UN ORIENTAMENTO SEMPLICE ED EFFICACE
Barbagli Lorenzo
Nota dell’autore: Il volume è, oltrechè una ricerca teorica ed un manuale sull’orientamento, una esposizione del progetto “Prevenire è Possibile” al quale partecipo come elaboratore teorico e operatore concreto e, al fine di rendere manifesto e chiaro il nostro processo collettivo di lavoro, ho ritenuto opportuno riportare per intero brani e riflessioni contenute in precedenti opere con il permesso degli autori. Le stesse parti, saranno inserite nel normale filo logico del testo, ma saranno sempre espressi in nota i riferimenti bibliografici.
I rischi di un momento particolare |
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Dov’è che i progetti attuali non funzionano? |
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Un’idea di uomo |
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Il paradigma della complessità. |
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Sul concetto di responsabilità educativa e sulla dichiarazione d’intenti |
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Alcuni problemi aperti sull’orientamento |
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Le realtà dell’orientamento |
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Cap. 1. L’orientamento oggi e la qualità nelle progettazioni istituzionali |
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1.1.Dove siamo arrivati? |
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1.2.Pedagogia, educazione ed orientamento |
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1.3.La natura dell’orientamento |
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1.4.Gli assi dell’attività orientativa |
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1.5.I principali modelli europei nelle diverse configurazioni dell’ordinamento scolastico |
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o Premessa |
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o Inghilterra |
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o Francia |
19 |
o Germania |
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1.6.L’orientamento in Italia |
20 |
o Il progetto del Ministero |
20 |
o Il ruolo e le posizioni delle regioni. Il Forum “dalle esperienze al sistema” |
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1.7.Gli obiettivi del sistema tra finalità ed autonomia |
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1.8.Che cosa manca? La qualità nell’orientamento |
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Cap. 2. Scuola e orientamento: la qualità nella progettazione delle attività. |
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2.1.Il ruolo della scuola nei progetti di orientamento ed il ruolo dell’orientamento nella scuola |
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2.2.I bisogni di orientamento e di educazione |
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2.3.I bisogni culturali e cognitivi |
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2.4.I bisogni di formazione nella scuola |
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2.5.Chi può fare l’orientamento nelle scuole? |
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2.6.La presenza delle agenzie private |
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2.7.Quale ruolo per gli insegnanti? |
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2.8.Il fulcro sulla didattica e sulla comunicazione. La lezione come fonte di orientamento |
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2.9.Oltre il colloquio individuale. Il lavoro in gruppo |
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o Lavorare in gruppo |
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2.10.La classe per l’orientamento |
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2.11.Test e questionari: qual è il senso del loro utilizzo? |
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2.12. A cosa servono i questionari di “Prevenire è Possibile”? |
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Cap. 3. I comportamenti, i tipi, gli stili della scelta e le competenze: interventi diversi per persone diverse |
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Premessa |
42 |
3.1. Definizione e classificazione comparata dei tipi |
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o Idealtipi puri o rappresentativi? |
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o Definizione degli idealtipi |
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o Classificazione comparata degli idealtipi |
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o Il modello di Jung e l’Enneagramma |
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o Gli idealtipi e le strategie di coping |
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o Holland |
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3.2.I processi di scelta, il cambiamento e l’orientamento |
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o Scelta e cambiamento |
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o I percorsi di cambiamento ed i bisogni educativi |
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o Modelli di apprendimento e percorsi di cambiamento |
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3.3. Come si sceglie? |
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o Altri modelli di scelta |
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3.4. La scelta e orientamento: gli assi della consapevolezza |
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3.5. Un ulteriore livello di diversificazione |
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3.6. Il bilancio delle competenze nell’orientamento: un necessario approfondimento |
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3.7. Cos’è la competenza? Excursus storico, definizioni attuali e la nostra visone: semplificare la teoria per spenderla nella pratica |
57 |
o Competenza, potenzialità e disposizioni |
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o Quanto spazio deve avere il bilancio delle competenze nei percorsi di orientamento? |
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3.8. E lo stile dell’intervento? |
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Cap. 4. L’orientamento nei progetti di “Prevenire è Possibile” |
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4.1.Il modello di “Prevenire è Possibile” per l’orientamento e la formazione nella scuola italiana |
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4.2.Il percorso formativo |
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4.3.Le attività nelle classi: Questionari e grafi |
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4.4.I tipi di classe e le modalità di comunicazione e di intervento relative ad esse |
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4.5.Comunicazione ed atteggiamenti in classe |
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4.6.Operatività dei laboratori: teoria e prassi |
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4.7.Descrizione dei laboratori |
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4.8.L’orientamento |
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o Stile cognitivo |
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o Stile di pensiero |
73 |
o Stile di esecuzione |
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o E la diversificazione degli interventi? |
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4.9.Gli strumenti per l’orientamento |
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410.Dispersione, abbandoni e orientamento: facce della stessa medaglia? |
77 |
411.L’attività contro la dispersione e gli abbandoni |
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Esempi di grafici |
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Conclusioni |
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…ancora qualche riflessione |
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Bibliografia |
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I rischi di un momento particolare
La prima questione da affrontare per comprendere gli obiettivi delle attività d’orientamento è lo sfondo su cui sono oggi impostate tali attività. Esse infatti prendono forma nel momento in cui la complessificazione dei sistemi non riesce più ad essere funzionale ad un rapporto armonico tra le personalità dei singoli e le opportunità di lavoro e di integrazione offerte dal sistema. Il dato percettivo a cui si è di fronte è quello di una caduta dell’amore per il lavoro, della soddisfazione e della motivazione. Indipendentemente dal fatto che il lavoro contenga in sé caratteristiche quali la fatica, l’impegno, la ripetizione, ecc. e che in esso sia ancora rappresentabile quel concetto di “fatica” connesso al percorso di miglioramento evolutivo dell’essere umano, ciò che maggiormente colpisce nei colloqui e nelle interviste con gli addetti ai lavori più diversi è la sensazione, presente in molti, di aver “sbagliato lavoro” e che, forse, in un altro tipo di attività tali soggetti si sentirebbero maggiormente gratificati e motivati.
Esiste dunque un problema di orientamento a cui si è sovente pensato di far fronte attraverso la circolazione di maggiori informazioni e di maggiori opportunità.
Non si tratta però solo di opportunità di mobilità verticale e di miglioramento di status sociale, né di aumento della scolarizzazione al fine di pervenire a professioni più redditizie: le differenze salariali non obbediscono più in alcun modo alla qualità dei titoli di studio ed agli anni dedicati all’istruzione. A parità di titolo di studio vi sono ampie differenze di reddito sia tra i dipendenti che tra i professionisti e, di contro, spesso persone con titoli di studio dell’obbligo hanno un reddito di molto superiore a quello dei laureati.
L’ampia circolazione delle informazioni sulle opportunità di lavoro e di studio, l’accesso allo studio, le possibilità di attingere ad esperienze di formazione professionale non è dunque un elemento chiave sia nel massimizzare il reddito del lavoro sia nell’orientarsi tra professioni e attività più o meno gratificanti per i singoli soggetti.
Anzi, la massa di informazioni e di opportunità dichiarate è essa stessa portatrice di problemi perché, in ragione della sua vastità, disorienta.
L’orientamento si propone come un aiuto per un percorso formativo di sostegno alle scelte e la relazione studente-orientatore si mostra in tutto il suo significato di attività pedagogica.
Questa funzione può essere svolta mediante l’utilizzo di supporti strutturali (sportelli informativi ecc) e tecnologici (internet, televisione, mass media) ma è sempre centrata sul rapporto di guida che l’orientatore cerca di proporre all’orientato.
L’orientamento appare allora come un percorso omogeneo che si accompagna alla totalità dell’esperienza scolastica e lavorativa, con la progettazione di interventi mirati a specifiche fasi della vita. Solo oggi si è giunti a considerare l’orientamento una attività non solo scolastica ma riferibile a fasi diverse e critiche della vita, ai momenti di cambiamento del lavoro, a momenti di aggiornamento, ecc.
Il primo tipo di orientamento, quello scolastico, è sempre stato implicitamente legato alla didattica disciplinare; a seconda delle abilità espresse dallo studente nell’una o nell’altra materia, si poteva prevedere una sua migliore riuscita in una ambito professionale o nell’altro. Ciò però non dava conto degli effettivi interessi dello studente, del particolare rapporto con la specifica didattica di un docente né delle molteplici forme mentali implicate in un ambito disciplinare. Inoltre è diventato sempre più elastico il rapporto tra disciplina studiata e professione effettivamente esercitata, con molteplici passaggi formativi estranei al curricolo scolastico specifico.
Il secondo tipo di orientamento, quello lavorativo, è invece sempre stato legato ai bisogni delle imprese ed alle attività di selezione del personale. I selezionatori tendevano (e tendono) a scegliere le persone più adatte ad un certo tipo di lavoro. Di contro i soggetti sottoposti a selezione desiderano ottenere quel tipo di lavoro, indipendentemente dal fatto che ne abbiano o meno titolo e capacità, e, di conseguenza, si mostrano più affini possibile alle aspettative dei selezionatori.
C’è l’interdipendenza e la non correlazione tra questi due aspetti? L’orientamento è sussidiario alla didattica o è assolutamente legato alla realizzazione nel mondo del lavoro? Vedremo quanto e come si possono correlare i due aspetti ponendosi in una prospettiva doppia di orientamento, ovvero cercando di capire quali siano gli interessi e le motivazioni del singolo ma anche quali siano le sue effettive potenzialità collegate alle opportunità del mondo del lavoro.
Prima di entrare nella prospettiva di un orientamento semplice ed efficace si deve però avvertire della necessità di valutare gli interventi orientativi moderando due estremi concettuali difficilmente integrabili tra loro. Nel discutere di valutazione dell’orientamento si è oggi di fronte a soluzioni “autovalutative” e autonomamente responsabili, oppure a soluzioni “di controllo” centrate sull’intervento di specifici enti e professionisti. Raramente però si pone il problema di quali siano gli indicatori sulla base dei quali definire la qualità degli interventi. Correttezza delle procedure e delle “rendicontazioni contabili” oppure significatività degli interventi e centrata sul racconto delle esperienze?
Come vedremo un processo di orientamento semplice ma efficace parte proprio dalla ricognizione degli indicatori per valutare sia i soggetti destinatari dell’orientamento stesso sia del processo di realizzazione dell’attività orientativa.
Dov’è che i progetti di orientamento attuali non funzionano?
Se andiamo a studiare i progetti ministeriali e cerchiamo in essi un errore o qualche lacuna, non ne troveremo perché contengono al loro interno una strutturazione di pensiero e di attività da riuscire a coprire tutto ciò che si considera utile per un percorso di orientamento. In questo senso sono autoreferenziali e la stessa valutazione è autoreferenziale.
Ma perché, se pur logicamente e analiticamente indistruttibili, e dunque meritevoli di rispetto e di inevitabile accordo, lasciano in tutti coloro che li incontrano una malcelata sensazione di inefficacia e di inefficienza? Perché all’atto pratico lasciano sistematicamente spazio alle critiche di coloro che ritengono inutili questo tipo di attività?
Oppure perché la loro attuazione ci fa sempre pensare ad un buon prodotto ma privo di quella che noi definiamo qualità?
Abbiamo già detto che non si può rispondere a questo accusando la progettazione di poca scientificità o di superficialità o eccessiva semplificazione. La risposta va cercata altrove.
Per maggior precisione, la risposta va cercata nell’orizzonte entro cui si collocano. In queste progettazioni, si cerca l’impeccabilità logica per dare soluzione a tutte le problematiche che si intrecciano nell’orientamento. Si considerano e si analizzano (proponendo soluzioni) tutti i tipi di bisogni educativi ed orientativi espressi dagli uomini. Non si considera però l’uomo come persona. Si produce un insieme di attività che deve essere una sorta di terapia polifunzionale e universale.
Non ci si chiede di cosa ha bisogno Marco. Nella sua specificità che è sensazione, cuore, anima, o spirito, e cioè ermeneutica ed epistemologia dell’umano. Ermeneutica perché è rilettura della sua storia entrando nel suo punto di vista, come se l’orientatore fosse lui: la persona da orientare; Epistemologia perché l’orientamento è co-costruzione di significato.
Per comprendere meglio i fondamenti di questa riflessione, dobbiamo però aprire alcune importanti digressioni: una relativa all’idea che si ha dell’uomo, un’altra relativa al concetto strutturalista della complessità ed infine quella relativa al limite del concetto di responsabilità educativa.
Un’idea di uomo
Il ritrovato illuminismo romantico che si è affermato conseguentemente all’esplosione culturale del sessantotto, ha portato oggi allo sviluppo di un grande flusso culturale[1], tanto che si è centrati sull’irriducibilità dell’uomo e della sua infinita complessità. Si respinge infatti, a volte aprioristicamente, qualsiasi idea che possa ricondurre gli individui ad alcune caratteristiche comuni.
E’ un’idea che spesso trova nella sua volontà di distinzione un paradosso interno per cui arriva a pensare che tutti siano ugualmente dotati. Intendendo con questo che chiunque possa fare qualsiasi cosa, in qualsiasi contesto, allo stesso livello di efficacia e di efficienza di qualsiasi altro. In sé, questo paradosso creativo porta alla dispersione e all’incapacità di trovare le traiettorie principali o i valori dentro una riflessione.
Se questa idea contiene una parte di verità, è anche vero che contiene una parte di errore. Verità perché in effetti l’individuo è portatore di una sua unicità, errore perché comunque l’uomo, come specie è uguale in tutte le sue differenziazioni culturali, fenotipiche, genotipiche e sociali[2].
Siamo dunque tutti uguali? Dobbiamo essere tutti uguali? Oppure siamo infinitamente diversi?
La soluzione si trova nella differenziazione dei campi di pertinenza di queste affermazioni.
Siamo tutti uguali in riferimento ad alcune caratteristiche biologiche e psico-fisiche che ci mettono in grado di vivere potenzialmente e di possedere simili dimensioni caratterologiche, simili disposizioni e magari simili abilità.
Siamo differenti, ed ognuno è portatore della sua specialità per ciò che riguarda la modulazione di queste caratteristiche comuni, le infinite miscellanee di disposizioni possibili, l’intensità e la quantità delle dimensioni caratterologiche, i significati che esse possono assumere in relazione alle scelte personali e dunque ai contesti, ambienti, gruppi sociali in cui si manifestano.
E’ dunque sulla base di queste ricorrenze che possiamo individuare dei percorsi specifici di orientamento: se voglio avere un ruolo nello sviluppo di una persona devo essere consapevole del bisogno di proporgli qualcosa di mio, in cui credo, a cui punto, in maniera autentica e al contempo rendendomi capace di discuterla, confrontarla ed esporla alla confutazione.
Questo permette di scegliere i propri percorsi, non più in una impostazione maternalista entro la quale qualsiasi proposta viene imposta perché presa “per il tuo bene”, rendendo nebulosa e non oggettiva l’analisi dei dati da parte di chi sceglie ma attraverso la consapevolezza della necessità dell’educazione, e dunque dell’orientamento, di essere propositiva.
Il paradigma della complessità
La visione strutturalista si pone l’obiettivo di descrivere e di ricomporre ad unità tutto ciò che si deve comprendere, cercando una soluzione solida, analitica e certa. Cerca, mediante la costruzione si sistemi o strutture sempre più complessi di avere il controllo di una realtà.
Insegue due fantasmi.
Il primo è l’idea che il processo di complessificazione possa un giorno avere fine. Lo sviluppo della scienza ci impone l’intuitiva confutazione di questo punto.
Il secondo è che presume, mediante questa ricerca di controllo, di perdere qualsiasi intenzione e capacità manipolatoria. Due ordini di motivi ci permettono di capire che un sistema di questo tipo diventa nei fatti manipolatorio.
Il controllo, se esasperato, è sempre portatore di una certa potenzialità di manipolazione. L’idea di uscire dalla manipolazione mediante un maggior controllo è di per sé illusoria. Illusoria perché per avere il controllo su me stesso o sugli eventi devo praticare una forzatura (che è l’attribuzione di un significato falsato ad un oggetto, e dunque una forma di manipolazione) rispetto ai significati di una realtà che trova la sua completezza ed il suo senso solamente nella mediazione tra certezza ed incertezza.
Ancor di più, il controllo esterno impone un alto controllo interno. Il controllo interno impone l’automanipolazione volta alla sublimazione, rimozione o negazione di alcuni impulsi autentici. Se dunque non si è autentici con sé stessi, non lo si è con l’esterno. Se non si è autentici con l’esterno, si perde la capacità educativa.
Sicuramente non saremo instradanti o direttivi nella relazione d’orientamento, ma se seguiamo questo processo la nostra attività avrà un altra serie di problemi e di motivi di inefficacia.
Cade nell’indifferenza e nell’inutilità dell’intervento in quanto lo stesso diventa analogico, asettico e impersonale, in alcuni casi manipolatorio perché falsificante. Infatti l’intervento può essere utile solo in alcuni casi ed in altri, pur apparendo utile, sarà in realtà dannoso perché riconfermante un copione.
La complessità dell’uomo richiede di riuscire a vederlo con un passaggio ad un livello più alto di semplicità che contempla la sua incertezza e la sua instabilità.
S. Conger, nella sua relazione presentata al IV Congresso Nazionale di Orientamento alla scelta, parla di operatori di orientamento come “piloti nel caos”, aprendo una stimolante riflessione sulla necessità di contemplare in noi stessi una forte presenza di incertezza. L’orientatore deve, oltrechè possedere, essere in grado di trasmettere flessibilità come unica strategia di coping per l’inevitabile incertezza con cui dobbiamo ogni giorno confrontarci.
Un agire orientativo non manipolatorio deve condurre alla libera capacità di scelta attraverso l’esercizio della responsabilità educativa.
…sul concetto di responsabilità educativa e sulla dichiarazione d’intenti.
I problemi della programmazione e della progettazione dell’orientamento nell’ottica attuale rischiano di falsificare i risultati dei percorsi e di snaturarne il senso, diminuendone l’efficacia e l’efficienza.
Alle spalle infatti di un certo progetto educativo o di orientamento o di qualsiasi altro ambito dell’educazione, c’è sempre una relazione tra l’educando e l’educatore, tra l’orientando e l’orientatore spesso viziato dalla paura di essere manipolatori e condizionanti o dalla superficialità di essere instradatori. Questi sono i due risvolti negativi della complanarità e asimmetria[3]. Complanarità in quanto i due soggetti sono umanamente sullo stesso piano ed in quanto la disponibilità a mettersi in gioco deve essere reciproca, asimmetrica perché il peso delle braccia della bilancia è inevitabilmente differente.
Questo fa si che all’interno di queste relazioni non ci possa essere arbitrarietà da parte di nessuno dei due soggetti, né autoritarismo da parte dell’educatore. L’assenza di autoritarismo non vuol dire che l’educatore debba però non essere fermo e deciso su ciò che egli ha valutato essere importante per il percorso del discente.
Proseguendo nell’analisi entriamo più specificatamente al concetto di responsabilità: la responsabilità può inizialmente essere distinta in due campi di pertinenza. La responsabilità rispetto a se stessi e la responsabilità rispetto agli altri. La prima riguarda l’onestà intellettuale con cui ci poniamo e la serietà nelle nostre valutazioni che devono essere comunque orientate alla soluzione del problema dell’educando. La seconda, più difficile da definire, si collega all’idea che abbiamo circa la nostra influenza sugli altri.
Nell’ottica dei progetti, è questa seconda accezione di responsabilità a creare maggiori problemi. Ad essa si lega l’obbligo morale di non manipolare e di non condizionare nelle scelte lo studente o in generale il fruitore dell’attività. Indiscutibilmente giusto.
Ma cosa vuol dire non essere manipolativi? E fino a che punto siamo responsabili nei confronti dell’altro all’interno di una relazione d’orientamento?
Siamo responsabili solo nella misura in cui siamo in grado di proporre un’alternativa di vita credibile, solida e onesta al soggetto in formazione. Spesso però cadiamo preda di un errore molto rilevante.
A volte si sottovaluta una precisa caratteristica delle relazioni educative: ossia la scelta che l’educando, comunque, compie. A volte sottovalutando la capacità di scelta dell’educando. A volte sopravvalutando noi stessi.
Il risultato di questo atteggiamento, che si muove dalla volontà di non-manipolazione e giunge ad una eccessiva espansione dell’area della responsabilità verso gli altri porta inevitabilmente e paradossalmente alla manipolazione. Riuscire a essere non manipolatori richiede questa ferma consapevolezza.
L’educando ( a meno che non sia un soggetto non in grado di intendere e di volere, ma non è questo il caso della relazioni d’orientamento), effettua una scelta. La sua scelta è libera se l’offerta che gli viene fatta è sincera e valutabile e onesta, non se è imparziale e calcolata. L’imparzialità, la razionalità, la logicità e la spersonalizzazione del consiglio o del suggerimento di orientamento non sono in sé garanzia di non-manipolazione. Arriviamo così a capire cosa intenda con il concetto di “dichiarazione d’intenti” nella relazione educativa.
Un intervento di orientamento deve possedere le stesse caratteristiche di una relazione di consulenza educativa, anche se probabilmente cambieranno gli oggetti e i temi dei colloqui.
Ci sarà un’inevitabile disparità di conoscenze e di linguaggio, ma dovrà esistere una complanarità sul piano umano. Se questa base di partenza è accettabile (e credo che non possa non essere tale!), alcune altre considerazioni si possono fare sull’argomento…
Se infatti il mio valore umano è uguale al tuo, anche se sei un giovane di sedici anni, perché devo pensare che tu non sia in grado di scegliere se la mia proposta o il mio suggerimento siano per te considerabili? Perché devo credere di avere in te un peso così schiacciante?
Evidentemente mi ritengo ben più importante di te, e ritengo che tu non sia in grado di discutere le mie idee e soluzioni.
Questa non è più una relazione educativa. E’ un eccessivo allargamento della responsabilità che realmente abbiamo sugli altri che snatura il senso del supporto orientativo, in quanto si caratterizza come non autentico (in quanto non si è fino in fondo onesti con se stessi) ed in alcuni casi realmente manipolativo.
Mi si potrebbe a questo punto domandare: e se uno studente invece è condizionato da agenti esterni? Devo lasciarlo solo? Indubbiamente No. Il nostro ruolo è di aiutarlo a decondizionarsi. Ma non lo faccio evitando di prendere una posizione sentita e magari netta nei suoi confronti. Altrimenti non gli permetto di visualizzare nessuna alternativa al condizionamento. Dovrò anzi proporgli la strada per uscire, e motivarlo alla battaglia per la sua emancipazione. Ma la strada poi dovrà farla lui. La scelta, anche se deciderà di accettare il mio aiuto, sarà sua.
Non illudiamoci di poter influire così tanto sulle persone.
Essere responsabili di sé vuol dire anche comprendere che l’essere educatori, orientatori o formatori non ci rende più potenti. Ne fa si che la nostra influenza sociale aumenti, se non vogliamo che ciò succeda.
Vuol dire accettare che comunque siamo uomini in mezzo ad altri uomini, e rinunciare ai nostri poteri[4]…
Alcuni problemi aperti sull’orientamento
Altre questioni si impongono. Allo stato attuale alcune grandi dicotomie relative ai mondi dell’orientamento assumono particolare rilevanza per completare il quadro anche dal punto di vista della gestione dei progetti e delle amministrazioni.
Il coordinamento delle attività, è ad esempio un primo spartiacque: a questo livello, le soluzioni oscillano tra due estremi: da un lato le soluzioni interazionali tra soggetti (enti ed istituzioni) in sostanza autonomi, dall’altro le soluzioni gerarchiche e funzionalmente differenziate.
La circolazione delle informazioni sulle opportunità di lavoro e di studio è un’altra variabile. In prospettiva formativa è infatti un percorso da effettuarsi con il sostegno e nella relazione studente-orientatore, per far sì che da questo si possa ricavare materiale per la crescita, all’interno di un’ottica vocazionale della ricerca delle professioni. Al contempo, questa funzione può anche essere svolta mediante l’utilizzo di supporti strutturali (sportelli informativi ecc) e tecnologici (internet, televisione e quant’altro). A questo livello, viene anche da chiedersi se questo tipo di attività debba essere gestita e organizzata e quale sia il suo peso reale nelle attività di orientamento.
Un terzo nucleo problematico è la concezione che si può scegliere dell’orientamento e della strutturazione delle attività. Da un lato, una concezione che vede l’orientamento come un percorso omogeneo e che si accompagna alla totalità dell’esperienza scolastica e lavorativa, dall’altro, quella che potremmo definire “concezione critica” dell’orientamento, ovverosia quel tipo di impostazione che vede la progettazione di interventi mirati a specifiche fasi della vita.
Il problema della valutazione degli interventi orientativi, a cui abbiamo già accennato in apertura, è un ambito in cui si trovano due estremi difficilmente integrabili tra loro. Da un lato le soluzioni autovalutative e autonomamente responsabili, dall’altro le soluzioni di controllo centrate sull’intervento di specifici enti e professionisti di questo settore. Inoltre occorre una riflessione riguardo al problema di quali siano gli indicatori sulla base dei quali definire la qualità degli interventi. Correttezza delle procedure e delle rendicontazioni contabili oppure significatività degli interventi e centrata sul racconto delle esperienze?
Come individuare indicatori per la qualità degli interventi evitando di chiuderli in un controllo amministrativo?
Infine, la gestione dei processi e la progettazione delle attività. Autonomia responsabile e sussidiarietà nel rapporto tra Ministeri e Regioni e Province o una forte government per evitare il rischio di un eccessivo spontaneismo e la mancanza di professionalità?
Il rischio effettivo è che prevalgano alcune alternative in maniera tale da causare l’ascesa a fondamento dell’orientamento di alcuni enti o persone (ad esempio nel caso in cui la dicotomia tra le Regioni ed i Ministeri non si venisse a risolvere e rimanessero due enti orientativi distinti, con il passare del tempo si avrebbe un sopravvento di una delle due impostazioni), magari secondo logiche esclusivamente “strategiche”[5] per vantaggi personali o istituzionali.
A danno della qualità e della progettazione coordinata sulla base di una pluralità di voci e apporti.
Per quanto inevitabile e necessario sia scegliere un percorso oppure un altro, in un quadro plurale di voci e di possibilità, non bisogna dimenticare che il “target” dell’orientamento, è il giovane e/o lo studente, e la qualità in questa direzione è rappresentata dalla presenza di più alternative teoriche e pratiche.
La costituzione di un “fronte” nell’orientamento in cui si confrontino/scontrino due realtà distinte è l’ultima riflessione da aprire.
L’ipotesi, sostenuta da Messeri[6] è che le alternative più congrue, le soluzioni migliori, si addensino intorno a due “poli” d’opinione e che questi vengano successivamente raccolti da alcuni insiemi di istituzioni. Ciò potrebbe causare, oltrechè un’inutile competizione, un grave spreco di risorse sia economiche che umane. Infatti, anche nel caso in cui il fronte sia una fonte di dialogo e di confronto (magari all’interno di una suddivisione di competenze e sfere di influenza), l’esistenza di due “scuole” causerebbe una minore efficacia e aprirebbe uno spazio per la nascita di un’eventuale terzo mondo dell’orientamento (da intendersi come terza identità, non come gradino meno evoluto!). Senza ovviamente voler squalificare le attività delle agenzie private, che potrebbero diventare il terzo contesto orientativo, e la loro credibilità e la necessità della loro presenza, riteniamo inutile una così alta frammentazione nell’universo orientamento.
Le realtà dell’orientamento
Nello scenario attuale non esiste un ente istituzionalmente riconosciuto al ruolo quanto invece ogni ente e ogni istituzione si occupa di orientamento con responsabilità e funzioni riconosciute e non. Di conseguenza si muovono più o meno coordinatamente più istituzioni in parallelo tra loro; comuni, province, università, regioni e singole scuole, se pur in ottemperanza alla legge quadro 845/78 (che prevedeva i criteri in base ai quali i distretti e le regioni dovessero muoversi in accordo) sostanzialmente continuano ad operare dissociati, seguendo ciascuno i propri compiti istituzionali, “in assenza di utili ed economiche sinergie”[7].
Si deve purtroppo prendere atto del parziale insuccesso della direttiva ministeriale 486/97 sull’orientamento che, se ha dato il via all’attivazione di percorsi e alla sensibilizzazione verso il problema, non è riuscita a costruire quella rete che cercava tra i suoi obiettivi né quella necessaria cultura, almeno per ciò che riguarda le amministrazioni pubbliche.
Il contesto caratterizzato dalla crescente domanda, dalla latitanza di un chiaro quadro normativo, dalle distinzioni che concettualmente dividono l’orientamento in professionale e scolastico e la presenza di troppi enti che se ne occupano, fa si che si possano individuare almeno sette soggetti che nel territorio si occupano di orientamento:
o Servizi per l’orientamento professionale creati dalle Regioni, articolati in Centri di Orientamento ed in sportelli per l’Informazione (per inciso non uniformemente distribuiti nel territorio);
o gli Informa-giovani, costituiti dalle Province e dai Comuni o da consorzi di enti locali e Regioni, allo scopo di offrire ai giovani informazioni ad ampio spettro o consulenze;
o i Centri per l’Orientamento Universitario, presenti in ciascun Ateneo;
o i Centri di Iniziativa Locale per l’Occupazione (CILO), promossi dai Comuni, aventi funzioni di informazione, supporto tecnico per l’imprenditoria giovanile, azioni finalizzate al sostegno delle fasce meno favorite sul mercato del lavoro;
o i Centri per l’Informazione attivati dagli enti associativi (ACLI, COSPES, GIOC, CGIL, CISL, UIL);
o le agenzie private;
o le scuole di tutti i livelli.
Oltre ciò, si deve considerare un’altra forma di differenziazione che ancora non trova una soluzione; l’esistenza cioè di contrapposte iniziative, scollegate tra loro che oscillano tra gli interventi che potremmo definire “one-shot” ed i percorsi che all’interno delle istituzioni vengono ideati e perseguiti.
Altra problematicità è rappresentata dalla molteplicità di approcci sociologici e psicologici (che vanno dagli interventi informativi, agli interventi di sviluppo dell’auto-imprenditorialità, a quelli legati agli ambiti della definizione delle personali attitudini, capacità e competenze) e dalla mancanza di un coordinamento che permetta nella realtà dei fatti di concepire l’orientamento come processo costante nella vita dell’individuo.
C’è assoluto bisogno di una struttura di riferimento che dia un senso alle innumerevoli energie che vengono spese in questo settore (non è questo il contesto per aprire una discussione sulla validità delle varie tipologie di intervento), ma che carenti di un principio unificante, inteso come quadro normativo e come substrato organizzativo, perdono di efficacia anche nei casi in cui siano realmente buone.
1. L’Orientamento oggi e la qualità nella progettazione istituzionale.
1.1. Dove siamo arrivati?
La mancanza di una chiara riflessione sull’epistemologia dell’orientamento conduce a diverse opzioni ed ad altrettanti schemi di azione e di pratica sociale: gli psicologi parlano d’orientamento (e tra loro ogni corrente ha la sua teoria), i pedagogisti parlano d’orientamento (e tra loro le dovute distinzioni), i sociologi, gli psicologi sociali, gli educatori, gli insegnanti, hanno ciascuno una specifica visione del approccio orientativo, dei metodi e delle tecniche.
Ma, come definire oggi l’orientamento? Su una cosa tutti sono d’accordo: l’orientamento è un processo che si protrae lungo tutto l’arco dell’esistenza umana e parimenti, in una società come la nostra connotata da un continuo bisogno di scelte, giuste e subito, e di continuo aggiornamento culturale, tecnologico e disciplinare, un bisogno. Altresì l’orientamento prende, e deve prendere, mille forme differenti, ed esprimersi nei più differenti settori (scuola, extrascuola, ambiti professionali, aggiornamento, famiglia, riqualificazione professionale e via dicendo).
Infine, l’orientamento non viene più considerato come un processo scindibile in più settori (ad esempio la distinzione tra professionale e scolastico) in quanto le due dimensioni “classiche” sono considerate facenti parte di un percorso unitario all’ interno del quale l’individuo, mediante l’istruzione, l’educazione, la formazione disciplinare, personale e in un secondo tempo, la specifica formazione professionale, diventa padrone della progettazione del proprio percorso di crescita personale, sociale e professionale.
