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Dispersione e Territorio verso un progetto di Obbligo Formativo

 

Il Progetto pilota

Di Giorgio Renzi

 

Il nostro istituto, dopo la prima traumatica (anno 2001, ndr) esperienza di corso per Obbligo Formativo, avviata nella più completa impreparazione e

improvvisazione, con gli stessi insegnanti della scuola,  ha capito che era necessario mettere a punto una strategia di intervento completamente

diversa, ed in particolare che vedesse l’Obbligo formativo non come un corpoestraneo da subire, ma un’occasione per studiare metodologie d’intervento innovative da utilizzare anche all’interno del percorso scolastico. Così l’attuazione dell’Obbligo è diventata parte delle politiche di prevenzione della dispersione. Parallelamente, infatti, abbiamo portato avanti progetti di prevenzione della dispersione e di sostegno a soggetti non autonomi (progetto PORTFOLIO 2001, Progetto PORTFOLIO 2002,  FREE ENTRY 2002, Progetto PREVEDI 2003/4) e corsi sperimentali per apprendisti in Obbligo Formativo (Progetti RESTART I e II). Abbiamo capito che le professionalità di cui disponevamo all’interno non erano sufficienti ad avviare questa sperimentazione; che ai docenti delle discipline andava affiancata un equipe di esperti d’accoglienza, orientamento, counseling, cioè persone che avessero un approccio diverso con l’utenza (uso con ironia questo termine abusato nel mondo della formazione, ma che è indice di un concezione aziendalistica ed economicistica della istruzione/formazione).

Abbiamo cercato di trasferire anche all’interno del percorso scolastico alcune metodologie di approccio educative utilizzate nei corsi per

l’Obbligo, cercando di coinvolgere i docenti in un processo di aggiornamento e di ri-definizione della propria funzione.

Il primo passo (una vera e propria rivoluzione culturale) è stato quello di passare dal concetto di allievo a quello di giovane, di adolescente, che

implica una scuola non più istituzione separata dalla società, ma istituzione che ha al proprio interno tutte le contraddizioni della società

e che non può più limitarsi solo ad istruire, a trasmettere conoscenze. Potremmo continuare anche ad essere convinti che la scuola debba essere solo

quello, ma, come abbiamo già visto, di fatto non riesce più nemmeno a svolgere adeguatamente quella funzione. Con l’ingresso massiccio di tutti i

giovani, con l’arrivo dei “barbari”, prima ancora di pensare alla trasmissione delle conoscenze, ad istruire, bisogna cominciare ad educare (non sono necessariamente processi distinti e in successione cronologica). Funzione che non può più essere demandata solo alla famiglia (anzi, spesso

le famiglie la demandano alla scuola, con un pericoloso e preoccupante processi di deresponsabilizzazione).

Per fare questo è però indispensabile capire i giovani che abbiamo davanti, il contesto in cui vivono, l’ambiente familiare, sociale in cui sono

inseriti, il mondo del lavoro in ci esercitano il loro apprendistato.

Da qui è nato il bisogno di unire, alla gestione del corso di formazione per apprendisti (attuato con metodologie completamente diverse da quelle della

docenza tradizionale) una ricerca sul loro mondo di vita e di lavoro. Anche perché se è vero che non tutti i giovani sono uguali, è anche vero che non

tutti gli ambienti sono uguali, il Casentino non è Roma e non è New York. E, per il tema che stiamo trattando, il Casentino ha una preoccupante

caratteristica: un’alta percentuale di dispersione scolastica.

Per l’anno scolastico in corso (2003/2004) risultano essere circa 350 i giovani non ri-iscritti a scuola (su una popolazione scolastica che alle

scuole superiori oscilla tra i 1100 ed i 1200 allievi). E’ vero che alcuni di questi hanno superato i 18 anni, altri hanno cambiato scuola e continuano

il percorso scolastico in altre istituzioni, ma è anche vero che alcuni sono solo formalmente iscritti, di fatto “dispersi”, non frequentanti. A ciò si

aggiunga un’alta percentuale di immigrati, che aumenta in progressione geometrica di anno in anno, concentrandosi soprattutto negli istituti

tecnici e professionali, quindi, per il Casentino, nel nostro Istituto. Nelle prime classi, infatti la percentuale di stranieri oscilla tra il 20 ed

il 30%. Con l’aggravante che in molti casi il loro ingresso a scuola avviene ad anno scolastico avviato e inoltrato. Nella sola classe prima dell’IPSIA,

per esempio, a settembre 2003 vi erano 15 iscritti, a gennaio erano diventati 23, la maggior parte dei quali inseriti nel mese di gennaio. E’

evidente che gestire situazioni di questo genere con una scuola di fatto rimasta invariata, in cui c’è il solito rapporto docente/classe (con

l’aggravante che si pretenderebbe non attivare classi inferiori a 25!- Ministro Moratti, venga un giorno solo in una di queste classi), producono necessariamente dispersione ed abbandono; producono, insomma, i clienti per l’Obbligo Formativo.

