QUALE FAMIGLIA PER QUEL BAMBINO?
ANGELA GUIDI
INDICE
CAP.1: LA COSTRUZIONE DELLA FAMIGLIA
1.1 Famiglia, figli e procreazione tra passato e presente 1.2 La teoria dell’attaccamento 1.3 Lo sviluppo del sistema di attaccamento
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4 6 7 |
CAP.2: I NODI CRITICI DELL’ITER ADOTTIVO E AFFIDATARIO (risultati di una ricerca)
2.1 Introduzione 2.2 Le relazioni con gli organi istituzionali (assistenti sociali, giudici, psicologi e educatori) 2.3 L’inserimento del minore in famiglia 2.4 Riflessioni |
10 10 13 14 |
3.1 L’empatia e l’artigianato educativo3.2 le tipologie di personalità
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17 20 |
CAP.4: FAMIGLIE BIOLOGICHE, ADOTTIVE E AFFIDATARIE. RISORSE DIVERSE PER DIVERSI BISOGNI
4.1 Percorsi di miglioramento 4.1.1. Lo sviluppo della maternità e della paternità 4.1.2. Tipologie di famiglia e analisi delle relazioni interne di affinità e di opposizione 4.1.3. L’individuazione delle diverse tipologie di personalità dei figli e relativi bisogni 4.1.4. La modulazione della comunicazione educativa per le diverse tipologie di personalità 4.2 Il ruolo degli organi istituzionali coinvolti
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27 27 32 35 39 43 |
CONCLUSIONI |
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BIBLIOGRAFIA |
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CAP.1: LA COSTRUZIONE DELLA FAMIGLIA
1.1. FAMIGLIA, FIGLI E PROCREAZIONE TRA PASSATO E PRESENTE.
La famiglia è un luogo di condivisione e di solidarietà diretta con un raggio di variabilità differente a seconda delle culture e con numero di membri maggiore o minore, a seconda delle politiche in atto nei diversi sistemi, nel corso della storia e nei diversi contesti geografici.
Gli studiosi distinguono: il gruppo domestico, la famiglia biologica, la famiglia nucleare, la famiglia composta, la grande famiglia e la famiglia estesa.
La definizione corrente più accettata è quella di “unità di persone interagenti” con un ciclo di vita famigliare suddiviso in diverse tappe (fidanzamento, matrimonio, allevamento dei figli, nido vuoto, vecchiaia).
Secondo Giddens[1], autorevole sociologo inglese, la famiglia è definita come “…un gruppo di persone legate da rapporti di parentela, all’interno del quale i membri adulti hanno la responsabilità di allevare i bambini.”
Ancora oggi infatti, nell’opinione comune, sembra che ci sia veramente famiglia solo quando ci sono i figli e il matrimonio è visto quindi come passaggio necessario ma non sufficiente al costituirsi della famiglia. Questa concezione è frutto sicuramente dell’influenza della cultura cattolica che ha per molto tempo considerato il matrimonio come strumentale per la procreazione e, benchè nel corso degli anni abbia dato pari dignità anche al benessere e alle relazioni di reciprocità nella coppia quali fini e valori del matrimonio, ha visto nella sterilità un sacrificio, una croce da sopportare.
Nell’epoca post-moderna la famiglia diventa unità di condivisione tra persone solidali costruita su basi biologiche, naturali e parentali o su basi affiliative e comunitarie. In tale unità di condivisione esiste il matrimonio, la riproduzione e l’educazione dei figli ma anche la cura delle persone che a tale unità si affiliano.
La famiglia moderna nasce quindi come famiglia genitoriale educante e come famiglia affettiva, in quanto ridefinisce il posto dei figli: essi diventano il centro affettivo e simbolo dell’affettività familiare stessa; e questo processo è accompagnato da una diminuzione del numero di figli per famiglia man mano che aumenta la loro importanza affettiva.[2]
L’infanzia nella storia di tutte le società è stata troppo spesso dimenticata e negata nelle sue grandi potenzialità ed è stata molte volte violata in forme sia visibili ma soprattutto invisibili.
Solo verso la metà del secolo scorso le scienze umane hanno iniziato ad occuparsi in modo sempre maggiore dei soggetti in età evolutiva scoprendo la fatica e le difficoltà di uno sviluppo armonico e rilevando quanto le mancanze della prima età incidano sulla totale costruzione dell’uomo adulto e sulla compiutezza del suo sviluppo umano. Appare necessario quindi, contribuire in positivo affinché il difficile itinerario del soggetto in età evolutiva verso la maturità si svolga compiutamente, rispettando la sua identità e aiutandolo nella costruzione di una personalità ricca e capace d’essere protagonista della propria storia personale e di quella collettiva.
Bisogna osservare però che oggi, alla cultura della responsabilità nei confronti dei figli si affianca una cultura della scelta che risulta spesso ambivalente: un figlio deve essere procreato solo se e perché è voluto; questo significa sia che il figlio è concepito come ricchezza, in quanto individuo singolo e insostituibile, sia che esso, frutto della scelta e del desiderio, deve dare piacere e corrispondere a quel desiderio, con inevitabili conseguenze che possono essere molto pericolose. Egli è esposto al rischio di deludere le attese più profonde dei genitori, nascoste nell’inconscio e coinvolgenti la loro identità personale.
Lo spostamento dalla cultura della responsabilità a quella del desiderio comporta quindi che ogni figlio scelto e deciso “deve” nascere; la sterilità non appare più accettabile, non perché impedisce la piena realizzazione di un progetto di continuità familiare, ma perché non consente di dar corso ad una scelta che, proprio perché opzionale, una volta compiuta necessita di essere realizzata. Lo sviluppo delle tecnologie riproduttive, che segue e accompagna quello delle tecnologie contraccettive, si può leggere nell’ottica della messa in primo piano del desiderio da realizzare. In un’ottica analoga si può anche leggere la violenza sui bambini; se da un lato la sua più ampia visibilità è frutto della maggiore tutela dell’infanzia e dei suoi diritti, dall’altro ripone in sé vecchi e nuovi atteggiamenti: quello del “padre padrone” dei propri figli e quello del figlio che deve dare piacere ai propri genitori e soddisfare le loro più nascoste aspettative.[3]
“Sterili per scelta e genitori ad “ogni costo” sono le due nuove figure sociali estreme di questo processo di ridefinizione nella famiglia e nel corso di vita adulto.”[4]
Mai come oggi, il bambino è un essere desiderato, quasi un nuovo “oggetto di consumo”; contemporaneamente però si assiste ad una notevole caduta della natalità, ad un crescente ricorso ai metodi contraccettivi, all’interruzione della gravidanza e all’aumento, nei genitori, del timore di investire affettivamente troppo su un bambino che probabilmente non corrisponderà ai loro progetti su di lui.[5]
Anche la psicologia conferma quello che il senso comune ha sempre ammesso: nei figli i genitori vedono la possibilità di realizzare quelle parti di loro che non sono riusciti ad attuare.
Diventare padri e madri era, sino a qualche generazione fa, la conseguenza quasi automatica del matrimonio; attualmente il divenire genitori si configura come una delle tante scelte e vi è il rischio di rinviare “a data da destinarsi” il progetto «figlio», sempre al secondo posto rispetto alla carriera, la casa, la vacanza, tanto che quando i tempi fisiologici sono ormai scaduti si ricorre alle varie tecnologie procreative, che spesso non danno l’esito sperato lasciando come ultima possibilità, forse anche come ripiego, il cammino dell’adozione. o dell’affidamento.[6]
Se tutti avessero accondisceso ai ragionamenti razionali e coscienti, al calcolo delle convenienze, alla valutazione delle opportunità, ci sarebbero oggi ben pochi genitori.
Il Rapporto del 2000 sull’infanzia afferma che è necessario, da una parte, rimuovere dall’immaginario collettivo l’idea che l’infanzia sia solo un problema al quale guardare con apprensione e in posizione di sostanziale difesa e, dall’altra, sviluppare una politica che non sia solo politica dell’emergenza, dell’assistenza e della protezione, ma anche politica dello sviluppo della “normalità”, della prevenzione e di conseguenza: del benessere.
Bisogna d’altra parte anche riconoscere che non siamo affatto all’”anno zero” nell’attenzione all’infanzia e all’adolescenza, ai loro bisogni e ai loro diritti.
Mai come in quest’ultimi anni vi è stata una mobilitazione così imponente e generalizzata a favore delle nuove generazioni, non solo per riconoscere e tutelare i diritti, ma anche per promuoverli e svilupparli.
Ci sono risposte però che nessun diritto, neppure il migliore, potrà mai dare: il bisogno di affetto per sentirsi amabile e amato e per poter sviluppare quella autostima indispensabile per costruirsi come protagonista del proprio percorso di vita; il bisogno di sicurezza psicologica, pietra angolare della struttura di personalità; il bisogno di scambi relazionali per comprendere la realtà ed essere aiutato e stimolato a crescere in un mondo confuso, complesso, oscuro.
In poche parole è necessario che, per ogni individuo si creino le condizioni perché, come afferma C. Roger, si possa liberare quella “tendenza attualizzante” che guida il bambino e poi l’adulto verso la piena autorealizzazione.
Solo l’incontro di una persona con l’altra può soddisfare questi bisogni non materiali. Il che implica da una parte che la società abbia una corretta cultura dell’infanzia e dall’altra che la famiglia e la comunità umana, in cui il minore è chiamato a vivere, sappia essere realmente accogliente e solidale, capace di assumere come prioritario il compito di promuovere e sostenere lo sviluppo umano delle nuove generazioni.[7] In poche parole, è indispensabile che ad ogni bambino sia offerto ciò di cui ha bisogno; cioè un intervento che sia mirato alle sue proprie caratteristiche personali, che sono diverse da quelle degli altri.
1.2. LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO
La formazione dei primi legami affettivi è importante ai fini dell’acquisizione della competenza sociale e dell’adattamento all’ambiente e rappresenta un passaggio fondamentale nelle famiglie naturali quanto in quelle adottive e affidatarie.
E’ John Bowlby, noto psichiatra inglese, che, intorno agli anni 1950, compiendo degli studi per le Nazioni Unite sui bisogni dei bambini senza famiglia, ha formulato la teoria dell’attaccamento, un paradigma scientifico che ha rivoluzionato il modo di concepire lo sviluppo umano
La teoria dell’attaccamento si può ricondurre, nella sua essenza, ad una teoria spaziale: quando sono vicino a chi amo mi sento bene, quando sono lontano da essi, mi sento ansioso triste e solo.[8]
La vicinanza con la madre e l’esplorazione dell’ambiente sono i due poli di questo sistema d’equilibrio: quando il bambino si trova davanti ad un pericolo, il sistema si attiva e mette in atto quei comportamenti che mantengono la vicinanza della madre. Il concetto d’attaccamento differisce da quello di dipendenza, perché essa non implica una relazione carica d’emotività nei confronti di individui chiaramente preferiti, non implica un legame duraturo e non le è mai stata attribuita una valida funzione biologica. Dire di un bambino che è attaccato a qualcuno, vuol dire che è fortemente portato a cercare la prossimità e il contatto, specialmente in certe situazioni specifiche, con quella persona.
Il comportamento di attaccamento, viene definito da Bowlby come "quella forma di comportamento che si manifesta in una persona, che consegue o mantiene una prossimità nei confronti di un'altra persona, chiaramente identificata, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato"[9].
Tale comportamento è evidente soprattutto nella prima infanzia, ma può essere osservato nell'ambito dell'intero ciclo della vita, specialmente nei momenti di emergenza. Esso infatti si evidenzia nei momenti di crisi, quando la persona è ad esempio spaventata, affaticata o malata e si attenua attraverso rassicurazioni, cure, attenzioni. La consapevolezza che la figura di attaccamento è disponibile e pronta a rispondere, fornisce al soggetto un forte e pervasivo senso di sicurezza e di fiducia che lo stimola ad alimentare e continuare tale relazione. Il comportamento di attaccamento essendo osservabile in tutti gli esseri umani, anche se con manifestazioni diverse, è considerato parte integrante della natura umana.
1.3. LO SVILUPPO DEL SISTEMA DI ATTACCAMENTO
Il bambino nasce in uno stato di grande immaturità, infatti, il sistema di attaccamento umano impiega diversi mesi per svilupparsi;[10] soltanto dopo sei mesi il bambino comincia ad esibire pienamente comportamenti di ricerca della vicinanza, effetto base sicura e protesta per la separazione descritta.
I bambini appena nati, pur reagendo intensamente al contatto umano, non distinguono una persona dall’altra, l’attivazione della risposta del sorriso verso la quarta settimana segna l’inizio dei cicli di interazione benevola che caratterizzano la relazione tra il bambino e chi si occupa di lui. La sensibilità materna è un elemento chiave determinante della qualità dell’attaccamento via via che lo sviluppo procede.
Dal terzo al sesto mese di vita, il bambino inizia a manifestare le proprie preferenze in modo inequivocabile, mostrando di voler stare con quelle persone con le quali sta instaurando un legame: diventa molto più discriminante nel suo guardare, ascolta e reagisce differentemente alla voce di sua madre, piange differentemente quando lei se ne va rispetto a quando se ne vanno altre persone; comincia ad alzare le braccia verso di lei con la richiesta di essere preso in braccio.
Entro il primo anno di vita, avvengono parecchi cambiamenti evolutivi che denotano l’attivazione del vero e proprio attaccamento.[11]
Verso i sette mesi il bambino comincerà a mostrare l’”ansia per l’estraneo”, facendosi silenzioso ed aggrappandosi alla madre in presenza di una persona sconosciuta. Intorno ai 18 mesi il bambino costruisce un modello operativo interno, ossia una rappresentazione interna della relazione con la figura d’attaccamento principale. Ma il comportamento d’attaccamento, come afferma anche A. Oliverio Ferraris[12] è una relazione di reciprocità, il genitore offre simultaneamente un comportamento di cura complementare che è simmetrico (o dovrebbe esserlo) al comportamento d’attaccamento del bambino.
Il comportamento dei genitori è visto come complementare al comportamento di attaccamento, nel senso di essere disponibili e comprensivi, come e quando è richiesto intervenendo qualora il bambino si trovi in difficoltà. Sviluppare e promuovere la relazione, permettendo così l'instaurarsi del legame di attaccamento, è uno dei compiti principali riconosciuto ai genitori. La definizione di base sicura di J. Bowlby esplicita chiaramente questo concetto: “… la caratteristica più importante dell’essere genitori: fornire una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato”[13].
La possibilità che un bambino presenti dei problemi d’attaccamento dipende, dunque, dalla forza e dalle caratteristiche degli attaccamenti iniziali;…”esiste un forte rapporto causale tra le esperienze di un individuo con i propri genitori e la sua successiva capacità di costruire dei legami affettivi”[14].
Una conseguenza diretta della mancanza di legami d’attaccamento forti è, a volte, una fiducia indiscriminata in chiunque, un’assenza di selettività tra adulti conosciuti e sconosciuti verso cui è bene essere cauti.
Bambini che hanno vissuto in istituto o in diverse famiglie si affidano senza nessuna discriminazione, specialmente nei primi tempi, quando il rapporto con i genitori adottivi non si è ancora consolidato. Al contrario, sul fronte opposto, ci sono bambini che resi insicuri dalle vicende passate, hanno bisogno di vicinanza e di rassicurazione maggiore. O ancora bambini che hanno sviluppato una forte reattività ed aggressività nei confrondi del mondo esterno in conseguenza del loro bisogno inappagato di attaccamento alla madre.[15] Per questi bambini sono necessari interventi educativi specifici ma diversi a seconda dei casi; per ognuno loro è di fondamentale importanza individuare una coppia che abbia in sé le caratteristiche per rispondere ai bisogni educativi che sono di quello specifico bambino e non di altri.
CAP.2: I NODI CRITICI DELL’ITER ADOTTIVO E AFFIDATARIO (Risultati di una ricerca)
2.1. INTRODUZIONE
L’affidamento e l’adozione, come modo di andare verso il disagio altrui, di incontrare un bimbo in un momento particolare della sua storia, di proporre un rapporto educativo “diverso” con le generazioni, di riflettere sulla famiglia o di “accarezzare” una famiglia in difficoltà, è così intrecciato nel suo significato alla complessità della realtà, da poterlo comprendere in una visione allargata della civiltà.
La questione del disagio minorile (come del resto altre questioni, i malati, gli handicappati) viene invece considerata in modo settoriale come realtà che non riguarda tutta la società, ma solo una parte di essa. E in questa direzione ci si muove per trovare le soluzioni adatte, “terapeutiche”, per quei minori che hanno “quel problema”. La cultura del ben-essere, del ben-avere e la ricerca del sentirsi bene, di allontanare, di codificare e medicalizzare la malattia e il disagio, fa distogliere e fa valutare le esperienze sulla base di questo principio, considerato come superiore.
Il disagio dei minori sta nella difficoltà a “diventare grandi”, perché grandi lo si diventa nel rapporto con gli altri, in particolare con i propri genitori e poi con tutti gli altri con i quali veniamo ad incontrarci nel nostro ambiente, nella nostra cultura, nel contesto sociale complessivo entro cui viviamo. Riguarda la possibilità di crescere, di assumere nuovi punti di vista, rispetto ai personali copioni di comportamento, di percorrere itinerari diversi e personali per una maggiore consapevolezza di sé, dei propri e degli altrui bisogni.