Nella ricerca pedagogica appaiono alcune importanti definizioni: Scurati individua nell’orientamento una specifica dimensione della ricerca e dell’approccio pedagogico giungendo a definirlo, in una prospettiva dinamico- interazionista “un processo mediante il quale aiutare l’individuo a costruirsi una percezione coerente delle sue innumerevoli azioni, reazioni, effettive o concepibili; una percezione coerente dell’evoluzione che egli intravede nei loro effetti”[8]. Altresì lo definisce come un percorso mediante cui, attraverso una fase di espressione della consapevolezza di sé (definita “concetto di sé”), si passa da una situazione di “immagine di sé” ad una di “progetto di sé”.
Viglietti aggiunge l’idea di orientamento come “un processo continuo ed un modo specifico di realizzare la persona nelle sue potenzialità preparandola a motivare scelte professionali nei vari stadi del suo sviluppo, sia nella giovinezza che nell’età adulta”[9].
Per Macario l’orientamento “viene concepito come aiuto nella crescita della persona. Crescita che si caratterizza soprattutto nel costruire uno stile di vita e nello stesso tempo nello scegliere una professione che permettano un vivo, responsabile, costruttivo, personale e soddisfacente inserimento nella comunità familiare e sociale”[10].
Da ciò ne consegue che la ricerca teorica sull’orientamento si muove lungo due assi essenziali: lo sviluppo della persona nei termini dell’individuale identità e specificità e quello della relazionalità e della socialità ed è sollecitato dalle problematiche legate alla dispersione scolastica, all’abbandono, alla non-continuità tra scuola e lavoro.
1.2.Pedagogia, educazione ed orientamento.
Rimane purtroppo poco chiaro il ruolo dell’azione e della ricerca pedagogica e della filosofia dell’educazione sull’orientamento; in effetti, la comprensione dei propri meccanismi interni, la costruzione di una propria identità, la cognizione delle dinamiche relazionali e quella che potremmo definire “qualità” della propria esistenza, non sono specificità pedagogiche. Sono indubbiamente motivo di ricerca pedagogica ma sono temi affrontati anche da altre scienze.
La specificità pedagogica nell’orientamento sta nell’orizzonte axiologico (più specificatamente campo della filosofia dell’educazione[11] e della pedagogia) e nella progettazione conseguente ad esso che, nel rispetto della diversità d’opinione e di scelta delle persone, deve essere presupposto nei percorsi di formazione. Orientamento centrato su quei valori che possiamo definire “socio-solidali”, che vanno al di là delle opinioni, delle idee politiche, delle religioni, delle credenze e di qualsiasi altra “mappa cognitiva[12]”, ma che sono in grado di permettere all’uomo di condurre un’esistenza realmente “umana”.
Alla filosofia dell’educazione della pedagogia spetterà il compito di riconoscere la solidità e la democraticità, e quindi il rispetto del valore della persona, delle teorie pedagogiche.
Il rischio altrimenti è quello di centrare l’obiettivo orientamento in un'unica dimensione, cioè quella dello sviluppo del sé. Con il risultato, se non teniamo fermi certi obiettivi a mio parere imprescindibili, di sviluppare competenze, auto-imprenditorialità, consapevolezza del sé ed altre utilissime capacità, perdendo di vista il fatto che l’individuo, anche se alcuni l’hanno sostenuto (Hobbes, e tutte le impostazioni sociologiche, economiche e di altri settori che si pongono in un’ottica “individualistica”[13]), non è atomizzato ma ben radicato in una struttura sociale che gli impone una capacità di collaborazione[14]. Si tratta di cercare nell’orientamento l’obiettivo specificatamente pedagogico del miglioramento dell’uomo nella sua vita interiore ed in quella di relazione. L’obiettivo è l’aristotelico comportamento “virtuoso”.
Dalla filosofia alla psicologia, dalla sociologia alla biologia, sono state da sempre sostenute tesi individualistiche. In questo senso il dibattito è diventato sterminato, Nietsche e Freud[15], Jonas e Rawls[16], Nozick[17], il liberismo di Smith, Barnard[18] si sono contrapposti tra cooperazione ed individualismo[19]. Ma non è utile ai fini della riflessione svolgerne il dibattito in quanto il senso delle attività educative e anche di orientamento sta proprio nella scelta del versante della collaborazione e del miglioramento dell’uomo in senso anche sociale.
Diversamente, non trova più senso la pedagogia né l’educazione (se non intesa come mezzo per mantenere e riprodurre il modello pre-esistente, in un’ottica di controllo), mentre mantengono il loro ruolo la psicologia, la psicologia sociale e le altre scienze dell’educazione. In questa dimensione si perderebbe il senso nell’orientamento, di un percorso socialmente utile, ma si tornerebbe in una dimensione individualistica, auto-referenziale delle relazioni, dei legami, della collaborazione, della crescita e dello sviluppo dell’individuo.
Orientare deve voler dire aiutare l’uomo (lo studente, il lavoratore, il cittadino, il cliente, …) a svilupparsi sia nel versante dell’utilizzo delle proprie potenzialità che lungo quello delle relazioni[20] .
Pedagogia, educazione ed orientamento sono inevitabilmente piani intersecati. La pedagogia è riflessione sull’educazione e per l’educazione, l’educazione e l’orientamento sono due piani di attività facenti parte l’uno dell’ altro. Da un lato perché non può esistere educazione priva di una direzione e di una progettualità, dall’altro perché l’orientamento non può esimersi dal suo valore educativo in quanto dimensione della crescita dell’individuo.
1.3. La natura dell’orientamento.
La ricerca sull’orientamento è giunta oggi a uno stadio molto avanzato, tant’è che il problema viene ormai affrontato da numerosi punti di vista che poi vanno a sovrapporsi nella realizzazione pratica degli interventi.
Solitamente oggi per orientamento (professionale o scolastico che sia) si considerano tre modelli di intervento: orientamento come intervento informativo, come intervento di diagnosi psico-attitudinale e come interazione formativa.
L’orientamento informativo si caratterizza come un intervento mirato ad accrescere la conoscenza dei soggetti riguardo i contesti o le possibilità di scelta. Informazioni sui corsi di laurea, sulle strutture se consideriamo l’orientamento scolastico; aggiornamento se consideriamo quello professionale.
L’orientamento psico-attitudinale è invece un intervento (o una serie di interventi) volto all’individuazione ed alla presa di coscienza da parte dei soggetti di quelle che sono le loro attitudini, le loro capacità e le loro competenze[21], nell’ottica di scegliere percorsi consoni a personali modi di essere nel caso di interventi inseriti in contesti di orientamento scolastico, in quella invece di ciò che si dice essere l’uomo giusto al posto giusto[22], e la capacità di definire un progetto di vita professionale se consideriamo il versante della ricerca del lavoro(e quindi interventi come la riqualificazione del personale, bilanci delle competenze, selezioni e apprendistato ecc.).
Vi è infine la terza forma, che negli ultimi anni va aumentando il suo spessore, definita orientamento formativo[23].
In questo caso, l’intervento orientativo assume la forma, come abbiamo definito prima, di un processo che si pone l’obiettivo di promuovere la crescita dello studente (poiché in questo caso si parla solo di orientamento scolastico, anche se a mio parere la netta distinzione, la linea di demarcazione fra l’orientamento scolastico e professionale che fino agli anni ’80 era considerata esistente ha perso molto del suo senso), le conoscenze (informazione e istruzione), la consapevolezza delle proprie competenze, abilità e aspirazioni ed infine lo sviluppo armonico del sé, del rapporto con gli altri e con il modo. E’ però da distinguersi con la relazione d’aiuto in quanto il protagonista del percorso rimane il soggetto in formazione.
Secondo Lorenzo Fischer l’obiettivo consiste nella “necessità di concretizzare, in tutti gli studenti e ai diversi livelli, i presupposti cognitivi e gli atteggiamenti che risultino idonei a costituire una capacità autonoma di scelta, gestendo nel modo più attivo possibile i vincoli della realtà. Occorre cioè passare ad una concezione dell’orientamento strettamente connessa all’intero arco dell’esperienza formativa…”[24].
Ad ampio raggio l’obiettivo di questo modello di intervento è la prevenzione dell’abbandono, della dispersione scolastica a delle frustrazioni individuali.
In quest’ottica, se pur non si perde la consapevolezza del bisogno informativo, ci rendiamo perfettamente conto di quanto essa sia nella realtà dei fatti un problema marginale. Il fulcro torna ad essere la persona, le sue potenzialità ed i suoi bisogni.
Al di là invece delle distinzioni relative ai modelli di intervento orientativo, dobbiamo cercare di trovarne una definizione che ne rappresenti l’orizzonte concettuale in cui ci stiamo muovendo.
L'orientamento è una tensione verso una determinata direzione per trovare tra quelle possibili quella giusta, è promozione della crescita umana, è il raggiungimento di un'autentica libertà e capacità decisionale e personale, è collaborare con il giovane, attivo e protagonista, nel processo per l'elaborazione di un progetto. Non sempre la scelta è facile in ragione della bassa competenza dei soggetti ad individuare attitudini, interessi e valori che il giovane avrebbe dovuto acquisire durante lo sviluppo evolutivo.
Spesso l’orientamento è richiesto all’ultimo momento per riuscire a fare la scelta migliore. Occorre invece che la scelta si ponga all'interno di un processo e non sia un fatto isolato. L'aiuto orientativo significa aiutare un giovane a condursi. In questo senso orientamento è smontare le idee sbagliate che i giovani hanno del lavoro e della professione (spesso ingannati dalle immagini televisive e dai giornali), spiegare il senso e il metodo di lavoro più adatto alle loro attitudini personali, aiutarli ad trovare in loro stessi le personali capacità ed i punti di forza ed infine farli confrontare, possibilmente in un gruppo di incontro, con adulti che spieghino il loro mestiere, le loro difficoltà e le loro soddisfazioni e con i loro pari.
Spesso è anche scomporre equilibri troppo rigidi ed essere provocatori portatori del dubbio, perché sulla base di questo possano essere messe in crisi, ed eventualmente rafforzate le decisioni prese dagli studenti.
Ma l’orientamento riguarda anche il vissuto scolastico. Il disagio ed il disamore nei confronti della scuola vanno naturalmente di pari passo e un intervento orientativo può aiutare gli studenti sia sul piano cognitivo per reinterpretare la loro condizione e "fare il punto" sul loro percorso, sia sul piano emotivo per analizzare se il cambiamento in atto o possibile è trattenuto da legami di amicizia o impedito da paure nell'incontro con altri.
L'orientamento educativo investe infatti il soggetto nella sua totalità senza parametrarsi semplicemente intorno alle sue predisposizioni professionali o di apprendimento. L'obiettivo pedagogico ed educativo dell'orientamento è intravedere il percorso di formazione possibile, ben sapendo che la collocazione professionale e lavorativa è frutto di un insieme di fattori trasversali che non sempre appaiono logici a prima vista.
Si deve considerare l'orientamento come un processo educativo che tende a far emergere sia le dimensioni dello sviluppo della persona, sia l'orientamento alla professione, sia le capacità di scelta e decisione del singolo soggetto.
Far questo, significa altresì riconoscere la specificità pedagogica e la conseguente necessità di un orizzonte e di una ricerca pedagogica e filosofico-educativa sui temi dell’orientamento.
Gli assi dell’attività orientativa
Su che cosa deve fondarsi dunque un progetto d’orientamento per far sì che rispecchi tutte le caratteristiche fin’ora elencate? Attraverso l’analisi storica dello sviluppo del concetto di orientamento aggiungeremo un’altro tassello al nostro mosaico…
Escludendo per ovvie ragioni di etica e filosofia dell’educazione le impostazioni di selezione del personale impositive, per le quali , a seguito di una diagnosi psico-attitudinale, si dirigeva verso una specifica mansione il lavoratore, la prospettiva storica delle teorie sull’orientamento ci propone alcuni grossi nodi concettuali particolarmente rilevanti per la costruzione degli interventi orientativi. Come è del resto noto, la comprensione degli eventi segue alcuni percorsi ricorrenti. Ad un primo approccio, si osserva un certo aspetto del problema. In seguito, intravedendo un altro aspetto si tende a scartare il precedente. Il meccanismo si ripete fino ad un certo momento in cui si riesce ad avere una visione olistica della questione.
Così si muove anche la conoscenza sulle problematiche educative, così si è mossa la ricerca sull’orientamento.
Negli anni trenta, l’orientamento era una forma conseguente alle diagnosi psico-attitudinali. Si centrava sulle attitudini fisiologiche e psico-fisiche degli individui.
Successivamente si è affermata un’impostazione di tipo caratterologico-emozionale, per la quale il perno diventavano le caratteristiche caratterologiche.
Una visone già più ampia si raggiungeva quando si affermava la visione clinico-dinamica che invece andava a considerare le motivazioni, le inclinazioni e le aspirazioni degli individui, tralasciando però le considerazioni legate all’inserimento in un contesto. Considerazioni che si dipanano lungo due assi: un filone etico ed uno ecologico.
La scelta di un percorso deve infatti avvenire sulla base anche di motivazioni e di considerazioni legate all’orizzonte etico e sociale di una professione. Ad esempio, la scelta di un mestiere educativo deve contemplare in chi la persegue la presenza di motivazioni socio-solidali o di cura per gli altri. Caratteristiche essenziali e determinanti per chi si occupa di educazione.
Altre considerazioni invece lungo il versante “ecologico”. Il contesto di inserimento in termini di territorio, opportunità e possibilità legate all’ambiente sociale, culturale ed economico sono dati da considerare nell’individuazione di un percorso formativo.
Tornando sulla metafora della crescita della conoscenza, è tempo ormai di uscire da una visione dell’orientamento parziale per pervenire ad una consapevolezza olistica.
Orientamento è diagnosi psico-attitudinale, è analisi caratterologico-emotiva, è visione clinico-dinamica così come ecologica ed etica. E’ altresì informazione circa i percorsi possibili e necessari per il raggiungimento degli obiettivi e fruibilità delle stesse.
Costruire attività secondo questi parametri è fare orientamento formativo. Tenendo presente che, caratteristica della formazione è lo sviluppo completo ed armonico della personalità.
Far questo vuol dire aggiungere alle considerazioni fin’ora espresse alcune altre.
Se l’individuazione di elettive disposizioni e abilità, e le considerazioni sulle aspirazioni sono da vedersi nell’ottica del raggiungimento del percorso adatto o voluto dello studente, entrambe queste impostazioni rischiano di essere dannose se non supportate da approfondimenti.
Nel primo caso infatti si deve considerare che la riuscita professionale è seconda alle disposizioni ma anche alla completezza umana degli individui. Completezza raggiungibile solo se la ricerca professionale viene affiancata da un percorsi di liberazione dell’identità dai copioni elettivi di relazione.
Nel secondo caso è invece da mettere in relazione con i meccanismi di scelta. Su cui apriremo una necessaria digressione.
Un’ultima considerazione: l’orientamento è la risultante della sovrapposizione di tutti i piani che stiamo affrontando e tra di essi non c’è mai nella realtà netta distinzione, li dividiamo e ne smembriamo le caratteristica per semplificare la trattazione e la conseguente comprensione da parte di chi scrive e di chi legge.
1.4. I principali modelli Europei nelle diverse configurazioni di ordinamento scolastico
Una premessa
In termini istituzionali le attività di orientamento non sono ancora una realtà integrata ed omogenea in Europa, tant’è che a seconda dei vari stati le differenze sono ben evidenti.
In generale, escluse l’Italia e la Grecia, tutte le nazioni Europee prevedono l’esistenza, come consulenti esterni o come dipendenti diretti delle istituzioni scolastiche, di psicologi d’istituto (con funzioni spesso orientative) o di veri e propri consulenti d’orientamento anche se le funzioni e la profondità delle collaborazioni con questi variano in maniera sensibile.
Il problema dell’orientamento è comunque considerato in tutte le strutture scolastiche europee e, anche se in molte lo è solo a livello informativo, è ormai patrimonio culturale comune considerarlo un utile e necessario strumento educativo.
Austria, Francia, Belgio, Germania, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Scozia e Spagna, prevedono, in forme contrattuali differenti funzioni specifiche e obbligatorie relative all’orientamento nelle sue molteplici dimensioni. In alcuni casi come la Francia e il Lussemburgo, l’attività è istituzionalizzata ed esistono specifiche figure interne alla scuola di “consiglieri d’orientamento” che svolgono funzioni orientative sia in una prospettiva educativa e sociale, sia in prospettiva professionale.
A seguito si riportano i temi e le forme caratterizzanti le attività di orientamento nei principali stati in cui il problema è stato affrontato.
Inghilterra
L’offerta di interventi in Inghilterra risulta essere molto differenziata, sia per la variabilità dell’organizzazione pubblica e privata, sia per la differenza dell’utenza cui si rivolge. In effetti all’orientamento viene attribuito un largo peso e una ampiezza non indifferente sia per ciò che riguarda il problema dell’abbandono sia per la qualificazione delle potenzialità degli studenti sia per ciò che riguarda direttamente il profitto scolastico.
In queste direzioni gli strumenti identificati come indispensabili sono: l’aggiornamento dei curricoli; un più puntuale monitoraggio della qualità della offerta formativa attraverso l’utilizzo di test su scala nazionale in determinati momenti della carriera scolastica; un potenziamento dei servizi di orientamento anche all’interno del sistema scolastico.
Nel 1997, L’Education Reform Act stabilisce il diritto dei giovani ad usufruire di interventi di orientamento dall’età di 11 anni fino ai 18, ed in particolare in tre momenti chiave della crescita di ogni individuo:
a) tutte le scuole devono fornire un servizio di orientamento per i giovani dai 14 ai16 anni;
b) tutte le scuole ed i college di istruzione secondaria superiore devono collaborare con i consiglieri di orientamento fornendo loro tutte le informazioni importanti sui singoli allievi a facilitando gli incontri tra studenti ed allievi;
c) il ministro si impegna ad estendere i programmi di orientamento anche alla scuola secondaria.
Infine, nel progetto si specificava il senso della “career education” (ovvero l’equivalente del nostro termine “orientamento” anche se in senso più ampio): “career” implica la conoscenza e la comprensione di qualsiasi forma di formazione, impiego, occupazione o corso di studi; “career education” significa l’educazione finalizzata a preparare le persone a prendere decisioni riguardanti il proprio futuro e aiutarle a rafforzare e conseguire le scelte definite[25].
Francia
Già dal 1928 in Francia si comincia a parlare di orientamento, momento in cui viene istituito L’Istituto nazionale per la formazione dei consiglieri di orientamento e con la finalità di promuovere la ricerca nel campo dell’orientamento.
Dal 1971 vengono invece costituiti i CIO (Centri di informazione e orientamento) che ancora oggi risultano essere una struttura centrale nel campo dell’orientamento in Francia, aventi come compito l’assicurazione di informazioni e di orientamento all’interno di un processo educativo basato sull’osservazione continua.
Nel 1989 viene inoltre sancito, nella legge generale sulla scuola, il diritto di orientamento per tutti gli studenti.
Grande attenzione viene rivolta a tutte le attività che mirano a favorire il successo scolastico (principalmente individuato nell’alto rendimento nelle materie fondamentali); per questo motivo la responsabilità principale nei processi di orientamento è attribuita al ruolo degli insegnanti sia poiché spettanti il compito principale della programmazione didattica, sia essendo il consiglio di classe il formulatore delle proposte di orientamento, avendo i consiglieri di orientamento un ruolo sostanzialmente consultivo.
Germania
Il sistema d’orientamento tedesco prevede una netta divisione tra orientamento scolastico e professionale, peraltro amministrati da organi differenti: da un lato quello scolastico gestito direttamente dalla giurisdizione dei singoli Länder, dall’altro il governo federale che amministra i servizi di orientamento professionale.
In prevalenza, alla dimensione educativa dell’orientamento, gestita da specifici centri che vedono la collaborazione di psicologi e docenti, viene attribuito un ruolo centrale nell’attività degli stessi insegnanti; in questo senso sono evidenziati come primari due compiti: in primo luogo la differenziazione e l’individualizzazione dell’attività didattica, in secondo l’innovazione in campo educativo. In linea generale comunque l’impostazione tedesca predilige la dimensione informativa dell’orientamento inserita in un contesto in cui diventa fondamenta e per la scelta dei percorsi di professionalizzazione. A tal scopo e infatti molto usato un database dettagliatissimo cartaceo ed informatico sulla formazione iniziale e continua (KURS). L’unico neo del sistema rimane la precocità della scelta da parte degli studenti che peraltro risulta altamente direttiva.
1.5. L’orientamento in Italia.
Con l’intrecciarsi dei problemi e con l’approfondimento della ricerca, e, forse anche con la presenza del motore economico che richiede formazione sempre più competitiva, aggiornata e che ha sempre meno bisogno di manovalanza non specializzata[26] e che parimenti costruisce modelli d’interazione sempre meno in grado di garantire incontri significativi e costruttivi tra gli individui, il problema dell’orientamento è andato a ricoprire sempre maggiore importanza. Passando da una situazione in cui lo si considerava scarsamente utile[27], almeno per la maggioranza dell’opinione pubblica nazionale e mondiale, si è arrivati ad una in cui è diventato forse uno dei più importanti settori d’intervento sia a livello individuale che sociale, se davvero vogliamo evitare un ulteriore disumanizzazione dell’esistenza.
Il progetto del Ministero
Il Ministero della Pubblica istruzione, all’interno del “Progetto Orientamento” presentato nel 1996, comincia a tracciare due dimensioni fondamentali per lo sviluppo delle attività. Una prima, nella quale l’orientamento viene messo in risalto come necessità della nostra struttura sociale, in quando unico mezzo per la risoluzione di alcuni grossi problemi su cui ampia è la letteratura (e dunque, i problemi di dispersione scolastica, del prolungamento anormale degli studi, e non ultima della qualità dell’apprendimento e delle relazioni nella scuola), una seconda in cui invece si metteva in risalto il ruolo che questo tipo di attività avrebbero potuto avere nel processo di cambiamento e di innovazione politico e amministrativo delle istituzioni pubbliche e private italiane; questa dimensione, è in effetti un vettore che possiamo leggere in due sensi: come la necessaria innovazione per l’orientamento e come l’orientamento alla maniera di casus belli per l’innovazione delle strutture pubbliche.
Al contempo si mettevano in risalto due nodi problematici: la frammentazione delle competenze fra strutture, interna ed esterna ed il carattere “episodico” delle attività di orientamento effettuate, a cui si legava la caratterizzazione di queste solo in un ottica di recupero o, al meglio, di prevenzione delle situazioni negative o, nella peggiore delle ipotesi come forma di marketing.
Si mettevano dunque in risalto alcuni filoni di iniziativa per lo sviluppo consapevole ed efficace delle attività di orientamento:
- il bisogno di una riflessione teorica sulle concezioni dell’orientamento prevalenti fino ad oggi, per l’individuazione dei corretti presupposti su cui fondare concrete linee d’azione;
- la realizzazione nelle scuole di alcune attività fondamentali, che permettessero di soddisfare alcune esigenze di informazione e di orientamento dei giovani, e di acquisire elementi per una verifica degli orientamenti teorici;
- la realizzazione di ricerche-azione per l’acquisizione degli elementi di innovazione da proporre a tutte le istituzioni educative;
- la creazione di strutture e servizi centrali e locali per il supporto e la verifica delle attività progettate in autonomia nelle scuole;
- una azione per integrare e rendere congrue le diverse normative che riguardavano al momento la diffusione delle informazioni sullo studio ed il lavoro e le attività di orientamento[28].
Di conseguenza, si proponevano alcune attività orientative dirette ad incrementare la partecipazione attiva degli studenti allo studio, al lavoro e alla riduzione dell’abbandono scolastico. In questa prospettiva si considerava in primis rilevante la ricerca sui seguenti ambiti: la conoscenza delle caratteristiche dei giovani, vista come necessaria per l’acquisizione del target nella progettazione; la scelta del percorso di studi dalla parte dei giovani, intesa come bisogno conoscitivo di questi; il bisogno da parte degli studenti di essere a conoscenza delle strategie di ricerca di lavoro e la conseguente ridefinizione (in quanto mutato il modo del lavoro) di queste; un’adeguata conoscenza degli ambienti di studio e di lavoro; l’accoglienza e la socializzazione, come necessario substrato per un buon inserimento ed una buon mantenimento della motivazione negli studi; l’individuazione di motivazioni personali come fondamenti del percorso di ogni studente, in termini di studio e di lavoro; la costruzione di servizi per l’orientamento, a tutti i livelli scolastici; la valutazione dell’effetto delle attività di orientamento formativo.
Lungo invece la seconda traiettoria, ovvero il binomio orientamento/innovazione, venivano dal Ministero individuati sette ambiti di ricerca e dunque sette percorsi di innovazione:
1) attività didattiche; in quest’ambito sono centrali le questioni relative alla definizione dei curricula e della riorganizzazione delle strutture educative. Non ultime le questioni riguardanti le modalità di insegnamento disciplinare e i problemi legati alla motivazione allo studio. Qui, le attività di orientamento possono essere utili per più motivi: il sostegno all’importanza della continuità dei processi educativi (che diventano anch’essi momenti orientanti), la riaffermazione della centrale rilevanza degli studenti nei processi d’insegnamento ed educativi, la puntualizzazione dell’importanza dell’individuazione delle motivazioni e degli interessi degli studenti, l’attribuzione di un ruolo di maggiore importanza ai processi educativi e alla riqualificazione professionale, la ridefinizione del significato delle procedure di selezione svolte secondo logiche vocazionali sono azioni che sarebbero un sicuro punto di partenza ed un auspicabile risultato conseguente alla buona riuscita delle azioni orientative;
2) attività collegate alla didattica; in questa prospettiva, il potenziamento delle attività extracurriculari e trasversali può essere una buona fonte di orientamento implicito e parallelamente trovare in questo unitarietà e raccordo con le attività curriculari e didattiche;
3) formazione e ruolo degli insegnanti; anche a questo livello la progettazione per l’orientamento può essere il giusto ponte per l’aggiornamento e la formazione degli insegnanti. Il docente infatti, dovendo affrontare anche questioni che esulano dai contesti disciplinari, abbisognerebbe di una migliore formazione anche in settori inusuali nella scuola come le competenze organizzative, relazionali e formative;
4) formazione e ruolo dei capi di istituto; la figura del preside diventa strategica per garantire la presenza di efficaci attività di orientamento formativo. In questo regime autonomistico, il capo di istituto deve rivedere il suo ruolo di direzione per assumerne uno, se pur sempre direttivo, molto meno accentrato e sempre più rivolto a compiti di raccordo della rete interna;
5) verifica delle attività didattiche e dei processi educativi; parallelamente alla progettazione orientativa, si devono mettere a punto sistemi di verifica delle attività e della qualità dei servizi svolti sia dalle scuole che dalle altre istituzioni;
6) rapporti della scuola con l’università; l’intensificazione di questa relazione è un indispensabile punto della progettazione orientativa e per l’innovazione dei processi educativi in un ottica di continuità e di educazione permanente. Ovviamente, sia a livello informativo che didattico la vicinanza tra università e scuola diviene un fondamento per una proficua progettazione;
7) rapporti della scuola con Province e Regioni e con soggetti economici; cambiano alcuni attori, restano valide le considerazioni fatte per il punto precedente. La specificità sta nell’inserimento nel territorio per quelle che sono le sue peculiarità, in un ottica di inserimento professionale più efficiente ed efficace e di una formazione al lavoro contestuale certamente alle vocazioni ma anche alle richieste del territorio.
Queste le direttrici proposte dal Ministero che, come poi verrà illustrato, deve avere all’interno della rete il ruolo di definire gli orizzonti dell’attività perché, all’interno delle autonomie e specificità, si mantengano orizzonti di fondo omogenei e non discriminanti.
Il ruolo e le posizioni delle Regioni. Il Forum “dalle esperienze al sistema”
“La necessità di riflettere sullo sviluppo di un sistema territoriale di orientamento viene indotta innanzitutto dalle sollecitazioni della comunità europea, ma trova riscontro anche nell’esigenza nazionale di uscire dall’epoca delle sperimentazioni (in parte anche delle improvvisazioni) per cominciare a mettere a regime servizi e consolidare linee di intervento politico-programmatico.
Lo sviluppo spontaneistico di una pluralità consistente di iniziative in alcune parti del paese ed il difficile decollo di servizi in altre rendono molto frammentari e fragili (in termini di efficacia) gli sforzi delle numerose risorse umane impegnate in questo settore e rischiano una dispersione improduttiva di una quantità consistente di finanziamenti che potrebbe non essere destinata a mantenersi agli stessi livelli nel prossimo futuro”[29].
Le parole della Pombeni risultano molto chiare e precise riguardo alla situazione da affrontare, ho per questo ritenuto opportuno riportarle per esteso e farne il punto di partenza .L’idea delle Regioni è dunque quella di riuscire a costruire una proposta credibile che vada nella direzione della risoluzione delle questioni aperte,
Ulteriore presupposto della nostra riflessione, anch’esso esposto da M. L. Pombeni a Genova, è che il nostro lavoro deve comunque tenere presenti due assunti fondamentali: il primo è l’obiettivo dell’emancipazione della persona (di tutte le persone nella loro specificità); il secondo è il bisogno della partecipazione di tutte le risorse socio-istituzionali, nel rispetto delle loro specificità di mission e di competenze.
Il lavoro del convegno ha avuto come obiettivo specifico la definizione delle responsabilità e dei compiti propri delle Regioni, ribadendo quanto ad esse spetti il compito della costruzione e del governo del sistema integrato di orientamento, e quello di garantire una forte funzione di raccordo tra le politiche ed i soggetti settoriali che affronti le seguenti questioni:
· Risorse umane; in questa direzione devono essere privilegiati gli interventi di affermazione e recupero di una “cultura orientativa”, centrata su competenze di base, diffuse a tutti i livelli di struttura e operatori. Il riconoscimento degli attori all’interno di una cultura professionale è infatti un presupposto fondamentale , come dimostrato da moltissimi studi relativi agli ambiti organizzativi[30].
· Metodologie del lavoro; in questo senso devono essere individuati luoghi e pratiche comuni di lavoro, per i soggetti del sistema, gli operatori e gli specialisti. Si intenda la definizione di sedi istituzionali di confronto, discussione ed elaborazione programmatica, di sedi tecniche di discussione tra specialisti ed operatori (docenti e non), di strutture permanenti di servizio, della definizione di modalità coordinate e condivise per il rinvio degli utenti da una struttura all’altra, di modelli operativi comuni per progetti finalizzati alla realizzazione di specifici obiettivi.
· Risorse di supporto; devono essere realizzati centri-risorse di supporto dei servizi a disposizione di tutti gli operatori dei diversi settori.
· Sistema informativo-comunicativo; la disponibilità di informazioni su tutti gli oggetti, le opportunità, le regole e le risorse del sistema, organizzate in modo razionale e funzionale alle esigenze delle diverse strutture e operatori, e l’esistenza di un sistema organico e multistrumentale di divulgazione comunicazione, che possa essere utilizzato anche dagli utenti, rappresenta la base indispensabile per poter affermare che esista effettivamente un sistema integrato di orientamento.
Ancora, nel Documento per il Coordinamento delle Regioni si centra l’attenzione su due importanti concetti relativi alla costruzione delle nuove politiche proposte: integrazione e rete.
Integrazione fra formazione professionale e scuola e tra formazione professionale e politiche del lavoro, che, se pur nata, deve essere resa più forte in maniera tale da permettere con maggior velocità il passaggio delle persone attraverso i sistemi. In questo senso l’orientamento può e deve essere in trait d’union fra i sistemi; deve essere il mezzo ed il fine dell’integrazione. Un importante centro di integrazione del sistema viene individuato nei Centri per l’impiego.
Rete, facente perno nei Centri per l’impiego per consentire in via generale di:
· utilizzare tutte le risorse, dei diversi settori, presenti sul territorio, sia pubbliche che private, come suggerisce la Commissione Europea;
· di inserire in modo interattivo in questa rete i vari centri di orientamento pubblici e privati, se ne ricorrono le condizioni;
· di acquisire prestazioni specialistiche per la soluzione dei problemi specifici.
In ultima analisi, è questa l’idea di sistema che le Regioni propongono, nondimeno, ritengo che questo tipo di struttura sia purtroppo eccessivamente rigida per sostenere il peso della complessità attuale.
Cerchiamo di capire perché.
1.6. Gli obiettivi del sistema tra finalità educative e autonomia organizzativa
Riflettere sulle finalità di un sistema orientativo è assolutamente necessario per definirne gli obiettivi specifici, a medio e lungo termine, i ruoli le funzioni e per poi descrivere la struttura che si dovrà assumere.
Lo sviluppo della persona è il nostro orizzonte di lavoro, le sue relazioni sociali, il rapporto con se stesso e con l’ambiente le tre prospettive del nostro quadro. Orientare, in linea con i testi ministeriali vuole cioè dire mirare allo sviluppo di una piena cittadinanza.