Ma questi clienti espulsi non possono essere abbandonati a se stessi. Sono giovani che abbiamo il dovere, l’obbligo morale, come pubbliche istituzioni, educative e non, di recuperare ad un percorso formativo sia in funzione di una loro maturazione come cittadini consapevoli e lavoratori abili, sia anche in funzione di uno sviluppo economico che ha bisogno di persone professionalmente e culturalmente attrezzate.

Di fronte a questo problema, la progettazione integrata, prevista dalla legge sulla autonomia scolastica (ma per la Toscana anche dagli indirizzi

programmatici della Regione),  diventa una necessità improcrastinabile, e richiede un unico tavolo tra operatori scolastici, Sindaci, servizi sociali.

Se i giovani di cui parliamo sono gli stessi, che senso ha che il Piano Sociale di zona approvato dalla Conferenza dei Sindaci ignori la Scuola o,

comunque, preveda interventi rivolti al mondo giovanile, ignorando completamente quanto avviene all’interno delle scuole? Su quali basi

conoscitive sono programmati gli interventi rivolti al  mondo giovanile?

Il nostro progetto Pilota vuol anche indicare un possibile percorso comune, fornire la base concreta per una programmazione condivisa, che dia

concretezza alle sopra ricordate leggi nazionali e regionali.Per questo abbiamo dedicato una particolare attenzione alla conoscenza dell’ambiente reale in cui i giovani di cui stiamo parlando vivono il loro quotidiano.

 

Conoscere come i giovani del Casentino passano il loro tempo libero, quali ambienti frequentano, quale è la cultura delle aziende in cui lavorano, come sono a conoscenza dei processi lavorativi cui partecipano, è stato un modo per mettere meglio a fuoco la loro personalità e attivare   processi

educativi più mirati. Volevo dire individualizzati, come va di moda oggi. Ma ho delle remore ad usare questo termine, che ritengo pericoloso, ambiguo. Pensare a percorsi separati individualizzati è un modo per contribuire ad un’ulteriore separazione ed isolamento dei singoli, mentre invece essi hanno bisogno di socializzare, di imparare a comunicare, di acquisire una cultura comune e condivisa .

Il Casentino è una vallata particolare, lo è stata nel passato, lo è ancora oggi. Ha avuto la singolare ventura di essere una zona chiusa tra i monti,

quindi almeno in apparenza separata dai grandi processi della storia, ed insieme è stata in vari momenti al centro di vicende internazionali. La

famosa battaglia di Campaldino è stata una delle prime guerre “mondiali” (per il mondo d’allora), è stato uno degli spazi più decantati nella Divina

Commedia, ma anche in opere di altri scrittori più recenti (D’Annunzio, Campana…...). Insomma una zona combattuta tra municipalismo e orizzonti

internazionali. Oggi, nell’era della globalizzazione, i confini geografici, le montagne, si dice, contano poco. La televisione omogeneizza dalle alpi

alle piramidi. Le nostre stesse imprese ormai attuano processi di delocalizzazione in tutti i paesi del mondo. (la presenza di stranieri, come risulta da una indagine dell’amministrazione provinciale, è la più alta della provincia di Arezzo).

Tutto questo processo, va detto, sta creando un scombussolamento non solo culturale, ma anche psicologico. Da una parte si vive la vita del paese, con tutte le sue grettezze ed i suoi limitati orizzonti, dall’altra  siamo costretti a confrontarci ogni giorno con problemi globali, con culture diverse. Questo processo di cambiamento così rapido genera disorientamento sia tra i giovani, sia tra le generazioni. I conflitti all’interno della famiglia sono sempre più forti, con sempre più frequenti rotture di legami familiari (divorzi, separazioni ecc).

Tutto questo entra nell’universo scuola e, ovviamente, complica e cambia la sua funzione.

Capire, comunque, anche la koinè culturale in cui i giovani sono immersi, il loro modo di pensare, i valori in cui credono, i loro miti, serve ad individuare gli obbiettivi educativi e le più adeguate metodologie.

Intanto è stata una facile constatazione che, nella maggioranza dei casi, i “falliti” della scuola, gli espulsi, avevano alle spalle situazioni socio/ familiari particolari. E questo ci riporta a quanto sopra detto, ad una scuola che effettua quella selezione sociale che una volta avveniva prima dell’ingresso.   Una seconda constatazione è stata una generale mancanza di ambizione, se non vogliamo ritenere tale la voglia di guadagnare, di fare soldi, del successo facile (di tipo televisivo) scissa, però, dall’idea dell’impegno, della fatica e del lavoro necessario a conquistarselo.