La pratica dell’affido familiare e dell’adozione comporta la necessità di riconoscere la complessità che investe i ruoli degli operatori e degli enti che a vari livelli intervengono nello svolgersi di queste due esperienze. Mi riferisco all’assistente sociale, agli educatori, allo psicologo, ai giudici ed ai Comuni.
Dalla ricerca qualitativa condotta sull’esperienza di 20 famiglie adottive e/o affidatarie, (svolta in collaborazione con la pedagogista Cristiana Guidoni), risulta che, nel corso degli anni, c’è stato un graduale miglioramento nell’affrontare il percorso adottivo/affidatario in tutte le sue componenti; ma che purtroppo sono ancora innumerevoli i nodi da sciogliere e le pratiche da migliorare.
In questa sede voglio quindi soffermarmi soprattutto sulle relazioni che, queste famiglie hanno avuto con i diversi operatori professionali che hanno incontrato sul loro cammino e sulle difficoltà emerse durante i primi mesi dell’inserimento del bambino in famiglia.
2.2. LE RELAZIONI CON GLI ORGANI ISTITUZIONALI (assistenti sociali, giudici, psicologi ed educatori)
AFFIDAMENTO-L’affido è collocato dentro ad una rete di servizi (assistenza domiciliare, sostegno educativo) ed è il punto a cui si arriva se la famiglia non è stata in grado di migliorarsi, nonostante il sostegno e l’intervento dei servizi sociali. L’affido è un intervento complesso, è un progetto articolato alla cui riuscita partecipano diversi attori: il minore, la sua famiglia d’origine (sono gli utenti del servizio), l’assistente sociale, in collaborazione con uno psicologo (operatori del servizio sociale) o l’equipe di operatori di cui oltre alle figure già citate possono far parte anche il neuropsichiatra e l’educatore. La famiglia affidataria diventa anch’essa un operatore privato, volontario, disposto ad un intervento di solidarietà sociale.
In alcuni casi(Lucca ne è uno), si può distinguere un servizio che ha in carico la famiglia naturale e progetta l’affido del/dei minori (è il servizio sociale dei distretti socio-sanitari); e un servizio che seleziona e sostiene la famiglia affidataria (il Centro Affidi). Il distretto socio-sanitario, dopo aver lavorato con la famiglia ed essere arrivati a concordare la necessità e l’importanza di un progetto d’affido condiviso (affido consensuale), invia la segnalazione al Centro Affidi e ne chiede la consulenza. Poi è il Centro Affidi che seleziona e individua la famiglia affidataria, cura l’incontro con il minore e segue l’andamento dell’affido. In questo percorso la figura professionale di riferimento è l’assistente sociale.
Alcuni affidatari sono stati molto critici nei confronti del servizio sociale e soprattutto verso gli assistenti sociali, affermando che spesso manca la tutela del minore
Un altro motivo di critica nei confronti dei servizi è stato, la mancata considerazione della famiglia affidataria come soggetto attivo nel progetto, la trascuratezza e la mancanza di ascolto nella soddisfazione dei bisogni espressi dagli affidatari:
Altri comprendono le difficoltà di questo ruolo che si colloca come un ponte tra più realtà: quella del bambino, quella della famiglia naturale e quella della famiglia affidataria e che la complessità che investe questo ruolo comporta la necessità di un confronto e una collaborazione stabile con altri operatori.
Alcuni infatti pensano che il servizio sociale abbia fatto un buon lavoro sia nella fase preliminare, pensando ad un ipotetico abbinamento, sia nel sostegno che gli operatori hanno dato alla famiglia affidataria e al minore. Durante le interviste è emerso però in modo chiaro come l’opinione sui servizi sociali, sia personale, legata cioè a quella specifica assistente sociale, con la quale si condivide la stessa “sensibilità”; cosa che magari non è stata vissuta quando c’è stato il contatto con altri operatori.
La condivisione dell’esperienza dell’affidamento attraverso la partecipazione a gruppi di discussione è ritenuta da tutte le famiglie intervistate importante e essenziale opportunità offerta dal Centro Affidi. Il ritrovarsi in gruppi per discutere e confrontarsi è importante all’inizio del percorso, in seguito corre il rischio di diventare autoreferenziale e quindi perde il senso originario.
Rispetto al tipo di intervento, i casi stabiliti dal tribunale riguardano la maggior parte dei minori considerati: su 14 bambini affidati, 9 lo sono per intervento dell’autorità giudiziaria.
Dalle dichiarazioni degli affidatari emerge infatti la diffusa sensazione che la selezione delle famiglie e l’abbinamento avvenga su base di necessità e di urgenza (ad esempio un provvedimento urgente del tribunale). Dal loro punto di vista, rilevano spesso l’assenza di un intervento effettivo sulla famiglia d’origine. Per questo tutti hanno evidenziato l’esigenza di un progetto strutturato e articolato nei particolari, secondo i bisogni della famiglia, rivedibile magari per alcuni obiettivi, ma continuativo nel tempo e nelle persone che lo attuano.
Perché se diverse persone (esperti, operatori di settore) considerano l’affido come modalità di intervento preventivo, ancora oggi la maggior parte degli affidi risultano essere giudiziari? Permane ancora oggi l’alone del garantismo biologico secondo cui solo in situazioni di evidente abbandono del minore, si procede cercando di creare le condizioni affinché l’affido possa essere proposto e condiviso dalla famiglia d’origine. Ma quando si presenta la grave situazione d’abbandono del minore, il decreto del giudice è quasi automatico. E allora? L’affido, che di per sé, è uno strumento di prevenzione, diventa invece un modo per cercare di recuperare una situazione già fortemente compromessa. In queste situazioni è chiaro che il successivo intervento di recupero sulla famiglia d’origine è molto difficile.
Riassumendo, una parte degli intervistati sembra mettere in discussione gli operatori per mancanza di esperienza, o per troppo coinvolgimento e si pone in atteggiamento critico verso il sistema dei servizi, soprattutto per il lavorare in base alla logica dell’urgenza, che conduce prevalentemente ad affidamenti sine die o comunque molto duraturi nel tempo, spesso senza essere sostenuti da un progetto.
Dei quattordici bimbi considerati in questo lavoro, diversi sono rientrati nella famiglia d’origine anche se il rientro a volte è stato determinato solo dal raggiungimento della maggiore età.
ADOZIONE- Dalle interviste è risultato che le figure professionali maggiormente, se non unicamente utilizzate nei colloqui per avere l’idoneità all’adozione sono: l’assistente sociale e lo psicologo e che queste due figure professionali incontrano la coppia separatamente.
Questo è il primo momento delicato per la coppia che intraprende questo cammino, perché nei colloqui vengono comunque indagati vissuti intimi e personali e ciò provoca spesso uno stato emotivo ambivalente.
Anche se tutti dicono che misuravano le parole e non si sentivano molto a loro agio, l'atteggiamento mentale di partenza è sembrato determinante. Chi è riuscito a mantenere una certa calma e tranquillità, ha affrontato il tutto con meno disagio e più positività.
Da una parte viene spesso visto come indagine, intrusione, dall’altra è comunque vissuto come un qualcosa di fastidioso ma di cui si riconosce il fine pratico e che quindi si accetta con rassegnazione per uno scopo più importante. Per alcuni la sensazione è stata quella di essere solo esaminati e non accompagnati, non aiutati a focalizzare ciò che erano gli aspetti importanti inerenti alla loro scelta, per poter così maturare.
E’ chiaro che non sempre le coppie riescono ad individuare gli aspetti positivi che un sostegno da parte di persone competenti può apportare in un momento delicato come la scelta adottiva. Fortunatamente non è per tutte così, altre coppie hanno valutato il percorso dei colloqui come una prova di solidità di coppia e di verifica delle loro reali motivazioni ed anche i corsi di preparazione organizzati dagli enti autorizzati all’adozione internazionale sono stati vissuti come occasione di arricchimento interiore.
Riguardo a questo aspetto ho inoltre rilevato che, tra le coppie intervistate, quelle che avevano apertamente criticato le modalità e l’esperienza vissuta nei colloqui, erano quelle la cui adozione era avvenuta in tempi più remoti. Ciò mi ha fatto sperare che le cose stiano cambiando e che forse la pratica, la formazione e la sensibilità acquisita negli anni, abbiano fatto sì che l’incontro tra genitori, servizi sociali e tribunale apparisse assai meno ostile.
2.3. L’INSERIMENTO DEL MINORE IN FAMIGLIA
Nelle interviste abbiamo esplorato anche le principali problematiche che i minori hanno presentato al loro arrivo nella famiglia affidataria o adottiva, il loro svolgersi e i cambiamenti evolutivi osservati dai genitori. Il momento dell’inserimento è stato comunque molto curato dai servizi sociali: a seconda delle situazioni, dell’età dei bambini e dei loro bisogni, c’è stato un intervento diverso; a volte molto graduale.
I problemi più evidenti incontrati nella maggior parte degli affidamenti nel primo periodo di convivenza sono stati: ansia, paura di abbandono, disturbi del sonno, fobie, grande fatica nel rispetto delle regole….Tutti indici di mancanza di serenità personale a causa della situazione precedentemente vissute.
Dalle interviste risulta un quadro complessivo delle difficoltà e dei disturbi causati da esperienze traumatiche, da abbandoni ripetuti e da periodi più o meno lunghi di vita in istituto; e in questo senso tutte le interviste rivelano “pezzi di vita” ed esperienze dolorose.
Per questi motivi, tutti gli affidatari intervistati hanno messo in evidenza la necessità di farsi aiutare dai servizi, soprattutto dallo psicologo, (sia per loro; per comprendere le dinamiche che scaturiscono dalla relazione con un bambino con un vissuto di pesante disagio, ma soprattutto per i bimbi stessi) ed hanno riconosciuto l’importanza dei gruppi di auto aiuto e di confronto della propria esperienza con quella di altre famiglie affidatarie.
Per quanto riguarda l’adozione, bisogna considerare che, nella mente del bambino, l’incontro con i genitori adottivi è un evento che presenta una forte ambivalenza: se da un lato percepisce l’interesse dei genitori nei suoi confronti, dall’altro si rende conto che questo momento darà luogo ad una nuova situazione. Egli quindi, anche se avverte la disponibilità degli adulti e il loro desiderio di stabilire con lui una situazione particolare, potrebbe non essere disponibile e fiducioso nei confronti dei genitori adottivi.
Sulla base di questa premessa ho constatato che le risposte sulla relazione instauratasi durante l’incontro con il bambino sono state piuttosto varie, ma nell’insieme racchiudevano in loro delle caratteristiche comuni, riguardanti il comportamento del bambino, facilmente riconducibile alla sua vita in istituto.
Nella maggioranza dei casi, nei primi tempi, il bambino tendeva a dormire rannicchiato nel letto e i suoi sonni erano spesso agitati e disturbati da incubi; oppure egli non era capace di esprimere i suoi bisogni o le sue emozioni.
Questi atteggiamenti iniziali preoccupavano un po’ i genitori adottivi, ma essi sono riusciti ad aiutare i bambini a superarli grazie anche all’intervento di specialisti o associazioni che hanno fatto capire loro, che tutto ciò è assai normale quando si a che fare con bambini che hanno vissuto in istituto una buona parte della loro infanzia.
Per le famiglie con altri figli, una dei timori iniziali risiedeva nel rapporto con i fratelli già presenti in casa; biologici, adottivi o affidati che fossero.
Anche nel caso delle famiglie adottive come per quelle affidatarie è stata ed è di fondamentale importanza la partecipazione ai gruppi di scambio tra genitori adottivi. Le famiglie facenti parte dell’Anfaa, per esempio, dichiarano tutte di essere molto grate all’associazione perché, attraverso i loro incontri, hanno trovato persone che avevano vissuto le loro stesse paure e i loro stessi problemi e già il fatto di condividerli con altri, li ha molto rassicurati ed a fatto si che quest’ultimi fossero molto ridimensionati.
2.4. RIFLESSIONI
Analizzando i risultati della ricerca, possiamo quindi affermare che, all’interno del cammino adottivo e affidatario ci sono molti punti deboli che spesso portano al fallimento di tutto il processo con un aumento del disagio in tutte le sue componenti.
Perché in molti casi i colloqui, che le famiglie aspiranti adottive intraprendono con giudici, assistenti sociali e psicologi, sono affrontati con imbarazzo e preoccupazione o vissuti in modo inquisitorio? Forse perché non ci sono criteri psicosociologici precisi sulla base dei quali valutare – forse perché sebbene ci siano non sono ancora resi espliciti e chiari – forse perché sono giuridico formali – forse perché non abbiamo ancora una scientificità sulle modalità e le fluttuazioni tipologiche del concetto di famiglia – forse perché gli esseri umani sono insicuri e si vergognano della loro insicurezza – forse perché siamo talmente abituati all’idea di crisi in senso negativo, che quando si presenta sotto forma di “tensione emotiva” e spinta verso un miglioramento non riusciamo a riconoscerla.
Forse il magistrato è inquisitorio davvero? Perché, quali sono i suoi drammi interni dovendo assumere una posizione per lui ignota? In questi casi infatti, non si tratta di giudicare un fatto, un reato, sulla base delle regole e delle procedure del diritto, ma di valutare una potenzialità, positiva o negativa, di genitori aspiranti adottivi, nel dimostrarsi costantemente adeguati e presentarsi all’appuntamento con l’evento adottivo “liberati” dalle problematiche personali, per poter essere in grado di sostenere le difficoltà di adattamento del figlio.
Di fronte a tale difficile compito possiamo comprendere quali possano essere le preoccupazioni di giudici, assistenti sociali e psicologi, di fronte ad un evento incognito di tale portata e quali le responsabilità morali che implicitamente essi si assumono. Cosa avrebbero bisogno di sapere (teorie, metodi e fatti) per poter dare una valutazione serena? Quali sono gli indicatori implicitamente coinvolti in questa valutazione se non le storie che hanno sentito ed i problemi che hanno visto? Come aiutarli nella spaventosa solitudine di fronte ad un giudizio? E come aiutare la famiglia adottiva, affidataria e quella i cui figli vengono dati in affidamento?
L’unico contesto possibile in vicende come questa (adozioni/affidamenti) è dato dalla possibilità di costruire una decisione comune, senza controlli o inganni potenziali; ma questa è una posizione relazionale di cui tutti intuiamo l’importanza ma non sappiamo ancora come spiegarla e come motivarla teoricamente e protocollarla praticamente. Il limite è spesso nella scienza più che nelle persone coinvolte.
Dalla relazione intercorsa tra il servizio sociale e le famiglie affidatarie/adottive, si può dedurre che i nodi critici sono dovuti:
Ø alla delusione delle proprie aspettative nei confronti dei comportamenti attesi dal servizio sociale ma non realizzati,(Io pensavo che tu, servizio sociale , mi avresti dato un aiuto…non credevo di ricevere critiche così severe) o viceversa(Io pensavo che tu, famiglia, avresti affrontato quella situazione in modo da tutelare anche i rapporti con la famiglia d’origine e invece…)
Ø all’equivoco in quanto i comportamenti di entrambi gli attori (servizi sociali e famiglia affidataria/adottiva) non sono sinergici: le loro azioni non sempre sono indirizzate allo stesso fine o sono condotte con modi e tempi diversi. (L’equivoco nasce quando ad esempio, nonostante l’obiettivo della famiglia affidataria e quello dei servizi sociali sia lo stesso, cioè quello di tutelare il minore, l’una non si adopera per ristabilire dei legami con la famiglia d’origine; mentre l’azione degli altri è rivolta a recuperare proprio questi rapporti con la famiglia naturale.)
Ø all’incomprensione che deriva dal fatto di non riuscire a capire il motivo del comportamento che l’altra parte mette in atto.Sebbene sia chiaro ed evidente ciò che l’altro fa, non si capisce perché lo faccia, come sia possibile che l’altro non capisca che ciò che fa non è quello che si deve fare in quella circostanza o in quella situazione. Il confronto è sterile se non impossibile, perché ciascuno pensa:”Possibile che non capisca che….?” In questo modo aumenta il bisogno di osservazione e di controllo sul comportamento altrui, che scaturisce spesso da errate e paranoiche proiezioni sui motivi che l’hanno determinato.
Si generano così, sentimenti di sfiducia, diffidenza e sospetto che non consentono, sia la realizzazione di un’intesa, sia la pianificazione di tutti gli interventi necessari per la buona riuscita del progetto d’affidamento.
L’equilibrio nel rapporto può essere invece raggiunto, attraverso una relazione di:
Ø complementarietà che è l’antidoto alla delusione e si fonda sulla serena accettazione che ciascuno farà ciò che bisogna fare, perché è utile per tutti; senza giudicare l’operato altrui. Alla base della complementarietà c’è la tranquillità e il realismo; e per questo è l’antidoto alla delusione perché non si fonda su aspettative fantastiche.
Ø riconoscimento che è l’antidoto all’equivoco e porta a scoprire che gli altri vivono le stesse emozioni e si basa sulla comprensione delle aspirazioni, delle frustrazioni e delle difficoltà dell’altro
Ø mediazione che è l’antidoto all’incomprensione e costruisce il “senso comune” perché modera gli eccessi e stimola le energie necessarie per raggiungere un obiettivo; negozia i significati e libera dal controllo reciproco; in poche parole, produce accordo.