L’individuo deve cioè crescere in maniera tale da poter divenire “titolare e partecipe in vario modo e possedendo le condizioni e le capacità necessarie, di interazioni pubbliche che precedono e legittimano le decisioni politico-amministrative”[31] e, parallelamente, deve possedere i mezzi e le conoscenze per riuscire ad emanciparsi, sia per ciò che riguarda la costruzione e l’elaborazione delle sue idee e delle sue opinioni, sia per ciò che riguarda direttamente la sua identità di uomo e cittadino. In quest’ottica deve riuscire a sviluppare la sua specificità individuale, nella consapevolezza e nel rispetto profondo delle differenze individuali.
Per centrare questi obiettivi la società deve proporsi più direzioni di lavoro.
Una prima è la necessità di informazione. Affinché l’individuo possa liberamente scegliere e definirsi un progetto di vita deve possedere quante più informazioni possibili. Se pur in una dimensione di razionalità limitata, come Simon[32] ci insegna, si deve tendere quanto più possibile alla riduzione dell’incertezza.
Al bisogno informativo si lega così un forte bisogno di “capacità di trasmissione” delle informazioni.
La seconda direzione è trasmissione di modelli culturali eticamente sostenibili e consapevoli. La scuola e il professore (come del resto qualsiasi adulto) devono, nel momento in cui inevitabilmente si trovano ad essere esempio e riferimento di vita, essere e dichiaratamente presentare una solida e onesta deontologia. Questo, che può sembrare un passaggio utopico è secondo me invece un fondamento essenziale. Un presupposto essenziale dell’insegnamento è infatti il possesso dell’oggetto che si vuole trasmettere. Attualmente, questo è un punto lasciato assolutamente al caso.
Una terza sono il supporto psicologico ed il fondamento pedagogico necessari. Il primo, perché si possano trasmettere conoscenze e consapevolezza sul sé, il secondo perché la scuola deve possedere un’ottica ed un metodo di lavoro comune.
L’ultima, e più specifica per l’orientamento, è la definizione ed il riconoscimento delle capacità individuali e lo sviluppo delle competenze necessarie al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Se le finalità, anche solo per un criterio di pari opportunità, devono essere comuni a tutte le scuole, e così gli obiettivi quali l’integrazione tra scuola lavoro ed università ed il bisogno di una struttura a rete; le strutture ed i metodi utilizzati devono essere variabili. Questo è il senso dell’autonomia scolastica. Autonomia delle scuole perché, essendo inserite in territori specifici, devono essere in grado di trovare e costruire percorsi ad hoc sulla base dei bisogni registrati e delle risorse disponibili.
1.7. Che cosa manca? La qualità nell’orientamento
Il titolo del paragrafo vuole essere una domanda, una risposta ed una provocazione.
In effetti, nella riflessione sia ministeriale che delle regioni rimangono fuori alcuni nodi importanti e restano tralasciate alcune importanti riflessioni e responsabilità nella progettazione orientativa.
L’orientamento, nell’ottica educativa in cui lo intendiamo si caratterizza come un percorso di consulenza (counselling), di crescita motivazionale (coaching) in alcuni casi, e di consapevolizzazione del soggetto in formazione. Inoltre, si differenzia profondamente dalla relazione d’aiuto in quanto non c’è all’interno di esso quello che viene solitamente inteso come “sostegno” ma l’orientatore si limita ad aiutare, quasi utilizzando l’antica arte della maieutica socratica, i giovane o il lavoratore a costruire il suo percorso e d il suo progetto professionale e di vita.
Nella pratica l’orientamento e le funzioni degli orientatori spesso divengono solamente legate alla distribuzione delle informazioni necessarie per i curricula formativi o per la “ricerca attiva” delle professioni. Nel migliore dei casi infine, si contribuisce somministrando percorsi volti all’individuazione delle “competenze”[33]. In media i centri di orientamento e formazioni delle Province, dei Comuni e delle Regioni offrono le seguenti attività: consulenti ed operatori di sportello per la raccolta di informazioni, colloqui per la costruzione del portfolio delle competenze, percorsi di counseling centrati sulla riflessione circa le personali aspettative professionali..
E’ ben chiaro che una parte di un buon progetto di orientamento debba essere ricoperta dalle distribuzione e dalla selezione delle informazioni utili, ma è anche vero che ormai, tranne in alcuni casi legati a particolari condizioni socio-economiche o geografiche, il reperimento delle informazioni non è realmente un problema. E non richiede particolari competenze.
Inoltre, la valenza educativa dei percorsi di orientamento non consiste nella riflessione sulle personali competenze o “punti di forza” da spendere nella ricerca di un’assunzione, ma nella capacità di uscire e di individuare percorsi di vita e professionali che realmente siano in linea con le aspettative e le prospettive valoriali di ogni persona. Questo vuol dire riuscire a dare input che abbiano in sé una valenza anche emancipatoria, che mettano a volte in crisi concezioni professionali o particolari attaccamenti a progetti e identità magari strutturati su condizionamenti di vario genere e livello. Vuol dire infine produrre empowerment nelle persone soggette al progetto, in maniera tale da renderle autosufficienti nella ricerca delle informazioni di cui avranno bisogno.
Da un altro punto di osservazione si devono fare altrettante considerazioni scaturite dalla seguente domanda: perché, nonostante un minuzioso e preciso lavoro di riflessione e di definizione delle attività e delle pertinenze, nonché delle strutture, né le Regioni né il Ministero sono ancora riusciti a garantire qualità nell’orientamento?
In effetti, la questione non sta nell’alternativa tra il sistema centrato sul ruolo delle regioni o la struttura reticolare proposta dal ministero. Entrambe potrebbero garantire efficacia se ben costruite. Neanche l’ideazione di una soluzione intermedia sarebbe però garante della qualità.
Una soluzione intermedia forse più funzionale potrebbe costituirsi aggiungendo alla proposta delle regioni una concertazione delle attività (di cui garante diventi il Ministero) di tipo reticolare: gestione, amministrazione e collaborazione degli attori e delle risorse e dei contributi all’interno di una logica di progettazione ed attuazione di rete. Costruire una rete vuole infatti dire garantire processi di gestione e ancor prima decisionali e consultivi democratici e inseriti in un contesto di integrazione[34] tale da far sì che le soluzioni siano inevitabilmente rispecchianti un modello centrato sulla collaborazione. Rete perché costruirne una vuol dire capire e saper pensare in quest’ottica, dunque (almeno in teoria) possedere una cultura di rete. Possedere una cultura di rete vuole dire capire e riconoscere le diversità, dunque progettare e costruire nella consapevolezza di quest’ultima ed essere in grado di capire che l’orientamento deve modellarsi a seconda dei contesti e delle persone.
In ogni caso, tutto questo non può essere sufficiente fintanto che non si farà chiarezza su una questione essenziale.
Il problema da risolvere è la valutazione degli interventi, l’individuazione di parametri di qualità effettiva e di caratteristiche imprescindibili delle attività dell’orientamento. Infine un attento monitoraggio che non si centri però sulla corretta compilazione delle rendicontazioni e dei registri.
2. Scuola e orientamento: la qualità nella progettazione delle attività
2.1. Il ruolo della scuola nei progetti di orientamento ed il ruolo dell’orientamento nella scuola.
La sempre maggiore velocità nella comunicazione e negli spostamenti, il superamento dei limiti biologici che fino ad oggi scandivano certi ritmi nell’esistenza delle persone, l’intensità e la sempre minor profondità rimasta all’incontro tra persone e la conseguente rottura di alcuni sistemi e strutture sociali che avevano da sempre garantito alcune dimensioni relazionali che parevano ovvie, come ad esempio la frammentazione della dimensione famigliare (che assume sempre più forme centrate sull’autonomia e la differenziazione), la sempre maggiore flessibilità e mobilità lavorativa, fanno sì che in questa fase storica, la scuola, e più precisamente la scuola superiore diventi un momento davvero cruciale nell’esistenza dell’individuo, oltrechè essere in ragione della sua durata cronologica, la fase in cui maggiormente si può influire sullo stesso.
Cruciale perché sempre più la scelta e l’esperienza vissuta nelle scuole superiori sta diventando rilevante nei profili professionali; cruciale perché l’aver vissuto bene o male le superiori è la prima discriminante fra chi, forse, sceglierà la sua professione e chi, interrompendo gli studi, verrà ricacciato indietro.
Cruciale perché l’aver apprezzato una materia oppure un’altra (questione purtroppo lasciata assolutamente al caso) è spesso il motivo della scelta universitaria e perciò lavorativa; cruciale perché l’adolescenza è la fase in cui si pongono le basi della struttura cognitiva adulta; l’unica età dove si può e si deve imparare alcune tra le cose più importanti della vita (distinguere il bene dal male, capire cos’è l’amicizia e l’amore, cominciare a riflettere su un progetto di vita, imparare ad inseguire ambizioni, passioni e sogni). Ancora cruciale perché è una fase della vita in cui si può cambiare percorso senza pagarne troppo le spese.
Cruciale perché racchiude al suo interno tutti i problemi dell’orientamento scolastico, professionale e sociale.
Assolutamente eccezionale e cruciale perché è comunque in questa fase della vita che, proprio poiché l’identità non è ancora completamente strutturata e le scelte non ancora definitive, si può davvero influire (dando per scontato che lo si voglia fare non per “instradare” ma per “liberare” e far sì che chiunque scelga il proprio percorso) sullo sviluppo delle persone. Il mio parere è che, nel caso in cui si sia fatto orientamento “bene” alle scuole superiori, le fasi successive saranno sicuramente meno complicate.
Ovviamente, concependo l’orientamento come un processo lifelong, la scuola ne diventi il momento forse più importante.
Come tale diventa anche il punto critico.
L’orientamento e l’educazione sono funzioni facenti parte dello stesso nucleo. Pertanto, alla veloce panoramica svolta sulla complessità delle problematiche interne alle scuole superiori si deve sommare il dovere della scuola di ottemperare almeno ad un’altra funzione: la crescita cognitiva e culturale degli studenti. Deiana e Cavalli sostengono anche l’inevitabile ruolo delle scuole nello sviluppo e nell’educazione di una piena cittadinanza democratica[35] (anche se su questo potremmo obiettare che faccia parte del nucleo primario orientativo/educativo di cui sopra).
Le responsabilità sono indubbiamente altissime e, per come la scuola è oggi strutturata, non ci sono assolutamente le energie e le competenze per affrontarli tutti e tre. Gli scienziati dell’educazione tendono a sostenere il maggior bisogno delle prime due funzioni, i professori invece sostengono che il dovere primario è quello della crescita culturale.
La scuola, che lo si voglia riconoscere oppure No, è inevitabilmente destinataria di tutto ciò sinora elencato. E lo è perché, a causa dei tempi che ricopre nella vita di uno studente e a causa del peso che le è sempre stato riconosciuto, a causa dell’esplosione della struttura sociale familiare e delle inadempienze di questa e dovendo necessariamente implementare, si trova ad essere portatrice di messaggi educativi, orientativi e culturali anche quando non vuole. Deiana e Cavalli, chiamano questo processo “Hidden curriculum”. Un “Hidden curriculum” è dunque una inevitabile trasmissione di un messaggio educativo, implicita in un atto compiuto o in una opinione personale.
A questo punto rimane da scegliere se ritenere tutto ciò una responsabilità invalicabile (e per la struttura scolastico attuale, lo è) e quindi cercare di risolvere il problema ignorandone alcune parti, o scegliere di cercare di costruire una scuola che sia in grado di affrontare e sostenere la complessità che ha di fronte.
Credo che l’unica scelta possibile sia la seconda, pertanto, non rimane che capire quali sono, in maniera più specifica i bisogni a cui la scuola deve provvedere.
Infine, ritengo che se l’istituzione scolastica non ha intenzione di dirigere o instradare gli studenti, sia per ciò che riguarda le scelte lavorative che le opinioni politiche e sociali, debba liberarsi dal meccanismo degli Hidden curricula. Ritengo infatti che le opinioni[36], se espresse in maniera chiara e dichiarando i presupposti e gli sfondi su cui si sostengano, non siano di per sé condizionanti, tanto più se si permette di discuterle, obiettarle e valutarle in maniera, anche se a volte calda, matura.
2.2. I bisogni d’orientamento e di educazione
In questa duplice dimensione (che nei fatti si unifica all’interno del concetto di orientamento formativo[37]) si devono tenere presenti due piani: un primo, quello dell’orientamento scolastico e professionale che reclama un certo tipo di bisogni e competenze, un secondo, quello di ciò che veniva definito negli anni sessanta “orientamento sociale” che scivola fino a sovrapporsi al piano dei bisogni educativi.
Il primo livello dunque richiede la conoscenza delle proprie attitudini lavorative, la definizione delle proprie skills[38] e delle competenze[39], la conoscenza dei settori lavorativi e, in ambito più prettamente scolastico, una buona riflessione e ricerca sul proprio metodo di studio. Richiede la scelta di un certo ambito di studio e ricerca (al momento della scelta universitaria) che deve essere centrato sulle proprie potenzialità, le proprie aspirazioni e tutto ciò sopra elencato.
Infine, richiede la riflessione su un percorso da intraprendere e perseguire.
Al secondo livello invece, diventa centrale lo sviluppo armonico della personalità in tutte le sue sfaccettature e lungo i suoi essenziali assi: rapporto con il sé, con gli altri e con il mondo.
Dalla ricerca psicosociale possiamo prendere in prestito alcuni termini utili alla definizione del problema; nel rapporto con il sé possiamo parlare di identità (Erikson, 1968), concetto ed immagine di sé (Rogers,1980), autostima (Arcuri e Maass, 1995), self-efficacy (Bandura, 1977, ’82, ’86, ’89, Schunk, 1989), impotenza appresa (Seligman, 1975); nel rapporto con gli altri possiamo citare le teorie sul Locus of control (Rotter,1966), e tutta la ricerca sui modelli comunicativi e di collaborazione; nel rapporto con il mondo possiamo invece parlare di metacognizione, dei problemi legati alla scelta e alla presa di decisione (anche se questi si pongono, secondo me, a cavallo di tutti e tre i settori), o le questioni legate ai processi di influenza sociale e di condizionamento.
I docenti non devono essere in grado di lavorare su tutti questi temi, ma la scuola deve possedere questa conoscenza e porsi questa responsabilità. Altrimenti, l’educazione e l’orientamento si restringono alla sola promozione di un modello comportamentale o di un copione socialmente riconosciuto invece di essere una riflessione ed una ricerca volta alla liberazione della persona.
L’obiettivo è quello di un’esistenza diversificata, differente ma assolutamente etica e democratica, in cui gli atteggiamenti ed i comportamenti promossi vanno nella direzione di quella che definiamo “qualità relazionale”[40]; in cui ogni individuo trova lo spazio a lui più consono e per lui foriero di maggiori soddisfazioni.
2.3. I bisogni culturali e cognitivi
In questa dimensione dobbiamo considerare essenzialmente due generi di bisogni: quelli relativi all’ambito della didattica e quelli relativi alle specificità disciplinari.
In questo senso la scuola deve saper offrire informazioni, modelli interpretativi, percorsi di acquisizione delle informazioni e deve far sì che gli studenti apprendano i modelli di ricerca teorica e la capacità critica, per giungere, ad un livello ancor più alto, allo sviluppo della propria creatività intellettuale. Parallelamente, la scuola deve creare un solido substrato, a mio parere non troppo specifico, ma che garantisca un ampio orizzonte cognitivo, su cui successivamente si possano fondare le specializzazioni.
Infine, la scuola deve garantire un sano approccio con tutti i tipi di conoscenza, in maniera tale da garantire che le scelte successive non siano il più possibile rinunce, fughe, o scelte motivate dalla non conoscenza del senso profondo di un determinato settore dello scibile umano. Credo fermamente nel fascino e nell’importanza di tutte le discipline, dunque che le scelte debbano essere fatte ad occhi aperti e che, solo nel momento in cui uno studente sia entrato in reale contatto con una materia, possa effettuare le scelte più congeniali al suo modo di essere e ai suoi interessi.
Per raggiungere gli obiettivi prefissati, è assolutamente necessario che la scuola arrivi a possedere competenze specifiche: per la docenza si tratta di avere competenze educative (e dunque, se pur in ambiti diversi e non approfondite allo stesso livello dell’ambito orientativo,pedagogiche, psicologiche e legate alle altre scienze dell’educazione), disciplinari, e didattiche e, forse per prime, comunicative e relazionali.
2.4. I bisogni di formazione nella scuola.
La costruzione di una struttura efficacemente orientativa richiede una impostazione a rete. C’è bisogno di una struttura scolastica più flessibile e in grado di tollerare più facilmente la mobilità interna anche per ciò che riguarda i ruoli e le funzioni. In secondo luogo si deve poi considerare il bisogno di una “cultura di rete”; della capacità di progettare, organizzare, lavorare e riflettere e relazionarsi all’interno di una logica reticolare. Maggior specializzazione in termini di conoscenza e competenza professionale e al contempo di maggior flessibilità strutturale e cognitiva. In termini organizzativi potremmo dire che c’è bisogno di una struttura tale da poter sostenere una vision[41] centrata sul risultato piuttosto che sul rispetto delle norme e, nel caso specifico della scuola, dei curricula.
Alessandro Cavalli[42] mette in evidenza alcuni dati davvero importanti per comprendere quali siano le direzioni su cui prendere la mira per centrare l’obiettivo orientamento.
Il primo dato rilevante è che gli insegnati ritengono di non aver ricevuto (ed in effetti così è) una rigorosa e specifica formazione professionale, soprattutto per quello che riguarda l’ambito pedagogico, educativo e didattico. Legato a questo si deve prendere coscienza che l’insegnamento segue ancora nella maggioranza dei casi, le vecchie logiche (se pur necessarie e in alcuni casi funzionali) della lezione frontale, dell’interrogazione di controllo (centrato su una comunicazione persuasiva[43]) e della valutazione (che non si ferma all’ambito conoscitivo ma spesso diventa una valutazione sulla persona).
Ultimo dato rilevante per noi è la presenza di una maggioranza relativa di insegnanti delle scuole superiori (circa 1/3) composta da coloro che sono definibili “non vocazionali” e “non impegnati”.
Senza entrare nel merito di questi problemi, questi dati ci devono far riflettere sui bisogni formativi e motivazionali del corpo docente e della scuola come struttura. Gli insegnanti devono essere innanzitutto formati alla loro professione, parallelamente tutto il personale scolastico deve essere formato “organizzativamente” e “culturalmente” alla rete e all’orientamento.
2.5. Chi può fare l’orientamento nelle scuole?
Da un lato l’orientamento si deve discostare dalla didattica; non può infatti essere una competenza direttamente connessa alle discipline. E’ questa una vecchia concezione dell’attività orientante che poteva avere significato quando la scolarità era molto più limitata e riusciva ad individuare un target limitato di studenti. La connessione tra didattica ed orientamento non è più proponibile: non è infatti un processo meccanico giustificato il fatto che quel ragazzo che è bravo in matematica debba laurearsi in matematica! La disposizione allo studio di una materia non ha più un significato necessitante per le sue scelte di carriera, di studio e di lavoro. In ragione di due chiari motivi: 1) la complessità dei saperi e la loro reciproca contaminazione non riescono più a distinguere specifiche competenze se non in termini di interesse o di “gusto” 2) la discussione sulle intelligenze ha mostrato come esse non siano modulari ma obbediscano a criteri complessi tanto che non esiste una “intelligenza matematica” ma una “intelligenza logica”[44] indispensabile per lo studio e la riuscita in matematica ma anche nel diritto o nell’amministrazione.
Spesso i docenti delle singole materie proiettano sui singoli studenti, in specie sui più bravi, le loro aspettative e possono indurre a scelte sbagliate instradando i ragazzi verso scelte disciplinari e professionali non congruenti con le loro disposizioni.
In secondo luogo il docente di una materia non può riuscire ad avere il tempo e l’ottica imparziale per produrre attività orientante. Questo richiederebbe un carico molto grande di impegno che, visti e considerati i dati della ricerca di Cavalli, non sembra sostenibile dalla classe docente. Inoltre l’ambiguità dei messaggi e la sovrapposizione dei ruoli sarebbe di fatto disorientante. Il ruolo del docente è stretto tra i compiti di insegnamento, motivazione e valutazione ed è per chi lo riveste difficile riuscire a proporsi come consigliere non direttivo e di sostegno. Il docente deve dare una valutazione oggettiva sul rendimento negli studi dello studente e, di conseguenza, osservare solamente alcune caratteristiche ed alcune motivazioni.
La dinamica dell’orientamento ci presenta due grandi prospettive: la prima è di ricerca. Se la ricerca sull’orientamento concluderà la sua fase epistemologica e si mostrerà con le potenzialità di un sistema efficace per l’invenzione del futuro per i giovani e se saprà connettersi in modo concreto ai bisogni ed alle richieste del mercato del lavoro in cui si colloca, allora potrà costituirsi come un sistema di pensiero educativo ed una pratica diffusa capace di mettere in moto le autentiche possibilità di ciascuno coniugandole con le effettive possibilità di conciliare le ambizioni dell’individuo con i limiti del sistema sociale.
Ciò significherà che l’orientamento sarà diventato una cultura. E in questa cultura sarà possibile individuare le tecniche ed i sistemi per analizzare le disposizioni soggettive di ciascuno.
Il passaggio cruciale, che riporta alla discussione sulle figure deputate all’attività orientante, sta nella miscela tra orientamento e motivazione. Se il processo di orientamento funziona ad esso è intimamente connessa la motivazione: la scoperta in sé, da parte dello studente, del gradimento di un percorso di conoscenza lo rende disponibile allo studio; se non funziona il giovane studente si allontana e “si disperde”. La riflessione pedagogica deve riuscire ad entrare nella scuola affinché, pur nella dovuta non sovrapposizione tra le figure degli orientatori e quella dei docenti, la cultura orientativa possa riuscire a modellare anche la didattica favorendo, in un approccio dialogico, anche quei giovani che non si riescono a collocare all’interno del sapere strettamente scolastico ma sono proiettati ad altri modelli mentali, operativi e pratici, con cui la scuola deve contaminarsi.
2.7. La presenza delle agenzie private.
All’interno di un sistema di orientamento, il ruolo delle agenzie è situato, da un lato nel fornire tecnici specializzati ed esperti di orientamento alle strutture scolastiche per l’organizzazione delle attività d’orientamento extra-curriculari, dall’altro nel riuscire a essere significativamente più incisivo all’interno dei processi di orientamento.
L’esistenza di agenzie esterne permette alle scuole di poter usufruire di personale specializzato per tutti quei tipi di interventi orientativi (che potremmo definire “one shot”) che, per forme, metodo, significati ed obiettivi, sono contenuti con difficoltà all’interno di una struttura scolastica e delle attività curriculari.
Per esempio, attività come i bilanci delle competenze, l’analisi dei bisogni o alcuni tipi di colloqui individuali, non possono essere svolti né dai professori né dall’eventuale orientatore interno all’istituto, che ha invece compiti di consulenza ed informativi durante l’arco dell’anno scolastico, e che inoltre dovrebbe mantenere relazioni continuative con gli studenti.
A questo livello, l’intervento diventa essenzialmente esterno per più fattori.
Un primo, è legato al bisogno di oggettività da parte dell’esaminatore. Comporre un bilancio delle competenze, per i criteri presentati a proposito del ruolo dei docenti, necessita di un altissimo grado di oggettività e di non-coinvolgimento; anche se solitamente questo tipo di attività sono svolte con l’ausilio di test, permane il problema dell’interpretabilità, variabile a seconda degli strumenti tecnici utilizzati. E’ dunque a mio parere maggiormente garantita l’oggettività nell’interpretazione se questa, e con essa la somministrazione (che, se affrontate da esterni è di per sé un momento liberatorio, in cui si può uscire dalle dinamiche che spesso ci impongono un atteggiamento), viene svolta da esterni all’istituto.
Il secondo, è invece legato alla significatività psico-pedagogica dell’intervento.
La relazione orientativa ha l’obiettivo di aumentare la capacità di scegliere, discernere ed auto-orientarsi dell’orientando. Potremmo definire questo meccanismo un processo mediante cui ci si pone il fine di aumentare la “potenza di” del soggetto in formazione. Continuando sulla metafora organizzativa, facendo orientamento si fa Empowerment. Si creano cioè le condizioni perché le potenzialità degli individui trovino un loro spazio via via crescente.
Durante le attività gestite dai docenti, se pur indubbiamente utili, ci troviamo di fronte al problema degli inevitabili condizionamenti a cui i gruppi sociali ci sottopongono. Da studenti, da docenti, da orientatori, da psicologi e quant’altro. Sappiamo bene quanto l’influenza sociale[45] sia in grado di modificare non solo le nostre scelte ma anche le nostre percezioni. Solamente un esterno, che fonda la sua diagnosi su dati quantificabili (ad esempio su risultati estratti da test), può riuscire a vedere quasi oggettivamente le disposizioni, le attitudini e le caratterisitiche temperamentali dello studente/cliente. Al di là della conoscenza, o dell’idea che si è fatto di lui durante l’anno, o dei voti che ha, della conoscenza dei genitori e quant’altro.
Da un altro punto di vista, l’intervento esterno è assolutamente necessario perché può diventare per lo studente un reale momento di autenticità e di confronto con se stesso. Spesso infatti, le maschere che portiamo non ci sono imposte direttamente dagli altri. Spesse volte siamo noi che per primi scegliamo per difesa di portarle senza mai riuscire a regalarci un momento di autenticità, con noi stessi e con gli altri.
Sovente accade poi che ci si permetta la naturalezza solamente con persone con cui, a causa del fatto che è la prima volta che le incontriamo (il classico esempio della persona che racconta la vita in treno ad uno sconosciuto), non sentiamo l’obbligo di mantenere uno standard di atteggiamenti, comportamenti o di soddisfarne certe aspettative.
D’accordo sul fatto che l’autenticità debba essere inevitabilmente una nostra scelta, e che dunque si debba imparare ad essere autentici al di là delle situazioni, dei contesti e dei condizionamenti, come educatori abbiamo l’obbligo di dare quante più opportunità e quanto meglio costruite ai ragazzi, agli studenti, a coloro a cui abbiamo deciso di fornire un servizio.
Diventa così comprensibile il senso di un’azione esterna (da inserirsi in un contesto orientativo più ampio) in quanto portatrice di libertà e de-condizionamento.
Infine, se riesce a diventare anche una sorta di “provocazione intellettuale” relativa all’immagine di sé che il ragazzo possiede, può diventare un altro importante mezzo di cambiamento (ovviamente nei casi in cui serva). Nell’adolescenza (ma del resto a qualsiasi età) è infatti indispensabile, per crescere con motivazione e volontà, riuscire ad immaginarsi grande e soddisfatto di sé. E’ necessario avere uno o più sogni da inseguire e da coltivare nelle piccole azioni quotidiane. Per rendere un sogno però un obiettivo serve una grande capacità di astrazione e di immaginazione, tali da permetterci di vedere le tappe necessarie al raggiungimento dei nostri obiettivi, per sapere cosa e come fare.
Non serve, tranne nei casi di indecisione tra poche scelte, valutarne il peso insieme allo studente; serve altresì far riflettere, nel caso in cui uno studente sia molto deciso ad intraprendere un percorso, se questo sia l’unico possibile (potrebbe essere frutto di un condizionamento, ad esempio[46]), serve nel caso in cui uno studente che non abbia idea su cosa fare nella sua vita per insegnargli l’importanza della capacità di immaginarsi, a far sì che cominci a pensare di essere in grado di fare qualcosa, a farlo cominciare a riflettere su percorsi che, di sicuro, non vorrà seguire. E molte altre situazioni ancora.
Comunque sia diventa un momento di riflessione indubbiamente utile, anche perché realmente liberatorio e liberante.
Infine, si deve considerare l’impatto di questo tipo di attività; in quest’ottica io credo che certi modelli, diventino ancor più de-condizionanti se pungenti, precisi e assolutamente repentini. In termini sociali, aumentando il carisma dell’intervento, davvero se ne può amplificare, se non il risultato per non essere noi a condizionare, sicuramente l’incidenza.
Dal punto di vista dello studente, le valutazioni del tecnico, se pur non indubitabili e assolute, risultano essere molto oggettivanti per le sue potenzialità.
Molto più di quanto possa incoraggiare un docente, un’orientatore interno (nell’ipotesi che ho prima presentato), un padre o una madre, un parere tecnico indubitabilmente disinteressato e non fazioso può divenire conferma di un’idea magari mai confessata o mai perseguita.
2.8. Quale ruolo per gli insegnanti?
La scuola dell’autonomia presenta alcune novità organizzative estremamente utili per lo sviluppo dell’orientamento. Un lungo percorso di crescita si è sviluppato nel corso degli anni ‘80 e ‘90 coinvolgendo gli insegnanti nel cambiamento della scuola in una prospettiva educativa, finalizzata all’incremento e all’estensione dell’apprendimento.
A far inizio dalla C.M. n. 246 del 15/07/89, che proponeva i Progetti Giovani 93, dando un ruolo significativo dello studente all’interno della scuola, passando attraverso la Legge 162 del 26/06/90 poi D.P.R. n. 309 del 09/10/90 che regolamenta le attività di educazione alla salute individuando nei docenti referenti le figure orientate al rapporto di sostegno e di indirizzo dei giovani, e la successiva C.M. n.114 del 27/04/90 del Progetto Giovani 93 che propone un chiaro impegno nell’ordinarietà della vita scolastica mirato a produrre “lo star bene” nella scuola, sia sul piano degli apprendimenti che in quello delle relazioni.
La Direttiva 133 (CM 135) del 3/4/1996 rappresenta una importante svolta poiché definisce le iniziative complementari e integrative dell’iter formativo degli allievi, la creazione di occasioni e spazi di incontro nella scuola. Tale direttiva coagula in un solo provvedimento le circolari sulla accoglienza, le indicazioni sulla applicazione dei CIC, lo spirito di utilizzo dei docenti referenti, ecc.. La Direttiva apre lo spazio ad un modello di scuola relazionale attraverso "...Iniziative complementari ed integrative dell'iter formativo degli allievi, la creazione di occasioni e spazi di incontro...per favorire...lo sviluppo della cultura della legalità,...la padronanza dei meccanismi interattivi di comunicazione,...l'assistenza allo studio, ...la lotta contro l'insuccesso scolastico, l'orientamento e il tutoraggio, ...le iniziative di accoglienza, le invenzioni teatrali, ...realizzazioni di libri, fumetti e giornali, ...concerti, conferenze, sport,... Gli istituti predispongono almeno un locale attrezzato quale luogo di ritrovo... Gli edifici possono essere utilizzati fuori dell'orario scolastico, di norma nel pomeriggio e, ove possibile, nei giorni festivi". La scuola si apre così ad attività non solo disciplinari e centrate sull’apprendimento ma ad un insieme di iniziative che costituiscono la base per altri saperi e per altre pratiche.
Ma la svolta definitiva è rappresentata dall’art. 21 della legge 59/97 (finanziaria), Legge Bassanini, Questa legge predispone l’idea guida dell’autonomia finanziaria, didattica ed organizzativa. "L'autonomia organizzativa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità...anche mediante superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, dell'unitarietà del gruppo classe...si sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie, strumenti, organizzazione e tempi di insegnamento...compresa l'eventuale offerta di insegnamenti opzionali, facoltativi e aggiuntivi. ...ampliamenti dell'offerta formativa che prevedano anche percorsi formativi per adulti, iniziative di prevenzione dell'abbandono e della dispersione scolastica, iniziative di utilizzazione delle strutture e delle tecnologie anche in orari extrascolastici e a fini di raccordo con il mondo del lavoro..."
E’ questa una strutturale apertura verso le possibilità di una didattica più elastica ed articolata che prevede molte sperimentazioni.
In questo quadro di innovazione si colloca la Direttiva Ministeriale n. 487 del 06/08/97 relativa all’orientamento delle studentesse e degli studenti. Per la prima volta si considera ufficialmente l’orientamento parte attiva delle discipline di studio, strumento per cogliere l’apprendimento e per creare le competenze, “metodologia fondamentale del processo educativo dello studente che inizia nella famiglia, prosegue nelle istituzioni scolastiche, continua nel corso della vita”. Individua nell’orientamento curricolare e professionale due momenti dello stesso processo, finalizzato alla realizzazione della persona, che trova integrazione, grazie anche alle ampie possibilità offerte dall’autonomia scolastica, nei soggetti interistituzionali territoriali e non: Università, Enti locali, Soggetti pubblici e privati.
La sperimentazione della autonomia organizzativa e didattica è proposta dal D.M. 765 del 29/11/1997 -. E’ un Decreto di attuazione della Legge “Bassanini”, non ancora completo ed articolato che propone la sperimentazione, in attesa di più chiare e definitive indicazioni, in alcuni importanti ambiti.