Un’altra categoria di “falliti” è data dagli immigrati, spesso inseriti nella scuola esclusivamente come presenza fisica, senza molto preoccuparsi

di quanto italiano capiscano, di come supportarli per metterli in condizione di progredire,  con la conseguenza che arrivano alla scuola superiore alunni

che non  hanno gli strumenti linguistici minimi per avanzare nel corso degli studi. Allora, compiuti i 15 anni, l’apprendistato rimane l’unica strada da

percorrere.

Su queste tipologie di soggetti abbiamo attivato il nostro corso pilota, assegnando al prof. Masini ed a i dott. Mazzoni, Barbagli e Aquilanti, 

collaboratori di Prevenire è possibile, il compito di adottare le strategie utili a riportare questi giovani alla consapevolezza delle necessità di un impegno, della necessità di una cultura personale da conquistare anche con la  fatica indispensabile a costruirsi un loro destino di vita da non

emarginati.

Oggi, dopo due cicli effettuati, possiamo sentirci soddisfatti delle scelte effettuate, soprattutto perché abbiamo potuto smentire i teorici della irrecuperabilità.

Quando, poco prima di Natale, si è svolta l’ultima giornata di corso, quella in cui ci si saluta, si danno gli attestati, sono stato colpito da un fatto: era finito l’orario, e quei ragazzi non volevano andarsene. Mi sembrava di vedere nei loro occhi la tristezza di una fine e di un distacco. Eppure erano ancora dentro quella scuola che avevano odiato ed insultato, che avevano cercato più volte di danneggiare. Ho ripensato alla prima esperienza, quando più che insegnanti, ci sentivamo come delle guardie carcerarie preoccupate solo di impedire o limitare i danni a  cose e strutture nella più completa incomunicabilità ed indifferenza, anzi in una continua sfida al povero insegnante di turno, privato anche del ricatto del voto e della bocciatura.

Quando era stato? Un secolo fa?

No. Era solo un anno fa, ma sembravano anni luce, Qualcosa di buono era stato fatto.

Allora, un’altra scuola è possibile!

Certo per passare dalla possibilità alla realtà il processo  è ancora lungo.

Come trasferire la positività di questa esperienza all’interno della scuola?

Ed insieme, come passare dalla fase necessaria ed indispensabile della rimotivazione a quella della attivazione di un nuovo percorso di apprendimento e di conoscenza?

Il limite dell’esperienza che abbiamo effettuato è che è stata gestita da personale esterno alla scuola. Noi abbiamo cercato di creare una osmosi

utilizzando le stesse metodologie e le stesse professionalità nel progetto di prevenzione della dispersione, che coinvolge necessariamente i docenti

ordinari delle classi. Ma il processo di riconversione della funzione docente è lungo e complesso ed ha una prima barriera nella convinzione di

molti che il ruolo docente sia quello e che non deve cambiare.

Ma che psicologia e pedagogia! Il docente deve conoscere ed insegnare la sua materia, il resto non è  un problema suo!

Se non si supera questa cultura, questo atteggiamento (che è anche molto di comodo, frutto a volte più di pigrizia mentale che di profonda convinzione culturale) è difficile ricostruire il ruolo e la dignità della scuola della scolarizzazione di massa. L’esigenza di una seria formazione pedagogica di tutti gli insegnanti  è ormai irrinunciabile (e non solo degli insegnanti di lettere). Anche perché non si può risolvere il problema con interventi occasionali e temporanei di esperti esterni, se non cambia il modo di operare di chi nella scuola vive tutto l’anno e gestisce giorno per giorno

la classi con i suoi problemi.

La contrapposizione tra approccio psico/pedagogico e approccio disciplinare divide anche il mondo degli esperti. Charles Coutel nella sua appassionata difesa della “Scuola della Repubblica” irride ai tentativi di moltiplicare i “preamboli psicosociologici prima di istruirlo”. Li considera un modo per “patteggiare con l’ignoranza ritardando il momento dell’istruzione”

A noi non interessano le contrapposizioni ideologiche delle diverse scuole di pensiero, ognuna delle quali possiede parti di verità. L’approccio

psico-pedagogico non può essere visto fine a se stesso (in questo caso avrebbe ragione Coutel ) ma uno strumento per innestare un vero processo di

apprendimento e di conoscenza; è preliminare ed integrativo, non sostitutivo. Insomma, per istruire bisogna creare le condizioni perché il

soggetto voglia essere istruito. Altrimenti torniamo a quella selezione che è inevitabilmente una selezione sociale (di classe, si sarebbe detto una

volta). Ma prima di rimotivare gli allievi, bisogna rimotivare gli insegnanti, mettendoli nelle condizioni di svolgere il loro lavoro in modo più sereno   e con prospettive più certe del futuro loro e della scuola.

Il nostro progetto pilota, unitamente alla ricerca, ha dimostrato che gli “espulsi” non sono “irrecuperabili”. La conoscenza del contesto sociale e

familiare ha dato un contributo notevole alla comprensione ed all’avviamento del processo educativo . E anche questa è una indicazione non secondaria per i docenti, indipendentemente dalle discipline.

 

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