il quale operi nell’ambito dei servizi alla persona (psicologici, sociali, sanitari, educativi, ecc.) ed abbia acquisito una competenza in materia, proprio per il benessere dell’altro non può esimersi dall’utilizzarla, pur con la delicatezza e la cautela adeguate alla situazione e il dovuto rispetto. Essere counselor non è un abito che si indossa prima di entrare in uno studio, azienda o altro, ma diventa un modo di essere, un atteggiamento consapevole di disponibilità e fiducia nei confronti dell’altro. Per tutti questi motivi nei fatti il setting, le tecniche, l’approccio al problema, ecc. passano in secondo piano di fronte alla capacità di instaurare relazioni d’aiuto (Troiani, 2005).

 

 

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