Dalle interviste svolte si nota un’evoluzione nel modo di lavorare dei servizi e di pensare ad essi: dopo l’istituzione del Centro Affidi, c’è stata un’attenzione maggiore nella selezione delle famiglie affidatarie e nell’accompagnamento delle famiglie e del minore lungo il percorso dell’esperienza. In generale però, bisogna dire che:
1. non tutti i comuni hanno attivato dei Centri Affidi, che possano essere un punto di riferimento e un sostegno per le famiglie affidatarie
2. è ancora assente la costruzione di situazioni tipiche, di esperienze pilota, di procedure da adottare che potrebbero indicare modalità di intervento più oggettive.
Spesso gli operatori stessi non hanno a disposizione criteri adatti per capire “cosa è meglio fare per…”, “quali azioni comunicative sono adatte a...”, quale ruolo è meglio assumere (mediatore, consulente, formatore, consolatore).
A ciascuno quindi è richiesto di compiere il percorso che gli compete nel modo più corretto e onesto possibile senza tensioni o pregiudizi. Agli operatori va richiesta competenza, professionalità e sensibilità. Alla coppia pazienza, voglia di mettersi in discussione, spirito di collaborazione e sincerità. Ma la questione della mancanza del metodo e della produzione di criteri condivisi rimane, ed è molto complessa.
CAP.3: PREVENIRE E’ POSSIBILE
3.1. L’EMPATIA E L’ARTIGIANATO EDUCATIVO
La teoria dell’empatia di Edith Stein,[16] a cui l’artigianato educativo si ispira, propone nell’atto empatico l’origine di ogni processo comunicativo. Secondo questa teoria empatizzare significa che:”Il vissuto altrui mi attrae al suo interno e con ciò cambia radicalmente la mia prospettiva: non si dà più quale “oggetto di fronte”, ma io mi ritrovo ad avere per oggetto il contenuto stesso di quel vissuto, cosicché sono presso il soggetto di quel vissuto originario ed ho il suo stesso angolo di visuale pur non confondendomi con lui”.[17]
Empatia dunque non più concepita come fascinante ma imprecisa metafora dell’evento comunicativo, ma come processo che conduce alla percezione del "sentire" altrui, dell'"accertamento" dell’identità dell’altro e come esperienza attraverso cui si realizza “l'apprendimento” delle emozioni di altri soggetti.[18] Essa porta allo sviluppo di ciò che è sopito in noi perché:”Quando empatizzando incontriamo ambiti di valori a noi preclusi, diventiamo consapevoli di una nostra mancanza o di un nostro disvalore”[19] mentre l’altro, che mi empatizza, riesce a giudicarmi in modo più giusto di quanto io non giudichi me stesso.
La persona empatica quindi, non solo comprende, ma condivide e partecipa; e questa partecipazione non si esaurisce nella semplice condivisione cognitiva, ma comporta un sentire comune perché, senza in minimo di risonanza emotiva, non vi è empatia.[20]
L’idea fondamentale quindi, è che l’essere umano non può essere un'isola, ma solo attraverso il confronto con l'altro è possibile rompere la ripetizione del proprio copione di comportamento che conduce all'insoddisfazione, al disagio, alle tensioni, alle devianze.
Il metodo del progetto educativo di Prevenire è Possibile[21] nasce dall'applicazione della pedagogia dei gruppi e dell’artigianato educativo. L’idea centrale dell’artigianato educativo consiste nel riproporre gli antichi strumenti della pedagogia, rivisitati alla luce delle attuali interpretazioni psicologiche e, contemporaneamente, resi maggiormente e più facilmente applicabili dalla estrema plasticità sia del linguaggio che degli interventi.[22]
Esso propone un lavoro mirato ai bisogni del soggetto cercando di individuare il tipo di disagio e di bisogno educativo del singolo (povertà affettiva, mancanza di autostima, di motivazione, di responsabilità, del senso dei limiti, o eccesso di reattività, di aggressività, di controllo). Lo scopo è quello di predisporre itinerari educativi, applicabili a diversi tipi di soggetti (indipendentemente dall’età) e in molteplici situazioni, capaci di trasmettere i valori necessari al superamento del disagio per l’armonizzazione e l’equilibrio della personalità, consentendo di indirizzare la persona verso una attività o un’altra a seconda degli obiettivi da raggiungere.
Il percorso di studio parte dall’individuazione di sette emozioni di base intese come le prime esperienze emozionali sperimentate dal neonato: paura, rabbia, distacco-sorpresa, piacere, quiete, vergogna e attaccamento. Ognuna di queste emozioni non ha caratteristiche negative o positive intrinseche, ma possiede le potenzialità per trasformarsi in un copione di comportamento come ripetizione abituale di una concatenazione di emozioni non sottoposta al nostro controllo, oppure evolversi in una cosciente gestione del comportamento intenzionale, volontario e deciso sulla base di valori o disvalori. Copioni e sentimenti sono quindi l’evoluzione delle emozioni.[23]
Questo percorso si attua passando attraverso l’individuazione e la descrizione dei copioni di comportamento degli individui. Questi, per come sono descritti da Prevenire è possibile (avari, ruminanti, deliranti, sballoni, apatici, invisibili e adesivi)[24] offrono quadri di interpretazione del disagio verificabili attraverso il Questionario di Artigianato Educativo.
Tale questionario ha lo scopo di fornire strumenti per la comprensione e l’interpretazione del modo di essere dei soggetti. Si presenta cioè come una pista attraverso la quale attuare una migliore conoscenza di sé e delle proprie capacità relazionali in modo da progettare un percorso educativo che abbia come fine ultimo il miglioramento del proprio equilibrio interno e delle relazioni esterne, consentendo, di conseguenza, una migliore e più autentica qualità della vita:“Il compito degli itinerari di artigianato educativo è dunque quello di individuare l’origine dei copioni nei diversi soggetti, per offrire loro l’oppurtunità di partecipare a contesti in grado di trasmettere emozioni e sentimenti a loro sconosciuti e da loro spesso rifiutati.”[25]
L'Artigianato Educativo nasce poi dalla consapevolezza delle virtù e dei valori di cui ciascuno è portatore e dal bisogno di equilibrarli e trasmetterli come unico modo per maturare nella gestione dei sentimenti e per raggiungere l'equilibrio con se stessi e nelle relazioni con gli altri.
Così come le emozioni ed i copioni rappresentano l’essenza dei processi della psiche -afferma Masini- sentimenti e valori hanno sede in un luogo più intimo dell’identità soggettiva, quel luogo che è sempre stato chiamato anima. L’uomo scopre che già li conosceva da tempo, senza individuare una data di origine ed una loro evoluzione. Scopre così di essere stato a volte lontano, a volte vicino alla loro essenza e che il luogo stesso dove risiedono, l’anima, è stato a volte in forte contatto con il suo sé, a volte assolutamente lontano. Quando è presente in noi la disposizione a cogliere le emozioni, a lasciarsi coinvolgere fino a farsi toccare nel profondo dalle miserie della condizione umana, allora si sente Dio che tocca la nostra anima. All’uomo è stata donata la chiave per entrare in contatto con la propria anima, purchè sappia emanciparsi dai richiami del corpo e dalle trappole della psiche. L’uomo, anche dentro i suoi copioni, se accetta il loro senso come caratteristica della condizione umana, può sempre scoprire una strada per trovare la fonte dei valori che risiedono dentro se stesso. E’ nella comprensione di questo passaggio, che risiede il nesso tra le proprietà della psiche e quelle dell’anima.[26]
In conseguenza di ciò, se da un lato le sette tipologie individuate (avaro, ruminante, delirante, etc.) evidenziano dei copioni di disagio in cui l’essere umano si trova invischiato, è anche vero che, alla base di esse, stanno rispettivamente sette virtù: saggezza, impegno, libertà, generosità, pace, umiltà e fedeltà; considerate non astratte teorizzazioni di valori, ma modi attraverso cui i valori stessi possono, con semplicità, incarnarsi nei soggetti: in noi stessi e nelle persone che ci sono affidate come destinatarie del nostro intervento educativo.
Capacità indispensabile per l’artigiano dell’educazione è quindi l’empatia perchè produce una conoscenza approfondita di emozioni e sentimenti, considerati sempre positivi e sociosolidali, e quindi una maggiore consapevolezza dei disagi presenti e dei percorsi educativi da intraprendere. Egli lavora sulle emozioni carenti e sui sentimenti negativi, con la consapevolezza che ciascuna emozione può essere orientata o spostata verso un’altra in modo da modificare un comportamento. Tale capacità artigiana è sempre stata messa in atto attraverso l’intuito e l’esperienza, anche se in realtà corrisponde a regole precise. L’artigiano dell’educazione è infatti colui che sa cogliere per empatia, intuito, esperienza, ragionamento e cultura la modalità educativa appropriata.[27]
In conclusione, nella vita di ogni essere umano l’azione di miglioramento implica una attività interiore di superamento degli stadi nei quali la persona si è evoluta. Se a livello sociale e di relazione è sufficiente raggiungere buoni livelli di equilibrio, per il miglioramento è necessario un equilibrio dinamico e cioè un cambiamento che superi la condizione di vita attuale attraverso motivazione, valori esistenziali e spirituali.
“C’è un altro motivo, intimamente connesso al modello di lavoro di “prevenire è possibile”, per affrontare con semplicità il tema del miglioramento: non si può non migliorare…; l’alternativa è adagiarsi in una accettazione di sé, e degli altri, falsamente tollerante perché passiva e rinunciataria, mistificante perché priva di qualunque anelito alla comprensione e alla condivisione, muta perché incapace di narrare una storia individuale e comune, fredda perché anestetizzata dalle emozioni, vuota perché priva di sentimenti. Il miglioramento è indispensabile nel percorso di vita individuale e collettivo, perché migliorare “fa bene”... Il primo risultato di ogni miglioramento è, infatti, la soddisfazione e il buon umore.”[28]
3.2. LE TIPOLOGIE DI PERSONALITA’
AVARO (La vulnerabilità, l’inquietudine, l’insicurezza, il possesso, le difese dell’io, l’autoreferenzialità, l’egoismo la paura, l’ansia, l’ossessione, il dominio, il controllo. La saggezza, l’autocontrollo, le regole, il senso di responsabilità, la concretezza, l’organizzazione, la cura e l’attenzione)
Difficile apertura verso l’esterno – le sue difese gli impongono di trattenere ogni cosa all’interno. Tanto più si sente vulnerabile quanto più si chiude a riccio. Il suo mondo interiore è centrato sul controllo come difesa nei confronti di pericoli e perturbazioni esterne. Dà grande importanza a se stesso e progetta in continuazione il miglioramento delle proprie condizioni di vita. Non esprime i suoi sentimenti perché il farlo è considerato una debolezza. Tutto resta dentro di lui, inaccessibile. Non tollera indecisione, dubbi, disordine e disorganizzazione. E’ un convinto cultore della forma, attraverso la quale impone alla realtà la sua logica violentandone la sostanza. La sostanza degli atti emozionali e dei sentimenti sfugge alla sua comprensione perché non è mai sottoposta al vaglio di un’analisi di coscienza. Il contatto col suo mondo interiore si allontana e viene progressivamente vietato dal suo Sé.
Nei confronti del mondo i suoi metodi di difesa sono incentrati sul bisogno di mantenere l’ordine, la prevedibilità e la ripetizione conservativa. Il controllo è esercitato attraverso la manipolazione (imbroglio gestito attraverso stimoli ripetuti che inducono a fare ciò che lui desidera. La madre avara manipola, non educa. La manipolazione rappresenta la via più sbrigativa per raggiungere lo scopo ed è una forma perversa d’affettività) e la condiscendenza accattivante, (attraverso un atteggiamento condiscendente cerca di farsi benvolere per poi attuare strategie per spezzare il ritmo dei pensieri altrui fino ad imporre la sua visione.
E’ legato agli aspetti materiali e concreti della vita. Ha grande considerazione di sé, è pignolo, ma non attribuisce mai a sé i motivi dell’insuccesso. Per predominare utilizza gli errori altrui mettendoli in luce con puntigliosa chiarezza. E’ rispettoso delle regole, preoccupato di difendere il suo ruolo e la sua posizione. Può condizionare le persone fino all’inquisizione. Nelle forme più acute si hanno modalità ossessivo-maniacali. L’avaro si inganna considerando amore verso gli altri la sua ansia di controllo. Il suo è un amore manipolatorio perché non è mai incondizionato. Se non ottiene ciò che vuole diventa piagnucoloso, si lamenta di non essere amato abbastanza per tutto ciò che fa.
Possiede senso di responsabilità, cura e attenzione con cui si occupa delle cose e delle persone. Inoltre possiede straordinaria capacità organizzativa. Esprimerà tutto ciò solo quando avrà rotto il guscio ed avrà accettato i sentimenti, imparando così la tolleranza, la generosità nei confronti di sé e degli altri.
Nell’esercizio del potere il soggetto impone la sua strategia; nell’esercizio della responsabilità il soggetto s’interroga su cosa è veramente utile per l’altro. La piena responsabilità è conseguenza della consapevolezza dei confini fra sé e gli altri. Questo è frutto dell’attenzione, dello studio, dell’ascolto (disposizione interiore che porta a volgersi con cura nei confronti di qualsiasi situazione, persona ed aspetto della vita). La responsabilità è un sentimento che impegna stabilmente una persona, ed è un suo “modo di essere” e di avere un valore. La piena condizione d’assunzione di responsabilità non determina insorgenza di sensi di colpa. La persona responsabile conosce ed analizza molto bene la propria ed altrui intenzionalità in merito alle evenienze. L’attribuzione a sé e all’altro delle caratteristiche dei comportamenti, libera la persona responsabile dai sensi di colpa per eventi negativi.
Capacità di organizzazione e di pianificazione, conseguente al bisogno di sistemare ogni cosa. Egli manterrà in memoria tutte le questioni in sospeso ma dando un tempo legittimo per definirle e cercando di ottimizzare le prestazioni. Il sistema è quello di rivisitare periodicamente tutti gli ambiti di cui si occupa, far riemergere i problemi e verificare se quello è il momento opportuno per la loro soluzione.
RUMINANTE (Lo sdegno, la reattività, l’autocaricamento, l’irritazione, la rabbia, la collera, l’ira, l’aggressività verso gli altri, la mentalità paranoide, l’aggressività verso se stessi, la depressione. Il senso di protezione, il desiderio di giustizia, la carica interiore, l’impegno, la motivazione al lavoro, l’attività)
Tende ad accrescere le energie interne attraverso il rimuginare. Riconoscibile e prevedibile per il suo desiderio di stare acceso quasi come unica dimensione possibile del vivere. Quando non è acceso, tutto è privo d’intensità, come se l’intensità delle situazioni dipendesse dal suo protagonismo negli eventi. Se la sua tensione interna è distolta dalla concentrazione su un obiettivo, dovrà dislocare la sua concentrazione su molteplici cose, perderà così energia fino a cadere nella confusione.
Quando è carico è molto reattivo; se è in tensione acuta arriva a dire cose che neanche pensa ma che non sa trattenere e spesso ferisce senza esclusione di colpi. Con gli altri è un trascinatore, ma troppo carico com’è, difetta di capacità organizzativa. In ragione delle ingiustizie che subisce diventa ancora più ruminante e reattivo alla vista di quelle stesse ingiustizie.
Una proprietà dell’attivazione rabbiosa è quella di essere facilmente empatizzabile per l’intensità che mette in campo. Ma quando è attivato gli riesce difficile mettersi nella condizione d’ascolto dei vissuti altrui. La crisi del ruminante corrisponde ad un rivolgere verso sé la carica e la tensione che di solito rivolge all’esterno nelle sue frenetiche attività. Quando non riesce a dislocare il suo eccesso di carica contro i nemici, si irrita ed inizia un percorso depressivo da cui è difficile distoglierlo poiché la depressione non ha punti d’aggancio, essendo tutta rivolta all’interno. Far evolvere la depressione in modo sano è possibile solo attraverso l’apertura di uno sfogo verbale del ruminante che finalmente incontra qualcuno a cui raccontare e descrivere le ingiustizie che ha subito, evitando che il risentimento che egli percepisce possa ritornare ad essere il copione di una nuova carica aggressiva. Quindi evitare di istigarlo, aiutarlo a non auto-istigarsi mediante pretesti spesso infondati. Questo processo può culminare nella paranoia.
Il ruminante evoluto, cioè colui che è diventato equilibrato con l’aiuto di qualcuno che ha assorbito la sua aggressività e lo ha orientato verso impegni costruttivi, è un soggetto che possiede un’energia formidabile per la realizzazione di progetti ed attività rivolte al bene comune. E’ però di estrema importanza che conosca i suoi limiti, sappia riconoscere l’effetto delle sue azioni e riesca ad evitare di continuare a sfondare porte aperte. Se non perviene a questa consapevolezza, rischia di generare reattività eccessive e di diventare bersaglio delle energie che lui stesso ha messo in moto. L’aggressività e l’entusiasmo hanno in comune le stesse capacità di attivazione di energie di motivazione/mobilitazione. Se il ruminante riesce ad orientare le sue energie nell’impegno, lo perseguirà con entusiasmo, determinazione e tenacia.