"Le sperimentazioni attengono ai seguenti aspetti: a) adattamento del calendario scolastico b) flessibilità dell'orario e diversa articolazione della durata della lezione... c) articolazione flessibile del gruppo classe, delle classi o sezioni, anche nel rispetto dell'integrazione scolastica degli alunni con handicap d) organizzazione di iniziative di recupero e di sostegno e) attivazione di insegnamenti integrativi facoltativi f) realizzazione di attività organizzate in collaborazione con altre scuole g) iniziative di orientamento scolastico e professionale h) iniziative di continuità".
L’ampliamento dell’offerta formativa è regolato dalla Legge 440 del 18/12/1997 che dà istruzioni relative all’innalzamento del livello di scolarità e del tasso di successo scolastico, alla formazione del personale della scuola, alla realizzazione delle iniziative di formazione post-secondaria non universitaria, allo sviluppo di formazione continua e ricorrente, all’adeguamento dei programmi di studio, interventi per la valutazione dell’efficienza e dell’efficacia del sistema scolastico.
Due ultimi elementi sono significativi per lo sviluppo dell’orientamento. 1) A partire dalle prime figure di docenti referenti l’articolazione funzionale nella scuola si costituisce attraverso le Funzioni Obiettivo. In particolare le Funzione Obiettivo di Area 3 sono coloro che espletano le attività per gli studenti: non solo per la prevenzione del disagio e della dispersione ma con un compito specifico nel progettare l’orientamento attraverso rapporti con enti esterni alla scuola.
2) Le disposizioni sul Nuovo Obbligo Scolastico e Nuovo Obbligo Formativo. Quest’ultimo raccorda le scuole con i centri per l’Impiego allo scopo di portare a 18 anni l’assolvimento dell’obbligo formativo attraverso una azione orientante per i giovani che hanno lascito la scuola e sono entrati o nella formazione professionale o nel mondo del lavoro come apprendisti
Il docente non ha necessariamente funzioni di orientamento ma è a pieno titolo un soggetto della rete di possibilità che vengono ad accendersi nel territorio. Il suo luogo specifico nella rete, oltre al raccordo con altre figure, è quello di un professionista della didattica.
2.9. Il fulcro sulla didattica e sulla comunicazione. La lezione come fonte di orientamento.
Lo sviluppo delle competenze dei docenti dovrà essere centrato sulle modalità di comunicazione efficace e sulle tecniche didattiche.
In questo senso la capacità da parte di un docente di far entrare in contatto con una materia gli studenti, insegnandone gli aspetti affascinanti e la specificità, magari riuscendo a catturarne l’attenzione modulando le lezioni a seconda degli stili cognitivi dei ragazzi, è di per sé un’efficace mattone per la costruzione di un percorso di orientamento che voglia far sì che la persona diventi in grado di orientarsi. Non va infatti dimenticato che una base per un buon orientamento è anche la conoscenza. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute et canoscenza”, l’ormai nota terzina dantesca è un’utile metafora per la comprensione di questo concetto. Se la virtù si può intendere come comportamento socialmente e personalmente etico, presupposto indispensabile ne è la conoscenza e, in conseguenza di questa, l’apertura mentale. In quest’ottica si deve perciò diventare responsabili dell’apertura mentale degli studenti, comprendendo che ogni persona ha il suo elettivo percorso cognitivo per entrare in relazione con gli eventi, le conoscenze ed i propri vissuti. Senza voler mescolare il sacro ed il profano, l’insegnante deve assolutamente diventare un grande comunicatore. Come nelle strategie pubblicitarie, si deve così individuare con precisione le caratteristiche del target, e proporre i concetti mediante l’utilizzo del codice e della modalità linguistica ad hoc.
Gardner, Jakobson e Halliday possono in questa direzione esserci molto utili. Il primo, reduce di un rinnovato interesse per le sue ricerche, mediante la teoria delle “Formae Mentis”[47], il secondo ed il terzo sulla base delle distinzioni dei modelli e delle funzioni comunicative[48]. In questo senso, potremmo chiamare in causa molti altri (Austin[49], Pearce[50], ecc. ), ma non è adesso nostro obiettivo approfondire questi temi, di cui tratteremo a fondo più avanti.
Ci interessa invece rimarcare il bisogno e la necessità del docente di divenire effettivamente protagonista della lezione e dell’attività didattica. Intendendo per protagonista non il ruolo visibile e inevitabile di colui che si pone al centro dell’attenzione, ma il ruolo di colui che consapevolmente gestisce le dinamiche di apprendimento. Mi anima in questa riflessione la profonda convinzione che l’insegnamento non possa essere casuale, che la professione dell’insegnante debba essere consapevole del senso della sfida che affronta. Che l’insegnante debba sapere che il suo compito non è quello di essere riconosciuto (in termini di soddisfazione professionale) dal ragazzo caratterialmente simile al suo (o quantomeno cognitivamente) ma quello di riuscire, nonostante le differenze, a raggiungere l’obiettivo anche con quei ragazzi che solitamente nella scuola italiana si perdono. Anche in termini orientativi, credo sia più importante orientare chi è realmente “disorientato” che rinforzare chi sa già come fare o possiede buone strategie di coping[51]. Prendendo in prestito un termine proprio degli ambiti organizzativi, si deve considerare che gli anche gli studenti, possono, nelle scuole (che sono da considerarsi organizzazioni in tutti i sensi) essere soggetti a burn-out. Il Potere (classicamente inteso in un ottica di controllo) dell’insegnante deve trasformarsi in “Potenza Di”. Deve, secondo le teorie di Torbert (1991), diventare “trasformativo[52]”, ossia liberatorio ed in grado di potenziare, secondo i bisogni ed i percorsi individuali[53], le caratteristiche delle persone. Anticipando alcuni concetti del paragrafo successivo, potremmo parlare di una Leadership Empowering.
2.10. Oltre il colloquio individuale: il lavoro in gruppo
Senza mettere in discussione il senso del lavoro individuale sull’orientamento, una dimensione formativa ed orientativa sicuramente da tenere in considerazione, quantomeno all’interno della scuola, è quella di gruppo.
A questo livello per gruppo si intende il lavoro di riflessione in gruppo, né cooperative learning né learning togheter o affini. Intendo uno stile di intervento che trova le sue origini nei gruppi in stile Rogersiano[54], che nell’ottica di “Prevenire è possibile” definiamo gruppo di formazione[55].
E’ da tenere in considerazione in quanto in questa dimensione l’individuo è tra i suoi pari e saranno così proprio i suoi pari a fornirgli punti di vista nuovi ed utili interpretazioni del suo agire. In una dimensione di gruppo inoltre, si tende a concentrarsi sul quello che viene definito “qui ed ora”, mediante questa modalità di riflessione sul sé infatti si riesce meglio a fare il punto sugli stati d’animo e sui vissuti. La riflessione sul sé ha così inizio in un reale e profondo contatto con sé stessi; è questo un presupposto indispensabile per la comprensione dei propri movimenti interni e dunque per l’auto-orientamento.
Il conduttore diventa così soltanto un regista ed un garante della situazione. Si trova in una posizione che gli permette di far sì che all’interno del gruppo non ci siano sopraffazioni, manipolazioni, squalifiche o quant’altro di “pericoloso”, al contempo riesce a dare comunque indicazioni e spunti di riflessioni, o anche consigli precisi, ma attraverso un canale di comunicazione che al contempo rafforza e stempera i messaggi.
Rafforza perché il contorno fa si che i vissuti e le opinioni vengano oggettivizzate e rese reali, stempera perché costruisce (attraverso processi empatici[56]) un substrato di rispetto, comprensione e condivisione che permette di sostenere anche “colpi” ben mirati. Infine, il linguaggio in un gruppo di adolescenti è quello degli adolescenti.
Lavorare in gruppo.
Il gruppo si caratterizza come una struttura dinamica . All’interno di un gruppo, soprattutto in assenza di sovrastrutture che ne determinino la forma, si strutturano spontaneamente ruoli e funzioni sulla base delle caratteristiche individuali dei singoli partecipanti. Un gruppo invece che voglia avere una direzione o un senso formativo deve strutturarsi in controtendenza alle naturali disposizioni dei componenti nel caso che il gruppo sia stato formato casualmente, in linea con le caratteristiche degli individui se è stato selezionato per caratteristiche simili.
La costituzione dei gruppi di lavoro deve perciò essere il primo passo per la costruzione di un’attività formativa , la scelta delle persone deve avvenire in base agli obiettivi e ai bisogni delle specificità dei singoli, del contesto, e degli obiettivi formativi.
Diversamente, nel caso in cui ad esempio non si distinguano i gruppi a seconda delle caratteristiche delle persone, si ottiene una diminuzione dell’efficacia complessiva del progetto. Basta questo infatti per correre il rischio di non riuscire a raggiungere tutti gli studenti che partecipano al gruppo.
Di conseguenza, condurre un gruppo che sia formativo richiede al conduttore una grande padronanza e coscienza delle dinamiche relazionali interne ai gruppi perché egli possa essere in grado di muovere e modificare gli equilibri con l’obiettivo ultimo dello sviluppo e del riconoscimento delle individualità in gioco.
Altro fattore da tenere presente nell’intervento in gruppo è la necessità di costruire percorsi specifici per specifiche individualità. Inserire i componenti in un gruppo di lavoro piuttosto che in altro, non solo può essere inutile, ma in alcuni casi dannoso per lo studente stesso e per il gruppo. Dannoso perché si può ottenere l’effetto di una repulsione aprioristica dell’attività da parte del soggetto o perché si corre il rischio di riconfermare un copione di atteggiamenti sociali o relativi alla strutturazione dell’identità con tutti i rischi che ne conseguono per lo sviluppo armonico delle personalità.
Ad esempio le attività teatrali, se pur rappresentino un efficace e divertente mezzo di socializzazione e di emancipazione per molti studenti, per alcuni rischiano di essere solamente una forma di ricarica per il loro narcisismo. Ragazzi comunicativi, bravi nella recitazione rischiano di divenire all’interno di queste attività delle primedonne e, pur trovando la loro strada professionale, perdono l’occasione di apprendere cose importanti per la loro pienezza emotiva. Conseguentemente si auto-seducono per il loro ruoli di comunicatori e seduttori, trovando difficoltà a immaginarsi al di là di atteggiamenti narcisistici o egocentrici. A spese dei più timidi che in questo caso vengono di nuovo sconfitti e riconfermano la loro non-socialità.
Del resto, altri tipi di attività presentano altri problemi. Un gruppo di lavoro fortemente indirizzato all’obiettivo può diventare la casa (o ancor peggio, il dominio) di coloro che già sanno essere buoni organizzatori o imprenditori di sé stessi. In questi casi si paga un caro prezzo. L’instaurarsi infatti di un leader, pur rendendo efficace il gruppo, impedisce ai meno reattivi e decisi di trovare uno spazio di apprendimento per la loro imprenditorialità. Un altro esempio può essere il gruppo di ricerca su specifiche produzioni culturali. Non serve a chi già è acuto e culturalmente preparato o profondo perché intuitivo o perché particolarmente sensibile. Per questo tipo di persone è un’inutile conferma della loro (supposta) superiorità. Di conseguenza, in loro presenza, diventa una gabbia di adulazione all’interno della quale le persone meno profonde apprendono solamente la loro inutilità.
La soluzione sta nell’individuazione di specifici bisogni e percorsi. Va bene il teatro, ma va bene per chi è particolarmente timido. Va bene la poesia e la cultura alta per chi non è abituato ad approfondire ed a gustare le sottili intuizioni ed i paradossi cognitivi, semprechè nel gruppo non ci siano uno o più ragazzi che già si muovono bene su quel livello. Va bene lo sviluppo dell’imprenditorialità per i demotivati e per i paurosi, ma non va bene per gli intraprendenti che invece hanno bisogno di quiete e riflessione.
2.11. La classe per l’orientamento
Continuando nella metafora per cui possiamo considerare la scuola una struttura similare ad un’organizzazione, possiamo prendere in prestito alcuni altri termini e tecniche organizzative. Se la classe può infatti diventare, e con lei lo studio e le attività curriculari, fonte e mattone di un percorso di orientamento, può farlo solo se, premesse le competenze del docente (di cui sopra), riesce ad uscire dalla classica dinamica di controllo e trasmissione di dati (ammesso e non concesso che riuscisse a trasmetterne) per arrivare a quelli che sono i meccanismi ed il funzionamento degli empowered Work-group. Claudia Piccardo[57] definisce con questo concetto gruppi di lavoro autonomi all’interno dei quali, dato o auto-definito un obiettivo, gli individui cercano e trovano in loro stessi, e nella diversificazione degli apporti, le risorse per raggiungerlo.
Parallelamente possiamo citare molte altre strategie di lavoro in classe utili al nostro obiettivo, se opportunamente utilizzate a seconda delle situazioni in cui si deve operare, e quindi se non prese come soluzione per tutti i contesti e le situazioni. Ad esempio lo student team learning (R. Slavin,1996), il learning togheter (D.T. Jhonson,1999), la cooperative learning, il group investigation (Università di Tel Aviv),lo structural approach (S. e M. Kagan, 1994) o gli stessi gruppi di cui prima scrivevo se ben implementati e coordinati ed utilizzati a seconda dei contesti di classe, possono rivelarsi ottime tecniche per la qualità dell’apprendimento in classe e dunque per l’orientamento[58].
2.12. Test e questionari: qual è il senso del loro utilizzo?
In ambito psico-pedagogico l’utilizzo dei questionari e dei test è un argomento dibattuto e controverso. Da un lato, sono utilizzati largamente in ambito di ricerca, dall’altro, divergono le opinioni sulla loro utilità nell’ambito della consulenza e del sostegno.
Alcuni (soprattutto psicologi), che potremmo definire d’impostazione “scientifico-sperimentale” supportati da credibili motivazioni, vedono nel test uno strumento di precisione (se ben strutturato) per la definizione di oggettivi parametri sulle persone e li utilizzano in più settori: selezione del personale, test psico-attitudinali et similia.
Altri, soprattutto nell’ambito pedagogico e spesso tra gli operatori del settore, e che potremmo definire d’impostazione “romantica”, vedono nel test uno strumento inattendibile e disumanizzante rispetto all’incomprensibile varietà umana.
Uscendo da entrambe le ottiche pregiudiziali di cui sopra, cerchiamo di analizzare in profondità la questione.
In primis, partiamo dal presupposto che il questionario ed il test in analisi siano ben strutturati e scientificamente credibili. A questo punto dobbiamo riflettere su alcuni parametri.
La pedagogia e la psicologia sono scienze nuove, che vedono in questi ultimi vent’anni la loro trasformazione da scienze “magiche” a “scientifiche”. In questo senso, si deve considerare che cento anni di ricerca psicologica ci hanno portato ad avere una certa quantità di conoscenze attendibili rispetto al settore della comprensione del comportamento dell’uomo. Lo stesso si può dire per le scienze antropologiche e pedagogiche.
L’uomo, per quanto possa essere considerato infinito ed infinitamente variabile nella miscela delle sue modalità di relazione e di comportamento rispetto a sé, agli altri ed al mondo, contiene alcune caratteristiche ricorrenti ed universalizzabili. Affermare questo, non vuol dire sminuire le potenzialità dell’individuo né scomporlo scientificamente come se fosse una macchina o quant’altro.
La rilevazione e l’interpretazione dei dati sono due fasi della produzione scientifica ben diversi in cui possiamo distinguere e ricomporre la frattura tra le due ottiche di cui parlavamo prima. In effetti, l’ottica scientifica è rappresentata dalla “rilevazione” dei dati, quella “romantica” deve invece essere contenuta in quanto portatrice di soluzioni creative nel momento dell’interpretazione. Se dunque un test ed un questionario vanno a “rilevare” e non a valutare od interpretare le caratteristiche ricorrenti degli individui diventano un utile strumento per la comprensione.
Nel momento dell’interpretazione dunque si potranno usare metodi qualitativi.
2.13. A cosa servono i questionari di “Prevenire è Possibile”?
Nel modello di “prevenire è Possibile” i questionari sulle disposizioni individuali, sul clima relazionale in classe, sulle ambizioni e sulle capacità, vengono utilizzati in quella fase che nel paragrafo 2.12 abbiamo definito di “rilevazione”.
Il questionario assume il ruolo di fondamento, facente perno su indicatori osservabili e ben identificabili, per l’interpretazione dei contesti e degli individui in formazione o in orientamento. La base dunque di una prima rilevazione quantitativa centrata e sostenuta da una struttura teorica di riferimento “pesante”[59]. In questo modo, sia il contesto che gli individui non vengo raggruppati mediante una classificazione scientifica e categoriale, ma secondo la presenza di alcune variabili dicotomiche circa la presenza di alcuni tratti del temperamento o del contesto. Da questi, si è in grado di individuare alcune tipizzazioni che aiutano e sostengono l’interpretazione e l’analisi qualitativa che ne seguirà.
L’interpretazione delle compresenze, della miscela di caratteristiche dell’ambiente e della situazione, prendono forma in archetipi unici e rappresentativi di quello specifico contesto o di quella specifica persona. A questi vengono aggiunti i dati percettivi e non quantificabili scientificamente.
Cap. 3. I comportamenti, i tipi, gli stili della scelta e le competenze: interventi diversi per persone diverse.
Premessa
In questo capitolo cercherò di spiegare cosa si intende per differenziazione degli interventi, e su cosa si fonda la nostra teoria sulla qualità nell’orientamento.
L’idea di partenza, l’obiettivo a cui puntiamo e la convinzione che ci muove, è che crediamo che la soluzione pratica ai problemi dell’orientamento si possa trovare solo quando riusciremo a progettare interventi mirati e personalizzati. Allora i costi della progettazione saranno più bassi e molte più scuole potranno usufruirne. Ad oggi, nessuna scuola e nessuna azienda può permettersi di finanziare, per problemi di tempo e di costi, interventi molto lunghi su tutti i propri studenti o dipendenti.
Il presupposto è che ogni studente abbia particolari bisogni, oltrechè bisogno di specifiche modalità d’approccio.
3.1. Definizione e classificazione comparata degli idealtipi.
Da anni la ricerca psicologica e pedagogica cerca di identificare alcune caratteristiche ricorrenti negli uomini per poterne classificare le tipologie, gli archetipi o affini.
Quasi ogni impostazione di ricerca, ha trovato le sue ricorrenze che, a seconda delle situazioni sono state definite attitudini, qualità, caratteristiche caratterologiche, tipi, modelli ideali e quant’altro.
Nel nostro lavoro, abbiamo deciso di definirle disposizioni e propensioni. Questi termini rappresentano infatti l’originalità e l’unicità della caratteristica, ma, a differenza del termine tayloristico attitudini, ne rappresentano anche la dimensione emotiva e di acquisizione.
La disposizione (di cui parlere meglio più avanti) in se non rappresenta una abilità o una capacità, ma un a tendenza verso, tendenza che per diventare capacità o abilità necessita di essere sviluppata e scelta. Ancora, disposizione rappresenta la processualità e la possibilità di sviluppo senza negare la presenza di altre disposizioni. L’abilità, la capacità sono invece determinate dalle esperienze, dai contesti di vita, e dalle scelte personali che sviluppano certe disposizioni o ne impongono la soppressione.
Prima ancora della disposizione sta invece la propensione, che rappresenta quelle caratteristiche che solitamente vengono definite potenzialità.
Parlare dunque di disposizioni e delle propensioni ci permette di affrontare un discorso sulle potenzialità di ogni singolo studente, e di individuare di essi le personali debolezze e inclinazioni. Rispettando la nostra ferma convinzione che nella vita, sempre che lo si scelga, si può imparare tutto e che, in ogni uomo, sia in nuce presente la potenzialità per diventare ciò che vuole. Le possibilità offerte, le scelte, i contesti le relazioni umane e a volte anche il caso o il destino (per chi ci crede) influiscono su questa potenzialità.
D’altro canto siamo anche convinti che ogni uomo abbia in sé una particolarità, e che sia quella la caratteristica su cui investire per il futuro.
Con questo orizzonte teorico siamo andati a raccogliere informazioni su tutte le ricerche effettuate nei vari ambiti in questo senso. Parallelamente, si aveva l’occasione di studiare circa duemila cartelle cliniche e profili psicologici[60].
Raggruppando i dati contenuti dalla ricerca metodologica mediante l’utilizzo della analisi multifattoriale[61] si sono potuti individuare alcuni nuclei di disposizioni emotive che, in maniera relativa (nel senso che le scelte potevano anche essere differenti in quanto facenti parti in realtà di un continuum trasmutativo) ma non arbitraria, potevano essere ricondotte a sette dimensioni dell’emotività. Riconducendo questo agli studi esistenti si ritrovavano concordanze con quelle che solitamente vengono individuate come le emozioni di base. Gli stessi nuclei di disposizioni evidenziate sulla base delle emozioni fondamentali, si ritrovavano nell’analisi delle varie tipologie definite dai vari modelli teorici di riferimento (vedi tabella successiva). In alcuni casi esse si ritrovavano contenute negli archetipi interpretativi puri di alcuni modelli, in altri, si ritrovavano distribuiti nei modelli osservativi.
Idealtipi puri o rappresentativi?
I tipi definiti dal nostro modello sono da intendersi come Idealtipi puri. Questo significa che nella realtà non troverete mai un ragazzo che rappresenti in tutto l’idealtipo di riferimento ma che, mediante i dati raccolti, sarete in grado di valutare la quantità della presenza di un nucleo di disposizioni. Altri modelli (ad esempio l’enneagramma) non individuano tipi puri ma cercano di descrivere alcuni modelli comportamentali riscontrabili nella realtà tra le persone. In linea di principio, sembra esserci poca differenza, nei fatti il modello degli idealtipi puri permette di meglio rappresentare la diversità di cui ogni individuo è portatore.
Definizione degli idealtipi[62]
Parleremo degli idealtipi dando ad essi i nomi relativi alle loro propensioni.
Il primo idealtipo è quello che abbiamo definito “logico”. Il ragazzo prevalentemente logico avrà nei suoi tratti caratterologici la disposizione alla precisione, all’ordine (che sia interno o esterno), al calcolo delle possibilità e una notevole propensione all’equilibrio ed al controllo. D’altro canto, probabilmente avrà un basso livello di dinamicità e di flessibilità e una limitata capacità di coinvolgersi e di entusiasmarsi. Professionalmente possiede disposizioni che lo rendono elettivamente adatto a lavori di analisi, raccolta dati, esecuzione di procedure e precisione d’esecuzione. Nella sua dimensione relazionale saprà essere un buon diplomatico ed un attento e preciso osservatore degli atteggiamenti altrui, sarà però bassa la sua sensibilità emotiva ed empatica, restando centrato sulla sua alta autoreferenzialità.
L’ “attivo” sarà invece lo studente particolarmente energico e reattivo, fisicamente atletico e capace nello sport. Coordinato, cinestetico e dotato di intelligenza pratica sarà un buon imprenditore e riuscirà a mettere in movimento molte iniziative, dotato come è di un’alta intraprendenza. Al contempo, potrà essere un collerico, a volte iroso votato alla ricerca della giustizia. E’ portato a mestieri d’azione e che richiedono molte energie, movimento e sfide continue. Ma ha bisogno di acquisire un po’ di calma e di pace.
Il “creativo” è quello studente che si perde nelle sue intuizioni e nelle sue interpretazioni in continuo movimento. E’ il ragazzo dotato del classico “pensiero divergente”, che risolve problemi ed equazioni in maniera assolutamente innovativa (a che se a volte, non avendo studiato bene, anche sbagliata!). Si incuriosisce subito per tutto ciò che è proposto in maniera strana o particolare, ma anche si stanca immediatamente. Gioisce più della comprensione che della soluzione, di fatto sono rari i casi in cui porta a termine qualcosa. E portato a mestieri che richiedano intuizioni, acume e approcci cerebrali.
L’”emozionale” è invece quel ragazzo simpatico, che fa battute e piace quasi a tutti, ha un sacco di amici ed è sempre pronto a fare confusione, anche se magari viene regolarmente scoperto. E’ generoso e propenso al coinvolgimento. Emotivamente è spesso instabile oscillando tra momenti d’euforia e di depressione totale. Professionalmente è portato a fare mestieri che includano il contatto, la capacità di coinvolgere (animatore, public relator, consulente finanziario, venditore) e l’espressività (cantante, poeta, artista in generale). Deve però imparare la profondità e la cura e l’attenzione per le persone e le cose.
Il “plastico”: il termine risulta un po’ complesso, ma serve a rappresentare la dimensione di questo idealtipo di plasticità intesa come capacità di adattamento. Solitamente questo tipo di persone hanno un bassissimo livello di iniziativa e di intraprendenza. Pensano molto dentro di loro e costruiscono castelli di carte, che diventano muri insuperabili per cominciare un’impresa nella speranza di riuscire. Perciò si adattano e si accontentano di quello che c’è. Paciosi e quieti, hanno bisogno di motivazione e reattività. Sono però adatti a lavoro statici e magari un po’ routinari, Magari in cui si richieda riflessività, ma non azione (ad esempio l’haker informatico o il filosofo).
Il “percettivo”, come si può facilmente intuire, è invece dotato di una grande sensibilità. E’ spesso timido, riservatissimo e spesso non lo si nota, impegnato com’è a non farsi vedere. Si vergogna molto e vive le sue sensazioni in maniera assoluta e a-temporale; difficilmente percepisce la processualità degli eventi e spesso ha dunque problemi nell’apprendimento. Nella sua logica, se una cosa non la sa fare, non potrà mai impararla. D’altro canto è adattissimo a professioni di sacrificio e di sostegno, la sua sensibilità, se impara ad essere espressa e rivolta agli altri, è una indispensabile dote per uno psicologo, un educatore e affini.
Il “partecipativo” è quel ragazzo che spesso vive il ruolo dentro un gruppo di mascotte. Spesso viene preso in giro, magari ha pochissimo fascino sulle ragazze. E’ sempre agitato e continuamente richiede attenzione. Ma ha mille amici, e si sforza di aver cura di ognuno di loro. Sa capire cosa una persona vuole sentirsi dire. E’ preciso e sempre in anticipo nello svolgimento dei compiti e degli impegni, anche se magari, dominato dall’ansia di finire e di far bene, presenterà le idee in maniera confusa o sbagliata. E’ portato per il contatto con le persone, per tutte le professioni educative e per quei lavori che richiedono cura e precisione. Spesso però è molto condizionabile.
Alle propensioni corrispondono poi alcune definizioni centrate sulle disposizioni che sono da mettersi in relazione secondo la seguente tabella:
Propensioni |
Disposizioni |
Logico |
Realistico |
Attivo |
Intraprendente |
Creativo |
Innovatore |
Emozionale |
Espressivo |
Plastico |
Convenzionale |
Percettivo |
Sociale |
Partecipativo |
Relazionale |
Classificazione comparata degli idealtipi.
In questo paragrafo cercherò di rendere merito alla ricerca svolta circa la distinzione e la presenza delle disposizioni rispetto ad altri modelli teorici. Le tabelle seguenti mostrano i punti di contatto tra la teoria di ”Prevenire è Possibile” ed i maggiori paradigmi di ricerca.
Nella prima tabella si possono vedere le correlazioni con gli studi sui modelli dell’intelligenza di Gardner, con i vari livelli di sviluppo cognitivo e con i modelli comunicativi di Jackobson. Per ciò che riguarda la comunicazione e le forme del linguaggio non si fa riferimento al modello di Austin, i cui modelli sono riferibili agli obiettivi della comunicazione. Gli obbiettivi, essendo dettati dal contesto e dalle situazioni non sono direttamente collegabili (in quanto frutto di scelte) né alle strutture cognitive né alle caratteristiche caratterologiche o alle disposizioni.
In linea teorica possiamo limitarci a dire che l’atto locutivo si riferisce alla sfera della funzione informativa (e quindi in linea di principio collegabile alle modalità comunicative del creativo e del percettivo e del relazionale), l’atto illocutivo alla funzione poetica e espressiva (pertanto disposizionalmente proprie del plastico e dell’emozionale) e quello perlocutivo alla dimensione fàtica e conativa (analitico e pragmatico). Si deve però considerare che, ad esempio, nel raggiungimento di un obiettivo, sono molteplici i livelli comunicativi richiesti. E’ perciò complesso distinguere tutte le funzioni in gioco.
Idealtipi |
Sviluppo cognitivo secondo Lowenfield e Brittain |
Modello di intelligenza secondo Gardner |
Modelli comunicativi secondo Jackobson |
Logico |
Formale |
Logica |
Fàtica (di verifica) |
Attivo |
Pratica |
Cinestetica |
Conativa (persuasione al moto) |
Creativo |
Intuitiva |
Spaziale |
Informativa (obiettiva) |
Emozionale |
Espressiva |
Linguistica |
Espressiva (metalinguistica) |
Plastico |
Estetica |
Intrapersonale |
Poetica (suggestiva) |
Percettivo |
Descrittiva |
Lessicale |
Immaginativa (fotografica) |
Partecipativo |
Emotiva |
Interpersonale |
Descrittiva (contesualizzante) |
Nella seguente tabella gli idealtipi sono messi in relazione all’atteggiamento e ai comportamenti nei gruppi, dalle modalità di relazione allo stile della leadership.
Idealtipi |
Stili di Leadership[63] |
Atteggiamenti in gruppo (AlaPhilippe, 1983) |
Posizione Sociometrica[64]
|
Logico |
prescrivere |
Suggerimento, complemento di informazione |
Status medio, Leader accettati o aggressivi |
Attivo |
Prescrivere/vendere |
Suggerimento, aiuto |
Leader aggressivi o aggressivi/sottomessi |
Creativo |
assente |
Valutazione, suggerimento, complemento di informazione, interpretazione |
Anti-Leader, Leader sottomesso, Ignorati |
Emozionale |
Coinvolgere/vendere |
Suggerimento, aiuto |
Leader accettato, status medio |
Plastico |
assente |
Interpretazione, valutazione |
Isolati/Ignorati, Leader sottomessi, status medio |
Percettivo |
assente |
Comprensione, supporto |
Ignorati, status medio, soggetti isolati |
Partecipativo |
coinvolgere |
Comprensione, aiuto |
Marginali, Leader sottomessi, Gregari |
Sempre rimanendo nell’ambito della psicologia sociale, la tabella successiva mostra invece gli idealtipi in relazione alle funzioni organizzative e alle relazioni di collaborazione studiate da Torbert (1991) all’interno delle aziende ma riscontrabili anche all’interno dell’istituzione scolastica.
Diversamente dal costrutto originario, in cui Torbert visualizza gli stadi del potere in prospettiva temporale, gli stessi sono secondo noi da considerare in prospettiva a-temporale. Di conseguenza lo stadio opportunistico non è precedente o “meno evoluto” di quello realizzativo o di quello ironico o diplomatico ma semplicemente differente.
Più semplicemente, vederli in prospettiva Piagetiana lascia spazio ad attribuzioni di merito ai vari livelli, considerarli invece in prospettiva Vigoztkiana permette di considerali solamente facenti parte di modalità d’attivazione e di comprensione cognitiva ed emotiva differente.
Idealtipo |
Stadio di sviluppo del potere |
Tipo di potere esercitato secondo Torbert |
Logico |
Opportunistico / strategico |
Unilaterale e unidirezionale |
Attivo |
Realizzativo |
Integrazione tra consensuale, unilaterale e logico/razionale |
Creativo |
Ironico |
Trasformativo |
Emozionale |
Diplomatico |
Consensuale |
Plastico |
Opportunistico/Diplomatico |
Unilaterale e unidirazionale |
Percettivo |
Tecnico |
Logico/razionale |
Partecipativo |
Magico |
Trasformativo |
Il modello di Jung e l’enneagramma
Rispetto a questi due modelli è difficile comporre una chiara tabella rappresentativa delle ricorrenze in quanto in entrambi i casi i modelli di confronto hanno una valenza rappresentativa[65] e presentano una distribuzione differente degli atteggiamenti e delle forme mentali.
