..Se mi interrogo sulla scuola?
di Giorgio Renzi
“Counseling, peer education, cooperative learning, team student learning, structural approach, group investigation, learning togheter, life skills,
workshops ….”,. Povero me! Ho proprio deciso. Vado in pensione. Ogni volta che torno da un convegno sulla scuola, sulla innovazione didattica o,
comunque, sui problemi della formazione, va in crisi la mia identità di insegnante che da trent’anni insegna (o ci prova) senza sapere una parola di
inglese. Ma che saranno mai tutte queste cose nuove, queste strane parole che ogni giorno , ad ogni corso di aggiornamento gli esperti ci propinano ad
ogni ora e ad ogni occasione! Quale straordinaria medicina per la salvezza della scuola si nasconderà dietro di esse!? Non è che poi, gratta gratta,
riscopriamo almeno alcune di quelle cose che nel nostro giovanile errare attraverso gli anni 60 e 70 alla ricerca del mondo, e della scuola,
migliore, ci siamo sentiti ripetere dia don Milani, dai Mario Lodi, o da quello strano personaggio che era Ivan Illich che si era messo in testa di
descolarizzare la società, senza poter immaginare che trent’anni dopo ci avrebbe pensato il ministro dell’istruzione (senza “pubblica” per carità)
assieme al suo Presidente del Consiglio a descolarizzare la società e la scuola insieme.?
Ma quando, finito il convegno o il corso di aggiornamento, la mattina ritorno a scuola, rientro in classe, tento di parlare di storia, o di geografia o di qualche brano di letteratura e vedo quelle facce stralunate e annoiate che mi guardano con un sottinteso interrogativo (“Prof, ma che è?
A che serve?”) ripenso alla peer education, allo structural approach, al learning togheter, non perché mi vengono in soccorso, ma perché mi fanno
capire che ora sono io l’alieno che non parla la loro lingua, che parla ad un popolo che usa un altro linguaggio, anzi a più popoli, con linguaggi
diversi ( il rumeno, il moldavo, l’indiano, l’albanese, l’italiano di campagna, il siculo/italiano, l’italiano zelighiano o chattico o essemmeesse ecc). Ora capisco la loro (che è anche la mia) frustrazione, la loro noia, il loro rifiuto.Bei tempi quelli della “scuola della repubblica” come direbbero in Francia!.
Quando a scuola venivano solo quelli che volevano studiare, quelli destinati ad essere classe dirigente. Si entrava in classe, si spiegava, si interrogava e via tranquilli fino alla fine dell’anno.Già, ma che succede quando la banlieu entra nella scuola? Quando la società nella sua complessità di centro e di periferia, di città e di campagna, di aborigeni e di immigrati entra all’interno delle aule scolastiche? Succede che la scuola non è più, e non può essere più quella di prima
Oggi come ha scritto Francois Dubet parlando della Francia (ma ciò conferma che il problema non è solo italiano) è cambiata la società ed è cambiata
anche la scuola, proprio perché la banlieu è entrata nella scuola. O meglio: della scuola sono cambiati i “discenti”, perché sono cambiati i modelli
giovanili, sono cambiati e si sono arricchiti i linguaggi ed i codici comunicativi, cambiano i ritmi di apprendimento. Può in questo contesto
rimanere immutato “il profilo professionale dell’educatore/docente? O le forme organizzate dell’itinerario formativo? O la limitazione dell’istruzione quasi esclusivamente all’età scolare?”Non potrebbe, ma…così è, se vi pare.
Il dramma in cui da anni ci battiamo, noi, maltrattati e malfamati insegnanti, che hanno comunque il compito di mandare “avanti la baracca”
giorno dopo giorno è proprio questo. Tutto cambia, perché, verrebbe da dire, nulla cambi. Restano le stesse strutture, restano, aggravati, gli stessi problemi. Cambiamo i ministri, ognuno si circonda dei suoi esperti (molti dei quali sembra non siano più entrati in una scuola dai tempi della maturità) si producono e si improvvisano sperimentazioni, riforme, innovazioni più o meno ben immaginate, si teorizza l’Obbligo, pardon il diritto/dovere, alla formazione fino ai 18 anni, anzi la lifelong learning (sta a vedere che imparo l’inglese), per tutto l’arco della vita. Ma la mattina entriamo nelle stesse classi, con gli stessi banchi, con gli stessi strumenti (un po’ più invecchiati), gli stessi insegnanti…solo i ragazzi sono diversi.
Certo, la struttura della scuola è un elefante che si muove con lentezza, con le sue resistenze, con le sue difficoltà ad adeguarsi, Gli insegnanti sono attaccati alle loro identità professionali, definite attraverso i concorsi , ci sono le cattedre, c’è una organizzazione burocratica che, nonostante la conclamata autonomia, rimane rigida. Non è pensabile che si possano imporre trasformazioni con atti dall’alto, con decreti, con leggi pur innovative in tempi brevissimi. Non è un caso che i diversi tentativi sono andati fino ad ora a sbattere contro muri di resistenze, non sempre nobilmente ideali e culturalmente fondate.
Tra i motivi di questo fallimento, comunque, c’è stata anche la presunzione di fare le riforme senza (se non contro) gli insegnanti, dimenticando che
poi, piaccia o meno, sono loro i primi destinatari, nel senso che sono loro gli strumenti attraverso cui deve passare l’attuazione di ogni ipotizzata
riforma.Ed in Italia questo coinvolgimento non c’è stato ed anche il dibattito che si è svolto attorno alla scuola ha coinvolto gli “esperti”, i pedagogisti, i
politici, ma non gli insegnanti. Non si è mai aperto un sistematico dialogo di verifica con gli operatori che permettesse una verifica in tempo reale della funzionalità dei cambiamenti che si intendevano attivare. Basterebbe analizzare la bibliografia sull’argomento uscita negli ultimi anni in Italia, e confrontarla con la contemporanea bibliografia uscita in Francia, per rimarcare la differenza dei livelli di dibattito.Ma questo denota anche una carenza culturale della classe docente. La sua assenza dal dibattito non può essere solo imputata agli altri. E comunque, proprio perché siamo noi , ogni mattina, a trovarci di fronte quel sempre più variopinto ed enigmatico gruppo di giovani, dobbiamo essere in prima fila a sperimentare tutte le possibili forme di innovazione, sfruttando gli spazi che l’autonomia e le diverse leggi, nazionali e regionali, ci offrono, avendo sempre presente quella che è stata e rimane la missione principe della scuola pubblica: educare ed istruire (non uso a caso ambedue le parole).
Ma i nostri strumenti tradizionali, di insegnanti di discipline, non sono più sufficienti. Non so se è una condizione solo mia. Ma la mattina, quando entro nella mia classe dell’Istituto professionale e vedo quelle 20 facce, bianche, more, olivastre, sento quei buongiorno pronunciati con tante intonazioni diverse, vedo quegli occhi spalancati che ti guardano sembra con sfida, ma in realtà spesso mi sembrano chiedere aiuto, sento la mia impotenza, il mio disagio, la mia inadeguatezza.
Però....vi voglio bene, ragazzi!