DELIRANTE (Il distacco, il trasalimento, l’eccesso di autostima, l’espansione dell’io, lo snobismo, la presunzione, il disgusto, la squalifica, la solitudine, la superbia, il capriccio onnipotente, il pensiero schizoide. La sorpresa, l’intuizione, l’acutezza d’ingegno, l’autosufficienza, la libertà, la creatività)
Il disagio del delirante
E’ un personaggio che gioca con il proprio copione di associazione – dissociazione delle idee, delle percezioni e dei concetti. Difetta di concretezza e di praticità. Si propone con una grande presunzione fondata sulla sua personale capacità di comprendere; in effetti egli può avere una visione d’insieme ma difetta dell’analisi dei particolari, si riferisce a schemi personali ed ha intuizioni rapide e sommarie senza un lavoro meticoloso e di profondità.
Ha uno sbilanciato processo di identità dovuto alla tensione verso la differenziazione. Ritiene che la condiscendenza verso l’altro sia una perdita del Sé: avendo subito eccessi di avvolgimento tende a forme estreme di autonomia.
L’eccessiva stima di sé, l’esagerata fiducia nelle proprie possibilità, la presunzione di essere nel giusto a causa della propria interpretazione logica della realtà, l’impenetrabilità all’umiltà di fronte alla verifica dei fatti, il senso di superiorità rispetto agli altri, tutto ciò conduce al delirio di superbia.
Questo bambino ha un mondo interiore che è uno spazio libero dove far crescere le fantasie, che però non diventano progetti realizzabili. L’unica cosa davvero importante per quel bambino è la comprensione. Non conosce altro sistema comunicativo. Egli dà gioia e soddisfazione intellettuale ai genitori, ma non riceve né conosce, né comunica sulle dimensioni affettive che sembra gli siano negate. Non è accolto con tenerezza, piuttosto è apprezzato con intelligenza. Ciò lo porta a concepire il mondo attraverso la comprensione e non l’affezione. L’attività mentale a cui si sottopone nel costruire processi di ragionamento aperti e dissocianti è logorante ed egli conosce solo la pace temporanea dovuta a nuove intuizioni. Se non viene aiutato a condensare la sua unità interna, può produrre una vera e propria scissione in diverse parti della sua personalità. Se egli non viene aiutato a riassociare i suoi processi mentali attraverso la riscoperta della dimensione affettiva, può aprirsi verso forme capricciose ed astiose rivolte verso altri e connesse ad un ripiegamento e ritiro in sé, fino all’anoressia mentale. Il delirante è esposto a situazioni di grande disagio per il suo desiderio di libertà dalla dipendenza di qualcuno (madre o famiglia) e per liberarsi da questa dipendenza mette in atto comportamenti stravaganti solo per opposizione alla cultura d’origine ma non come scelta autonoma di valori in cui credere. Questa differenziazione capricciosa lo allontana dalla vera autonomia, lo rende selettivo nelle scelte ed instabile nei comportamenti, perdendosi nella confusione e nella assoluta incertezza sulla sua identità.
Le sue risorse
Il delirante evoluto è un intelligente e creativo portatore di libertà e di ingegno. La sua evoluzione è legata alla capacità di vedere il mondo con gli occhi e non con la mente. Il suo sforzo deve procedere nella direzione del senso di realtà appoggiando le sue congetture su ciò che è reale nella sua vita e nelle persone, osservando i fatti e gli eventi. Deve imparare l’umiltà. Ha bisogno di realtà e di concretezza, non di razionalità, specie se formale. Se applica il suo pensiero alla realtà, non ha pari nel processo di interpretazione e di elaborazione di strategie di cambiamento. Libertà e consapevolezza si rinforzano vicendevolmente nel sé ed il delirante amplifica la sua autostima la quale può perdersi in vanità o essere donata a qualche invisibile che ricaverà una fortissima sensazione di importanza la quale potrà trasformarsi in emozione di accettazione di sé
SBALLONE (L’insaziabilità emozionale, lo sballo, la ricerca del piacere, l’edonismo, il narcisismo, il vuoto esistenziale , l’angoscia, l’isteria. L’attrazione verso l’altro, la fusionalità, lo slancio del sé, la tolleranza, la generosità)
Lo sballone vive una forte attrazione verso il piacere che sa gustare con sensibilità emozionale intensa; cerca di sperimentare le sensazioni più forti nei confronti di tutto ciò che vive per saziarsi di un sapore finalmente appagante, ma non è mai appagato. Lo sballone non sa costruire strategie per dar corpo alle sue sensazioni; si manifesta spesso come giocherellone, colui che non prende sul serio le sue responsabilità. Sta proprio qui l’antidoto: la responsabilità.
Lo sballone ha bisogno di diventare semplice e scoprire di essere amato non solo per quello che finge di essere, ma anche per quello che è e che fa. Assumersi la responsabilità di un lavoro per qualcuno, o la responsabilità di qualcuno, conduce alla sensazione interiore di essere importanti per qualcuno.
Il problema centrale dello sballone è il superamento della fusionalità attuabile solo se anche quest’ultima diventa una emozione e non solo una sensazione. Egli ricerca l’unipatia, cioè il comune e concorde sentire un’emozione, senza riuscire a gustarla perché teme che al suo scemare faccia comparsa la terribile angoscia costitutiva del suo copione. Non sa gestire le emozioni perché è prigioniero delle sensazioni; non sa difendersi dalle emozioni negative e vive male anche quelle positive perché la loro fine fa venir a galla il suo profondo vuoto esistenziale.
Le sue risorse
Lo sballone evoluto, che abbia saputo contrastare con efficacia la tendenza all’incoerenza e all’improvvisazione e che abbia saputo acquistare un comportamento responsabile, è una persona che sa regalare generosamente emozioni e sentimenti. Così come è estremamente pericoloso per le sue doti deduttive se è ancora involuto nel copione negativo, è estremamente prezioso per la costruzione di climi relazionali improntati alla tenerezza e alla amicalità. La sua capacità di cogliere fascino in ciascuna persona gli consente di aprire alla scoperta della parte migliore di sé tutti coloro che si coinvolgono emotivamente con lui.
APATICO (L’apatia, la pigrizia, la fuga dagli impegni, la demotivazione, il parassitismo emozionale, l’oblio, il soggetto abulico, l’autoanestesia. La quiete, la capacità di fare calma, il rilassamento, i portatori di pace).
Il suo disagio
E’ inattivo, manca di motivazione, è rigido e tende a non rendere oggetto il suo personale vissuto, chiudendosi così al coglimento empatico del vissuto altrui. Riesce così a diventare insensibile agli stimoli e alle sensazioni in modo da non doversi coinvolgere. Si può scivolare nell’apatia quando non si sono ricevuti sufficienti stimoli e spinte alla motivazione, o quando i propositi o gli impegni assunti sono stati ripetutamente squalificati. Il copione dell’apatico può essere la conseguenza dell’indifferenza con cui è stato cresciuto un bimbo. L’apatico si avvolge nei suoi pensieri, egli pensa ma non agisce. Ripetitivo nelle attività in modo da tendere allo sforzo minimale. Non accetta di stare dietro a più cose contemporaneamente perché dovrebbe cambiare il ritmo del suo pensiero. Rimuove il dispiacere dicendo a se stesso che poco gli importa. Si piange addosso e manovra gli altri con il suo senso di impotenza ed incapacità. Ma non si coinvolge: non c’è da aspettarsi reciprocità da lui. Di fatto è un indifferente, evita il confronto o la chiarificazione. La sua vita è piatta ma non sente l’esigenza di modificarla perché occorrerebbe la fatica di accendersi di motivazione o sperimentare l’ansia del cambiamento.
Il pigro che abbia tentato l’attivazione di sé senza riuscirvi, rischia di entrare in astenia: stanchezza estenuante e sfibrante prodotta dal non aver agito pur essendo stato attraversato da forti stimolazioni. La pigrizia porta al disordine emotivo poiché il pigro evita anche la fatica di riorganizzare e chiarire i propri sentimenti. Il suo sé è vuoto e povero.
Le sue risorse
L’apatico evoluto è un portatore di pace. La sua capacità di fare calma e di non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni e dai conflitti lo rende in grado di insegnare a spengere le tensioni e di indicare la via per la quiete. A questo traguardo è pervenuto attraverso il coinvolgimento delle diverse emozioni della vita: ha trasformato al positivo ciascuna delle emozioni di base con cui è entrato in contatto; ha trasformato in impegno la tensione della carica, ha lavorato sui suoi processi di dissociazione e, con umiltà, si è trattenuto dall’andare oltre, ha gustato il piacere senza precipitare nell’angoscia, consapevole che senza la fusionalità temporanea con altri che vivono il piacere, esso è evanescente, ha sperimentato il suo senso di insufficienza e, senza avvitarsi dentro sé, ha imparato l’umiltà, ha conosciuto la grazia della vicinanza e dell’attaccamento, lasciando che gli altri si attaccassero a lui. Ha imparato la distinzione tra apatia e quiete contemplativa e, attraverso quest’ultima, ha stabilito un contatto profondo con la sua personale umanità.
INVISIBILE (La mancanza di autostima, il senso di inadeguatezza, l’insufficienza del sé, la vergogna, la voglia di scomparire, il complesso d’inferiorità, le fobie, l’alcolismo. La discrezione relazionale, il pudore, la sensibilità, l’arte del sollevare gli altri)
Il suo disagio
Prova un profondo senso di disistima e sfiducia in se stesso. Se riesce in qualcosa attribuisce il suo successo alla fortuna e non alla sua capacità. Vive una forte chiusura introversiva, attento a non mostrare mai nulla di sé, nel timore di essere giudicato e svelato. Perciò tende ad isolarsi anche se non ama la solitudine. Essa è conseguenza della sua fuga, piuttosto che agire, si nasconde ed osserva. Non cura molto il suo aspetto fisico, sia perché si sottovaluta, sia perché spera di passare inosservato. La sua vergogna lo porta al pavore, all’inibizione, non ama mostrare i suoi sentimenti perché pensa che siano fuori luogo, scontati. Non è in grado di accumulare energia e motivazioni perché è abituato a sminuzzarsi per timore di occupare troppo spazio; anche i suoi sentimenti devono essere sempre deboli e non visibili. Una delle caratteristiche del movimento dell’io della vergogna è il suo crescere di intensità: si vergogna di vergognarsi. La crescita di questa emozione è un progressivo avvitamento dell’io che rende l’invisibile ancora più invisibile, fino a scomparire anche dalla percezione di sé. Necessita di incoraggiamento ed impalcatura di sostegno per rendere possibile l’impegno e la disposizione fiduciosa. Senza sostegno, anche con forte direttività, l’invisibile evita il confronto e non si mette alla prova, impedendo così eventuali successi che aumenterebbero la stima di sé. La via di uscita dalla bassa autostima è quella di ottenere risultati attraverso la metodicità e la disciplina (antidoto per l’invisibile). Se l’invisibile non si mette in gioco e perpetua l’avvitamento su di sé, si dispone alla oppressione psicologica da parte di altri. La sua incapacità di difendere se stesso apertamente lo tormenta con invidia e gelosia. Le sue energie attivate dall’invidia e dalla gelosia aprono verso gli aspetti più negativi dell’invisibile: la falsità, le maschere, le insidie mediante istigazione, le strategie di aggressività dissimulate.
La sua incapacità di costruirsi delle difese ha accresciuto la sua capacità nel percepire il vissuto altrui, specie i vissuti di sofferenza. L’invisibile ha una grande capacità di sopportazione del dolore e della sofferenza, non frappone alcuna barriera fra sè e il dolore, lo incamera e si lascia annientare. Il dolore inizialmente lo schiaccia, poi lo depotenzia, lo rende quasi evanescente. Ma poi scompare e lo lascia con una esperienza che lo spinge a fare qualcosa per gli altri. Ha una capacità di coglimento empatico così acuta da riconoscere la sofferenza altrui anche quando è nascosta o mascherata. Il rapporto di aiuto di cui l’invisibile è capace si fonda sull’umiltà, in ragione della concretezza, a cui lui fa sempre riferimento, e della condivisione, perché riesce ad immagazzinare informazioni sugli altri con grande capacità di ascolto e grande memoria.
ADESIVO (Le povertà affettive, il bisogno di accettazione, l’attaccamento, l’insaziabilità affettiva, la disposizione al condizionamento, l’imitazione, la dipendenza, il soggetto bulimico. La tensione affiliativi, il desiderio di coesione, la capacità relazionale, l’indispensabilità del gruppo)
Il suo bisogno di affetto si trasforma in affanno, il cui motore è il bisogno di attaccarsi. Prima conseguenza è il rapporto disordinato con il cibo.
Affanno affettivo dell’adesivo e carenza di autostima dell’invisibile, si fondano sull’eccessivo “farsi oggetto di se stesso”. Sentire in modo profondo il proprio sé come un involucro vuoto e senza valore. Il copione di base dell’adesivo è incentrato sul desiderio di sperimentare la sensazione di attaccamento di cui è continuamente in attesa come di una promessa non ancora mantenuta. La natura del suo bisogno di attenzione: egli tende a richiamare l’interesse degli altri su di sé, a mettersi in mostra fin da piccolo per giungere addirittura ad interpretare il ruolo del pagliaccio nel gruppo. Pur di essere considerato sceglie di far ridere di sé. Ama il contatto fisico, si pone sempre a bassa distanza dalle persone, chiunque esse siano. Per essere davvero appagato, l’adesivo deve ricevere più di quello che richiede. Conseguenza del bisogno d’attenzione è una particolare dislocazione dell’affettività verso gli oggetti, considerati come un’estensione del sé e non ne dimette mai il loro possesso.
L’adesivo si presenta come un buon amico perché ha bisogno di amici al punto da svendersi, diventare servizievole oltre misura, lasciarsi ingannare. Più vive mancanze affettive, più concede potere all’altrui presenza. Nel rapporto con gli altri non cerca di far prevalere la sua opinione, ma giunge a sacrificare sé purché vi sia accordo fra le persone e non avvenga nessuna separazione o allontanamento. Imita le persone o i personaggi da cui si sente attratto. Le persone concrete sono i modelli da cui attinge esempi di atteggiamenti e categorie di pensiero e di azione. La sottomissione ad altri procede lungo il percorso della condiscendenza. L’altro è per lui sempre buono e positivo, in ragione dell’attenzione che mostra verso l’adesivo. L’ansia di separazione è il motore della personalità dipendente che si sottomette attraverso l’attrazione dell’appagamento e la paura di perdere tale possibilità (disposizione ad essere abusati sessualmente giocata su due caratteristiche dell’adesivo: l’obbedienza all’ingiunzione di mantenere il segreto e il senso di colpa. Il segreto rende la relazione, agli occhi dell’adesivo, importante e significativa; il senso di colpa è dovuto al fatto che l’abusato si responsabilizza per ciò che accade, perché è incapace di giudizio negativo verso colui il quale lo ha considerato in ogni caso oggetto di attenzione!).
C’è un momento in cui l’adesivo capisce il suo eccessivo bisogno di attaccamento e trova qualcuno cui esprimere tale bisogno e condividerne le manifestazioni. Quando il suo bisogno di essere oggetto di attenzioni sarà saziato, non sarà più petulante ma affettuoso, sensibile, affezionato e premuroso. L’adesivo ha una grande capacità di coltivare le relazioni, far sentire la sua presenza continua alle persone. E’ sempre presente nelle situazioni difficili ricordando agli altri che possono contare su di lui. Sa essere consolatore, ha un grande senso dell’amicizia ed è fedele anche quando gli costa e gli fa vivere contraddizioni. E’ un generoso portatore d’aiuto. Tende sempre a prendere in considerazione l’aspetto positivo rispetto a quello negativo e trova qualcosa di bello e piacevole in tutte le situazioni.
CAP.4: FAMIGLIE BIOLOGICHE, ADOTTIVE E AFFIDATARIE. RISORSE DIVERSE PER DIVERSI BISOGNI
4.1. PERCORSI DI MIGLIORAMENTO
La ricerca pluriennale condotta dallo studio associato di “Prevenire è possibile”si è sempre orientata verso la prevenzione del disagio, le cui cause si possono spesso individuare all’interno della famiglia. Ecco perché, molti dei progetti messi in atto, si rivolgono verso questo ambito[29]. Con le trasformazioni degli ultimi decenni, la famiglia risulta essere sempre più isolata, e spesso non riesce a trovare, in se stessa le risorse per superare le difficoltà che incontra.
Questo percorso si attua attraverso la discussione in gruppi omogenei di padri e di madri, per cercare di capire e superare gli ostacoli psicologici alla maternità e alla paternità, che sono conseguenza dei propri copioni, bloccati solo su alcune emozioni di base.
Sviluppo della maternità-Gli ostacoli psicologici alla maternità sono: l’attaccamento, l’ansia, la protezione, la liberazione, il compiacimento, la distanza materna e il sostegno.