Jung (1969): Mediante il confronto con il modello di Jung si possono mettere in evidenza le caratteristiche legate all’introversione e all’estroversione, oltrechè tentare una traduzione di più facile comprensione degli idealtipi:
nel logico si trovano componenti dei tipi: pensiero/estroverso e pensiero/introverso; l’approccio è sempre cerebrale, ma può risolversi verso una centratura interna (difensività) o esterna (assertività e consensualità);
per l’attivo: intuizione/estroverso e pensiero/estroverso; ancora un approccio prevalentemente cerebrale ma rivolto alla soluzione e all’azione;
per il creativo: pensiero/introverso e intuizione/introverso/estroverso; prevalenza del piano cognitivo ma solitamente rivolto verso la dimensione interna del sé;
per l’emozionale: sensazione/estroverso; prevalenza della dimensione emotiva e continua estroversione dei vissuti;
per il plastico: non presente;
per il percettivo: sensazione/introverso e pensiero/introverso; approccio oscillante tra il piano cognitivo e quello percettivo, comunque in una visione intimistica di autoreferenzialità e/o difensività;
per il partecipativo: sentimento/estroverso; il piano dell’emotività e delle sensazioni sono i due piani dominanti, l’azione è sempre rivolta all’esterno (assertività, invadenza, continue richieste d’attenzione).
Enneagramma[66] (Rohr e Erbert, 1989):
Logico: tipo n° 5 e 6, per la difensività e la tensione verso il controllo generato dalla paura;
Attivo: tipo n° 1, 3 e 8, carica e motivazione interiore, aggressività verso gli altri e/o sé stessi;
Creativo: tipo n°2, per l’atteggiamento di superbia e di distacco oggettivo dalle cose e dalle situazioni;
Emozionale: tipo n° 7, per la generosità;
Plastico: tipo n° 9, per la quiete interiore e esteriore;
Percettivo: tipo n° 2 e 4, al positivo per la sensibilità, al negativo per la capacità di istigazione;
Partecipativo: tipo n° 8, il costante bisogno di essere accettato.
A completezza del quadro complessivo che stiamo delineando, nella tabella seguente, gli idealtipi, (tenendo comunque presente che quelle seguenti sono variabili teoricamente rappresentative, ma nella realtà da valutare caso per caso) allo scopo di identificarne meglio le caratteristiche ricorrenti, vengono messi in relazione alla presenza di alcune caratteristiche psicologiche considerate dalla ricerca degli ultimi anni:
Idealtipo |
Percezione di Self-efficacy |
Livello di autostima
|
Livello di autoregolazione |
Livello di assertività |
Logico |
alta |
alto |
Alto |
Alto |
Attivo |
Alta |
Alto |
Alto |
Basso |
Creativo |
Bassa |
Alto |
Basso |
Basso |
Emozionale |
Bassa |
Alto |
Basso |
Medio |
Plastico |
Bassa |
Basso |
Medio |
Alto |
Percettivo |
Alta |
Basso |
Alto |
Medio |
Partecipativo |
Bassa |
Basso |
Basso |
Alto |
Relativamente agli studi sul Locus of Control, nella seguente tabella sono mostrate le attribuzioni positive e negative relativamente al successo e all’insuccesso di ciascun idealtipo. Come si potrà osservare, la tabella è carente di alcune combinazioni come la presenza di attribuzioni positive rispetto al sé e all’esterno nel caso dell’insuccesso e la presenza di attribuzioni negative rispetto al sé e all’esterno nel caso di un successo o di un evento negativo. Entrambe le combinazioni sono infatti nella pratica quotidiana intuitivamente e inevitabilmente impossibili.
Rispetto infine alle attribuzioni dell’idealtipo plastico, si deve considerare l’attribuzione (interna o esterna che sia) come una parziale forzatura in quanto solitamente non si verifica alcuna attribuzione ma solo accettazione indifferente o passiva sia nei confronti degli eventi positivi che di quelli negativi.
Idealtipo |
Evento positivo (successo) |
Evento negativo (insuccesso) |
Logico |
Attribuzione positiva rispetto al sé (Locus interno) |
Attribuzione negativa rispetto all’esterno (Locus interno) |
Attivo |
Attr. positiva rispetto al sé (Locus int.) |
Attribuzione neg. rispetto all’est. (Locus int.) |
Creativo |
Attr. pos. rispetto al sé (Locus int.) |
Attribuzione neg. rispetto al sé (Locus esterno) |
Emozionale |
Attr. pos. rispetto al sé e all’esterno (Lucus int. e est.) |
Attr. neg. rispetto all’esterno (Locus interno) |
Plastico |
Attr. pos. rispetto all’esterno (Locus esterno) |
Nessuna attribuzione |
Percettivo |
Attr. pos. rispetto all’esterno (Locus esterno) |
Attr. neg. rispetto al sé (Locus esterno) |
Partecipativo |
Attr. pos. rispetto al sé e all’esterno (Locus interno ed esterno) |
Attr. neg. rispetto al sé (Locus Esterno) |
Gli idealtipi e le strategie di coping
Ogni idealtipo si differenzia per quelle che sono le sue strategie di coping, ossia le modalità con cui l’individuo reagisce ai problemi esterni e alle situazioni impreviste, considerate rischiose, o che richiedono di fronteggiare situazioni per cui non si hanno sufficienti risorse.
Safont[67] , Paulhan[68], Lazarus e Folkman[69] affrontano il problema che gli ultimi due giungono a definire infatti “l’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali destinati a controllare, ridurre o tollerare le esigenze interne o esterne che minacciano o oltrepassano le risorse dell’individuo.”
Gli stessi le distinguono in strategie di coping orientate all’emozione oppure al problema. Le prime sono quelle cioè mirate alla ricostruzione oppure al mantenimento di un equilibrio emotivo, le seconde sono invece mirate al raggiungimento dell’obiettivo, ovvero la risoluzione del problema.
Ancora, possiamo distinguere in tre elettive modalità di difesa: autonome, eteronome, reattive contro-dipendenti[70].
Le prime, orientate al problema, possono essere strategie che mantengono l’obiettivo modificando le modalità (attivazione) oppure che modificano l’obiettivo pur senza rinunciarvi in termini assoluti ma solamente momentanei (riaggiustamento dell’azione / razionalizzazione).
Quelle eteronome sono invece orientate maggiormente all’emozione e prevedono nel soggetto una forma di resa verso il problema. Possono attuarsi mediante fasi di demotivazione e disinteresse (apatia) verso il problema, in fasi di rimessa agli altri delle responsabilità e del potere decisionale (mimesi), oppure di rimozione del desiderio (distacco).
Le strategie reattive contro-dipendenti si caratterizzano per il manifestarsi da parte del soggetto di desiderio di rivolta o evasione e possono essere: di opposizione verso l’ostacolo, quasi ponendosi in contrasto pur senza fare nulla per modificare la situazione (resistenza passiva) oppure di negazione dell’ostacolo, nel senso della rinuncia alla consapevolezza su di esso e della modificazione del proprio comportamento (negazione).
Nella tabella seguente, le strategie di coping vengono messe in relazione agli idealtipi che abbiamo definito.
Idealtipo |
Strategia di coping |
Tipo di coping |
Logico |
Razionalizzazione |
Autonomo |
Attivo |
Attivazione |
Autonomo |
Creativo |
Riaggiustamento dell’azione, distacco |
Autonomo ed eteronomo |
Emozionale |
Apatia, distacco, negazione |
Eteronomo e contro-dipendente |
Plastico |
Apatia e resistenza passiva |
Eteronome e contro-dipendenti |
Percettivo |
Resistenza passiva e mimesi |
Eteronome e contro-dipendenti |
Partecipativo |
Mimesi, negazione e attivazione |
Autonome, eteronome e contro-dipendenti |
Holland [71]
In chiusura di questa parte, tornando ad avvicinarci al problema dell’orientamento mi sembra utile presentare alcuni riferimenti al modello di Holland, che oltre ad essere un modello di interpretazione del temperamento è un modello di intervento orientativo.
Nel lavoro dell’autore troviamo sei differenti tipologie di personalità che vengono così definite:
· Realistico: un soggetto con questo tipo di personalità possiede capacità nell’ambito meccanico e viene descritto come conformista, onesto, schietto, materialista, naturale, pratico, perseverante, modesto e stabile.
· Intellettuale: ha prevalentemente capacità matematiche e scientifiche e solitamente è prudente, analitico, critico, curioso, indipendente, introverso, metodico, preciso e razionale.
· Artistico: spiccate capacità artistiche ed espressive, buone doti musicali. E’ complicato, emotivo, espressivo, immaginifico, con poco spirito pratico, impulsivo, indipendente, non conformista e originale.
· Sociale: possiede notevoli capacità sociali e di relazione con gli altri, è convincente, cooperativo, amichevole, di sostegno, idealista, socievole, responsabile e comprensivo.
· Intraprendente: possiede cpacità di leadership e di comando, si esprime con facilità e potremmo a lui attribuire i seguenti aggettivi: avventuroso, ambizioso, energico, dominante, impulsivo, ottimista, fiducioso, popolare.
· Convenzionale: buone capacità di calcolo e di organizzazione del lavoro, è conformista, coscienzioso, prudente, conservatore, ordinato, perseverante, con senso pratico, calmo.
Nella tabella che segue, si possono individuare le corrispondenze nelle tipologie dell’autore con il modello di “Prevenire è Possibile”.
Holland |
Prevenire è Possibile |
Realistico |
Logico |
Intellettuale |
Percettivo / Logico |
Artistico |
Creativo /Emozionale |
Sociale |
Partecipativo / Emozionale |
Intraprendente |
Attivo |
Convenzionale |
Plastico |
3.2. I processi di scelta, il cambiamento e l’orientamento
Imparare a scegliere vuol dire imparare ad essere consapevoli di ciò che si potrà ottenere e di ciò che sicuramente si perderà. Parallelamente, vuol dire sapere bene fin dove si può arrivare ed essere consapevoli del percorso da effettuare. Nella bilancia della scelta, perché questa possa quanto più possibile essere sensata e consapevole devono starci le passioni, le ambizioni, i desideri ma anche le oggettive capacità e disposizioni, le possibilità legate ai contesti. Scegliere la strada giusta per noi stessi vuol dire riuscire a costruire il percorso migliore secondo le nostre passioni, le nostre ambizioni, all’interno delle strade o delle direzioni che le possibilità ci offrono. Questo non vuol dire essere passivi ma semplicemente realistici rispetto alle condizioni. Consapevoli che con il tempo e la motivazione, e le scelte giuste, si potrà raggiungere cose mai sperate.
Scelta e cambiamento
In questa prospettiva è dunque necessario entrare nel merito dei percorsi di scelta che le persone effettuano, e dunque cercare di definire meglio cos’è una scelta.
Una scelta, una decisone in merito a qualcosa presuppone una valutazione e ad essa segue spesso un cambiamento. Soprattutto nell’ambito delle scelte esistenziali, ma anche professionali (del resto è possibile individuare la linea di demarcazione tra professione ed esistenza?), e soprattutto per ciò che riguarda la fase dello sviluppo e del sé, alla scelta di un percorso segue l’attuazione di un cambiamento.
Inoltre, una fase di scelta, esplicita o implicita che sia, segue le medesime fasi sia nel caso in cui sia una scelta di conferma del precedente o di disconferma. Pertanto la si può sovrapporre ad un percorso di cambiamento in cui le variabili in gioco sono il percorso stesso, la consapevolezza del percorso e solamente nei termini del risultato raggiunto la conferma o la disconferma (cambiamento) di una posizione o di un comportamento. O di un vissuto.
Ma cos’è il cambiamento? E perché ci interessa? Perché capire come le persone cambiano a seconda del loro temperamento ci permette di raccogliere preziose informazioni circa i suoi percorsi di scelta.
Prochanska e Norcross[72] individuano un percorso composto di alcune fasi che caratterizza il cambiamento che ci fornisce utili strumenti. Le fasi (in numero di cinque) si distinguono in:
precontemplazione: fase di assenza di riconoscimento del problema;
contemplazione: fase in cui emergono dubbi e contraddizioni e causano spesso ambivalenze;
decisione: nota anche come preparazione o determinazione, è la fase in cui si comincia a cercare una soluzione al problema;
azione: la fase in cu si attua la soluzione in maniera istintiva e reattiva o a seguito di una razionalizzazione avvenuta nella fase di decisione
mantenimento: fase di consolidamento delle acquisizioni o di rinforzo delle precedenti scelte.
Le stesse, che nella proposta degli autori si susseguono all’interno di un processo di cambiamento che è comune a tutte le persone, sono a nostra opinione da considerarsi invece fasi elettive di un processo che assume posizioni di partenza diverse a seconda delle strutture di personalità ed è quindi il presupposto da cui iniziare a progettare il percorso di cambiamento.
Tipologia |
Fase elettiva |
Rischio di ricaduta[73] |
Logico |
Mantenimento |
Basso |
Attivo |
Azione |
Basso |
Creativo |
Contemplazione |
Alto |
Emozionale |
Precontemplazione |
Alto |
Plastico |
Precontemplazione |
Alto |
Percettivo |
precontemplazione,mantenimento |
Basso |
Partecipativo |
Azione, mantenimento |
alto |
Altro fattore da tenere in considerazione nella progettazione del cambiamento è il rischio di ricaduta, che impone modalità diverse di ancoraggio delle acquisizioni.
I percorsi di cambiamento e i bisogni educativi.
Il logico. Ha bisogno per poter intraprendere un percorso di cambiamento di un’iniziale tranquillizzazione poiché è in continua ansia legata al suo bisogno di mantenimento dello status quo. Dunque il suo percorso comincia con la tranquillizzazione (mediante una prima fase di coinvolgimento e poi di preparazione del percorso) portandolo nella fase di contemplazione, di nuovo preparazione (questa volta all’azione, non più alla contemplazione), azione. A questo punto rientra in una nuova fase di mantenimento, con bassissimi rischi di ricaduta.
L’attivo. L’attivo parte invece da una continua fase di azione ed ha quindi bisogno di un blocco iniziale che lo faccia fermare e spostare in una fase di precontemplazione da cui riprendere poi il percorso originario delle fasi. Anche qui il rischio di ricaduta è molto basso se l’azione ha dato buoni risultati.
Il creativo. Partendo da una fase di eccessiva contemplazione il creativo si blocca ad osservare ed ha quindi bisogno di un incoraggiamento all’azione e, ancor di più (visto che è facile coinvolgerlo in una impresa creativa e dinamica) ha bisogno di sostegno e tranquillizzazione nella fase subito successiva di mantenimento perché si possa evitare l’altissimo rischio di ricaduta dovuto al suo continuo rivalutare le scelte effettuate. Ha bisogno che qualcuno lo disponga di un sistema di ancoraggio dell’apprendimento altrimenti rischia di perdersi in mille nuove evoluzioni non necessariamente utili se non a volte dannose.
L’emozionale. Si parte da una fase precontemplazione. Dunque ha bisogno di essere in primo luogo rimproverato acciocché passi ad una nuova fase di azione. Ha già cambiato ma deve adesso andare in profondità e dunque tornare ad una fase di contemplazione che gli dia speranza di mantenimento e allontani il rischio di ricaduta che, anche per lui, è molto alto.
Il plastico. La sua grande capacità di mediazione e di adattamento, è dovuta alla quasi assenza di una fase di azione, come se rimanesse chiuso dentro un processo di precontemplazione, contemplazione, decisione e seguente demotivazione che lo riporta in una fase di mantenimento costante. Necessita di stimoli che lo spingano a diminuire le sue fasi di contemplazione e a rivolgere le sue energie all’azione, per poterne vedere i risultati.
Il Percettivo. Ovviamente deve innanzitutto essere incoraggiato ad rendere reale la sua riflessione (contemplazione) e quindi, con estrema semplicità, a preparare la sua azione (preparazione). A questo punto può agire, è però importante che ci sia garanzia di successo (altrimenti sprofonderebbe di nuovo nella precontemplazione), dunque il passo deve essere sicuro e breve. Al contrario che nel caso del plastico (che a causa della sua capacità di adattamento tende a lasciarsi condizionare e a demotivarsi), il rischio di ricaduta è piuttosto basso.
Il Partecipativo. Parte da una fase di furiosa e ansiosa azione. In primo luogo deve essere quindi tranquillizzato mediante la gratificazione perché la smetta di cambiare per gli altri (portandolo in una fase di contemplazione). Se si riesce a saziarlo, si può passare alle fasi successive che per lui devono essere: contemplazione, decisione e azione cosicché non ci sia ricaduta nella sua agitazione scomposta.
Modalità di apprendimento e percorsi di cambiamento.
E’ infine importante osservare che le fasi previste da Prochanska (precont./ contemplazione/ preparazione/azione/ mantenimento) sono da integrarsi con le modalità dell’apprendimento ( cognitivo e comportamentale). Pertanto l’apprendimento cognitivo è da legare elettivamente alle prime tre fasi, quello comportamentale alle successive. Si deve comunque sottolineare che in entrambi i casi sono presenti tutte le fasi anche se quelle non “elettive” si presentano in forma incosciente o comunque non formalizzata.
Ad alti livelli di apprendimento (cioè comprensivi di entrambe le modalità) tutto il processo è da auspicarsi che possa essere cosciente.
Infine, il tutto si può di nuovo legare alle tipologie:
tipologia: |
mod. apprendimento |
Fasi “coscienti” o “scelte” |
Logico |
Comportamentale/cognitivo |
Tutte |
Attivo |
Comportamentale |
Preparazione,Azione,mantenimento |
Creativo |
Cognitivo |
Contemplazione, Preparazione, Ricaduta |
Emozionale |
Comportamentale |
Azione e decisione |
Plastico |
Comportamentale |
nessuna |
Percettivo |
Cognitivo |
Contemplazione, mantenimento |
Partecipativo |
cognitivo |
Azione, contemplazione |
3.3. Come si sceglie?
Il processo di scelta, per quanto sia universalizzabile nelle sue definizioni teoriche, diventa nella pratica un percorso individualizzabile rispetto alle specifiche debolezze e fascinazioni e agli specifici percorsi cognitivi.
Pertanto si modula a seconda delle tipologie in percorsi concettualmente differenti che ne rappresentano la peculiarità.
Per il logico, la scelta è di per se oggettiva e legata all’ambizione. Ha bisogno però di cogliere la flessibilità nella progettazione e di capire il senso del fascino che in lui smuovono lavori come l’animatore di un villaggio turistico o il PR di una discoteca. Altresì deve imparare a capire che, nel caso in cui scelga per seduzione verso qualcosa che non possiede, sarà per lui davvero difficile imparare e condurre con successo un lavoro di continua relazione con gli altri.
Per l’attivo invece la scelta è tempestiva, reattiva e risolutiva. Troppo spesso frettolosa e non sufficientemente informata delle sfumature di significato che possono essere presenti. Pertanto, imparare a scegliere bene per questa persona vuol dire approfondire la riflessione, accettare quella che ai suoi occhi appare come una perdita di tempo, e lasciare un po’ a sedimentare gli eventi, i vissuti.
Il creativo non sa mai scegliere, è troppo attratto da tutto. Per lui il processo di scelta comincia dalla presa di coscienza di non poter seguire tutte le sue passioni. Dovrà selezionare imparando ciò che gli fa bene e ciò che gli fa male. Sarà attratto da lavori umili, di contatto, vedendone il fascino senza riuscire a vederne la realtà effettiva. L’archeologo non è indiana Jones, è uno studioso che passa molte ore in biblioteca ed in archivio .. il panetterie non svolge un servizio sociale, impasta il pane 10 ore a notte, e lo vende. Ha bisogno di essere portato in terra, allora saprà vedere la sua strada.
L’emozionale invece sogna di diventare un grande manager famoso, macchine di lusso, “bella gente”…oppure di diventare calciatore. Scegliere per lui vuol dire approfondire le sue intuitive capacità. Non basta allenarsi per giocare bene a calcio, non basta essere simpatico e piacevole per diventare avvocato. Prendere un po’ di tempo e guardare prima di scegliere in profondità le cose. Ascoltare e cominciare a fare ordine in se stesso e con gli altri.
Il plastico deve imparare a semplificare. Poi a reagire, credendo in sé. La sua mente vola e va oltre le cose, fino a renderle castelli insormontabili con l’unica, inevitabile soluzione dell’abbandono dell’impresa. Che nel frattempo non era neanche iniziata. Va provocato, punzecchiato fino ad imporgli di alzarsi dal divano. Ormai sei in piedi.. cammina. Oppure rasserenato circa i suoi minimi impegni. Semplici e ripetitivi.
Il percettivo sceglie molto, è estremamente selettivo, ma sceglie con un grosso errore di fondo. Sceglie mettendo nella bilancia solo sé stesso, le sue paure la sua sfiducia. L’assolutezza dei suoi vissuti a-temporali. Deve capire che i suoi soggettivi vissuti sono importanti, ma non sempre oggettivi. Deve imparare a non essere autoreferenziale, a confrontarsi, a tradurre in pratica ciò che si muove dentro. Allora comincerà a trovare la sua strada e saprà sempre ciò che tiene e ciò che perde.
Per il partecipativo la scelta è difficilissima, spesso sceglie per affetto o per imitazione. E’ confuso dai mille legami che lo intrecciano. Comunque rischia di perdersi. La capacità di scegliere per affetto, di aver cura è la sua forza. Non l’avere cura di Mario. Dunque deve capire ciò che per lui è importante, e che lui è importante per questo, anche se gli sembra di avene meno fascino, carisma, e di non sapere di niente. Non saprà di niente fintanto che continuerà a inseguire il carismatico di turno, o l’affascinante creativo.
Altri modelli di scelta
A questo punto ritengo opportuno presentare, se pur in maniera non approfondita alcuni altri lavori effettuati in relazione ai processi di scelta e all’orientamento professionale e metterne in luce le analogie e le differenze.
Peterson[74], nel suo modello logico, definisce infatti cinque grandi processi di reazione di fronte ai momenti di scelta, che si attuano sequenzialmente, ma che a mio parere sono riferibili solamente ad alcune strutture di personalità come l’analitico, il creativo e il pragmatico, ma hanno a che fare molto poco con la realtà dei cambiamenti che spesso sono reazioni casuali a situazioni date e non volute oltrechè essere spesso del tutto impliciti.
Una prima fase di presentazione del problema, una sorta di “presa di coscienza”, una fase di analisi del problema, una di sintesi e di costruzione di ipotesi predittive, una di valutazione che porta poi all’ultima fase di esecuzione.
Mullet[75] invece ci fornisce un’altra chiave interpretativa che si occupa di individuare non tanto il processo interno e personale di scelta ma i criteri mediante i quali sovente scegliamo o possiamo “scegliere di scegliere”, e quindi quelli che potremmo definire i “comportamenti decisionali” riferiti all’oggetto della scelta.
La Regola di Massimizzazione spinge infatti il soggetto ad optare per soluzioni che massimizzano il valore dell’attributo minimo cercando le soluzioni più omogenee e complessivamente migliori.
La Regola congiuntiva porta l’attenzione invece sulle aspettative del soggetto e sulla corrispondenza con esse, se pur sempre restando in un ottica di massimizzazione.
Infine la Regola lessicografica si struttura su un metodo maggiormente analitico di riflessione valutazione di ogni aspetto dell’opzione partendo dalle caratteristiche più interessanti.
Per quanto questo modello[76] ci presenti i processi ed i motivi per cui scegliamo un’opzione o un’altra, non ci aiuta dal punto di vista della crescita del soggetto.
Risulta invece interessante citare il lavoro di Arroba[77] che definisce sei stili decisionali molto vicini al modello che sto mostrando e che per semplicità esplicativa riconduco alla seguente tabella:
Stile decisionale |
Idealtipo |
Logico: in cui il soggetto valuta freddamente ed oggettivamente la situazione preoccupato dalla soluzione del problema |
Logico, Creativo, Attivo |
Cieco; in cui la decisione viene presa in fretta e senza particolari sforzi di obiettività. Reattivo. |
Attivo, Partecipativo |
Esitante: si rimanda continuamente la decisione |
Plastico, Creativo. |
Emotivo: in cui le preferenze sono relative al piacere soggettivo ed ai propri sentimenti |
Emozionale, Partecipativo |
Accomodante: la scelta è conforme all’ambiente ed al gruppo di riferimento, per comodità o per affetto. |
Partecipativo,Plastico |
Intuitivo[78]: la scelta è istintiva e “di pancia”, il soggetto ne sente la necessità e non può non eseguirla, pur non sapendone spiegare il motivo |
Percettivo |
Ovviamente le corrispondenze sono da considerarsi relative esattamente come la distinzione degli idealtipi; si considerino pertanto come stili propri di certe dinamiche e stili comportamentali ma potenzialmente utilizzabili da chiunque, come dimostra del resto lo stesso Arroba.
A questo modello possiamo affiancare Harren[79] che distingue tre modelli: intuitivo, razionale e dipendente, che possiamo considerare come contenitori in cui inserire gli altri sei, così suddivisi:
stile intuitivo: emotivo, intuitivo e cieco;
stile razionale: logico ed esitante;
stile dipendente: accomodante.
3.4. La scelta nell’orientamento, gli assi della consapevolezza.
Emergono alcuni assi centrali per il processo di scelta nell’orientamento: la consapevolezza sulle proprie disposizioni e capacità, la consapevolezza sulle proprie ambizioni e sogni e sui meccanismi su cui si basano, la conoscenza del mercato del lavoro e del contesto territoriale d’inserimento, la consapevolezza dell’esistenza di eventuali percorsi alternativi ed il necessario bisogno di un progetto di vita che preveda, per lo sviluppo armonico della personalità, l’acquisizione di nuove e differenti forme di relazione.
Il tavolo si deve reggere su queste gambe. La sottrazione di una parte, fa si che la bilancia si rompa. Il ragazzo non è più in grado di dare il giusto peso alle variabili in gioco e la scelta diventa falsata.
In un senso o in un altro.
Così l’analitico che diventa ragioniere, pur diventando un ottimo ragioniere, tratterà i figli e la moglie come dei numeri o dei protocolli. Una vita rovinata per lui e la sua famiglia. Oppure il creativo che, convinto della sua necessaria libertà, salterà in continuazione da un lavoro all’altro, con risultati scadenti e non avrà mai la tranquillità economica necessaria per far studiare i figli.
E quanti altri esempi possono venirci in mente…
3.5. Un’ulteriore livello di diversificazione
Definiti gli assi del processo, dobbiamo distinguere un altro livello di problematicità.
Diversificare gli interventi non vuol dire solamente distinguere gli specifici bisogni educativi e gli specifici processi cognitivi dei ragazzi e dunque i giusti obiettivi e modelli comunicativi per ciascuno di loro.
Purtroppo, nella pratica quotidiana dobbiamo essere in grado, come accennavo nel primo capitolo, di costruire interventi che siano al massimo dell’efficienza e dell’efficacia con il minimo dei costi in tempo ed in denaro.
Per far questo, dobbiamo riuscire a distinguere quale sia l’intervento necessario con ogni studente/lavoratore.
Abbiamo infatti detto che orientamento vuol dire riflessione ecologica sulle possibilità offerte dal territorio e dal contesto sociale, vuol dire riflessioni sulle disposizioni personali e sulle abilità, vuol dire consapevolizzazione circa i processi di scelta, ma può anche voler dire semplice informazione sui percorsi oppure approfondito bilancio delle competenze ( a più livelli di profondità, come l’esperienza francese ci insegna), può infine voler dire più ampio empowerment.
Come scegliere?
Abbiamo una certezza da cui partire: non tutti i destinatari delle attività d’orientamento necessitano di un intervento che comprenda tutto questo contemporaneamente. Sicuramente alcuni avranno bisogno di sole informazioni sui percorsi o sulle possibilità, altri meno maturi di riflessione su sé stessi, altri di percorsi di liberazione ed empowerment e via distinguendo.
La sfida, che dobbiamo vincere perché l’orientamento diventi pratica quotidiana consolidata, è riuscire a distinguere prima quali soggetti abbiano bisogno di un tipo di intervento piuttosto che di un altro. A quel punto, potremmo progettare risparmiando tempo e denaro e dando a tutti ciò di cui davvero necessitano.
Don Lorenzo Milani e i ragazzi della scuola di Barbiana parlavano già negli anni settanta della necessità di non far le parti uguali tra diseguali…
La strada su questo tema è ancora lunga, iniziamo ad affrontarla aprendo una riflessione su uno dei nodi problematici più rilevanti che troviamo su questo nuovo sentiero: il bilancio delle competenze.
3.6. Il bilancio delle competenze nell’orientamento: un necessario approfondimento
All’interno degli interventi di orientamento il bilancio delle competenze assume una rilevanza particolare.
E’ questa una pratica infatti da considerarsi essenziale nei percorsi orientativi in quanto permette ai soggetti in formazione di avere una maggiore consapevolezza circa le loro potenzialità ed i loro “elettivi” percorsi di sviluppo.
E’ altresì un punto critico su cui dobbiamo aprire alcune riflessioni.
Dobbiamo cercare di definire con precisione cosa sia la competenza e come questa possa essere definita e riconosciuta. Chi è competente? In che cosa? A quali ambiti della struttura di identità si ricollega?
3.7. Cos’è la competenza? Excursus storico, definizioni attuali e la nostra definizione: semplificare la teoria per spenderla nella pratica
La ricerca psico-pedagogica su questo argomento è piuttosto ampia e diffusa e produce alcune consistenti differenze.
La prima distinzione da effettuare è relativa alle dimensioni della competenza.
Il modello attitudinale, quello dichiarativo, quello procedurale e quello relazionale fanno infatti coincidere la competenza con un'unica capacità. Nel modello attitudinale viene fatta coincidere con la capacità di riuscire nell’esecuzione di un compito o di una prestazione; in quello dichiarativo nella conoscenza di un settore, in quanto la capacità di riuscita viene fatta coincidere con essa; in quello procedurale il centro diventa invece quello che in ambito pedagogico viene definito “saper fare”; quello relazionale si collega infine al concetto di “saper essere”.
Ma tutto questo non è chiaro, infatti non basta a delucidare il quadro della competenza. Saper, saper fare, saper essere, tre definizioni che, pur facendo parte e trasmettendo un’idea di ciò che debba essere la competenza, non bastano e non possono essere viste in un ottica esclusivista.
Arriviamo dunque a vedere i modelli di competenza multidimensionale.
Il modello psico-sociale presenta la competenza e le competenze come la capacità di attivare conoscenze e qualità personali per la risoluzione di un problema, che si compone di tre dimensioni.
La conoscenza dichiarativa (know- what), la conoscenza procedurale (know- how) e le disposizioni individuali (interessi, attitudini, motivazioni ecc.).
Cominciamo ad avere già un idea più precisa, ci manca però una considerazione. Questa forma di definizione della competenza è assolutamente astratta. Non è per ciò rilevabile se non in maniera arbitraria o parziale. Nella realtà, non esiste una persona competente in tutto ciò che deve fare.
E’ forse dunque una capacità trasversale che si esprime su più ambiti mantenendo dei criteri universali di relazione con l’ambiente e con se stessi? Le prospettive evoluzioniste teorizzano che questo sia competenza. Consapevole e volta a padroneggiare un contesto d’azione. Ancora ci troviamo di fronte a soluzioni che descrivono il contesto ma non permettono di definire la competenza e chi è competente e quanto.
I modelli d’impostazione cognitivista iniziano ad offrire dati meglio quantificabili. Le competenze, relative ad un settore possono essere teoriche, pratiche o, in maniera trasversale sociali (capacità di organizzazione e competenze manageriali e comunicative). Ancora la competenza è però vista come una caratteristica che va al di là del saper fare, ma da riferirsi ad una capacità trasversale o procedurale.
Il modello cognitivo aggiunge la dimensione della competenza come consapevolezza nell’esecuzione di un compito e come consapevolezza dell’apprendimento. Competente è colui che sa fare e sa imparare a fare. Come riconoscerlo?
Infine, nei modelli umanistici si pone l’accento sulle potenzialità degli individui. Il problema è che per essere competenti si deve anche affinare le disposizioni mediante scelte, motivazione e determinazione. Come misurare la competenza in base alle potenzialità? In questo modello, ammesso che si riesca a trovare il modo di rilevare correttamente le potenzialità, ci fermiamo all’analisi delle risorse interne disponibili. Mancano ad esempio le conoscenze. E, ancora, manca un oggettivazione della competenza.
Pellerey nell’83 tenta un modello integrato in cui la competenza è “un insieme di conoscenze, abilità e atteggiamenti necessari per l’efficace svolgimento di un compito lavorativo”. Buon tentativo, ma come riconoscere colui che è competente? Abbiamo una ricetta di atteggiamenti, abilità e conoscenze utili e funzionali in ogni situazione?
Un’altro tentativo può essere quello di costruire una definizione che contenga tutti i buoni stimoli offerti fino ad ora, con il risultato che il primo operatore che dovrà costruire un bilancio delle competenze avrà bisogno di 40 ore di intervento, farà una fatica immensa e comunque si troverà di fronte a dati passibili delle interpretazioni personali e delle valutazioni soggettive.