1. Attaccamento- La piena maternità può essere impedita dall'eccesso di attaccamento. L'attaccamento materno diventa eccesso quando non è modulato in sintonia con la crescita psicologica del figlio. A volte la modulazione dell'attaccamento può essere impedita da una cultura del materno che propone una costante giustificazione dell'attaccamento anche morboso. Il processo di attaccamento della madre è indispensabile al neonato per sopravvivere biologicamente e per la formazione delle sue prime esperienze relazionali.[30] Attraverso l'attaccamento biologico prende forma l'affettività ed attraverso l'affettuosità il figlio viene reso affezionato e non più attaccato. Il permanere del solo attaccamento biologico impedisce però la piena realizzazione dell’identità femminile che si attua anche nella maternità psicologica e spirituale. Al figlio che chiede di essere oggetto di affetto la madre non evoluta risponde "sei sangue mio!" e inganna il figlio circa l'effettivo significato dell'amore materno nell'essere umano. Il bisogno di sazietà affettiva del figlio resta insoddisfatto mentre la madre è ottusamente convinta di dare e di aver dato amore a sufficienza attraverso la generatività, mentre invece crea dipendenza nel figlio. Il blocco della maternità sull'attaccamento biologico è conseguente a copioni di comportamento di madri adesive che, mediante possessività, pongono l'intera realizzazione del proprio sé nei figli. Spesso tale attaccamento deriva da condizioni di solitudine affettiva della madre.
La riflessione prende spunto dai seguenti interrogativi: Il mammismo è un percorso psicologico o è frutto della cultura? L'incapacità di superare la maternità biologica può essere un ostacolo alla maternità spirituale e sociale? L'amore materno è per i propri figli o per i figli?
2. Ansia- L'ansia materna è centrata sul rischio della perdita del figlio. La paura che il figlio possa farsi male quando si avvicina ad un oggetto pericoloso, quando si avvicina alle scale, quando la madre teme che il figlio affoghi prima ancora che abbia messo un piede nell'acqua, etc. Tale ansia deriva dal senso di onnipotenza della madre che pensa che, senza di lei, il figlio non possa far niente, inoltre inibisce la possibilità di una crescita tranquilla verso il pieno sviluppo della responsabilità. Tali madri diventano ossessive nei confronti della vita del figlio e pretendono di essere presenti in tutti gli ambiti della sua esistenza.
Gli interrogativi da porsi sono:cosa significa attenzione e cura? Perché la paura non può essere una buona consigliera? Qual è la giusta distanza dal figlio?
3. Protezione-La madre cerca di proteggere il figlio da qualunque penetrazione esterna nei suoi sentimenti e nei suoi vissuti. Ella parte dalla constatazione che il figlio/a abbia bisogno di una barriera contro le interferenze esterne considerate negative. La protezione materna più che a rafforzare, tipico del paterno, cerca di avvolgere positivamente per fare barriera contro ciò che sembra apparire minaccioso. L'avvolgimento materno rischia però di impedire la crescita psicologica e spirituale del figlio e conduce al rischio del suo schiacciamento. Le madri che entrano nel copione di protezione sono solitamente donne molto forti ed impegnate; non trattengono la loro carica nella relazione con il figlio ma sentono la necessità di proporgli sempre qualche gioco da fare o qualcosa su cui impegnarsi. Il problema sta nel fatto che, non appena lanciate, non conoscono tregua, né sosta, né pace e non consentono né a se stesse né al figlio di vivere mai i risultati delle fatiche. Spesso i figli di tali madri appaiono insoddisfatti e inquieti.
Riflessione: Quando la protezione diventa oppressione? Quando la protezione rischia di inibire il coraggio? Come imparare a incoraggiare davvero?
4. Liberazione- Trattasi di una madre che cerca di essere libera dai condizionamenti culturali per costruire un suo modo di essere nella relazione con il figlio fuori dagli schemi. La condizione necessaria e sufficiente perché tale relazione di maternità sia ritenuta autentica è proprio il fatto che tale relazione sia fuori dagli schemi culturali diffusi. Andare oltre agli stereotipi della cultura espone a rischi e a slanci. Fa crescere nella relazione con aspetti creativi e vitali ma non produce consistenza affettiva. Il rischio è l'astrazione e l'idealizzazione del rapporto che non ha però "riempito" di densità affettività i vissuti.
Riflessioni: In cosa consiste il rifiuto di essere madri? Dov'è il punto di confine tra non riuscire ad avere figli e intimamente non volere avere figli? Esiste una maternità subita? Esiste una maternità liberante?
5.Compiacimento- I figli possono diventare oggetti di consumo emozionale per la confusione tra affetto affiliativo e ricerca di piacere. Il compiacimento nei confronti dei figli può scivolare in uso emozionale dei figli. La conseguenza è una ambiguità materna che, ove addirittura non giunga al volgare ed al perverso, contiene quel "di più" emotivo che produrrà pericolose gelosie nei confronti dei futuri partner dei figli. Se la madre ha saputo individuare i confini tra l'affetto e l'erotismo potrà guidare i figli verso un rapporto corretto che il figlio/a avrà in futuro con il piacere (in tutte le sue dimensioni, erotiche, estatiche, romantiche, emotive, mistiche).
Riflessioni.:Fin dove può spingersi l'emotività affettiva materna nei confronti dei figli? Dove finisce l'attrazione gioiosa e dove comincia la seduttività ambivalente? L'appagamento affettivo è possibile senza un coinvolgimento innamorante?
6. Distanza materna- Nella tranquillità materna sono presenti due aspetti: il valore, cioè la capacità di fare calma interiore e di mantenere la pace attraverso l'imperturbabilità di fronte agli eventi, e il disvalore, cioè l'indifferenza agli eventi ed alle persone, per cui non c'è interesse verso i rischi di evoluzioni negative del comportamento. Questo secondo atteggiamento è visibile nella madri che non si pongono problemi sul comportamento dei figli: non partecipano alle loro scelte, non colloquiano con professori o educatori, non si interessano delle loro azioni. Tale atteggiamento di estrema superficialità può derivare da meccanismi di difesa rispetto a dolori vissuti nel corso della vita per cui viene attuata una sorta di autoanestesia.
Riflessioni: Dove si deve fermare la tranquillità fiduciosa verso un figlio? Quali possono essere i segnali oggettivi che mobilitano verso un intervento educativo?
7. Sostegno- L'accettazione del figlio in tutte le sue parti richiede grande cuore e generosità. Se l'accettazione non è totale il figlio vivrà un sentimento di vergogna di se stesso o di qualche sua parte. La non accettazione spesso si realizza nell'incapacità di amare alcune parti (azioni, comportamenti, sentimenti, membra) da parte della madre. Solo attraverso la disponibilità di prendere atto dei lati negativi, accogliendoli, diventa possibile il sostegno verso la persona e può prendere corpo la possibilità di modificarli. Ove la vergogna prevalichi l'accettazione non è possibile il sostegno.
Riflessioni: Come considerare i limiti ed i difetti dei figli? Quali sono le aspettative legittime nei loro confronti?
Sviluppo della paternità-Gli ostacoli psicologici alla paternità riguardano: la stima di sé, l’indifferenza, l’angoscia, la perdita e il ritrovamento, la protezione, il dubbio e l’accettazione.
1. Stima di sé- La società della immagine fa si che i padri si vergognino della "loro condizione" economica - sociale - gerarchica - familiare - morale e si sentano messi "fuori gioco". Questa condizione è oggi rinforzata dalle innumerevoli ferite narcisistiche che il maschio sperimenta nei confronti della femmina anche in relazione allo status economico e sociale. La prima conseguenza della scarsa stima di sé è una sorta di condizionamento e di iperprotezione del figlio affinché egli possa essere ciò che il padre avrebbe sempre voluto essere. Se il figlio non ci riesce il padre soffre per la sofferenza del figlio o addirittura immagina ed attribuisce tal sofferenza al figlio anche se il figlio ha altre aspettative nella vita ma non le può dichiarare per non far dispiacere al padre. Il figlio vuol farsi prete ma si vergogna di dirlo al padre perché teme di dare a lui un dispiacere.
La riflessione nel gruppo dei padri prende spunto dai seguenti interrogativi: Come si costruisce la stima di sé come padre? Dare il proprio cognome è riconoscimento e sostegno?
2. Indifferenza- Una certa retorica del paterno lo mostra nella pubblicità molto coinvolto nella relazione con il figlio. Ad alcuni tale retorica disturba poiché li coinvolge in modalità di impegno che non sentono (o non sentono ancora) o sono lontane dalla cultura famigliare in cui si sono formati. Questi padri attribuiscono caratteristiche di effeminatezza a padri eccessivamente materni e disponibili. Tale visione è poi rinforzata dal fatto che le donne gradiscono l'immagine di tal tipo di padri e sono molto più facilmente attratte (se non sedotte) da tal tipo di uomo. Dunque il fastidio si rinforza con il raddoppio della gelosia o dell'invidia. C'è poi da dire che con la nascita del figlio l'uomo si sente espulso dal rapporto e sente diminuita la sua importanza anche in ragione della attenzione collettiva rivolta dal femminile sul bambino, specie se neonato. L'uomo è espulso perché non partecipa all'avvolgimento del femminile nei confronti del figlio e finisce per interrogarsi sul senso di tutta la situazione e chiedersi cosa voglia davvero dire affetto senza riuscire a scoprire che maternità e paternità sono due differenti forme di calore.
Riflessioni: Cosa vuol dire gustare in pace le emozioni sentite verso il figlio, senza svenevolezze e luoghi comuni? La formazione affettiva del padre verso i bambini è più tardiva dell'immediato attaccamento della madre? E' più tardivo l'impegno del padre verso i figli? E' più importante essere coppia o essere genitori?
3. Angoscia- La visione pessimistica è spesso conseguente ai sensi di colpa. Questi ultimi sono frutto della mancanza di purezza nell'adulto. Spesso gli ambiti della mancanza di purezza sono quelli sessuali in ragione dei tabù di cui sono circondati. Il senso di colpa è un sentimento presente in chi non ha mai riflettuto a fondo sul suo comportamento e che quindi non ha mai valutato quali siano le sue colpe e quali non lo siano. Rimane così invischiato in un sentimento impreciso ed indistinto che rende vittima il soggetto di una costrizione angosciosa da cui tenta di fuggire solo attraverso l'euforia di qualche momento di piacere dalla cui esperienza ricava però solo ulteriore senso di colpa.
Riflessioni: La moralità paterna ha a che fare con il suo ottimismo? o è solo frutto di tabù, paure e condizionamenti? Cosa vuol dire insegnare ai figli che la vita è bella? Cosa vuol dire conoscere quali sono i piaceri veri della vita e come sapere quali sono i veri e i falsi piaceri della vita?
4. Perdita e ritrovamento- Quando il figlio si distacca, si allontana o semplicemente preferisce un'altra persona o un altro gioco al padre, anche il padre interrompe la relazione con il figlio. Il padre non è come la madre che è sempre presente nella vita del figlio ed il figlio è sempre presente nella sua. Al padre tocca semmai il compito di riequilibrare un eccessivo attaccamento madre-figlio. Ma la modalità di attaccamento e di distacco paterno ha a che fare con l'esercizio della libertà di entrambi. Se il padre non conosce il significato del processo di libertà rimane prigioniero di tentativi e sconfitte. Non perverrà mai ad apprezzare il distacco del figlio da lui come palestra dell'esercizio della libertà poiché non riuscirà a staccarsi dal figlio. Ogni distacco è per lui perdita con innesco di domande esorbitanti circa il suo rapporto affettivo con il figlio. Senza la sperimentazione della perdita non ci sarà mai sperimentazione del ritrovamento e nuovo incontro. Spesso fino a quando si lotta per tenere i figli vicino loro si allontanano, quando sono lasciati liberi ritornano.
Riflessioni:La relazione di paternità è in stand by (attesa) quando il figlio non c'è? C'è paternità solo quando c'è la relazione in atto o la paternità esiste indipendentemente? Si diventa liberi lasciando liberi?
5. Protezione- L'uomo che ha molto combattuto nella sua vita caricandosi di energia e che ha impostato i passaggi più importanti della sua vita attraverso conflitti anche aggressivi con gli altri teme sempre di poter perdere o soccombere. Teme la sconfitta perché ha paura che l'energia che lo ha assistito ed accompagnato nel passato possa venir meno. Il giudizio negativo che da' del mondo lo conduce a continuo risentimento nei confronti di altri che sono definiti falsi, infami, traditori e vigliacchi per ciò che hanno fatto nei suoi confronti. Il suo principale timore è quello di scoprirsi egli stesso vigliacco nei confronti del figlio e, ancor più, di essere giudicato da lui e da altri come tale. Allora aumenta ancor più la sua protettività e la sua confliggenza con il mondo e con gli altri e si espone a nuove e più difficili prove di coraggio. Il senso dell'impegno del quotidiano non è iper protezione e sostituzione ma è vigilare e insegnare a difendersi.
Riflessioni: Come si trasmette il coraggio?
6. Dubbio- Il padre ha ansia e timore per le decisioni da prendere sul figlio ed ha ancor più timore che il figlio faccia le scelte sbagliate. Tale preoccupazione può accrescersi fino a diventare corrosiva e porre il padre nella condizioni di doversi aggrappare a delle certezze esterne, come la Legge, la Tradizione, la Gente, la Morale, la propria Famiglia di origine, etc. Più è preso dal dubbio più attribuisce valore a tali entità fino all'ossessione. Il processo ossessivo è infatti dapprima interno poi esterno; dapprima serve per autoconvincersi di credenze, scelte e decisioni di cui tal padre non è convinto, solo in seguito diventa agire ossessivo nei confronti del comportamento del figlio affinché egli stesso si convinca delle autoconvinzioni del padre. Tal padre con la sua insistenza ossessiva, pensa di aiutare il figlio a pervenire con minori dubbi e difficoltà alle convinzioni che hanno dato stabilità a lui.
Riflessioni: Qual è il punto di equilibrio nel senso di responsabilità? Come stabilire una gradazione educativa a seconda dell'età intorno alla capacità di operare scelte ed assumersi responsabilità da parte del figlio? Come dare sicurezza e presenza nei momenti critici?
7. Accettazione- Il dramma della riproduzione di sé del maschio è supportato da modalità e discussioni sociali del tipo "A chi assomiglia?". Vecchia questione dell'incertezza del padre e della certezza materna vissuta dai maschi come "i segreti delle donne”.Alle spalle della non accettazione (e della giustificazione di non accettazione) c'è l'egoismo maschile che attribuisce la colpa alla donna e che si autoassolve.
Riflessioni: Quali sono i processi che determinano l'accettazione di paternità? Cos'è l'attaccamento paterno? Dopo il parto ho visto mia moglie diversa?
4.1.2 Tipologie di famiglia e analisi delle relazioni interne di affinità e di opposizione
E' un utile esercizio per la crescita familiare cercare di individuare le caratteristiche dei climi nelle routine e nelle regole della propria famiglia. I rituali più tipici sono inerenti alle attività quotidiane, agli spazi usati per le relazioni, alle modalità di trascorrere tempo libero e vacanze. Questa ricerca intervento produce la discussione di una famiglia su se stessa, e rimette spesso in moto la dinamica di cambiamento del clima familiare ed, a volte, il superamento delle insoddisfazioni dei rapporti. Le tipologie familiari scaturiscono dall'osservazione di tali comportamenti nel percorso del ciclo di vita (dalla coppia innamorata agli anziani coniugi con i figli che hanno ormai abbandonato il nido). Ad ogni fase della storia familiare corrispondono diverse tappe evolutive del rapporto tra persone ed, ad ogni fase, si adatta una tipologia familiare che può riuscire a superare gli elementi di crisi o rimanere bloccata sulla ripetizione di comportamenti involuti. Ogni fase del ciclo di vita familiare è una tappa del percorso di maturazione verso comportamenti relazionali più ricchi, articolati e complessi. Nuovi equilibri si formano nella dinamica di superamento dei vecchi modi di azione reciproca limitati e penalizzanti.
I modelli familiari, utili come spunti per la descrizione delle tipologie di relazione, sono sette, in sintonia con lo schema seguito dal metodo di lavoro di “prepos”:
La famiglia difensiva/ oppressiva
La famiglia protettiva/ antagonista
La famiglia comunicativa/ atomizzata
La famiglia effusiva/ appariscente
La famiglia pacifica/ astenica
La famiglia comprensiva/ rassegnata
La famiglia affettiva/ invischiata
Tali morfologie famigliari contengono sia qualità che difetti; questi ultimi possono essere compensati facendo evolvere le relazioni interne verso la tipologia che contiene gli elementi carenti.
Il concetto di personalità collettiva famigliare descrive quel carattere di un gruppo familiare che scaturisce dalla prevalenza di alcune relazioni, oppositive o di affinità, tra i membri che lo compongono. Ciascun individuo può avere diversi copioni a seconda delle relazioni che innesca con altri individui e, al tempo stesso, le diverse relazioni lo spingono a superare i suoi copioni stabilizzati di comportamento.
Nelle relazioni di opposizione si nascondo le radici dei diversi possibili conflitti che esplodono laddove le invidie, le antipatie, i rancori, le frustrazioni, le ansie, le amarezze, le insoddisfazioni non siano più contenute dal contesto attrattore del gruppo. In tali contesti è fondamentale cercare di capire come si costruisce un clima di:
RICONOSCIMENTO per superare l'EQUIVOCO
DISPONIBILITA' per non essere vittime dell'INSOFFERENZA
COMPLEMENTARITA' per accettare i limiti altrui e non vivere la DELUSIONE
INCONTRO con il vissuto dell'altro per non rimanere schiacciati nel LOGORAMENTO
DIALOGICITA' per non cadere nella fuga e nell'EVITAMENTO
INTEGRAZIONE come antidoto al FASTIDIO
MEDIAZIONE per trovare un contatto che superi l' INCOMPRENSIONE
L’INSOFFERENZA si verifica quando le persone si oppongono con costrutti articolati di comportamento. Quanto più uno è, intenzionalmente, ordinato, preciso, metodico, ripetitivo, tanto più l’altro è, intenzionalmente, confusionario, vago, innovativo e creativo. L’insofferenza produce litigio.
La DELUSIONE si impianta stabilmente quando le persone avevano interpretato, illudendosi, il comportamento dell’altro in sintonia con le proprie aspettative. La delusione può manifestarsi improvvisamente, a seguito di un inganno, ma cresce lentamente in piccole esperienze quotidiane, poco percettibili. La delusione conduce al risentimento espresso attraverso la calunnia o il tradimento.
Il LOGORAMENTO è frutto di rapporti superficiali con manifestazioni appariscenti ed estetizzanti. E’ una certa immagine, un tono sempre “sopra le righe”, che logora le persone costrette a dare risposte all’”altezza della situazione”, mai del tutto vere o del tutto chiare. La usuale fuga dal logoramento si traduce nel tentativo di mantenersi indifferenti, ma l’accumulo conduce a manifestazioni di isteria.
L’EVITAMENTO è precostituita indisponibilità alla relazione. I motivi psicologici dell’evitamento sono: inibizione, incapacità di stabilire rapporti, eccesso di sensibilità, bassa autostima ma anche senso di superiorità, megalomania o superbia. L’evitamento preclude ogni possibilità di vita comune.
Il FASTIDIO nasce dalla reattività di rifiuto “a pelle” di gesti, modi di fare, odori, rumori, sapori, immagini emanati da qualche persona. Conduce a rassegnazione e sopportazione ed al tentativo di mettere in atto l’allontanamento dall’altro. Il fastidio si manifesta in atti di vendetta: piccoli dispetti o vere e proprie violenze.
L’INCOMPRENSIONE è l’incapacità di trovare il motivo del comportamento che l’altro mette in atto. Sebbene sia chiaro ed evidente ciò che l’altro fa, non si capisce perché lo faccia, come sia possibile che l’altro non capisca che ciò che fa non è quello che si deve fare in quella circostanza. Il confronto è sterile perché ciascuno pensa: “Possibile che non capisca che…?”. Aumenta così la necessità di osservazione e di controllo del comportamento altrui, con vere e proprie ossessioni e modelli di comportamento paranoici.
C’è EQUIVOCO nei comportamenti delle persone quando le azioni non sono sinergiche ed orientate allo stesso fine o, se orientate allo stesso fine, sono svolte in modi e tempi diversi. L’equivoco rende impossibile l’intesa e conduce alla caduta della fiducia, alla diffidenza, al sospetto ed alla ripetuta attuazione di comportamenti che danneggiano se stessi e gli altri.
Il RICONOSCIMENTO porta a scoprire che gli altri vivono le stesse emozioni. Si insegna il riconoscimento attraverso espressioni del tipo: “ Ma lei non si è accorto che…” spiegando il motivo per cui una terza persona manifesta un certo comportamento. Il riconoscimento è l’antidoto dell’equivoco: si basa sulla comprensione delle aspirazioni, delle frustrazioni e delle difficoltà dell’altro.
La DISPONIBILITA’ scaturisce dall’apertura verso l’altro che rende possibile un’azione positiva senza che ciò costi molta fatica. Spesso è valutata nell’intenzione più che nel risultato. Consente di superare l’insofferenza.
La COMPLEMENTARITA’ nasce dalla consapevolezza che l’uno farà le cose che non possono essere fatte dall’altro. Si fonda sulla serena accettazione che gli altri stiano facendo esattamente ciò che c’é bisogno di fare perché è utile per tutti. Lo sfondo della complementarità è la tranquillità e il realismo ed è l’antidoto alla delusione perché non si fonda su aspettative fantastiche.
L’INCONTRO è l’antidoto del logoramento perché presuppone la assoluta diversità delle persone, compresa l’estraneità dei modelli mentali e degli schemi d’azione, ma le impegna nell’obiettivo di scoprire che le diversità sono una potenza a cui ciascuno può attingere. L’incontro produce unità.
La DIALOGICITA’ è possibile quando ci siano “cose da dire” e ci sia un contesto in cui possono essere dette. Una relazione in cui si discute di ogni cosa, non si litiga perché, anche di fronte alle idee o alle opinioni più divergenti, sa che è possibile condurre a buon fine la discussione. E’ l’antidoto all’evitamento perché diminuisce le tensioni, supera le impressioni troppo superficiali o troppo appariscenti.
L’INTEGRAZIONE è la base per una buona organizzazione (e non il contrario). Vi è integrazione quando nessuno travalica o tradisce le aspettative che l’altro aveva riposto su di lui: il gioco delle parti, dei compiti, delle funzioni e dei ruoli è armonioso. L’integrazione è l’antidoto del fastidio perché rispetta l’identità di ciascuno e mette tutti nella “giusta distanza relazionale” reciproca.
La MEDIAZIONE costruisce il “senso comune” perché modera gli eccessi e stimola le energie necessarie per raggiungere un obiettivo. E’ l’antidoto all’incomprensione perché negozia i significati e libera dal controllo reciproco. Produce accordo.
Le difficoltà relazionali insorgono quando si attua una relazione con modelli di vita e di valori che sentiamo opposti ai nostri. Si tratta di soggetti che ci bloccano, o ci manipolano, o ci opprimono o ci avvolgono o sono troppo apatici per le nostre disposizioni attuali. Spesso rivediamo in loro caratteristiche che ci ricordano altri momenti della nostra vita o persone che ci hanno ferito.
La relazione con gli opposti è problematica e può diventare possibile solo attraverso la comprensione del loro punto di vista sulla realtà. Spesso la relazione tra opposti, ove non cresca la comprensione reciproca, diventa confliggente e si blocca. Le relazioni con coloro che sono simili a noi invece si innescano in maniera naturale, con essi entriamo immediatamente in risonanza, ci sentiamo capiti, perché con loro condividiamo gli stessi vissuti e gli stessi modi di relazionarci con gli altri Il problema è che, proprio per questo, rinforzano i nostri copioni e ci impediscono di crescere.
E’ invece nell'incontro con le persone affini che ciascuno percepisce quanto l'altro può rappresentare per lui e come, attraverso la relazione, sia possibile acquisire modalità di vita, valori ed atteggiamenti su cui ciascuno è carente. L'incontro tra le diversità diventa così scoperta, attuazione delle personali affinità ed occasione di crescita.
4.1.3 L’individuazione delle diverse tipologie di personalità dei figli e relativi bisogni
Brontolo è un bimbo o un ragazzo AVARO. E’ composto, ordinato e preciso; è obbediente, rispetta le regole prevalentemente quando si sente controllato. Ha bassa sensibilità emotiva ed empatica, tende al perfezionismo e per questo ama fare qualunque cosa in cui sa di riuscire bene. Ha poca immaginazione ed è più portato verso attività che richiedono procedure logiche. .
Brontolo ha bisogno di una mamma SBALLONA. Una mamma capace di insegnargli le cose belle della vita, ad apprezzare i sentimenti come una modalità autentica di esistere. Certo gli sarà difficile comprendere la propensione dello sballone verso emozioni coinvolgenti ma tale capacità è preziosa per l’avaro; lo può infatti accendere e indirizzare verso una apertura ai sentimenti ed alla generosità. La conciliazione dell’avaro verso lo sballone può far leva sull'ottimismo dello sballone equilibrato ed evoluto (non più incline all'angoscia) che induce tolleranza ed insegna a lasciar vivere osservando la vita nelle sue diverse ed articolate espressione. La mamma sballona può insegnare a Brontolo a commuoversi e, mediante la commozione, ad imparare la generosità che, contrario dell'avarizia, gli fa sperimentare il gusto del vivere.
Brontolo ha bisogno di un papà APATICO. Quello dell’apatico è l’unico copione che non può essere intaccato dall’avaro. L’ansia trasmessa dalle difese sempre accese nell’avaro, dal suo controllo e dalla sua esigenza di conservazione non trovano appigli nella saggia e pacifica calma dell’apatico. L’avaro spegne così le sue ansie di controllo e di difesa nel contatto con un papà sereno e rilassato che non si accende in nessun conflitto con lui. Nel rapporto con l’apatico Brontolo può trovare la pace di cui ha bisogno. Il vero problema sta nel fatto che l’avaro non è mosso da alcuna attrattiva ed interesse verso gli apatici; anche quando si accorge della loro esistenza raramente si mette in gioco con loro. La paternità dell'apatico verso Brontolo richiede però l'intenzionalità nell'entrare in contatto perché non è facile trovare lo spazio del rapporto con l’avaro; il papà apatico dovrà sapersi mettere sulla strada di Brontolo per farsi incontrare da lui.
Eolo è un bimbo o un ragazzo RUMINANTE.. Eolo è sempre impegnato a soffiare vento ed energia; è portato per la matematica e le attivita fisiche, ama i giochi manuali e attivi, è un po’ trasandato, si arrabbia facilmente, è ribelle e trasgressivo ed anche se è dispettoso, ha molti amici e tende a proteggere i più deboli.
Eolo ha bisogno di una mamma APATICA che sappia assorbire la sua tensione senza commenti e senza reazioni. Ogni pretesto per rimuginare interiormente lo rende sempre più carico di energie e sempre più prossimo allo scoppio. La madre tranquilla che lo spegne e lo calma rispetto ai suoi eccessi costituisce per lui il principale punto di riferimento. Egli scaricherà le sue tensioni sulla madre (e in genere su tutti coloro che incontra) e nel farlo renderà gli altri reattivi se non altro per la preoccupazione connessa al rischio che Eolo possa davvero passare all'azione e fare ciò che dichiara di voler fare. Spegnere il ruminante vuol dire assorbire la sua tensione senza commenti. Accettare la sua tensione vuol però dire uscire da un incontro con lui carichi, tesi e preoccupati. Lì sta tutto il cuore dell'artigianato genitoriale con lui. Se la mamma non reagisce, tranquillizza e assorbe Eolo si spegne, se la mamma esprime le sue preoccupazioni o ansie Eolo si accende ancor di più.
Eolo ha bisogno di un papà INVISIBILE che sappia indirizzare la sua carica verso fini positivi nel modo più invisibile possibile. Il padre può trasformare in valore quel travaglio interiore del ruminante che lo rende sensibile alle ingiustizie ed alle offese. L'invisibile è conosciuto di solito (al negativo) come un istigatore capace di stare nell'ombra senza farsi vedere; al positivo la sua istigazione può essere un efficace orientamento verso un uso positivo della carica e delle energie. Anche nella dimensione dell'orientamento verso l'azione non bisogna attendersi conferme da Eolo. Egli ascolta ed assorbe, poi rimugina anche per lungo tempo tra sé e sé e solo dopo che è maturo passa all'azione. Il ruminante ha i suoi tempi che sono strettamente suoi; l'unica conferma che a volte si può avere del suo processo è uno sguardo, un rapido incontrarsi di occhi da cui si comprende che ha capito e sta già "lavorando". La paternità nei confronti di Eolo è una sfida grande ma sottile.
Dotto è un bambino o un ragazzo DELIRANTE. Intelligente, acuto, presuntuoso, quando è a suo agio con gli adulti ha sempre una risposta pronta e puntuale. Interviene con precisione in dialoghi più grandi di lui e si presenta curioso e informato. Dotto tende a differenziarsi per autopercepirsi libero ed estendere il suo Sé. Egli è sempre un po’ al di sopra delle cose, delle persone e degli eventi. Appare saccente e si rende antipatico con facilità. Molto difficilmente riesce ad aprirsi in effusioni ed a manifestare i suoi sentimenti. Sembra che abbia una grande difficoltà ad ascoltare ed accettare le sue emozioni quasi volesse essere libero anche da quelle.
Dotto ha bisogno di una mamma INVISIBILE che, con la sua grande sensibilità, sappia cogliere le sue vere emozioni ed i suoi autentici sentimenti che Dotto non esprime nemmeno a se stesso. La mamma invisibile può porsi con grande discrezione a fianco del delirante, reggere i suoi ragionamenti, seguire con pazienza il funambolismo dei suoi pensieri e portarlo ad un contatto più autentico con se stesso. La posizione materna nei confronti del delirante è quella di un continuativo e paziente ascolto partecipato seguendo quel filo logico che consente al delirante di poter contare su un testimone esterno dei suoi pensieri. E' il testimone che gli consente di autopercepirsi nella sua personale continuità di identità ed a farlo desistere dal suo continuo "andare oltre" le situazioni. Finalmente potrà fermarsi e gustare i suoi vissuti. La mamma invisibile sa essere umile ed attraverso l'umiltà insegnare la concretezza.
Dotto ha bisogno di un papà ADESIVO che, individuato il suo punto di unità interna, potrà condurre il Dotto delirante a raccogliere e dare densità al suo Sé. E' necessario che tale atteggiamento adesivo sia paterno e non materno poiché l'adesività materna si può presentare troppo avvolgente ed essere percepita dal delirante come manipolativa e condizionante. Il paterno adesivo dispone più positivamente poiché è ad una distanza affettiva maggiore. Il papà di Dotto non deve esprimersi in una adesività petulante e ricorrente ma in gesti "adesivi" che, anche se mal tolleranti dal delirante, gli danno il senso della altrui presenza. Tali gesti devono essere intelligentemente orientati verso il "centro" del Sé del Dotto delirante ed il centro, che con facilità può essere individuato dalla sensibilità della mamma invisibile, è la storia ed il dramma della vita di Dotto da cui egli continuamente si distanzia.
Gongolo è un bambino o un ragazzo SBALLONE. Simpatico, giocherellone, romantico, sensuale, estroverso quando non è imprigionato nella sua cupa angoscia. Gongolo sa godere dei piaceri della vita in cui si gongola ma oscilla velocemente tra alti e bassi e quando perde la sua dimensione di piacere soffre una solitudine immensa ed un pessimismo cupo. L'angoscia lo porta a vedere tutto nero, a dar corpo alle ombre, a dubitare sulla possibilità di poter star bene nel futuro e di poter ancora sorridere. La sua principale paura è quella di non poter condividere con altri la raffinatissima sensazione della fusionalità. Vivere intense emozioni in sintonia con le emozioni dell'altro.
Gongolo ha bisogno di una mamma ADESIVA che gli trasmetta la continuità affettiva. La forza dell'adesiva sta nel garantire che un sentimento non svanisce ma, a volte, solo si assopisce per risvegliarsi alla minima pressione. L'energia di avvolgimento della mamma adesiva lo rende consapevole del fatto di essere amato in continuità nonostante egli avverta la mutevolezza interna delle sue emozioni. L'adesività deve essere materna perché solo così può essere assoluta e senza discussione. La mamma di Gongolo non dovrà mai però pretendere nulla in cambio perché qualunque sensazione di insoddisfazione materna per il suo comportamento viene colta dallo sballone come rottura di un ponte comunicativo magico e viene autoattribuita come colpa. La colpa scatena il pessimismo dell'angoscia dalla cui costrizione Gongolo cerca di uscire con nuovi, più energici e pericolosi sballi.
Gongolo ha bisogno di un papà AVARO che gli insegni la coerenza e la responsabilità. Per dare continuità al comportamento dello sballone occorre un intervento che non si spegna mai, tipico dell'avaro ansioso. Certo di un avaro evoluto che sappia trasformare il suo incessante brontolio in precisa e puntuale indicazione di comportamento. Che sappia cioè insistere con continuità sulla responsabilizzazione dello sballone. Solo l'avaro può avere la costanza necessaria nell'insistere sugli impegni che il figlio sballone deve assolvere senza eccessi di energia (un ruminante perderebbe la pazienza) perché muove dalla considerazione che tal bimbo o ragazzo è intrappolato nella discontinuità. Non è che manchi di volontà, anzi quando avverte la sensazione della volontà si getta a capofitto in quella specifica emozione ma è troppo influenzabile dall'emozione successiva che gli porta via la concentrazione necessaria e tutto il suo essere prende il volo in un'altra esperienza emozionale. Egli è una piuma al vento ed ha bisogno che dall'esterno un papà varo gli trasmetta l'emozione della continuità che potrà essere accolta dallo sballone quando sarà vista e gustata nel suo specifico di emozione e di senso. Ma la continuità è emozione raffinata e non può essere colta che dopo averla vissuta e praticata.