Recentemente A. Di Fabio propone nel suo interessante testo sul bilancio delle competenze nella pratica d’orientamento un’ulteriore modello interpretativo della competenza. Lo ritengo un modello che, se pur parziale, può essere un efficace strumento di analisi circa la competenza. L’autrice distingue 4 fasi evolutive della competenza che possono esserci di aiuto. Il primo livello è quello della incompetenza inconsapevole; il secondo quello della incompetenza consapevole; la competenza inconsapevole e la competenza consapevole. A questi aggiunge nella pratica di rilevazione strumenti elaborati sulla base delle altre impostazioni di ricerca.
Personalmente credo che sia questo un buon modello di lavoro, purtroppo però contiene delle problematicità. In primis, il problema dei costi. Un intervento di queste dimensioni richiede molte ore (un minimo di 20) e, nel caso dell’orientamento, a questo dobbiamo aggiungere le ore relative alle eventuali altre attività. Quale scuola, quale ente o azienda possono permettersi risorse economiche così rilevanti?
In secondo luogo, l’attendibilità dei dati è comunque relativa in quanto gli indicatori non misurano dimensioni numeriche ma dimensioni interpretative. La rilevazione dei dati non può essere qualitativa. E’ l’interpretazione dei dati (quantitativi) che deve essere qualitativa.
Ultimi spunti di riflessione sono nelle seguenti direzioni: la prima è la spendibilità di un simile percorso e la sua efficacia. Rispetto ai costi e al tempo, quanto aiuta il ragazzo, lo studente o il lavoratore a trovare il suo percorso lavorativo? D’accordo sul bisogno di formazione e di sviluppo delle persone, ma spesso si fa orientamento in situazioni in cui il primo problema non è la qualità dell’educazione ma il lavoro (si pensi alle periferie di alcuni grandi centri).
La seconda è relativa alla natura dell’intervento. Un intervento di questo tipo e a mio parere troppo in profondità e rischia di assumere i connotati della relazione psicoterapeutica. Su questo, aprirò più avanti un paragrafo specifico.
Competenza, Potenzialità e Disposizioni
Cos’è dunque la competenza?
Innanzitutto dobbiamo distinguere i piani di pertinenza della competenza e della potenzialità. La competenza è legata al piano della realtà, è oggettivata. La potenzialità è entità in fieri. La disposizione è invece una potenzialità espressa che dunque diventa misurabile e collegabile alle forme della competenza.
Cosa vuol dire essere competente in un ambito dunque? Una distinzione degli ambiti di espressione della competenza è la base di partenza per rispondere: il sapere, il saper fare, ed il saper essere (a cui sovrapporsi l’idea psico-sociale delle competenze sociali). Da questi tre ambiti possiamo arrivare a definire tre dimensioni misurabili della competenza: quella interpretativa, quella realizzativa e quella, prendendo in prestito il termine di Torbert (1991) trasformativa. Tre dimensioni da mettere in relazione a tre livelli di strutturazione dell’identità: il rapporto con sé stessi, con il mondo e con gli altri.
Per competenza interpretativa si intende la capacità di un individuo di comprendere, analizzare e definire rispetto a sé stesso l’oggetto di studio. E’ questa una capacità che si collega alla sfera della conoscenza del sé. E’ la capacita di apprendere e inserire all’interno del proprio orizzonte cognitivo e di conoscenze un’insieme di informazioni utili, distinguendone le differenti rilevanze, riguardanti un campo d’azione.
In termini pratici è competente a questo livello la persona che conosce il funzionamento, ad esempio di un PC, oppure la sintassi e la grammatica di una lingua.
La competenza realizzativa ha ovviamente un risvolto pratico. E’ la capacità di una persona di reagire ad un contesto e di utilizzarlo per la costruzione di un prodotto. E’ una competenze che si può ricollegare alla creatività e alla capacità di problem solving. In questa dimensione è competente colui che riesce a risolvere una situazione. Sia nel caso in cui questo avvenga in maniera implicita ed istintiva sia nel caso in cui invece la reazione sia consapevole. Questo livello si collega dunque all’ambito della relazione con il mondo.
La competenza trasformativa è invece la capacità di interiorizzare un modello, alcune informazioni o anche semplicemente un concetto o un costrutto teorico e di trasmetterla ad altri. E’ dunque una competenza relativa all’ambito della relazione con gli altri.
A queste, si devono aggiungere alcune dimensioni di competenza non misurabili che costruiscono nella pratica quotidiana l’ibridazione delle competenze, caratterizzandone i percorsi di sviluppo e incrementazione (capacità di ottenere consenso, di non crearsi nemici et similia).
Un secondo livello di analisi e di comprensione del problema è invece da riferirsi alla modulazione ed alla presenza quantitativa di ogni ambito di competenza.
La competenza infatti può essere implicita o consapevole, nel secondo caso si tratta ovviamente di un livello maggiore di competenza.
Come dunque rendere consapevole la competenza e come accrescerla ulteriormente?
In primis mediante la riflessione e la comprensione delle proprie disposizioni e del funzionamento delle stesse.
La competenza interpretativa, come quella realizzativa e quella trasformativa possono essere presenti con diverse intensità negli individui e, se pur relative alle caratteristiche caratterologiche ed emotive delle persone, possono essere accresciute mediante la loro modulabilità e compresenza.
Se infatti una persona può avere elettive disposizioni che la rendono naturalmente portata verso un ambito di competenza, la qualità e la quantità della stessa vengono accresciute se la persona si sforza di apprendere gli altri modelli di competenza e di aumentare la sua consapevolezza.
Ad esempio, il ragazzo molto competente nel problem solving[80], nel momento in cui acquisirà consapevolezza della sua capacità e conoscenze aggiuntive circa il funzionamento della stessa, aggiungendo quindi un tassello nella scala della sua non elettiva competenza interpretativa, migliorerà la sua capacità di problem solving e, parallelamente sarà anche più capace di spiegare, a magari anche insegnare, ad altri il problem solving.
Ancora, il ragazzo con grandi capacità dialogiche e di visualizzazione dei contesti, comunicativo e carismatico, se acquisisce maggiori e più specifiche conoscenze o apprende la capacità di reagire agli stimoli offerti da un contesto di lezione, diventerà ancor più competente anche nel suo elettivo ambito di competenza trasformativa.
Quanto spazio deve avere il bilancio delle competenze
nei percorsi orientativi?
Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo porci alcune domande: a che livello si deve intervenire nella persona? A cosa serve un intervento orientativo? Quanto tempo e quanti fondi si hanno solitamente a disposizione? Quanto l’obiettivo dell’attività è il miglioramento o la consolazione dei soggetti?
Cominciamo dalla prima domanda: l’intervento orientativo, se pur caratterizzantesi come un evento formativo, è cosa ben diversa da un intervento psicoterapeutico. Richiede competenze psicologiche da parte degli operatori ma si conforma molto più ad un approccio consulenziale o educativo. La profondità dell’intervento deve dunque essere limitata all’offerta di riflessioni sul sé, magari anche implicite, o di provocazioni cognitive.
Un intervento orientativo serve a proporre valutazioni, in alcuni casi a offrire alternative, in altri a individuare un percorso o alcune proprie caratteristiche. Non serve necessariamente a tutto ciò contemporaneamente.
I fondi ed i tempi solitamente disponibili, sia nel caso delle attività con gli studenti che con i lavoratori, sono limitati. A volte perché non è compresa l’importanza di simili attività, ma altre perché l’istituzione deve contemporaneamente rispondere a molte altre esigenze che limitano gli spazi a disposizione.
Se l’obbiettivo è il miglioramento, nei limiti del possibile in relazione ai fondi, agli spazi, ai tempi e ed ai bisogni, e lo si deve dunque far rientrare entro logiche di efficacia ed efficienza, le attività devono essere differenziate ed individualizzate.
Adesso cerchiamo di rispondere alla nostra domanda iniziale.
Il bilancio delle competenze non deve sempre essere presente in un progetto di orientamento e non sempre allo stesso livello di profondità.
Lo si deve considerare come un utilissimo strumento, da portare sempre dietro, ma da usare solo quando lo si può utilizzare bene e dove serve.
In questo senso si deve infatti capire che non tutti gli studenti hanno assolutamente bisogno di un bilancio. Né qualsiasi lavoratore.
Ci saranno studenti che ne hanno grande bisogno, altri che magari hanno più bisogno di riflettere sul contesto territoriale e sulle offerte di lavoro presenti, alcuni invece avranno bisogno di apprendere tecniche di ricerca attiva, altri dovranno magari riflettere sul bisogno di armonizzare la propria struttura di identità, pur essendo perfettamente consapevoli delle loro competenze, potenzialità e aspirazioni.
Altri ancora avranno bisogno di sviluppare la loro autostima così come alcuni la loro umiltà e disponibilità ad apprendere.
Così la pratica orientativa deve configurarsi come un intervento in grado di rispondere a bisogni specifici con strumenti specifici.
E lo stile dell’intervento?
Definire lo stile di un intervento è una questione complessa. Complessa non tanto perché non esitano limiti e consapevolezza sul problema quanto perché si trovano poche dichiarazioni ufficiali e poche deontologie professionali. Di fatto, questa situazione permette ad ogni operatore di scegliere lo stile preferito.
La nostra idea è che lo stile di un intervento orientativo debba necessariamente essere educativo. Non può infatti essere di tipo psicologico (anche se l’orientatore deve possedere conoscenze approfondite in questo ambito) perché non si tratta di agire a livello intrapsichico né di modificare o risolvere questioni legate a personali blocchi ma solamente di proporre riflessioni e consapevolizzare le scelte fatte dagli studenti.
Anche nel caso in cui si riscontrino particolari problemi psichici, non è compito dell’orientatore intervenire. Il suo compito è quello di saper riconoscere l’esistenza del problema e saper intervenire per poter passare il problema a specialisti.
A livello di competenze, l’orientatore deve invece possederne di diversificate: comunicazionali perché dovrà sempre conoscere la modalità comunicativa necessaria, pedagogico-educative perché dovrà saper vedere e progettare il senso di un intervento ed il bisogno specifico, psicologiche perché dovrà sapere e riconoscere le mappe cognitive e di modelli mentali degli studenti, sociologiche perché dovrà saper riconoscere i contesti d’azione e di inserimento, del mercato del lavoro perché dovrà sapere dove i ragazzi potranno o non potranno inserirsi, filosofiche e antropologiche perché sempre più l’orientamento sarà verso gruppi sociali come immigrati o comunque portatori di culture diverse.
4. L’orientamento nei progetti di “Prevenire è Possibile”[81]
4.1. Il modello di “Prevenire è possibile” per l’orientamento e la formazione nella scuola italiana
Il progetto è stato realizzato in una fase importante di cambiamento dell’istituzione scolastica, fase in cui viene posta dalle diverse componenti politiche ed istituzionali la necessità di elevare sia l’obbligo scolastico che l’obbligo formativo ai 18 anni di età.
L’obiettivo ambizioso di legare alla scuola giovani che hanno necessità di orientamento educativo non può però essere raggiunto senza che la scuola apra altre e diverse possibilità e metodologie di insegnamento per ritornare ad essere attrattiva per quei giovani che da essa si sono allontanati disperdendosi.
Gli apprendisti che tornano a scuola per realizzare l’obbligo formativo mostrano quale sia il loro grado di distanza dal sapere scolastico e dalla struttura organizzativa, disciplinare e didattica della scuola. Ove non si voglia cadere nel baratro di un grande fallimento c’è bisogno di altri modelli di insegnamento molto più discorsivi e legati al mondo della vita quotidiana di quelli che la scuola attualmente riesce ad offrire.
Ciò non significa cambiare tutto: ciò che esiste e funziona va salvaguardato con attenzione poiché costituisce una risposta valida per tutti gli studenti che nella attuale scuola riescono a calarsi ed a realizzare in essa un apprendimento efficace. Il problema si pone per tutti gli altri che non possono più essere selezionati ed allontanati ove si voglia far fronte alle esigenze sociali di una società complessa.
Allora il compito affrontato dagli insegnanti di una scuola a rischio è fondamentalmente consistito nell’utilizzo di una teoria delle differenze individuali e di una pratica capace di favorire diverse didattiche in funzione dei bisogni degli allievi.
Questo ha comportato numerosi passaggi di formazione, di analisi, di predisposizione dei laboratori e di innovazione anche sul piano dell’orientamento, dei quali, nelle pagine seguenti si vuole dare spiegazione.
Il progetto pilota di orientamento scolastico e professionale dello studio associato “Prevenire è Possibile” è stato attuato in più scuole in Italia[82] e trova il suo fondamento scientifico ed i suoi contenuti e riferimenti teorici nella ricerca elaborata dal professor Vincenzo Masini.
Il progetto si articola lungo tre assi fondamentali:
1. Formazione degli insegnanti e lavoro sugli stili di apprendimento
2. Laboratori di motivazione
3. Orientamento
4.2. Il percorso formativo
L’obiettivo di questa fase dei progetti è rendere più competenti gli insegnanti riguardo ai modelli di intelligenza, apprendimento, metodo di studio e ai modelli di comunicazione didattica. Da un lato perché possano rendere meglio efficienti le lezioni, dall’altro perché riescano meglio a gestire i gruppi classe. In effetti, la buona riuscita di una lezione è di per se una componente per l’orientamento e lo sviluppo delle potenzialità individuali.
In particolare sono risultate istruttive le considerazioni riguardo le varie intelligenze ed ai differenti modi di apprendere e di studiare degli alunni.
Gli insegnanti comprendono le differenti intelligenze dei propri studenti ed coniugano ed educano i processi cognitivi degli studenti al tipo di ragionamento richiesto dalle discipline insegnate. Su questa base sviluppano anche il senso della progettazione dei laboratori.
Rispetto alla dimensione dell’apprendimento scolastico è stato un efficace stimolo per gli insegnanti la riflessione sulle differenze delle intelligenze degli alunni al fine di comprendere, prima ancora delle intelligenze che si esprimono in abilità, i tratti delle forme mentali che i loro allievi possiedono e dedicare alla spiegazione diverse articolazioni comunicative al fine di favorire i diversi processi di comprensione. “Un approccio alla didattica che non tenga conto di tali differenze e che adotti come modelli di spiegazione un solo sistema comunicativo rischia di emarginare i soggetti non affini allo specifico modo di insegnare del docente, che utilizzi solo comunicazioni e comprensioni tipiche della sua forma mentale. Ciò non toglie che lo sviluppo dell’intelligenza richieda l’evoluzione di tutte le sue componenti e che, quindi, gli allievi debbano essere incoraggiati a pensare usando anche forme diverse da quelle a loro congeniali, in ragione del fatto che ogni intelligenza ha i suoi specifici oggetti elettivi di comprensione”[83].
L’analisi delle intelligenze e degli stili comunicativi appropriati è una semplificazione didattica del modello a sette intelligenze di Gardner (logica, cinestetica, spaziale, linguistica, intrapersonale, musicale, interpersonale) ridotte a tre ambiti per facilitarne l’applicazione in termini comunicativi[84].
Tipi di intelligenze
La semplificazione a scopo didattico dei sette tipi descritti nel capitolo 3 porta ad una tripartizione dei modelli intellettivi. Si semplifica perché sia di pratico utilizzo la differenziazione che, nel modello a sette, risulterebbe faticosa da gestire. Contemporaneamente, la tripartizione permette comunque di rappresentare efficacemente le fondamentali disposizioni e strategie d’apprendimento degli studenti.
In tal senso i tipi di intelligenza sono stati classificati in intuitivo, ordinativo e descrittivo.
L’intuitivo (che comprende il creativo, l’emozionale e parte del pratico) si caratterizza relativamente a questo tipo di “concezioni” dello studio: l’impegno nello studio dipende dall’interesse della materia; la capacità di ascoltare una musica di sottofondo senza distrarsi anzi concentrandosi; una piccola distrazione fa perdere la concentrazione; la comprensione di un argomento non conduce a soffermarsi a lungo sull’argomento; non c’è bisogno di un posto particolare dove studiare, basta che ci sia sufficiente quiete; solo all’ultimo momento si riesce a trovare la spinta per studiare; se mentre studio viene alla mente un’idea non si può fare a meno di concentrarsi su di essa.
L’ordinativo (l’analitico, il percettivo e parte del pratico) invece si connota con un impegno è rivolto alla sintesi; quando si legge un brano lungo c’è bisogno di sintetizzare gli elementi principali. Per prepararsi alle interrogazioni o ad un esame si segue un piano preciso; per ricordare ciò che si studia c’è bisogno di fare schemi mentali; se non si è preparato si è inquieti, ansiosi. Gli ordinativi infine studiano bene da soli organizzando lo studio come piace a loro, in gruppo, invece, “bisogna sempre scendere a compromessi”. Sono dotati generalmente di buona memoria.
Il descrittivo (il relazionale, il percettivo ed il plastico) si differenzia altresì dagli altri in quanto: si caratterizza nel bisogno di avere sottomano tutti i testi che riguardano l’argomento, nel dedicare allo studio molte ore ogni giorno, nell’aver bisogno di esempi e di una grande estensione degli argomenti connettendoli al mondo della vita quotidiana.
La base di questo modello di intelligenze è servita per la prima caratterizzazione della formazione da offrire ai docenti; attraverso questa prima esperienza si è cercato di comprendere i modelli comunicativi e didattici da attuarsi nelle classi. A seconda del clima della classe, sono infatti da privilegiarsi diversi tipi di triplette comunicative e diversi modelli di azione.
Nella pratica formativa, a livello operativo agli insegnanti è stato chiesto di organizzarsi per produrre lezioni adeguate alle varie intelligenze, alternando opportunamente una comunicazione persuasiva, immaginativa ed espressiva.
I tre modelli di comunicazione sono infatti collegati alla modalità di comprensione delle diverse intelligenze (ordinativa, descrittiva, intuitiva).
Una comunicazione persuasiva è quella più efficace per entrare in contatto con un’intelligenza ordinativa, quella espressiva per entrare in contatto con un’intelligenza intuitiva e quella immaginativa per un contato con un’intelligenza descrittiva.
Le suddette comunicazioni avvengono all’interno di piccole sequenze ricorsive nella comunicazione tra insegnante e studente.
Si individuano tre frame:
· Domanda dell’insegnante – Risposta dell’alunno – Commento dell’insegnante[85]. Questo è tipico della comunicazione persuasiva, e privilegia gli alunni che utilizzano prevalentemente un’intelligenza ordinativa.
· Domanda dell’insegnante – Domanda dell’alunno – Ulteriore domanda dell’insegnante. Questo è tipico della comunicazione espressiva ed euristica, e tende a favorire e far sviluppare l’intelligenza intuitiva.
· Domanda dell’alunno – Risposta dell’insegnante – Nuova domanda dell’alunno. Questo è tipico della comunicazione immaginativa, ed è generalmente efficace per un’intelligenza descrittiva.
Nell’ambito dell’esperienza attuata si è cercato di indirizzarsi verso la sviluppo della comunicazione descrittiva e narrativa con la funzione di proporre, sempre più spesso, esempi collegati alla realtà quotidiana. Il fatto di ampliare il carattere immaginativo della comunicazione con gli studenti, cercando di venire incontro anche alle esigenze di quelli con un’intelligenza descrittiva, è stato realizzato attraverso l’elaborazione di esempi pratici ed operativi che sono stati il tratto caratterizzante di tutta l’esperienza dei laboratori
Lo stile comunicativo conseguente al modello si è fondato sullo scegliere gli argomenti da proporre durante la lezione, ed articolare la spiegazione in modo sintonico alle diverse intelligenze in termini di ordine, tempo e modo di presentazione degli schemi di sintesi; dello sviluppo della curiosità e dell’attenzione; del collegamento dei contenuti con esempi del mondo della vita.
Ogni unità didattica prevede un tempo di dieci minuti per ciascuna parte, secondo il seguente ordine (ad esempio per spiegare il concetto di funzione):
1) stile immaginativo per le intelligenze descrittive: per richiamare alla mente il concetto del prodotto cartesiano si utilizza il gioco della battaglia navale, quindi si parte da questo esempio per ricostruire il concetto di insieme prodotto (insieme delle coppie ordinate (lettera, numero));
2) stile euristico per le intelligenze intuitive: a questo punto si chiede agli studenti: che cosa succede scambiando l’ordine delle coordinate componenti la coppia, cioè (a, b) è = (b, a)? Se anziché numeri e lettere si hanno solo coppie di numeri cosa accade? Alla fine gli allievi giungono alla conclusione che il prodotto cartesiano non è comunicativo;
3) stile persuasivo per le intelligenze ordinative: magari attraverso l’uso di un lucido si può riassumere e formalizzare tutto ciò che è stato finora detto, dando la definizione completa di prodotto cartesiano e le sue proprietà.
4.3. L’attività nelle classi. Questionario e grafi
Orientamento e dispersione si sovrappongono nel progetto di “prevenire è possibile” in maniera tale da permettere di affrontare due ordini di problemi di cui già abbiamo parlato: lo sviluppo delle personali disposizioni e abilità e lo sviluppo armonico della personalità di ogni studente.
L’attività nelle classi è il primo approccio al problema della dispersione e dello sviluppo armonico delle personalità L’intervento effettuato permette infatti di individuare i modelli relazionali dei gruppi classe e, sulla base di questi, di definire un percorso che ne migliori la qualità dell’apprendimento e della relazionalità; fattori che si intrecciano in una spirale ascendente verso il miglioramento dei risultati scolastici[86].
Il modello a tre ha consentito una prima ricognizione delle classi individuate nei principali modelli critici di classe conflittuale, classe amorfa, classe fallita e classe costruttiva[87]. Questi primi modelli hanno avuto l’utilità di introdurre all’analisi di classe attraverso il questionario di classe e il grafo.
Attraverso l'analisi delle personalità collettive di classe scolastica è possibile individuare le caratteristiche della classe ed orientarla verso il miglioramento, promuovendo diversi modelli di relazione interna nel gruppo.Il concetto di personalità collettiva descrive quel carattere di un gruppo che scaturisce dalla prevalenza di alcune relazioni, oppositive o di affinità, tra i membri che lo compongono. Le relazioni oppositive di EQUIVOCO, INSOFFERENZA, DELUSIONE, LOGORAMENTO, EVITAMENTO, FASTIDIO e INCOMPRENSIONE vengono analizzate attraverso il "questionario di classe scolastica". La ricerca[88], svolta a partire dal 1995 ha analizzato 2320 classi scolastiche costruendo grafi relazionali con la struttura delle opposizioni e delle affinità, proponendo lo sviluppo di queste ultime attraverso strategie educative di gruppo efficaci di : riconoscimento, dialogicità, disponibilità, integrazione, Complementarità, mediazione e incontro specifici per ciascuna relazione oppositiva.
Esempi di grafo di classe (vedi pagg. 80/81):
I due grafi nell’esempio rappresentano due tipologie di classe: una tendenzialmente amorfa e l’altra conflittuale.
Il modello del grafo contiene i dati per l’analisi delle affinità e delle opposizioni (prime due finestre in alto) la somma delle due (in basso a sn), l’istogramma delle diverse tensioni relazionali e la linea della struttura della classe (profitto, assenze, etc.).
Il questionario di classe contiene domande rivolte agli alunni presenti al momento della somministrazione del tipo:
Quanti sono i tuoi compagni che vanno meglio di te?, Quanti dei tuoi compagni ti infastidiscono? Quanti si danno da fare per tenere unita la classe? Quanti fanno parte del tuo gruppo?, Quanti sono riusciti a capirti fino in fondo?, Con quanti dei tuoi compagni hai litigato?, Quanti consideri davvero amici all'interno della tua classe?,Quanti non accetteresti come compagno di banco?, Quanti ti hanno prestato qualcosa di cui avevi bisogno?, Con quanti riesci a collaborare? , Di quanti conosci uno o tutti e due i genitori?, Quanti vedi al pomeriggio?, Di quanti hai il numero di telefono o telefonino?, Quanti eravate a mangiare una pizza (cena di classe)?
Il grafo di “STRUTTURA” analizza il numero di ripetenti, i sottogruppi, le assenze medie quotidiane, quanti si conoscevano prima del primo anno, quanti hanno più di due insufficienze o più di due sette, quanti studiano sempre soli, quanti studiano con altri, quanti cambiano banco ogni 15gg e quanti non cambiano mai banco.
4.4. I tipi di classe e le modalità di intervento e di comunicazione ad esse relative.
Le tipologie di classe possono essere raggruppate in un modello semplificato a 4 classi: classe conflittuale, amorfa, fallita e costruttiva.
I principali indicatori per comprendere la struttura della classe sono: la storia della classe (nucleo storico, bocciati e ripetenti) che permette di vedere il grado di stabilità della classe; il profitto (voto medio, quanti studenti hanno uno o due sette, quanti hanno una o due insufficienze) che è utile per fare confronti tra classi e per comprendere i processi di differenziazione all’interno della classe; le assenze (il numero medio di assenze giornaliere) che sono un indicatore della partecipazione o della propensione alla dispersione e quindi della demotivazione; l’unità della classe (agli studenti si pongono domande tipo: è unita la vostra classe?, quanti di voi sono contenti di essere in questa classe?, quanti di voi vorrebbero cambiare classe?,…) utile per evidenziare quale descrizione danno gli studenti della propria classe; l’indice di relazionalità della classe (domande tipo: di quanti compagni hai il numero di telefono, di quanti conosci i genitori, con quanti esci il pomeriggio,…); i sottogruppi e la loro disposizione all’interno della classe (geografia della classe); la struttura della classe che serve per conoscere i ruoli che gli studenti ricoprono all’interno della classe (leader, gregario, non integrato), i quali sono strettamente legati con la posizione del banco occupato (dalla posizione occupata si può risalire alla personalità dello studente); la mobilità interna (spostamenti di banco) che è un indice della tendenza della classe al movimento o alla stabilità del gruppo classe.
Le caratteristiche principali di una classe conflittuale sono: la forte agitazione (le energie di questa classe non sono orientate in modo costruttivo verso un obiettivo), le molte insufficienze (solo pochi elementi della classe lavorano), la scarsa valorizzazione delle persone, la scarsa identità di gruppo e la poca unità ( la classe è spesso divisa in due blocchi contrapposti) e stabilità. La classe è caratterizzata dalla presenza di provocatori, istigatori e soggetti marginali al conflitto. Occorre individuare gli istigatori.
L’intervento educativo è quello del gruppo d’incontro in cui si mettono in relazione le diverse componenti della classe per sviluppare la collaborazione; esso favorisce l’ascolto e la comprensione reciproca.
L’intervento didattico più efficace è quello dello Structural Approach, un metodo di lavoro che tende a sviluppare collaborazione, relazioni e partecipazione di tutti. In esso si preferisce l’interazione simultanea (più studenti attivamente coinvolti nello stesso istante), l’uguaglianza alla partecipazione (tutti gli elementi del gruppo partecipano allo stesso modo), l’interdipendenza positiva (il successo di un membro del gruppo dipende dal successo di ogni altro e contribuisce al successo degli altri membri) e la responsabilità personale. Le attività devono essere scelte in modo tale che le persone si sentano tutte uguali e non si creino differenziazioni. E’ preferibile la disposizione dei banchi a ferro di cavallo (che tende al cerchio del gruppo d’incontro).
La classe amorfa irrita, delude e cambia spesso forma perché ha una debole identità; ha un basso indice di relazionalità e quindi uno scarso senso del gruppo, un rendimento medio senza forti insufficienze e mobilità elevata. Si riconosce dall’insorgenza del brusio e dalla scarsa partecipazione e interesse. L’intervento educativo più efficace (il gruppo di lavoro) si basa su attività di motivazione, disciplina e animazione (cioè su attività che conducono alla costruzione del gruppo). E’ conveniente dividere la classe in 4 sottogruppi e localizzarli agli angoli della classe in modo che acquistino una minima identità collettiva, e stimolare tra essi la competizione.
Il metodo di lavoro consigliato è quello dello Student Team Learning in cui si propongono attività che stimolano alla partecipazione, alla competizione, in cui c’è interazione, cooperazione e comunicazione tra le componenti del gruppo e per le quali (attività) sono previste ricompense.
La classe fallita è caratterizzata da un debole nucleo storico (molti bocciati e abbandoni), da una scarsa autostima, da un basso rendimento e un basso indice di relazionalità. E’ una classe triste, noiosa, che squalifica gli interventi dei docenti. Il fallimento può avere diverse origini: oppressione, spegnimento di motivazione o errori gravi compiuti da qualche docente. E’ una classe che deve riflettere sul suo fallimento prima di fare gruppo.
L’intervento educativo è quello del gruppo di formazione, utile a liberare le soggettività, a far riflettere ed interpretare i vissuti (è importante ricostruire la storia della classe). Il metodo di lavoro è quello del Learning Together in cui si propongono attività che stimolano chi ha una bassa autostima, nelle quali si ha un’interazione faccia a faccia tra studenti i quali sono organizzati in piccoli gruppi il cui lavoro è monitorato dall’insegnante. La geografia dei banchi è quella ad anfiteatro perché si può lavorare sulla valorizzazione della personalità del singolo studente.
La classe costruttiva è armonica, polimorfa, con buone potenzialità e alto numero di relazioni amicali. Il profitto è buono e distribuito in modo uniforme tra tutti gli studenti. Ha capacità di autovalutazione e di fare gruppo.
Il metodo di lavoro è quello del Group Investigation che si basa su attività in cui la classe si organizza in gruppi di ricerca, gli studenti all’interno di ciascun gruppo collaborano per portare avanti il progetto che dovranno presentare agli altri gruppi. La valutazione avviene in collaborazione con l’insegnante. La disposizione dei banchi varia a seconda delle attività proposte.
4.5. Comunicazione e atteggiamenti in classe.
Durante la formazione diventa essenziale insistere sulla modulazione degli atteggiamenti del docente, durante le lezioni e i laboratori, per cercare di capire le tecniche comunicative più efficaci. Alcune tecniche apprese sono state l’uso del silenzio prima di iniziare la lezione: un atteggiamento che serve a comunicare l’inizio della lezione, senza richiamare l’attenzione, ma aspettando pazientemente che torni naturalmente il silenzio. C’è un tempo fisiologico per l’inizio della lezione ed è inutile contrastarlo, altrimenti si perdono solo energie che potrebbero risultare preziose.
A volte occorre iniziare la lezione con un preambolo, necessario soprattutto in quelle classi dove c’è scarsa motivazione. Inoltre il preambolo serve per far entrare tutti nell’atmosfera della lezione. Quando si è in presenza di un livello adeguato di attenzione nella classe, si può cominciare a fare lezione, introducendo gli argomenti da esporre. E’ meglio “spendere” 10-15 minuti della lezione con un preambolo, aspettando che il livello di attenzione della classe arrivi a livelli accettabili, piuttosto che pretendere l’attenzione degli studenti in modo coercitivo.
Durante la lezione occorre seguire con lo sguardo gli atteggiamenti di ognuno per far in modo che gli occhi entrino in contatto. Anche il modo di parlare deve essere variato: se si parla in modo cantilenato, si realizza una comunicazione tranquillizzante. In questi momenti non c’è trasmissione di concetti, ma soltanto parole pronunciate in modo da attirare e creare uno spazio d’attenzione in cui “far entrare” in modo rapido un nuovo concetto, affinché esso sia recepito e compreso prima che torni brusio e disattenzione.
La comunicazione didattica deve alternare battute che producono momenti di break, e di relax. In questo modo si possono coinvolgere tutti gli studenti e, nel caso in cui alcuni cerchino di estraniarsi mettendosi nelle ultime file, il docente si porta presso di loro per cercare di recuperare anche la loro attenzione.
Laddove il brusio aumenti, caratteristica principale di una classe amorfa, occorre affrontare i demotivatori con una comunicazione direttiva ed autoritaria, con un aumento del tono. In questi casi la comunicazione va fatta ad personam e deve essere repentina e forte.
Un modello importante di lavoro nei laboratori è quello dell’utilizzazione del cerchio, realizzando il cosiddetto circle-time. Occorre aspettare che gli studenti facciano da soli il cerchio, e, dopo che si sono disposti, si cerca di rendere il più perfetto possibile questo cerchio, aggiustando la posizione di qualche studente, evitando che qualcuno possa estraniarsi dalla discussione.
Nella prima esperienza di laboratorio con i docenti è stato utile la descrizione delle caratteristiche dell’ intelligenza e del metodo di studio dei docenti. Ad essi sono da riferirsi determinati stili comunicativi.
Lo stile comunicativo persuasivo si fonda sullo stimolo delle intelligenze di tipo ordinativo–schematico attraverso il metodo della sintesi ed appoggiandosi ad un supporto (un lucido, la lavagna, uno schema) per effettuare una sintesi, all’inizio o alla fine della lezione) o per introdurre un nuovo argomento o semplicemente per riprenderlo.