Pisolo è un bambino o un ragazzo APATICO. Tranquillo, calmo, rilassato e rilassante, "beato scorridore dei mari con la fantasia, sempre distratto". Pisolo sa indubbiamente riposarsi e non farsi coinvolgere. Vive nei suoi pensieri e si presenta imbambolato e tendenzialmente inattivo. Ama le attività ripetitive e ritmate e fatica quando deve cambiare il suo stato di azione. E' per lui estremamente fatico disporsi mentalmente a qualche attività diversa da quella sta facendo. E' pigro. Pisolo ha bisogno di una mamma AVARA che non si spenga mai nel tenerlo in moto ed acceso. L'ansia preoccupata della mamma avara costringe Pisolo a restare sveglio ed a mantenere attiva almeno quella parte di sé che deve rispondere ai ricorrenti appelli di mamma. L'atteggiamento materno è in questo caso la trasmissione della continuità della accensione. Il concetto è complesso: Pisolo ha la sua continuità ripetitiva autorasserenante, è in grado di ripetere all'infinito un gesto o una azione quasi con distacco, come se dislocasse una parte di sé a svolgere quel compito mentre il suo vero sé è altrove "apatico". La mamma avara deve saper trasmettere a Pisolo la funzione positiva dell'attenzione e dell'ansia. Deve saperlo coinvolgere nel rimanere acceso ed in grado di risposta (respons-abile) di fronte a tutti gli imprevisti
Pisolo ha bisogno di un papà RUMINANTE perché è il solo che ha l'energia sufficiente e un basso numero di scrupoli per provocare in lui una reazione di attività. Il ruminante evoluto sa raccogliere dentro di sé sufficiente forza da non farsi smontare dalla demotivazione dell'apatico. Può pervenire a questo stadio se si è autoriconosciuto come ruminante, se ha fatto un lavoro di spegnimento e di pace verso di sé aiutato in ciò da qualche apatico in posizione materna e da qualche invisibile in posizione paterna. Allora le sue potenzialità sono tutte accese e le redine della sua potenza espressiva e comunicativa saldamente nelle mani. Il papà di Pisolo sa di doversi accendere e scatenare per trasmettere il gusto dell'energia al figlio e può agire con efficacia. La continuità dell'energia e l'insegnamento del possesso della medesima restano compito della responsabilità materna.
Mammolo è un bambino o un ragazzo INVISIBILE che vive nella tenerezza della sua grande sensibilità. Tale capacità sensibile è però mal utilizzata perché gestita nella convinzione che anche gli altri siano sensibili come lui. Egli riesce a captare le minime perturbazioni dell'animo di chi gli sta intorno e si è esercitato per lungo tempo nella sua solitudine a questa modalità di rapporto. Non potrà andar d'accordo con il disinibito sballone che si manifesta senza alcun senso di pudore e soffrirà a fianco dell'oppressivo ed "insensibile" avaro. I suoi punti di contatto sono con l'apatico, di cui condivide la fuga nel disimpegno, e con l'adesivo perché sente il grande bisogno di essere accettato ed amato e compreso gratuitamente da qualcuno. Il rischio dell'invisibile è quello di precipitare dentro di sé e di perdersi nelle sue fobie.
Mammolo ha bisogno di una mamma RUMINANTE che gli faccia sentire la forza che ha dentro e che può esprimere con efficacia sempreché non si annulli nell'eccesso di sensibilità verso gli altri. E' importante che sia la madre ad essere ruminante poiché Mammolo ha bisogno di sentire la protezione materna tenera ed avvolgente ma forte e intensa. L'invisibile Mammolo deve essere riconosciuto dalla mamma nella nidiata e deve sentire una affetto del tutto particolare rivolto a lui. E' tale potente e preciso affetto che scavalca le barriere della sua vergogna e che accetta ogni sua parte ed ogni sua sensazione a dare a lui il senso della potenza dell'amore. Egli potrà svolgere la sua sensibilità affinando la sua precisione nel trasmettere emozioni e trovare le conferme di cui ha bisogno.
Mammolo ha bisogno di un papà DELIRANTE che gli faccia i complimenti per le sue capacità. L'intelligenza e la creatività del delirante sono immediatamente trasparenti e solo il delirante può far fronte alle autosqualifiche dell'invisibile che, quando ha successo in qualcosa, riesce sempre a trovare il motivo del successo in qualcosa che non dipende da lui: è stata fortuna, sono stato aiutato, sicuramente non me lo meritavo, etc. Il papà delirante può puntigliosamente dimostrare al suo Mammolo che quanto afferma per continuare restare nell'ombra non è vero. La logica del delirante è infatti stringente e senza possibili scantonamenti. Inoltre la sensibilità di Mammolo lo porta ad apprezzare la capacità di pensiero del delirante in posizione paterna ed il fatto di ricevere complimenti da lui è un processo che eleva la sua autostima.
Cucciolo è un bambino o un ragazzo ADESIVO che manifesta un forte bisogno di attenzione e di riconoscimento. Si presenta disordinato, con poca cura di sé poiché la scarsa attenzione materna e paterna verso di lui hanno fatto sì che anche lui non abbia attenzione per sé. La sua ricerca di attenzione lo porta ad essere appiccicoso ed insistente ed a manifestare una richiesta continua di cura. Si attacca molto anche agli oggetti (ciuccio, giochi, luoghi, etc.).
Cucciolo ha bisogno di una mamma DELIRANTE, capace di liberarlo dai suoi condizionamenti. La mamma delirante sa amare con intelligenza sapendosi collocare alla giusta distanza, avvicinandosi quando il Cucciolo ha bisogno ed allontanandosi quando può farcela da solo. La caratteristica della madre delirante è la competenza intelligente nell'interpretazione dei bisogni del figlio. Ella non deve essere istintivamente reattiva ma saper pensare sempre all'atteggiamento corretto da assumere per lo sviluppo della autonomia del figlio. Si tratta di saper scegliere quale è la risposta immediata ad un pianto ma anche quale tipo di routine si imposta tra madre e figlio attraverso quelle risposte immediate. Di fronte al ragazzo la mamma delirante valuta quale debba essere la sua compensazione per l'affettività di cui quel ragazzo è carente e quale sia il processo educativo per renderlo capace di riflettere su di sé e sui suoi sentimenti.
Cucciolo ha bisogno di un papà SBALLONE, allegro e scanzonato, capace di gustare la vita nei suoi diversi aspetti. Un papà che slanci Cucciolo verso emozioni e sentimenti intensi e generosi. La richiesta affettiva di Cucciolo può essere saziata solo mediante la sua capacità di gustare gli effetti di riempimento interiore del vissuto emozionale coinvolgente. Il papà di Cucciolo dovrà accompagnarlo e sostenere la sua progressiva consapevolezza del gusto del vivere. Solo un papà capace di accompagnare il figlio in una birreria e farlo sentire grande potrà liberarlo dal condizionamento in cui lo hanno messo amici e conoscenti.
Da quanto sopra detto, i genitori possono quindi diventare artigiani dell’educazione per i loro figli, siano essi biologici, adottivi o affidatari, affinando la capacità di esprimere l’affettività e di riconoscere i bisogni educativi, (sviluppando così capacità empatiche verso i vissuti dei bambini) per dar loro risposte significative e adeguate.
Il canale privilegiato attraverso cui si attua l’intervento educativo e lo spostamento da un’emozione all’altra è la comunicazione. Essa passa attraverso interventi di: rimprovero, incoraggiamento, insegnamento, coinvolgimento emotivo, tranquillizzazione, sostegno e gratificazione. Attraverso di essi, ogni educatore interviene quotidianamente sui destinatari della sua azione educativa, per modificare comportamenti e consentire un ulteriore passo nel loro cammino di crescita e di maturazione. Spesso però tali interventi non sono compiuti correttamente perché poco chiari, sovrapposti tra loro, o rivolti indiscriminatamente senza considerare le caratteristiche del destinatario.
L’intervento educativo deve essere invece modulato in base alle caratteristiche ed ai bisogni degli individui che abbiamo di fronte. Considerare le modalità educative come “tecniche” applicabili a chiunque, vanifica l’intervento educativo di miglioramento e può portare ad esiti molto diversi e spesso negativi, rispetto a quelli che ci siamo preposti.
Se l’educatore non intuisce il copione dell’educando rischia di fare insegnamento quando c’è bisogno di rimprovero, o di incoraggiare quando è invece necessaria una gratificazione; e a quel punto il suo intervento, come ho appena detto, risulta inefficace, se non addirittura dannoso.
Quante volte io stessa, ho sentito genitori che si domandavano il perché avessero ottenuto risultati a volte opposti avendo applicato gli stessi interventi educativi:”Eppure li ho rimproverati, gratificati, incoraggiati, etc., nella stessa misura, perché allora i risultati sono così diversi?”. Oppure:”Come mai quei figli cresciuti nella stessa famiglia, con gli stessi genitori e con lo stesso tipo di educazione hanno intrapreso strade così diametralmente e, a volte, drammaticamente opposte?” Evidentemente per qualcuno di loro quell’ intervento educativo era adatto ed ha portato i suoi frutti, mentre per gli altri non è stato così.
Rimprovero nelle situazioni di mancanza di responsabilità, al fine di vietare e dare regole. Il rimprovero è una comunicazione ingiuntiva e regolativa, non deve essere confusa con una comunicazione incoraggiante. Per rimproverare occorre un tono fermo, deciso, autorevole che si esprime in una comunicazione breve, forte e centrata sui fatti concreti. Al rimprovero deve seguire un silenzio lapidario che fa entrare in profondità il messaggio appena lanciato. Il soggetto che sa meglio rimproverare è l’apatico. I copioni con cui la comunicazione di rimprovero ha effetti maggiormente positivi sono lo sballone e l’apatico. Occorre però porre molta attenzione a rimproverare gli invisibili i deliranti: dai primi il rimprovero è vissuto come oppressione, dai secondi come squalifica. In tutti e due i casi il rimprovero è spesso inutile, o inefficace e dannoso. Nel caso di soggetti molti reattivi si può ottenere con il rimprovero effetti del tutto contrari alle aspettative: reazioni polemiche, richieste assillanti di perdono o rinforzi alla personali chiusure. In tali casi è necessaria una modulazione del rimprovero ed un arricchimento delle sue valenze.
Incoraggiamento quando il problema è la mancanza di motivazione, al fine di far crescere l’impegno. Incoraggiare significa saper dare carica e trasmettere motivazione ad altre persone. Per incoraggiare è prima necessario costruire e dare forma all'energia dentro di sé e poi comunicarla in modo persuasivo per indurre all'azione. Inoltre l'incoraggiamento deve essere puro, senza mescolarsi a critiche, pur se motivate. Non si può incoraggiare e rimproverare allo stesso tempo e nemmeno incoraggiare e insegnare. L'educatore deve trattenersi da miscelare contenuti e forme di comunicazione perché chi riceve, ha bisogno di un messaggio chiaro ed univoco. Il soggetto che meglio di tutti sa incoraggiare è il ruminante, carico di energia e di entusiasmo, che deve però trattenersi, mentre incoraggia, dal sostituirsi nell'azione al soggetto destinatario del suo incoraggiamento. Incoraggiare non significa aiutare o sostenere ma trasmettere forza e coraggio affinché l'altro li utilizzi per compiere l'azione. I destinatari elettivi delle comunicazione di incoraggiamento sono gli apatici e gli invisibili, cioè coloro che sono demotivati o che hanno scarsa stima di sé, rinunciatari e poco fiduciosi nelle personali capacità. L'incoraggiamento è invece inefficace con gli adesivi o con gli sballoni. Qualunque stimolo comunicativo ai soggetti bisognosi di affetto finisce per rinforzare il loro bisogno di attaccamento, mentre la comunicazione persuasiva verso l'impegno cade nel vuoto con chi ricerca emozioni sempre più eccitanti. Incoraggiare poi un soggetto ansioso (avaro) può indurlo ad un rafforzamento della sua ansia.
Insegnamento per far crescere le competenze cognitive e con esse l’autostima. Il processo di insegnamento che qui si vuol richiamare fa leva sul perno del distanziamento tra il sé le cose e non richiede di penetrare all'interno dei modelli della didattica. Attraverso il distanziamento, l’educando può liberarsi dai condizionamenti, dalle manipolazioni e dalla sua eccessiva sensibilità. Il soggetto più portato a questo tipo di comunicazione è il creativo (DELIRANTE) portatore di libertà e di autostima, mentre i destinatari che hanno maggior bisogno dell'insegnamento educativo sono coloro che non riescono ad apprendere per disturbi dell'affettività (ADESIVI) e della stima di sé(INVISIBILI). La comunicazione di insegnamento agisce da rinforzo per i copioni del ruminante, del delirante e dello sballone. Il primo ne ricava un nuovo pretesto per l’azione, il secondo nuovi stimoli per la sua attività mentale, mentre il terzo come emozionante e piacevole gioco da sperimentare. In questi soggetti, l’insegnamento richiede il supporto della stabilità e della profondità, affinché ciò che è appreso non scivoli via immediatamente.
Coinvolgimento emotivo per favorire l’espressività nel caso il bambino soffra di un eccesso di controllo e di ansia. Per coinvolgere emotivamente occorre vincere le proprie inibizioni e caricarsi emotivamente. Questo tipo di intervento è ben condotto dagli sballoni ed è molto efficace nei confronti degli adesivi, che manifestano grande bisogno di affetto, o degli avari, ansiosi e molto controllati. Attraverso l'espressività emotiva si fa crescere la loro sensibilità. Il coinvolgimento emotivo è poco efficace nei confronti di soggetti troppo attivi (ruminanti),o nei confronti di chi abbia una sensibilità forte, ma inibita, e venga messo in imbarazzo da un'aperta comunicazione emotiva.
Tranquillizzazione, nei casi di eccesso di reattività e di aggressività, per far scoprire la calma. L'azione educativa di tranquillizzare svolge la funzione di spegnere le tensioni che impediscono decisioni lucide ed obiettive. Chi intende tranquillizzare deve riuscire ad essere una spugna senza restituire alcun segnale all'altro se non di comprensione e di apertura al fine di far proseguire più a lungo possibile il dialogo, senza modificarne il tono ed il ritmo. A tal fine deve fare assoluta calma dentro di sé e non deviare dal percorso comunicativo scelto dall'altro, non deve contraddire l'interlocutore, pur smorzandone i toni, e non deve cadere nelle inevitabili provocazioni che l'altro può rivolgergli. Chi riesce efficacemente in una comunicazione tranquillizzante è un soggetto forte e calmo (APATICO), che non si accende e non si eccita ma si esprime trasmettendo pace. Destinatari di tal comunicazione sono gli avari (per spegnere la loro ansia) e i ruminanti (per calmare la loro tensione aggressiva).
Sostegno quando la mancanza del senso del limite, il capriccio onnipotente, la sensazione di colpa, la paura di sbagliare conducono il bambino ad una condizione di forte problematicità nata dalla sensazione di non essere compreso, accettato o di essere sbagliato. Per sollevare gli altri è necessaria l'umiltà. Sostenere non significa incoraggiare, anche se spesso tali termini sono utilizzati come sinonimi. Chi sostiene non è mai in vista, sta alle spalle del soggetto da sostenere: la qualità del sostegno è tanto maggiore quanto meno il sostenitore è apertamente visibile. Infatti se chi sostiene si sostituisce alla persona da sostenere, gli fa perdere forza perché lo fa apparire incapace. Sostenere richiede una grande nobiltà d'animo poiché è la comunicazione e l'azione educativa più impegnativa e meno gratificante: chi sostiene non vede risultati della sua fatica se non quelli del mancato peggioramento delle condizioni di chi si aiuta(e ciò non è visibile nè misurabile). Sostenere una persona in difficoltà offre alla persona fiducia nel suo successo; saper guardare negli occhi e saper soffrire con lui fino a quando trova la via per uscire dalla sua difficoltà, superando le confusioni ed i conflitti interni, è una delle forme più alte di disponibilità ed aiuto. L’intervento di sostegno è utile soprattutto al ruminante in fase depressiva e cioè quando la sua naturale energia è rivolta verso se stesso; e al delirante, quando la creatività e la sua spiccata attività mentale è divenuta confusione ed ha creato in ingorgo di pensieri e di sentimenti. Nel primo caso il sostegno sposta l’energia distruttiva e autodistruttiva verso la voglia di difendersi; nel secondo, porta il delirante a ritrovare il piacere di un rapporto meno drammaticamente intenso con se stesso. Il sostegno risulta inutile con sballoni e apatici, mentre per invisibili e adesivi può servire da rinforzo e autogiustificazione se appare come una consolazione; con gli avari, infine, il sostegno delle loro ansie può diventare molto pericoloso.
Gratificazione quando i soggetti vivono scarsa considerazione e bisogni affettivi di riconoscimento. I complimenti sono la comunicazione più semplice e diffusa di gratificazione. Mostrare apprezzamento e riconoscere un merito ad una persona la porta a consolidarsi nelle sue scelte. La gratificazione ha la proprietà di far entrare in contatto le persone con quella parte positiva di sé di cui mai sono del tutto certi. I complimenti possono però essere pericolosi per due motivi: 1) quando sono adulazione conducono alla (vana)gloria 2) per paura che contengano inganno possono aumentare la diffidenza, nelle sue conseguenze di ansia o di angoscia. Il soggetti che sono più efficaci in questo tipo di comunicazione sono gli adesivi e i destinatari elettivi della gratificazione sono i deliranti e gli sballoni.
4.2. IL RUOLO DEGLI ORGANI ISTITUZIONALI COINVOLTI
Il ruolo delle figure professionali coinvolte, come già detto, è molto importante, ma ad essi non possiamo chiedere di intervenire seguendo precisi criteri se, a vent’anni dalla legge questi criteri classificatori precisi e condivisi, non esistono ancora.
Ai servizi sociali dovrebbero quindi essere offerti gli strumenti per individuare:
1. le diverse tipologie di famiglie bisognose di sostegno alla genitorialità, per poi intraprendere percorsi di intervento educativo adeguato alle loro carenze.
2. le diverse tipologie di famiglie che si rendono disponibili all’affidamento (e all’adozione), per individuare quali sono gli interventi educativi per i quali sono maggiormente predisposte
3. quali sono, in ogni bambino, gli interventi educativi di cui ha maggiormente bisogno, in base all’ambiente in cui è vissuto e all’esperienze da lui fatte, in modo tale da poterlo inserire nella famiglia che, più di altre, è adatta e capace a compiere quel tipo d’intervento educativo.
1. Nelle relazioni degli Assistenti Sociali che riguardano le famiglie, per le quali si rende necessario un percorso di affidamento, si leggono spesso i termini, "insufficiente capacità educativa" oppure "scarsa competenza nelle funzioni genitoriali" , ma queste espressioni, in genere, non sono utili a chiarire le relazioni interne che devono essere modificate e le conseguenze che queste hanno sullo sviluppo dei figli e sulla crescita armonica della famiglia.
In questo senso, ritengo sia utile il lavoro svolto da Silvia De Bernardis (ass. soc. dirigente del comune di Palermo), che ha suddiviso le famiglie d'origine, rispetto alle quali viene ipotizzato un affido, in tre tipologie, (ben sapendo che le classificazioni sono riduttive ma servono a fare maggiore chiarezza in un contesto così delicato):
-famiglie oppressive/conflittuali, cioè famiglie la cui coppia genitoriale si relaziona in modo aggressivo e talvolta violento. I bambini che crescono conoscendo in prevalenza queste modalità relazionali, hanno spesso due reazioni : o interiorizzano il conflitto e divengono aggressivi a loro volta, oppure vengono "compressi" e tendono a rendersi "invisibili";
-famiglie disaffettive, con notevoli difficoltà rispetto al soddisfacimento dei bisogni affettivi dei figli che divengono o eccessivamente richiedenti affetto all'esterno, oppure vivono la classica situazione abbandonica (tristezza, scarsa motivazione);
-famiglie inconsistenti, nelle quali non circola energia, spesso trascurate sia nel mantenere le condizioni di vita minime (condizioni abitative, igiene, ordine), sia nei confronti dei figli, nei quali innescano meccanismi di fuga (bambini che vivono la loro giornata prevalentemente in strada, spesso da soli).
Si tratta in tutti e tre i casi di famiglie che a seconda della loro struttura di relazione spesso non sanno mettere in atto le più semplici forme di intervento educativo; ad esempio rimproverare, incoraggiare, insegnare etc. I bambini cresciuti in questi contesti dovrebbero perciò ricevere nelle famiglie affidatarie ciò che è mancato loro nelle rispettive famiglie di origine, in modo da riequilibrarsi.
Il momento successivo all'avvio dell'affido è quello dell'intervento sulla famiglia di origine perché faccia un percorso che la riequilibri in ciò in cui è carente e possa pertanto riaccogliere i suoi bambini. L'intervento si può strutturare in alcune direzioni:
ð attraverso i contatti tra la famiglia di origine e quella affidataria per favorire la trasmissione di competenze educative, mediante esperienze concrete significative;
ð attraverso interventi diretti, volti a modificare l'assetto del nucleo di origine (sviluppo della genitorialità, superamento delle relazioni di opposizione, creazione di relazioni di affinità);
ð attraverso interventi di sostegno nel momento del rientro del o dei minori in famiglia (individuazione delle tipologie di personalità dei figli, i loro bisogni educativi e gli interventi comunicativi più adatti a colmare le loro carenze).
2. Seconda condizione indispensabile per il successo dell’affidamento è la costruzione preventiva, da parte dei Centri Affidi, di una “anagrafe” delle famiglie che si rendono disponibili ad accogliere un bambino, che metta in evidenza il clima relazionale interno (relazioni di affinità e di opposizione), le tipologie di personalità (avaro,ruminante, delirante, ecc.) e le abilità d’intervento educativo dei componenti (rimprovero, incoraggiamento, insegnamento, ecc.), per avere a disposizione, nel più breve tempo possibile, la famiglia più adatta per quel bambino che deve esser dato in affido.
3. Terza condizione necessaria è l’individuazione delle caratteristiche del bambino e i suoi bisogni di intervento educativo:
Brontolo ha bisogno di un padre calmo e una madre emotiva, perché sappiano trasmettergli tranquillizzazione e coinvolgimento emotivo.
Eolo ha bisogno di un padre sensibile e di una madre calma, che sappiano trasmettere sostegno e tranquillizzazione
Dotto ha bisogno di un padre affettuoso e di una madre sensibile, che sappiano gratificarlo e sostenerlo
Gongolo ha bisogno di un padre saggio e di una madre affettuosa, che sappiano responsabilizzarlo e gratificarlo
Pisolo ha bisogno di un padre energico e di una madre saggia, che sappiano incoraggiarlo e responsabilizzarlo verso l’azione
Mammolo ha bisogno di un padre acuto e di una madre energica, che sappiano trasmettergli insegnamento ed incoraggiamento per accrescere la sua autostima
Cucciolo ha bisogno di un padre coinvolgente e di una madre acuta, capaci di coinvolgerlo emotivamente e di liberarlo dai suoi condizionamenti
Una volta
individuate le caratteristiche del bambino, e avendo a disposizione “l’anagrafe”
delle famiglie disponibili ad accogliere(che contenga gli elementi descritti al
punto 2), anche nelle situazioni urgenti che richiedono quindi decisioni
immediate, sarà sicuramente più semplice individuare quale, tra queste è la più
adatta e fare quindi un abbinamento che abbia in sé tutte le potenzialità per
non trasformarsi in un fallimento.
CONCLUSIONI
A vent’anni dalla legge che regolamentava l’affidamento e l’adozione, e nonostante successive integrazioni e aggiornamenti,[33] non possiamo ignorare, che la percentuale dei fallimenti risulta essere ancora troppo elevata e preoccupante. Certo è necessario essere consapevoli, che il rischio di fallimento è insito sia nel percorso adottivo che in quello affidatario, ma ritengo che in molti casi si possa prevenire; a tutt’oggi però, il lavoro di prevensione non sembra aver raggiunto una sufficiente efficacia.
Le esperienze e le ricerche cliniche ci segnalano infatti, che i percorsi attivati, oltre a risultare, ovviamente, molto complessi, spesso si trasformano in situazioni di grosso disagio per tutte le componenti coinvolte, ma in special modo per quel bambino che invece di trovare, in questo percorso, un’occasione per crescere e raggiungere quell'equilibrio con se stesso e con gli altri che porta alla realizzazione della più completa e autentica umanità, si trova ad accumulare un fallimento sull’altro.
Questi aspetti ci devono far riflettere in quanto ci si può ritrovare poi, se non di fronte a veri e propri fallimenti, con la necessità di sostenere, sul piano terapeutico, famiglie nelle quali la sofferenza e il disagio prende il sopravvento, col rischio di una situazione di “non ritorno” Rispondere adeguatamente alle richieste della realtà adottiva e affidataria comporta quindi, la diffusione di una nuova professionalità, per coloro che lavorano in questo settore e per tutti coloro preposti al servizio di questi minori; e ciò dovrebbe avere soprattutto una connotazione preventiva. A questo va unito anche, come accade in diversi ambiti clinici, un lavoro di riflessione, di confronto tra colleghi e di supervisione, che possa permettere di riconoscere e ridurre, in maniera consistente, i fattori di rischio insiti in questi delicati interventi. Sono convinta che, “pensare” e dedicare ampi spazi alla ricerca di strategie per la prevenzione, debba precedere di gran lunga l’attivarsi per un “fare” indiscriminato, poichè il fallimento, in questi casi, comporta enormi “costi” umani, psicologici e sociali. Certo è che chiunque lavora in questo settore, sa che purtroppo arrivano le “emergenze”, e in quel caso, bisogna attivarsi in tempi brevissimi, almeno per cercare di trovare quella che sembra essere la soluzione meno negativa; ma proprio per questo è necessario che ci siano alla base criteri sufficientemente scientifici che possano giustificare e preparare le scelte che gli operatori, spesso in completa solitudine e con assoluta tempestività, si trovano a fare.
Sono sicuramente consapevole che le classificazioni sono riduttive, soprattutto quando sono coinvolti gli esseri umani e le relazioni che si attivano tra loro (ci sono così tante variabili che in questi settori la scienza non può mai essere “esatta”!), ma esse sono altresì utili a fare chiarezza e a ridurre in qualche modo la complessità delle situazioni. Da una parte quindi la ricerca deve continuare, dall’altra è indispensabile la costruzione di esperienze pilota di riferimento, procedure chiare e comprensione dei nodi problematici, per cercare di costruire il miglior percorso possibile tenendo presente le innumerevoli variabili umane.
In conseguenza a quanto sopra detto, ritengo che le ricerche teoriche e i percorsi pratici di “Artigianato educativo” costruiti all’interno del progetto “Prevenire è possibile” (e descritti in questo lavoro), possano essere considerati non solo un valido strumento per la prevenzione dei fallimenti adottivi e affidatari, ma anche una autentica occasione di crescita e di miglioramento per tutte le famiglie che intendano realmente progettare un percorso educativo, che abbia come fine ultimo, sia il miglioramento del proprio equilibrio interno e delle relazioni esterne, sia una maggiore consapevolezza dei disagi presenti e dei percorsi educativi da intraprendere, consentendo, di conseguenza, una migliore e più autentica qualità della vita di tutti i suoi componenti.
Ovviamente ci sono ancora ampi margini di miglioramento, ma ricordiamoci che:”L’obiettivo è crescere, e far crescere, nella convinzione che non ci siano patologie da rimuovere, o malattie da curare, ma processi nuovi da innescare, esperienze da vivere, nuovi punti di vista da assumere per costruire percorsi personali di piena assunzione di umanità.”[34]
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QUADERNI del Centro Nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’ adolescenza, Pianeta Infanzia, Quaderno N° 9, Firenze, 1999
SARACENO C., NALDINI M., Sociologia della famiglia, Bologna, Il Mulino, 2001.
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ZUECH F., Testimonianza di una assistente sociale sul riuscire a vedere sempre con occhi nuovi ogni persona, in Minori Giustizia n.1, F. Angeli, Milano 2001.
[1]Giddens A., Sociologia, Il Mulino, Bologna 1995,p. 347
[2] Saraceno C., Naldini M., Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna 2001, p.123-124
[3] Saraceno C., op. cit., p.145-149
[4] Ibidem, p. 149
[5] AA.VV., Diritto di crescere e disagio, Rapporto 1996 sulla condizione dei minori in Italia, Istituto degli Innocenti, Firenze1996
[6] AA.VV., Un volto o una maschera? I percorsi di costruzione dell’identità, Rapporto 1997 sulla condizione dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia, Istituto degli Innocenti, Firenze1997
[7] AA.VV., Non solo sfruttati a violenti. Bambini e adolescenti del 2000, Relazione della condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, Istituto degli Innocenti, Firenze 2000
[8] Holmes J. La teoria dell’attaccamento: John Bowlby e la sua scuola –Cortina Ed, Milano 1994, p.72
[9] Bowlby J., Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1982, pag.32
[10] Holmes J. La teoria dell’attaccamento….op. cit., p.77
[11] I bambini che passano dalle case famiglia alle case adottive permanenti prima dei sei mesi, mostrano minore angoscia di quanta ne proverebbero passato lo spartiacque dei sei mesi quando le reazioni tipiche della separazione si manifestano attraverso l’aumento del pianto, dell’aggrapparsi, dell’apatia assieme a disturbi dell’alimentazione e del sonno.
[12] A.Oliviero Ferraris, Il cammino dell’adozione, Rizzoli, Milano, 2002, pp.117-121
[13] BOWLBY J., Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1982, p. 10
[14] BOWLBY J., Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1982, p. 143
[15]I bambini che subiscono una deprivazione affettiva fin dalla nascita, si presentano spesso con un ritardo nello sviluppo fisico, apatia, scarsa volontà di alimentarsi, facilità a contrarre malattie, specie quelle somatiche. Parallelamente si determina un ritardo nello sviluppo psicomotorio nelle aree della locomozione e dell’acquisizione del linguaggio, che sono naturali canali di socializzazione. Sul piano comportamentale si possono riscontrare in questi bambini una eccessiva passività, una aperta aggressività, una ricerca continua di attenzioni e sollecitazioni affettive, un esagerato desiderio di trattenere gli oggetti, una intolleranza alle frustrazioni. In casi limite essere privato di un legame individualizzato e contenitivo, può portare al raffreddamento affettivo, ove non pare più possibile provocare o ottenere dal bambino alcun interesse per le persone, per l’instaurarsi di psicosi precoce o autismo infantile. Nel caso invece ci sia stata la rottura di un legame di attaccamento che si era già instaurato, la separazione dalla propria madre è vissuta dal bambino come una grave perdita ed un lutto che può provocare in lui degli arresti nello sviluppo e delle trasformazioni della personalità fino a giungere all’incapacità di stabilire successivamente dei validi legami affettivi. L.Calstelfranchi, R.Persichetti, Crescere insieme. I protagonisti del processo adottivo, Armando Editore, Roma 1989, p. 11-15
[16] Nata nel 1891 a Breslavia (oggi Wroclaw in Polonia) da una famiglia ebraica. Laureata in filosofia all’università di Friburgo nel 1916 con una tesi dal titolo: ll problema dell'empatia (Einfuhlung), fu allieva di Edmund Husserl. Nel 1921 si convertì al Cattolicesimo e nel 1933 si fece suora del Carmelo a Colonia col nome di suor Teresa Benedetta della Croce. Morì ad Auschwitz il 9 agosto 1942.
[17] CERRI MUSSO R., La pedagogia dell’Einfuhlung. Saggio su Edith Stein, Brescia, La scuola, 1995, p. 96
[18] MASINI V., Relazione di presentazione del volume: L’empatia nel gruppo di incontro, Caltagirone, Forum degli Assessorati alle Politiche Sociali delle città della Sicilia, 14 settembre 1996
[19] STEIN E., Il problema dell’empatia, Roma, ed. Studium, 1985, p.201
[20] CERRI MUSSO R, Empatia e comunicazione familiare, in “La famiglia”n.206, marzo-aprile 2001, p.42
[21] Nella presentazione del convegno 2003 il direttore del progetto spiega:“ “Prevenire è possibile” nasce negli anni ’80 come slogan che sintetizza un metodo d’intervento applicato a molteplici ambiti di lavoro: le scuole, i gruppi di comunità e di casa famiglia, le famiglie e le aziende. Il processo di lavoro preventivo si focalizzava sull’idea di applicare a diversi contesti le esperienze relazionali attuate all’interno di molte comunità di recupero per tossicodipendenti.(…) Il nostro progetto non ha mai accettato l’idea di una prevenzione configurata come un rigido metodo finalizzato alla costruzione di un modello di uomo astratto. Prevenire significa offrire ai giovani occasioni per conoscere meglio sé stessi e gli altri, testimoniare loro i valori più significativi, indicare la via dell’equilibrio per gestire i momenti difficili, i conflitti e le contraddizioni, chiedendo loro di essere autentici protagonisti della vita, della comunità, della società. In quest’ottica prevenire significa quindi proporre momenti attraverso i quali si trasmettono vissuti, emozioni, sentimenti positivi in cui riconoscersi.” VINCENZO MASINI, Presentazione del X Convegno Nazionale di “Prevenire è Possibile”, Lucca, 14-15-16 febbraio 2003. Per approfondimenti vedere: www.prepos.it / Convegni/ Il Miglioramento
[22] MASINI V., Relazione di presentazione del volume: L’empatia nel gruppo di incontro….op.cit
[23] MASINI V., Dalle emozioni ai sentimenti, Terni, Prevenire è possibile, 2001, p.20
[24] Ivi, pp.59-116
[25] Ivi, p.30
[26] Ivi, p.214-216
[27] Ivi, p.20
[28] MASINI V, Il Miglioramento, Presentazione del 10° Convegno Nazionale di “Prevenire è Possibile”, Lucca, 14-15-16 febbraio 2003, in www.prepos.it, /Convegni
[29] Per un approfondimento vedi: www.prepos.it
[30] Vedi cap.1
[31] MASINI V., Dalle emozioni ai sentimenti, Terni, Prevenire è possibile, 2001, p.181-182
[32] Per una più ampia trattazione vedi: MASINI V., Dalle emozioni ai sentimenti, Terni, Prevenire è possibile, 2001, pp.166-180
[33] L. 476/98 sull’adozione internazionale e L. 149/01
[34] Francisco Bruno Gnisci, vicepresidente dell’Associazione Mondiale Medici per la Pace, Premio Unisco 1984, Premio Nobel per la Pace 1985, Presentazione al libro:”Dalle emozioni ai sentimenti” di MASINI V., Terni, Prevenire è possibile, 2001, p.6