Lo stile immaginativo si fonda sulla descrizione di esperienza concrete e questo modello è tipico dell’esperienza dei laboratori dove, oltre alla tecnica del “circle time”, dove tutti parlano del loro vissuto (in modo sequenziale) e ognuno condivide con gli altri il proprio sapere con grande partecipazione; si apprende anche il modo per risolvere i conflitti esistenti all’interno del gruppo.
Lo stile euristico espressivo parte dal cambiare frequentemente posizione all’interno dell’aula durante la lezione e guardando tutti gli studenti per non avere interlocutori privilegiati. Esso è utile per attirare l’attenzione
4.6. Operatività dei laboratori: teoria e prassi
"I laboratori pomeridiani di recupero, in cui contenuti disciplinari e percorso educativo in essi sperimentato sono collegati ai bisogni educativi degli studenti, sono un esempio di gruppo pedagogico la cui idea organizzativa può essere applicata al complesso di attività integrative e complementari.
Il legame tra insuccesso formativo, disagio e mancato sviluppo cognitivo ed affettivo ha condotto a valutare le tipologie di insuccesso a seconda delle caratteristiche di personalità degli studenti. Parimenti è stata osservato lo stretto legame tra personalità e sviluppo delle intelligenze. Naturalmente le diverse intelligenze non sono direttamente sovrapponibili alle diverse discipline ma, con una analisi attenta ed approfondita, si è potuto individuare il rapporto tra i contenuti ed i metodi connessi ad una disciplina ed i corrispondenti processi cognitivi che intervengono e, al termine, questi ultimi e la complessiva struttura della personalità , anche nei suoi risvolti di copione di disagio.
Ed ecco profilarsi l'efficacia di un metodo di progettazione che è riuscito a considerare l'esperienza della progettazione dei laboratori in funzione dei singoli alunni e, contemporaneamente, a prendere in considerazione l'intera popolazione scolastica"[89].
Il progetto dei laboratori è iniziato con l'organizzazione delle schede di osservazione del comportamento e delle disposizioni dei ragazzi che raccolgono i punteggi sui sette diversi assi che descrivono le diverse tipologie.
I punteggi delle schede hanno consentito la costruzione di grafi da cui è stato possibile dedurre le caratteristiche più evidenti della personalità dell'alunno e discutere con i docenti, al fine della costruzione di un profilo semplice confrontabile con i profili degli altri. E' stato altresì possibile costruire la media dei punteggi ed osservare, classe per classe, come essi si sono dispiegati in funzione della singola personalità collettiva di classe (vedi intervento sulle classi).
Nella progettazione dei laboratori di recupero è diventato dunque possibile ottemperare a due diversi problemi. Il primo: quello delle risorse: ciascuna scuola possiede nelle capacità degli insegnanti il suo bagaglio prezioso di risorse. Sono risorse connesse alla preparazione, alla personalità e dalla duttilità degli interessi di ciascun insegnante. Tali risorse non sono teoriche ma reali: è facile dire che "l'insegnante dovrebbe..." ma, se non si considera la sua capacità, la sua disponibilità, la sua motivazione e il suo interesse concreto ogni progetto rimane astratta teoria. Solo partendo dalle risorse è possibile progettare utili e realizzabili laboratori. Sulla base delle potenzialità, verso cui sono indirizzate le risorse, si può così decidere quanti e quali laboratori è possibile attivare che connotati è prevedibile che esprimano quali percorsi e quale livello di complessità.
Bisogna portare la persona al di là delle sue caratteristiche: dopo aver valorizzato le sue potenzialità può diventare più facile recuperare le difficoltà e promuovere la realizzazione di nuove mete.
Questi due problemi, il primo concreto (le risorse) il secondo teorico e valoriale (lo sviluppo della persona) hanno trovato soluzione in itinerari di laboratori di recupero che sono partiti dallo sviluppo delle potenzialità del soggetto e lo hanno accompagnato verso un percorso di superamento delle sue difficoltà. Il passaggio dal primo al secondo laboratorio ha tenuto conto dei bisogni educativi di ogni singolo, soggetto. Il primo laboratorio è stato quello in cui l'alunno ha trovato il potenziamento delle sue personali capacità, il secondo quello che conteneva elementi cognitivi e di metodo di cui era più carente. Il primo laboratorio è stato, dunque, il luogo a cui egli era concettualmente più affine e nel cui stile meglio si ritrova, il secondo laboratorio è stato, invece, il punto di arrivo di un suo processo di crescita.
Nel secondo laboratorio l'alunno si è scontrato con le sue difficoltà e ha recuperato sia gli elementi cognitivi sia il metodo di lavoro verso i quali aveva maggiori difficoltà. A questo incontro è stato preparato nel corso dello sviluppo del primo; la motivazione a perfezionare le sue potenzialità sé stato frutto di un interesse cresciuto in lui. Ciascun percorso è stato stabilito sulla base delle caratteristiche dell'alunno che ha potuto anche, in fasi successive, entrare in tutte le altre molteplici esperienze seguendo le linee di analogia e di opposizione.
Il sistema, piuttosto semplice, ha consentito anche di verificare. attraverso l'immediata osservazione dell'inserimento, della motivazione, del coinvolgimento e dell'interesse, l'efficacia dell'intero percorso. I laboratori descritti corrispondono a quelli più diffusi nella scuola e, contemporaneamente, corrispondono al modello delle 7 intelligenze di Gardner[90].
4.7. Descrizione dei laboratori
Laboratorio matematico, informatico 2, linguistico 2.
Il compito di tale laboratorio è stato quello di sviluppare le capacità logico formali degli alunni. Le attività sono state quelle più connesse al normale sviluppo delle discipline scolastiche con un approccio funzionale al recupero o al potenziamento a seconda del grado di conoscenza degli alunni. Tale laboratorio ha avuto la funzione di sviluppare le capacità schematico ordinative, la capacità di sintesi e la memorizzazione. Il laboratorio è iniziato con una ricognizione sulle conoscenze pregresse per pervenire ad un piano di lavoro indirizzato a fornire un ordine alle conoscenze possedute, al loro senso ed alla loro articolazione piuttosto che ad un avanzamento della conoscenza.
L'alunno ha ottenuto, al termine del laboratorio, un quadro di conoscenza definito del programma precedentemente svolto e ha potuto proseguirlo senza vuoti e confusioni, pur sapendo di non possedere sufficiente padronanza delle materie.
II metodo di lavoro (applicato alla matematica, all'informatica ed alla lingua) è stato quello ordinativo mirato all'efficienza nella riuscita e nell'applicazione della conoscenza. Per tutti gli alunni l'obiettivo è quello di aumentare la personale sicurezza nella conoscenza delle materie.
Laboratorio di educazione fisica, sport di gruppo, sport individuali con specifico riferimento all'educazione motoria "aerobica".
Il compito di tale laboratorio è stato quello di sviluppare le capacità di movimento e di conoscenza del proprio corpo, della sua armonia e delle sue potenzialità. Con tale laboratorio si è inteso perseguire l'obiettivo dello sviluppo dell'intelligenza cinestetica e del possesso ed indirizzo della propria energia fisica. Il fine è stato quello di consentire alle persone di percepire il proprio corpo e le sue potenzialità, di valutare lo sforzo e la fatica, di convogliare le energie e di comprendere come funziona la loro accensione ed il loro spegnimento.
Laboratorio fisico, geografico e di informatica 1.
Qui si è privilegiata l'intelligenza, spaziale, intuitiva e dinamica. Il modello di approccio a tale laboratorio è stato fondato sulla velocità, sull'intuizione, sul gioco intellettivo, sulla destrezza e sul divertimento.
Laboratorio linguistico 1, teatro, recitazione.
E' stato questo un laboratorio massimamente espressivo. Non solo perché ha proposto di accendere in sé la disinibizione necessaria a far emergere nell'atto espressivo le emozioni internamente sperimentate,ma perché ha consentito di lanciarsi nella comunicazione linguistica senza paura di commettere errori e senza il rispetto formale della grammatica.
Laboratorio artigianale e di oggettistica.
L'obiettivo di tali laboratori è stata la produzione di oggetti esteticamente validi, costruiti con continuità e pazienza, apprezzabili per la loro eleganza ed accuratezza I soggetti avviati a tale laboratorio sono stati alunni "apatici" e demotivati che non intendono uscire dalla loro pigrizia (in specie quando quest'ultima è una forma di autoanestesia verso forti problematiche interne, sociali o relazionali). Il laboratorio in questione si è configurato come un luogo di pace nel quale, senza fretta, si è pervenuto alla realizzazione di qualche oggetto fatto con gusto e pazienza in cui si esprime il massimo livello possibile dell'eleganza posseduta dai ragazzi.. L'obiettivo è stato quello di offrire qualche ora di silenzio e di concentrazione rilassata e di svago attraverso la quale scoprire alcune personali potenzialità non ancora conosciute.
Laboratorio musicale.
Le tappe del laboratorio musicale sono state quello dell'ascolto, dei riconoscimento delle emozioni che una musica determina nella persona,dell'apprezzamento delle diverse musiche e delle emozioni corrispondenti.
A tale laboratorio di avvio sono stati indirizzati soggetti particolarmente chiusi e timidi che hanno tratto giovamento dal riconoscimento delle emozioni e dalla socializzazione verbale in gruppo degli effetti che una musica produce sulla loro sensibilità.
Laboratorio tecnico, plastico e manipolativo.
La funzione di questo laboratorio è stata quella di legare gli alunni alle loro potenzialità di manipolazione di trasformazione della realtà materiale e concreta che li circonda. A questo laboratorio sono stata avviati soggetti che hanno una buona intelligenza interpersonale, alunni molto inclini alla socializzazione ed ai contatto con altri che corrono però forti rischi di condizionamento.
I laboratori indicativamente hanno avuto la durata di 50 ore e in essi sono stati utilizzati gli insegnanti firmatari del progetto i quali si sono impegnati a rimanere a disposizione della scuola per 50 ore oltre l'orario cattedra.
4.8. L’Orientamento
Per quanto anche le attività descritte fin’ora siano inestricabilmente connesse alle questioni dell’orientamento, all’interno dei progetti di “Prevenire è Possibile” restano centrali altre attività più facilmente individuabili come orientative.
In questo senso infatti vengono accessi dei percorsi di consulenza, individuale e all’interno dei gruppi classe e di gruppi interclasse (solitamente pomeridiani). Le consulenze, si avviano in conseguenza alla rilevazione dei dati sulla personalità individuale. Dal questionario si ricava un grafo che permette di visualizzare facilmente la personalità.
Il grafo di orientamento (pag 81) è il prodotto della analisi delle disposizioni, delle abilità e della caratteristiche del metodo di studio e di apprendimento di ogni studente organizzato sulla base delle categorie di realismo, intraprendenza, investigazione, espressività, convenzionalità, socialità e relazionalità (rispettivamente gli assi caratterizzanti gli idealtipi: analitico, pragmatico, creativo, emozionale, plastico, percettivo, relazionale).
Il progetto di orientamento, infatti, ha avuto stretto contatto con il percorso dei laboratori nei quali sono state evidenziate sia le disposizioni sia le qualità degli studenti che hanno partecipato.
Dopo la prima unità di intervento sulle classi, gestita attraverso il questionario di personalità collettiva di classe, vengono sviluppate le valutazioni sul clima complessivo delle classi e sui processi di influenza reciproca dei ragazzi sia nella motivazione allo studio che nell’orientamento.
La prima sintesi delle personalità di classe, individuata nelle schede di classe, viene proposta ai docenti impegnati nel lavoro ed è stata utile per individuare i processi di trascinamento in atto tra gli studenti e delle influenze delle famiglie.
Dopo il lavoro di discussione viene presentato il Questionario di Orientamento compilato dagli studenti. La compilazione del questionario è stata seguita dalla interpretazione dei dati e dallo svolgimento dei colloqui di orientamento individuali e di gruppo.
La teoria alla base dell'orientamento, per come è stato condotto nelle esperienze svolte nelle scuole in Italia,si fonda su tre nodi concettuali:
1) Considerare l'orientamento come un processo educativo che tende a far emergere sia le dimensioni dello sviluppo della persona, sia l'orientamento alla professione, sia le capacità di scelta e decisione del singolo soggetto; a partire dal personale stile cognitivo, individuato per ogni studente sulla base dei test di cui sopra, si sviluppa uno stile di apprendimento e uno stile di esecuzione.
In termini teorici conviene approfondire questi concetti.
Stile cognitivo.
La letteratura sugli stili cognitivi, e sui test relativi, è molto ampia: da Binet (test di intelligenza), a Spearman[91] (teoria dei due fattori “intellettivo generale” e “specifico di un settore”), a Thurstone[92] (le abilità primarie), a Cattel[93] (intelligenza fluida e cristallizzata), Guilford (immagine, inventiva, concentrazione, elaborazione, numerico, verbale) fino a Gardner (7 forme mentali: logica, cinestetica, spaziale, linguistica, intrapersonale, musicale e interpersonale). Le diverse classificazioni hanno molti punti in comune che sono sintetizzati, e ricompresi, in quella di Gardner che presenta il maggior numero e la più profonda fondatezza sia nei riscontri empirici sia nella correlazione tra stili cognitivi e la neurofisiologia[94]. A fini di semplificazione didattica il modello di Gardner è stato sintetizzato in tre processi cognitivi di intelligenza ordinativa, intuitiva e descrittiva. Con questa tripartizione si è riusciti a superare la dicotomia[95] tra intelligenza (pensiero convergente) e creatività (pensiero divergente) e raggruppare le sette dimensioni delle intelligenze in tre aree costruendo un modello che correla efficacemente i dati del Questionario di artigianato educativo (o le schede di rilevazione) di Prevenire è Possibile con le intelligenze e con i processi di comunicazione educativa.
Lo studio dello stile cognitivo ha la funzione di analizzare le attitudini del soggetto connesse al suo temperamento, alla sua personalità, ai suoi bisogni, ai suoi interessi, ai suoi valori ed ai suoi ideali. Il modello proposto riesce ad analizzare le dimensioni della personalità in connessione con gli stili cognitivi.
Stile di pensiero, di esecuzione e di apprendimento.
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Con questa espressione si intende il processo che dall'esperienza, dall'osservazione e dallo studio conduce alla riflessione, alla formazione di concetti ed allo sviluppo delle capacità. Gli stili di apprendimento che sono presentati in letteratura sono tipizzati in convergente, assimilatore, divergente e accomodatore che si presentano con aspetti di sperimentazione attiva, concettualizzazione astratta, osservazione riflessiva e esperienza concreta. L'incrocio tra questi concetti produce quelle competenze composte, frutto della combinazione tra stili, che sono presenti sia nei diversi domini disciplinari che nelle professioni concretamente esercitate. L'analisi degli stili di apprendimento viene svolta attraverso l'osservazione del metodo di studio in corrispondenza dei tre grandi ambiti delle intelligenze: allo stile ordinativo corrisponde uno stile di apprendimento convergente, all'intuitivo uno stile divergente, al descrittivo uno stile accomodatore. Gli stili di apprendimento sono naturalmente collegati all'interesse che ogni singolo ambito suscita nel soggetto ed al valore che viene ad esso attribuito. La ricognizione degli interessi disciplinari scolastici è piuttosto semplice ed in genere è espressa con convinzione dallo studente che conosce il contenuto delle discipline studiate. Solo nei casi in cui la metodologia didattica di un insegnante sia stata troppo rigida e non abbia saputo modularsi nei diversi stili comunicativi può essere insorta nello studente una forte antipatia ed incomprensione verso quell'ambito disciplinare in cui egli ha attitudini. Il turn over degli insegnanti garantisce però un buon ricambio di stili.
Gli interessi professionali sono molto più complessi, perché corrispondono a miscele composite di interessi di base. Tali interessi maturano lentamente nella persona e possono essere espressi dalle persone all'interno di un colloquio o attraverso la lettura di un elenco di interessi inventariati sulla base delle migliaia di tipi di attività lavorative presenti nel mercato del lavoro. Strong, Guilford, Kuder e Super[96] propongono diverse aree di interesse che possono essere sintetizzate in Amministrazione, Tecnica, Scienza, Persuasione, Commercio, Arte, Persone. Tali dizioni si correlano in linea di massima con le dimensioni delle sette intelligenze e si aprono a ventaglio sulle diverse possibilità di attività lavorativa a seconda delle applicazioni, della miscela tra questi interessi e dai valori professionali perseguiti. La tassonomia di Zitowski[97] individua i principali valori professionali in: prestigio, retribuzione, sicurezza, rendimento, indipendenza, condizioni di lavoro, avanzamento nella carriera, varietà di compiti e responsabilità.
In sintesi le attitudini di base vengono arricchite ed integrate attraverso la miscela degli stili di apprendimento, i quali, a loro volta, si potenziano sulla base degli interessi e dei valori. La disposizione verso l'una o l'altra attività è quindi frutto di molteplici fattori alcuni orientanti, altri disorientanti. Tra questi ultimi, come vedremo, hanno un grande ruolo sia le pressioni della famiglia che quelle del gruppo di pari, delle comunicazioni di massa e delle caratteristiche del contesto territoriale. L'indagine sul metodo di studio e sui bersagli delle scelte professionali deve dunque far ricorso a strumenti che analizzino la divergenza tra attitudini, metodo di studio, convinzioni personali e professioni bersaglio delle scelte.
Stile di esecuzione.
Nelle disposizioni personali verso un certo ambito professionale gioca un ruolo importante lo stile di esecuzione di un lavoro. Lo stile di esecuzione è spesso intimamente connesso con la mansione esercitata nell'area di interesse disciplinare. La distinzione negli stili esecutivi di una qualunque professione è di solito operata mediante la distinzione tra "continuatori" (tradizionalisti) e "innovatori" (progressisti) di Kirton. I primi sono precisi, fedeli, risolvono i problemi secondo le procedure consolidate, consolidano la stabilità, sono cauti, esercitano autorità; i secondi sono indisciplinati, affrontano i problemi da punti di vista inattesi, scoprono nuove soluzioni, sono imprudenti, astratti e provocatori, sfidano le norme consolidate. Nel modello di Kirton[98], che è diventato un concetto di senso comune, vengono attribuite ai due tipi anche le caratteristiche non pertinenti del rapporto e della attenzione che i continuatori e gli innovatori rivolgono alle persone ed al contesto. Attribuire ai primi sensibilità alle persone e attenzione alla coesione finalizzata alla continuità ed ai secondi indifferenza e propensione alla dinamica del cambiamento, non è un criterio risolutorio né una sorta di "variabile di moderazione" dei due precedenti stili. Richiede invece di introdurre un terzo stile di esecuzione che è orientato alla realtà delle persone e dei contesti. Tale stile è quello dei "mediatori" (negoziatori) che non sono né innovatori, ne continuatori ma nemmeno la via di mezzo tra gli uni e gli altri. Il fatto che rappresentino uno stile a sé nella continua osservazione del contesto, nella capacità di raccogliere informazioni e di tener presente le diverse esigenze, nel posticipare le decisioni, nel saper accettare le contraddizioni non rende in assoluto più efficace il loro stile rispetto ai precedenti. Questo terzo stile può rappresentarsi come efficace mediazione o come pericolo subdolo di inerzia e di sfaldamento delle capacità operative di un singolo individuo o di un intero sistema.
A seguito di questo livello di intervento si è in grado di valutare il tipi di registro comunicativo più utile e più comprensibile per il soggetto in formazione, altresì cui permette di avere una rilevazione piuttosto attendibile sui bisogni educativi di ogni individuo.
2) Gestire la somministrazione di test allo scopo di raccogliere indicazioni che facilitano il dialogo educativo con il soggetto e non come strumento tecnico predittivo. A questo scopo è stato elaborato un questionario che raccoglie le principali indicazioni delle teorie e dei test di orientamento.
L'analisi dei metodi di studio, correlati alle intelligenze ordinativa, intuitiva e descrittiva (più semplici e chiari delle articolazioni degli stili di studio e di esecuzione immaginativo, intuitivo, intellettivo e industrioso che non distinguono i processi mentali dalle disposizioni all'azione) conduce ad una risposta rivoluzionaria circa la vexata quaestio se l'orientamento debba servire allo sviluppo delle diverse qualità della persona o se debba servire ad individuare le specifiche attitudini funzionali al successo nell'inserimento lavorativo. Se un soggetto presenta una propensione nell'area della intelligenza descrittiva (ha, per esempio, buone attitudini nell'intelligenza intrapersonale e nell'intelligenza musicale) deve sviluppare le sue qualità trascurando gli altri stili di cognizione e di apprendimento o deve essere educato allo sviluppo di altre competenze per raggiungere un equilibrio armonico della sua personalità complessiva? E, comunque, quanto deve applicarsi all'uno o all'altro? Da un lato si possono rischiare gli esiti di una personalità deformata dalla professione, e dalle inclinazioni personali, priva di duttilità che consentono le ridecisioni, anche professionali, necessarie nel corso della vita, dall'altro gli insuccessi nell'inserimento lavorativo per insufficiente identità professionale.
La questione può essere risolta con chiarezza distinguendo le due linee centrali dell'orientamento che caratterizzano lo stile degli interventi di “Prevenire è possibile”: la necessità educativa di pervenire ad una personalità armonica è perseguita attraverso indicazioni di counseling mirate allo sviluppo di quegli aspetti della personalità carenti nel soggetto al fine di evitare la fissazione in rigidi copioni (ad un soggetto attivo e intraprendente viene così consigliato di trovare uno spazio nella sua vita quotidiana per vivere momenti di pace, di meditazione e di rilassamento). La necessità professionale viene esaudita attraverso l'orientamento allo sviluppo delle sue qualità migliori (un soggetto intraprendente avrà bisogno di attività professionali attive, di movimento, nelle quali esprimere le sue potenzialità).
Questo stile permette altresì di intervenire a livello preventivo anche rispetto ai problemi di dispersione scolastica. In effetti, metter in luce alcuni atteggiamenti e stili relazionali permette di intervenire rispetto al miglioramento del clima relazionale nelle classi.
Orientamento e dispersione, concettualmente legati a nuclei problematici affini (è del resto vero che un certo clima relazionale ed una certa qualità del contesto in cui si studia e si vive giocano un ruolo importante nel riconoscimento e nel piacere provato nell’intraprendere un certo cammino) trovano una soluzione pratica che li avvicina e ne riconosce anche metodologicamente le interdipendenze.
Spesso la demotivazione cresce conseguentemente al clima del contesto di lavoro; molti sono gli studenti, che vengono spesso definiti “con difficoltà ad ambientarsi”, che per questo genere di motivi cambiano corso di studi, magari al di là dei loro reali interessi, vocazioni e predisposizioni.
Il Questionario di artigianato educativo viene dunque integrato da altre tre schede :
1) la prima è ricavata dal Test dei tipi professionali di Holland[99] (realista, investigativo, artistico, sociale, intraprendente e convenzionale) a cui è stato aggiunto il tipo relazionale distinguendolo dal sociale ed è stato definito con "espressivo" il tipo artistico; il modello di esagramma di Holland si è così integrato nell'eptagramma dell'artigianato educativo e la struttura del grafo a radar ha risolto i complessi problemi di calcolo dello schema di Holland. In questa scheda vengono analizzate le competenze possedute dai soggetti riferite ai suddetti sette ambiti di disposizioni professionali. La miscela delle aree dà origine a centinaia di sottotipi.
2) La seconda è derivata dal Questionario sull'efficienza nello Studio (QES) di Brown e Holtzman[100] al fine di collocare negli ambiti delle intelligenze i diversi metodi di studio, le preferenze e gli interessi prevalenti. Ha anche lo scopo di misurare l'indecisione professionale.
3) La terza è una scheda ricavata dal Questionario di Maturità Professionale (QMP) di Polacek[101] integrata con le figure professionali preferite. Questa ultima scheda ha lo scopo di verificare le incongruenze tra le disposizioni di base del soggetto e le figure bersaglio delle sue scelte.
3) Contestualizzare l'orientamento alle potenzialità del territorio ed alle discussioni informali sulle scelte attuate nei gruppi di riferimento. A questo fine si collega l'orientamento alla ricerca intervento ed alla discussione orientante nei gruppi di incontro.
Una caratteristica centrale che l'orientamento deve assumere è la sua fattibilità e la sua adattabilità al territorio. La ricognizione delle risorse e delle potenzialità di inserimento lavorativo nel territorio è un processo di ricerca intervento finalizzata ad una esplorazione collettiva da parte dei soggetti coinvolti nell'orientamento.
I tutor, gli insegnanti o gli esperti coinvolti nel processo hanno operato una ponderata ricognizione sui possibili sbocchi occupazionali e sulle scelte scolastiche ad essi connesse al fine di dare nel counseling tutte le informazioni in grado di non esporre i soggetti a delusioni ed a rischi.
E la diversificazione degli interventi?
A più riprese ho accennato alla necessità di differenziare il tipo di intervento a seconda dei bisogni specifici.
In questo senso, i colloqui, sulla base delle informazioni raccolte mediante gli interventi in classe, i colloqui di gruppo, i laboratori ed i questionari individuali, vengono centrati sulle questioni più rilevanti. Pertanto, nel caso in cui sia emersa dalle precedenti attività, una buona consapevolezza da parte dello studente delle sue abilità e disposizioni, il colloquio verrà centrato sui bisogni educativi. Nel caso in cui invece nello studente o nel lavoratore si notino armoniche caratteristiche di personalità, ma scarso livello di ambizione o di motivazione, il colloquio punterà a sviluppare solo queste due caratteristiche.
In altri casi invece il colloquio potrà essere centrato sul suggerimento di strategie di ricerca del lavoro o sullo sviluppo di una riflessione concreta (e sulla erogazione di informazioni) circa le potenzialità offerte da quel territorio.
In altri casi il colloquio potrà infine trovare il suo focus nell’analisi e nel bilancio delle competenze.
Così facendo, i colloqui individuali possono svilupparsi in tempi decisamente inferiori a quelli solitamente utilizzati pur non perdendo né efficacia né efficienza.
4.9. Gli strumenti per l’orientamento
Gli strumenti pratici utilizzati per l’orientamento sono state unità di discussione più piccole della classe che, proponendosi come momento di dialogo e confronto di idee, allargano gli orizzonti delle scelte con informazioni e proposte, contengono difficoltà e delusioni e permettono uno sviluppo della scelta scolastica e professionale nel rispetto dei tempi di ciascuno.
La discussione in gruppo serve a far emergere i desideri effettivi o impropri, causati dalle rappresentazioni che spesso coprono le vere disposizioni, le pressioni dei genitori o degli amici che impediscono una scelta libera e la verifica dell'effettiva conoscenza degli ambiti che sono l'oggetto di un percorso di studi o di una professione. All’interno di queste unità sono stati discussi i risultati dei test individuali.
Sempre all’interno dei gruppi, che si connotano come gruppi di formazione o di incontro a seconda dei contesti e dei bisogni espressi, si riesce ad agire direttamente ed indirettamente sulla motivazione individuale. Da un alto, perché il racconto delle proprie sconfitte, delusioni o indecisioni permette di individuare il focus e di dare suggerimenti precisi; dall’altro perché in gruppo i ragazzi prendono atto di avere spesso lo stesso tipo di delusioni degli altri, ricavando da questo la diminuzione della disistima, che perde influenza rispetto alla consapevolezza dei propri limiti e al riconoscimento della naturalità e della normalità di questi.
4.10. Dispersione, abbandoni e orientamento. Facce della stessa medaglia?
Porsi questioni relative alla qualità dell’orientamento ci impone alcune riflessioni e digressioni.
La dispersione e gli abbandoni scolastici non possono non rientrare nella ricerca sull’orientamento. Si abbandona un’impresa solo quando si è dispersi rispetto ai propri interessi o rispetto ai personali obiettivi. Un abbandono scolastico, esclusi i casi in cui si lascia una scuola per inscriversi ad un’altra di caratteristiche diverse (anche se su questo punto si potrebbe riflettere proporre alcune distinzioni- le iscrizione alle scuole di recupero anni?- le scuole solitamente ritenute più “facili”?-) è una resa incondizionata, è un crollo della motivazione non solo allo studio ma alla ricerca dei propri traguardi.
Se orientare vuol dire far sì che i giovani trovino in se stessi la motivazione e la consapevolezza necessarie per la costruzione di un progetto professionale e di vita, chi si occupa di orientamento non può esimersi dal prendere in considerazione le problematiche dell’abbandono scolastico e della dispersione.
In termini preventivi, l’orientamento si configura in sé stesso come un antidoto per la dispersione scolastica. Se l’iscrizione ad un percorso di studi (universitari, superiori o di specializzazione) è ricompressa nella consapevolezza di un percorso e di un obbiettivo personale è infatti più difficile che lungo il tragitto venga meno la motivazione.
4.11. L’attività contro la dispersione e gli abbandoni.
Una delle occasioni più importanti per gestire l'orientamento e la lotta alla dispersione è stata la riunione dei bocciati. Tale riunione, di regola gestita da educatori esterni alla scuola, riesce a far esprimere le difficoltà ed il disagio ed a far metabolizzare la sofferenza della bocciatura, dando ad essa un senso e cercando di costruire un possibile processo virtuoso verso il futuro.
Il tema dell’abbandono scolastico può essere affrontato attraverso la comprensione del vissuto della bocciatura e del dramma di essere respinti. L’estate dopo la bocciatura è tragica poiché il bocciato non riesce a far finta di nulla, pur provandoci, e gli altri intorno a lui non sanno cosa dirgli e come proporglisi. Il rischio è che scelga una posizione di comodo e rinunci a continuare gli studi collezionando così altri fallimenti.
La solidarietà con i bocciati attraverso il contatto personale con loro da parte dei compagni, cercandoli ripetutamente, di persona o telefonicamente, per ricoinvolgerli è un modo concreto di attuare la lotta alla dispersione. Una gara di solidarietà nella direzione di richiamare a scuola coloro che la stanno abbandonando può portare a molti interessanti risultati.
Ai ragazzi bocciati viene normalmente posta la questione se hanno elaborato i motivi del loro fallimento nel profitto. Alcuni non sanno il perché della bocciatura, molti non hanno mai preso in considerazione un serio metodo di studio, altri tendono a far credere di essere indifferenti verso la bocciatura, alcuni hanno seri problemi nel comunicare la bocciatura in famiglia, altri ancora non hanno maturato adeguate riflessioni sull’orientamento verso la scuola per loro elettiva, dimostrando una scarsa conoscenza di se stessi e delle loro disposizioni.
Dagli incontri delle riunioni dei bocciati sono emerse almeno tre tipologie di comportamento:
1) I delusi-illusi. Giovani che hanno manifestato in modo esplicito il loro dispiacere per la caduta di speranza che, in qualche modo, avevano riposto sulla magnanimità dei docenti. Indipendentemente dalla loro personale valutazione (del tutto arbitraria) è bene tenere in considerazione il fatto che tali giovani sono i più esposti alla depressione a seguito della disillusione (sono questi i tipici casi di spinte autodistruttive, anche suicidogene, magari motivate solo dalla voglia di attirare l'attenzione su di sé o esprimersi in tentativi suicidi depressivi e egoistici). Di fronte a tali forme mentali (in genere soggetti molto insicuri e poveri affettivamente) è utile la esplicita dichiarazione di preparazione insufficiente prima del momento della verifica visibile attraverso i "quadri". In queste situazione si è prodotto un intervento di riorientamento rispetto allo studio e di valutazione comune dei futuri progetti. Oltreché naturalmente di sostegno psicologico.
2) Irriducibili - aggressivi. E' apparsa in taluni soggetti, già educativamente disorientati, la usuale tensione contro il corpo docente mascherata con un atteggiamento di sufficienza:" Non me ne importa nulla, intanto l'anno prossimo faccio, da privatista, due anni in uno, basta pagare!!". Di fronte a questi personaggi sarebbe stato utile un atteggiamento di maggior fermezza e una più marcata valutazione sulla loro incompetenza, al fine di mettere in discussione sia lo scarso profitto che l'atteggiamento arrogante e facilone.
3) Alcuni giovani bocciati manifestavano invece una preoccupante scissione tra il dolore internamente sperimentato e l'indifferenza o l'euforia ridanciana espressa esternamente. Questa scissione appare come un sintomo di disagio profondo che potrebbe condurre alcuni di loro a crisi psicologiche acute.
4) Il maggior numero di soggetti manifesta una tristezza normale e giustificata ed ammette la propria responsabilità nella bocciatura. Da segnalare la sola necessità, manifestata da molti soggetti, di imparare un metodo per studiare ed avere successo.
L’idea della elaborazione del vissuto di bocciatura può essere utilizzata al fine di promuovere il recupero dei debiti e/o il reinserimento del ripetente nel corso dell’anno successivo, specialmente laddove le difficoltà di metodo di studio, e di relazione con i docenti, sono più acute.
La prevenzione della dispersione scolastica è il nucleo fondamentale di una scuola che voglia attuare un progetto educativo. Quando gli studenti sono accompagnati con un progetto educativo e di motivazione la dispersione diminuisce, quando invece essa aumenta è un indicatore del "disagio" preadolescenziale e adolescenziale. La loro impulsività, instabilità, intransigenza li pone spesso in opposizione con il mondo degli adulti e, non essendo adeguatamente compresi, si sentono emarginati ed attuano “fughe”, tra queste la prima è la decisione di abbandonare la scuola. Il processo di fuga va compreso nella sua complessità: il giovane, che non ha sviluppato un buon contatto con se stesso e la sua identità, spesso si oppone all’adulto perché, in tal modo, pensa di affermare se stesso ed il suo diritto ad essere un imprecisato “se stesso”. Se l’opposizione non è compresa, assorbita e trasformata in dialogo educativo, il giovane trae l’energia per autoaffermarsi dalle “imposizioni assurde” dell’adulto e agisce contrariando l’adulto al fine di avere la sua attenzione; si oppone per opporsi perché così facendo gli sembra di sentirsi crescere e divenire adulto. La contrarietà porta però allo scontro e l’impossibile vittoria nello scontro alla soluzione della fuga.
Indubbiamente è importante analizzare l'ambiente dove il ragazzo vive per individuare condizionamenti positivi e negativi del suo iter formativo, anche se il fattore decisivo della lotta alla dispersione consiste nell'identificare il significato che gli alunni conferiscono al loro vissuto nell'esperienza scolastica.
Riprendendo quello che è stato detto nei paragrafi precedenti, i giovani vanno aiutati a "guardarsi dentro", a comprendere le loro sensazioni ed emozioni; gli educatori hanno il compito di educarli all'ascolto delle loro emozioni, del loro mondo interiore, aiutandoli a riscoprire quali sono i bisogni per loro fondamentali.
Le cause dell’abbandono, espresse con maggiore frequenza, sono, oltre alle personali lacune di base, lo scarso coinvolgimento delle famiglie alla vita scolastica, la caduta di motivazioni (soprattutto nel triennio) riguardo l'incertezza e precarietà del lavoro, i problemi di inserimento nella prima classe, la mancanza o insufficienza dello star bene in classe. Per fronteggiare queste cause l'attivazione dei gruppi di incontro in attività extracurricolari è molto efficace specialmente se i gruppi per tali attività sono disomogenei per età e provenienza; si costituiscono infatti come un punto di riferimento per gli studenti che trovano l'opportunità di incontrarsi nella scuola al di fuori della usuale struttura della classe e delle sue relazioni.
Esempi di grafici:
Grafici di classe
Grafico individuale di orientamento
Conclusioni
L’obbiettivo di questa pubblicazione è stato quello di presentare nella sua complessità il contesto odierno della progettazione e della ricerca sull’orientamento. In maggior profondità si è cercato di affrontare i problemi legati alle metodologie orientative e alle attività necessarie. Con esse, si è fatto il punto sulle competenze necessarie ed i ruoli che nelle istituzioni devono essere ricoperti dai vari professionisti in gioco.
Cercare di individuare le linee guida e di ricompattare l’immensa produzione scientifica relativa all’orientamento riuscendo altresì a scremare dalla massa ciò che qualitativamente non è accettabile è un grande lavoro che speriamo di essere riusciti a svolgere in maniera comprensibile e scientificamente “solida”. Nel far questo, si devono sottolineare alcuni criteri che ci hanno animato:
1) la convinzione che l’orientamento sia un’attività educativa e che non esista più un netto confine tra l’orientamento scolastico e quello professionale. La storiografia sull’orientamento ci mostra come ai suoi albori (i primi lavori di selezione del personale effettuati da Mayo e da Taylor) l’orientamento venisse distinto nettamente in alcune differenti ambiti: quello professionale, quello scolastico e quello sociale. Il primo caratterizzantesi nella selezione delle attitudini professionale, il secondo nelle scelte scolastiche ed universitarie, il terzo infine che si delineava come un intervento centrato sullo sviluppo della socialità e delle relazioni interindividuali. Ad oggi, ognuno di questi piani è strettamente intersecato. Le scelte scolastiche sono il percorso necessario al raggiungimento di un obiettivo professionale su cui si è presa la mira sulla base di alcune riflessioni relative alla personalità individuale ed alle attitudini relazionali ed alle ambizioni. Tutto questo trova il suo fondamento nello sviluppo anche della socialità e dunque nei percorsi educativi in cui l’individuo viene inserito.
2) La profonda convinzione che la ricerca sull’orientamento debba uscire da alcuni stereotipi e fare chiarezza all’interno del suo corpus scientifico. In primis l’idea che l’orientamento possa essere effettuato da qualsiasi professionista, da cui consegue una sovrapposizione di incarichi e competenze scientificamente inaccettabile. L’orientamento richiede interdisciplinarità, ma sono ben diversi i piani di ricerca e di intervento relativi alle varie specializzazioni. C’è bisogno di una corretta riflessione sui campi di pertinenza dei vari approcci: sociologico, pedagogico, psicologico, amministrativo, didattico e della comunicazione, filosofico e delle scienze dell’organizzazione. In secondo luogo, ed ancor più importante, l’idea che fare orientamento sia da legarsi in prevalenza alle attività di distribuzione delle informazioni o alle tecniche di ricerca attiva del lavoro. Costruirsi un progetto ed un percorso professionale vuol dire fare alcune scelte anche di vita, se l’utilità dell’orientatore dev’essere una mera consegna di informazioni sulle carriere o sulle fasi da seguire istituzionalmente per raggiungere un obiettivo, questa funzione può benissimo essere svolta dai supporti informatici.
3) La convinzione che ci sia bisogno di una visione “lucida” dell’orientamento. Uscire così dalle affabulazioni che spesso in ambito educativo vengono perpetuate, sulla base di quel “luogo comune” educativo per cui si ritiene l’individuo talmente unico ed irripetibile da non poter costruire procedure e tecniche educative appropriate ai vari contesti ed alle varie situazioni, ma tutto si debba risolvere nell’improvvisazione. Questo, oltre dare spazio e credibilità ai venditori di fumo, devia la capacità dell’uomo di cercare solidità e di riflettere in maniera oggettiva.
4) La “qualità” nell’orientamento è data dalla corretta progettazione su due piani: quello delle attività psico-pedagogiche e sociali e quello della organizzazione istituzionale. La sola qualità degli interventi, anche se di per sé è uno dei più importanti indicatori di qualità nell’orientamento, dovrebbe essere inserita in contesti istituzionali e organizzativi progettati per essere in grado di orientare. A partire dal bisogno di maggiori competenze in gioco nella scuola (anche a livello di comunicazione interna) l’intero quadro delle amministrazioni pubbliche è “disorientato”. Spesso non c’è concertazione e consultazione sugli interventi, non esiste sussidiarietà e bassa è sovente l’efficacia delle strutture. In questo senso si necessita di una nuova strutturazione di tipo reticolare. Una rete, inter-istituzionale e intra-istituzionale, perché sarebbe in grado di divenire antidoto agli sprechi di conoscenze e di risorse, permetterebbe omogeneità nella progettazione e maggior fruibilità delle informazioni all’interno e all’esterno e dei servizi rispetto alla clientela. A questo si aggiunge il problema dell’assenza di una “cultura orientativa” anche nelle persone che costituiscono le strutture e le amministrazioni.
5) La certezza che la qualità degli interventi educativi non possa avere come indicatore la precisione delle “rendicontazioni contabili” o la correttezza ed il rispetto di certe procedure burocratico-amministrative. La qualità va cercata altrove, trovando gli indicatori di qualità nella efficacia e nell’autenticità dei vissuti dei protagonisti dell’orientamento. Gli studenti, i lavoratori che devono orientarsi.
Ancora una riflessione..
Per chiudere, mi piace proporre alcune ultime riflessioni e quasi-provocazioni sul filo dell’ideologia in riferimento ai percorsi di crescita e di conseguenza all’orientamento.
Krumboltz descrive il concetto di “Planned Happenstance”, mettendo in luce quanto sia necessario per i giovani e tutte le persone costruire buone strategie di coping nei confronti dell’inevitabile incertezza in cui ci troviamo ad agire.
Buone strategie che non sono maggiori capacità di progettazione ma che sono invece rappresentate dalla capacità di una persona di cogliere gli eventi casuali e fortuiti come occasioni, e magari riuscire a sfruttarne le potenzialità per il proprio percorso di vita. In termini più semplici cercare di costruire progetti per il nostro futuro ma, come mi disse una volta un caro amico “senza prendersi troppo sul serio”. Il nostro futuro non è un dato statico, ma dinamico. Ognuno di noi, pur nel rispetto di se stesso deve riuscire a comprendere questa dimensione della realtà.
L’orientatore, il consigliere , ma chiunque abbia un ruolo educativo deve cercare di trasmettere quest’idea di flessibilità che non è improvvisazione o passività e attesa. Mi piace citare le parole K. Mitchell: "…planned happenstance theory should not be confused with magical thinking or reliance on fate.”[102]
Nel loro articolo definiscono poi alcune skills che riconosco utili per la costruzione di un percorso di vita soddisfacente, che mi piace fare mie e proporre al mio pubblico:
a) Curiosità: vedere e leggere gli eventi come occasioni di nuove comprensioni e spunti di riflessione, cercare la novità.
b) Determinazione e tenacia: intese come la capacità di ricorrere alla propria volontà nel raggiungimento di un obiettivo a dispetto degli impedimenti e degli ostacoli.
c) Flessibilità: intesa come la capacità di modificare la visone delle cose e di giocarsi più abilità in differenti settori.
d) Ottimismo: imparare a vedere positivamente le situazioni, leggere l’imprevisto come opportunità di miglioramento.
e) Coraggio (Risk- taking): la capacità di rischiare e di osare, in un’ottica razionale, serenamente consapevoli dell’incertezza.
Concludo questa mia fatica con una riflessione circa l’importanza dell’offerta di opportunità.
S. J. Gould[103] nel suo testo più famoso[104] dedicava il suo testo al padre che, all’età di cinque anni, lo porto a vedere il Tyrannosaurus Rex. Sarebbe diventato uno dei più grandi paleontologi ed evoluzionisti se questo non fosse accaduto? Sicuramente, l’occasione ha avuto il suo peso.
Io, ho dedicato questo libro a mio padre che, quando avevo nove anni mi portò a vedere il Tyrannosaurus Rex al Museo di Storia Naturale di New York. Anche questa un’occasione, in parte una casualità che ha però avuto un gran peso nella mia crescita (al tempo, innamorato dei dinosauri volevo diventare paleontologo).
Questi due esempi mi servono per puntualizzare alcuni concetti: il primo è che le opportunità giocano un ruolo fondamentale nelle nostre esperienze, il secondo è che il regalo di un’opportunità può spesso diventare un incoraggiamento per il proprio futuro. Come educatori, come padri e come orientatori dobbiamo offrire occasioni curiose ed interessanti ai giovani e alle persone che incontriamo nel nostro cammino.
Saluto e ringrazio mio padre e mia madre che hanno creduto in me nella mia intelligenza (anche se poi il mio percorso professionale è stato per adesso differente dalla paleontologia, ma chissà che in futuro..) e che hanno saputo sostenermi ed insegnarmi ad essere generoso e curioso.
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[1] Si tratta di una visione maggiormente presente nelle impostazioni della sinistra, che contraddistingue le attuali progettazioni educative e di orientamento (ambiti in cui peraltro è da segnalare la quasi totale assenza delle destre). L’unica alternativa a questo modello è infatti l’impostazione cattolica spesso legata a logiche di indottrinamento e catechesi che non si possono considerare orientative ma solo instradanti. Anche se, all’interno di queste ci sono indubbiamente intenzioni e valori educativi sostenibili e corretti. Senza entrare troppo nel merito, accenno alla schiettezza delle fonti e degli obiettivi, che, se disponibili al confronto, sono comunque una forma di orientamento in quanto presentano una proposta. Al contempo, se non riescono a mettersi in discussione, restringono il campo della scelta individuale sovrapponendolo al piano dell’appartenenza ad un contesto affettivo ed amicale o ad un gruppo. Spesso, o si è dentro o si è fuori.
[2] Cfr. L.L. Cavalli Sforza, Geni, popoli e Lingue, Adelphi, Azzate, 1997.
[3] Cfr.B. Rossi, Intersoggetività ed educazione, La Scuola, Brescia, 1992.
[4] Disti nguo in questo caso tra il concetto di potere e quello di potenza. Il potere è infatti un ente statico e perciò non creativo. Non aumenta, non implementa né cresce, struttura e semmai stabilizza. La potenza è invece un dato dinamico e creativo, un movimento di espressione del sé, e come educatori è nostro dovere esercitare e far sviluppare in un ottica empowered la potenza dei nostri discenti, formandi, alunni.
[5] Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, Il Mulino, 1986. L’agire strategico veniva descritto da Habermas come quel modello d’azione sociale volto alla soddisfazione di un proprio interesse personale.
[6] Cfr. A. Messeri, Due mondi dell’orientamento?, da << Magellano>>, n°11, 2002.
[7] Sandra D’Agostino, Riflessioni sul modello organizzativo della rete in riferimento all’Orientamento, in <<Magellano>>, n°1, Giugno, 2000, pp. 41-44.
[8] C. Scurati, Pedagogia,fondamenti e dimensioni, in F. Frabboni, L. Guerra, C. Scurati, Pedagogia, realtà e prospettive dell’educazione, Mondadori, Milano, 1999, p. 25.
[9] M. Viglietti, La presa di decisione, in <<Orientamento scolastico e professionale>>, n°1, Roma, 1998, p. 12
[10] L. Macario, S. Sarti, Crescita e Orientamento, Las, Roma, 1992, p. 11
[11] Ad essa sta anche la riflessione sulle teorie e sulla teoria dell’educazione, come si faceva notare nel capitolo precedente.
[12] Tolman, 1948, cfr. M. Depolo, Psicologia delle organizzazioni, Bologna, IL Mulino, 1998, pp. 119-130
[13] Non è possibile riportare una precisa nota di tutta la produzione scientifica che si pone in quest’ottica. Per evitare di dover fare una selezione che sarebbe comunque discutibile, ci limitiamo a menzionare il già citato Hobbes.
[14] Da E. Mayo alle prime teorie sulle reti informali (cfr. Barnes e J. C Mitchell, Social Networks in Urban Settings, Manchester University press, 1969.) è ormai questo un fondamento riconosciuto universalmente.
[15] Si pensi alle teorie sulla liberazioni delle pulsioni e sull’espressione dell’ impulso vitale, anche se il legame non è direttamente accettabile.
[16] Cfr. H. Jonas, Il Principio di Responsabilità, un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi,1990 (ed orig. 1979); cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia,,Milano, Feltrinelli, 1981, (ed. orig. 1971).
[17] L’etica del diritto e la teoria dello stato minimo, cfr. Nozick, Anarchia, stato, Utopia, Firenze, Le Monnier, 1981, (ed orig. 1974).
[18] Parabola del masso; cfr. C. Barnard, La Funzione del dirigente, 1938; cfr. G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo, Milano, FrancoAngeli, 1997, pp. 78-95.
[19] Mi rendo conto che alcuni di questi paralleli dovrebbero essere approfonditi e comunque potrebbero risultare poco accettabili. Si prendano come percorsi quasi-metaforici per cui, per la comprensione del processo, si considerano solo alcuni parti di un tutto ben più complesso nell’ottica di evidenziarne le peculiarità e le dimensioni caratterizzanti. Altresì, per la visualizzazione del percorso è spesso necessario “ingrandire” le sue componenti, muoversi dunque a livello “macro”, consapevoli che comunque, si perderanno di vista alcune specificità. Su questo, il dibattito scientifico e ben ampio: si pensi solo ai binomi micro- macro e qualitativo-quantitativo.
[20] Cfr.Scurati, 1999, op.cit
[21] Rientrano in questo ambito le attività legate ai bilanci delle competenze ed ai bilanci orientativi
[22] In questa dimensione si possono considerare tutte le impostazioni che, più avanti, definiremo teorie Tratto- Fattore. Ad esempio la Big Five factors Theory di Norman (1963). Per approfondimenti; Cattel R.B., Tatsuoka H. W., Handbook of sixteen personality Factor Questionnarie, Champain, Ilipat, 1970; Costa P.T., Personality disorder and the Five Factors model of Personality, <<Journal of personality disorder>>, 1990, n° 4; Digman, Personality structure: emergencies of the five factor model, <<Annual Review of Psychology>>, 1990, n° 41.
[23] Cfr. Milena Bandiera, Orientamento formativo:idee ed esperienze, in << Magellano>>, n°2, novembre 2000, pp. 38-42.
[24] L. Fischer, Per un orientamento formativo, in <<Magellano >>, n°1, Giugno 2000, pp. 5-10
[25]cfr. Daniela Villani, L’orientamento in alcuni paesi europei, in Gaetano Dominici, Manuale dell’orientamento,Bari, Laterza, 1998, pp. 229-244.
[26] E’ riduttivo secondo me pensare che dietro alla ricerca non ci siano i processi industriali che si sono attuati negli ultimi anni, e che una grossa fetta della ricerca, quantomeno sul versante dell’orientamento professionale, non sia stata promossa e finanziata dall’economia.
[27] L’aspettativa professionale era legata all’ottenere un reddito, non alla ricerca della qualità della propria esistenza in termini anche di soddisfazione professionale.
[28] Gli ultimi due punti, come si può facilmente osservare, rappresentano quello che è diventato il ruolo delle Regioni nella costruzione e nella gestione delle reti. In linea generale, la struttura istituzionale si è mossa negli ultimi anni lungo queste 5 prospettive.
[29] Cfr. M. L. Pombeni, Criticità e indicazioni strategiche per lo sviluppo di un sistema territoriale di orientamento, estratto del 1° Forum Nazionale dell’Orientamento, Genova, 2001.
[30] La condivisione di una “vision” all’interno di un sistema organizzativo da parte degli attori presenti è in effetti un assodato criterio organizzativo, che prendiamo in prestito dagli studi sulla gestione delle risorse in impresa. Per l’approfondimento del tema si consigliano testi riguardanti la social cognition (Weick, 1986), il team mental model (Salas-Converse, 1993).
[31] Cfr. A. Messeri, Autonomia e Orientamento nella trasformazione della scuola italiana, in <<Magellano>>, n° 11, 2002.
[32] Il concetto di “razionalità limitata” presuppone le ricerca della diminuzione dell’incertezza rispetto al raggiungimento di uno scopo. Cfr.G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo, Milano, FrancoAngeli, 1997, pp. 343-358; cfr. H. Simon, Il comportamento amministrativo, Bologna, Il Mulino, 1958.
[33] Il metodo Retravailler ne è un esempio ben noto.
[34] Si intenda in questo caso per integrazione quella capacità degli individui, delle istituzioni di riconoscersi e rispettarsi nei loro ruoli all’interno di un sistema in cui si rende merito all’altro soggetto delle sue peculiarità, della specificità del suo apporto, e della necessità, per la soluzione “virtuosa” del problema, della pluralità e della implementazione.
[35] cfr. A. Cavalli e C. Deiana “Educare alla cittadinanza democratica”, Carocci, Roma 1999.
[36] In questo caso mi riferisco direttamente alla riflessione circa la sensatezza della “politica” a scuola. Nei fatti si trovano tra i professori due opposte fazioni: una che sostiene che comunque la politica a scuola non debba entrare (giustificando con ciò il disinteresse e la distanza dal senso di partecipazione sociale), l’altra che, magari a volte in maniera faziosa o marcatamente “di parte” ritiene la politica (intesa nella sua accezione classica derivante dal concetto di Polis) una necessaria dimensione dell’educazione. A questa fazione viene spesso contestata la presumibile volontà di “instradamento” politico (inteso qui come elettorale).
[37]Cfr. L. Fischer, M. Bandiera, in <<Magellano>>, vol. e op. cit.
[38] Intesa come conoscenza procedurale, anche se questo non è livello specifico dell’orientamento ma della formazione professionale, è qui da leggersi come definizione delle skills necessarie per un determinato percorso professionale da individuare sulla base delle competenze.
[39] Siano esse trasversali (diagnosticare, relazionarsi, affrontare problemi), di base (abilità), o psicosociali (work-abits, self-efficacy). Per un approfondimento: cfr. G. Sarchielli, Le abilità per un lavoro che cambia, in, (a cura di) S. Meghnagi, A. M. Ajello, La competenze tra flessibilità e specializzazione, FrancoAngeli, Milano, 1998.
[40] Cfr. V. Masini, La qualità educativa, relazionale, dell’apprendimento nella scuola, Isernia,, ed. Prevenire è Possibile, 2001
[41] All’interno delle riflessioni e delle ricerche in ambito organizzativo, questo concetto viene considerato come basilare per la costruzione di un team funzionale ed efficiente.
[42] Cfr. A. Cavalli, Un’indagine sul corpo insegnante della scuola italiana, in << Magellano >>, n°5, aprile 2001, pp. 15-21.
[43] V. Masini, La qualità educativa, relazionale e dell’apprendimento nella scuola, op. cit., pp. 37-38.
[44] cfr. H.Gardner, Formae mentis, Milano, Feltrinelli, 1987.
[45] Inevitabilmente il senso di appartenenza in un gruppo, le aspettative di questo, la ridondanza di alcuni concetti e valori proposti e promossi all’interno di un sistema riescono a incidere sulle nostre valutazioni. Per l’approfondimento si rimanda alla ricerca psico-sociale e, più specificatamente alla ricerca sulle dinamiche di gruppo e sull’influenza sociale. Cfr. G. Gocci, L. Occhini, Appunti di Psicologia sociale, Guerini, Milano, 1996; B. Mazzara, Appartenenza e pregiudizio, Carocci, Urbino, 1996; A. Mucchi Faina, L’influenza sociale, IL Mulino, Bologna, 1996.
[46] Spesso le famiglie o il contesto amicale o entrambi “bocciano”, quando con dichiarata intenzionalità quando invece addirittura inconsapevolmente, alcune soluzioni o progetti di vita. L’orientamento deve assolutamente riuscire a rompere questi meccanismi.
[47] Cfr. H. Gardner , Formae Mentis.Saggio sulla pluralità delle intelligenze, Milano, Feltrinelli, 1987.
[48] Cfr. R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano,,Feltrinelli, 1966.
[49] L’autore nella sua ricerca proponeva infatti alcune distinzioni negli atti comunicativi: locutivi, illocutivi e perlocutivi. Cfr. J. L. Austin, How to do things with words, Oxford, Oxford University Press, 1962 (ed. It. 1974)
[50] Anche Pearce fa ricerca sulla comunicazione, mettendo in luce ad esempio il funzionamento di quello che definì “ciclo seduttivo” della comunicazione. Cfr. Ugo Volli, Il Libro della comunicazione, Milano, Il Saggiatore, 1994.
[51] Si intende con questo, prendendo in prestito un termine psico-sociale solitamente usato in relazione allo stress, coloro i quali, per elettive competenze o disposizioni caratteriali (o perché con una struttura familiare “migliore” alle spalle) riescono meglio ed autonomamente a fronteggiare le tensioni della fase adolescenziale. Cfr. G. del Rio, Stress e lavoro nei servizi, Urbino, Nis, 1990.
[52] I tipi di potere evidenziati da Torbert sono: unilaterale e unidirezionale, consensuale, logico/razionale, integrativo e trasformativo. Ad essi corrispondono sette stadi di sviluppo degli individui: opportunistico, diplomatico, tecnico, realizzativi, strategico, magico e ironico. Cfr. C. Piccardo, Empowerment, Milano, Raffaello Cortina ed., 1995; W. R. Tortbert, The Power of Balance, Sage, Nerbury Park, 1991.
[53] Già Don Milani negli anni ’70, in Lettera ad una professoressa (op.cit.), parlava del bisogno di “non far le parti uguali tra diseguali”. Anche se il senso era da riferirsi primariamente alle distinzioni tra classi sociali, il peso deve essere ampliato, per essere compreso nella sua interezza, alle differenze tra persone.
[54] Cfr. D. Anzieu, J. Y. Martin, Dinamica dei piccoli gruppi, Roma, Borla, 1997 (ed. orig. 1986).
[55] Cfr.V. Masini, Dalle emozioni ai sentimenti, Caltagirone, Prevenire è possibile, 2000; A. Ceriani, La simulazione nei processi formativi,Milano, FrancoAngeli, 1996; C. R. Rogers, I gruppi d’incontro, Roma, Astrolabio, 1971; M. L. Pombeni, L’orientamento di gruppo, NIS, 1994.
[56] Cfr.V. Masini, L’empatia nel gruppo di incontro, Caltagirone, Istituto di sociologia Luigi Sturzo, 1996; Stein E., Il problema dell’empatia, Roma, ed. Studium, 1985.
[57] Cfr. C. Piccardo, Empowerment. Strategie di sviluppo organizzativo centrate sulla persona, op. cit.
[58] Sulle strategie di intervento in classe: V. Masini, La qualità educativa,relazionale e dell’apprendimento nella scuola, Pervenire è Possibile, Isernia, 2001, pp. 89-137.
[59] Cfr. V. Masini, Dalla classe al gruppo, Provveditorato agli Studi di Terni, 1996.
[60] Per l’approfondimento di questa genesi della ricerca si rimanda a: V. Masini, Dalle emozioni ai sentimenti, Prevenire è Possibile, Terni, 2000.
[61]Cfr.Vincenzo Masini, Dalla classe al gruppo, Prov. agli Studi di Terni, 1995.
[62] Un più approfondito sviluppo delle caratteristiche degli idealtipi si può trovare negli altri testi della collana “prevenire è possibile”. In questi saranno però diversi i nomi delle tipologie a causa del loro utilizzo in ambienti diversi.
[63] La dimensione di “delegare” è da considerarsi il giusto equilibrio delle modalità di direzione, dunque non può ricollegarsi a nessun idealtipo. Contiene in sé caratteristiche di ogni idealtipo.
[64] Per comprendere meglio questo tipo di confronto si devono considerare le modulazioni degli atteggiamenti a seconda dei contesti di inserimento. Per questo, ogni idealtipo avrà una o più soluzioni relative alla posizione all’interno dei gruppi.
[65] Si rimanda alle riflessioni in apertura del capitolo.
[66] Le correlazioni tra i due modelli sono comunque da considerare parziali e non caratterizzanti: ad esempio il tipo n°2 non è completamente sovrapponibile al creativo, ma ne possiede alcune caratteristiche.
[67] Op. cit., 1994
[68] Op. cit., 1995
[69] S. R. Lazarus, S. Folkman, Stress, appraisal and coping, Springer, NY, 1984.
[70] Safont, op. cit., 1994.
[71] Cfr. J. L. Holland, The Psychology of vocational choice: a theory of personality types and model environments, Blaisdel, Walthman, MA, 1966; Making vocational choices: a Theory of careers Prenctice-Hall, Englewoods Cliffs, NJ, 1973. Ai sei tipi di personalità l’autore aggiunge sei tipi di ambiente con cui trovare corrispondenze.
[72] J. Prochanska, J. GC. Norcross, Systems of Psycotherapy: Transteoretical Analysis, Brooks-Cole Publishing Company, 1999.
[73] la fase di ricaduta è secondo me da considerarsi esterna al processo e non esattamente riferibile ad una tipologia. Anche perché è comunque conseguente ad un cambiamento e quindi non può essere considerata una fase elettiva.
[74] Cfr. Peterson G.W., Sampson J.P., Reardon R.C., Career development and services: a cognitive approach, Brooks-Cole, Pacific Crove, 1999.
[75] Cfr. Mullet E., Barthelemy J, Duponchelle L., Munos-sastre M.T., Neto F., Decision choix, juge.ment, orientation”. In L’orietation scolaire e professionelle,n°25,1996.
[76] E del resto come tutti i modelli di tipo prescrittivo, nel merito dei quali non si apre una riflessione poiché centrati come quello di Mullet su altri aspetti dei percorsi di scelta.
[77] Op.cit. 1977.
[78] Non si sovrapponga l’utilizzo di questa parola al processo cognitivo più volte presentato in questo testo come caratteristica dell’idealtipo creativo.
[79] Presentato da Buck e Daniels, in op. cit.,1983.
[80] Il problem solving non è l’unica dimensione della competenza realizzativa ma può essere in questo caso un buon esempio per spiegare il meccanismo di ibridazione delle competenze.
[81] In questo capitolo sono ampie le parti riportate da precedenti pubblicazioni di “Prevenire è possibile”, prevalentemente dal testo “Dalle emozioni ai sentimenti”(crf.Masini, 2000) e da “La qualità educativa, relazionale, e dell’apprendimento nella scuola” (cfr. Masini, 2001).
[82] In effetti l’operato dello studio si estende alla totalità delle regioni, per raccogliere informazioni precise su tutti gli istituti che hanno collaborato con esso si consiglia di visitare il sito internet del medesimo: www.prepos.com e www.prepos.it, all’interno di essi, oltre ad alcune informazioni sullo stile di lavoro ed i tipi di attività svolte, si trova infatti un “curriculum vitae” dello studio, con la specificazione delle scuole e delle aziende in cui è intervenuto.
[83] Cfr.V. Masini, La qualità, relazionale, educativa e dell’apprendimento nella scuola, ed Prevenire è Possibile, Provveditorato agli studi di Isernia, 2001.
[84] Si rimanda al fascicolo monografico di Università e scuola, a cura di M. Vicentini e V. Masini, in corso di stampa.
[85] A questo riguardo Coulhtard e Sinclair fanno notare come il 70% del tempo in classe sia occupato da questo modello comunicativo. Cfr. Sinclair J. M., Coulthard R. M., Toward an analysis of discourse: the English used by teachers and pupils, London, Oxford University Press, 1975, in ulteriore conferma di questi dati crf L. Nota, Risultati della ricerca sull’autoregolazione e l’assertività, ancora in pubblicazione, ITER, 2002.
[86] Cfr. V. Masini, La qualità relazionale, educativa e dell’apprendimento, op. cit. 2000.
[87] Per l’approfondimento dell’argomento si rimanda a: V. Masini, , op.cit.
[88] V. Masini, Dalle classe al gruppo, indagine su 207 classi, Terni, 1996.
[89] Crf. V. Masini, La qualità educativa, relazionale e dell’apprendimento nella scuola, Provveditorato agli Studi di Isernia, Isernia, 2001.
[90] Cfr. H. Gardner, La nuova scienza della mente, Milano, Feltrinelli, 1988; H. Gardner, Formae mentis, saggio sulla pluralità delle intelligenze, Milano, Feltrinelli, 1987; Educare al comprendere, Milano, Feltrinelli, 1993.
[91] Cfr. Spearmann, G and after- a school to end schools, N.Y., MacMilliam, 1930
[92] cfr.L. L. Thurstone, Primary mental abilities, Psycometrics Monograph, 1938
[93] cfr. R. B. Cattel, Personality and Motivation, N. Y., World Book, 1957
[94] In questo passaggio ci si riferisce alle teorie di Gardner sulla localizzazione cerebrale dei processi cognitivi. Ancora si rimanda ai testi in bibliografia.
[95] In effetti, all’interno di questa teoria, la distanza tra i concetti di intelligenza e creatività, viene ricompressa nel più ampio modello a sette tipi di intelligenza. In questo, i due concetti risultano essere di fatto due forme ben differenti di intelligenza.
[96] Per tutti gli autori citati; Cfr. K. Polacek, Orientamento come sviluppo professionale, Università pontificia Salesiana, Facoltà di Scienze dell’Educazione, A.A 92/93.
[97] Cfr. K. Polacek, A.A 1992/93, op. cit.; D. G. Zitowsky, F. H. Borgen, Assessment, in Walsh, Osipow, 1983.
[98] Cfr. K. Polacek, A.A. 1992/93, op. cit..
[99] Cfr.J. L. Holland, Making Vocational choices, Prentice Hall, Englevood Cliffs, 1985.
[100] Cfr. A. Brown, Distributed expertise in the classroom, Cambridge University Press, N.Y., 1993.
[101] Cfr. K. Polacek, Manuale del questionario sull’efficienza nello studio, Firenze, Organizzazioni Speciali, 1971.
[102] K. Mitchell, Al S. Levin, J. D. Krumboltz, Planned Happenstance: constructing unespected career opportunities, in Journal of counselling and development, vol 77, n° 2, spring 1999.
[103] Noto evoluzionista ormai scomparso, autore di numerosi testi e pubblicazioni di fama mondiale
[104] S. J. Gould, (trad. it )Questa idea della vita, Editori Riuniti, Roma 1984.