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 ANALISI DEI TIPI

 

 

 

Casella di testo:  
INDICE
L'avaro
La paura
Il disagio dell'avaro
Le risorse dell'avaro
Storie di tipi
Il ruminante
La rabbia
Il disagio del ruminante
Le risorse del ruminante
Storie di tipi
Il delirante
Il distacco
Il disagio del delirante
Le risorse del delirante
Storie di tipi
Lo sballone
Il piacere
Il disagio dello sballone
Le risorse dello sballone
Storie di tipi
L'apatico
La quiete
Il disagio dell'apatico
Le risorse dell'apatico
Storie di tipi
L'invisibile
La vergogna
Il disagio dell'invisibile
Le risorse dell'invisibile
Storie di tipi
L'adesivo
L'attaccamento
Il disagio dell'adesivo
Le risorse dell'adesivo
Storie di tipi
Considerazioni sull'analisi dei tipi
 

La descrizione delle diverse tipologie sarà condotta attraverso uno schema ricorrente.

Ogni tipologia si apre con una finestra in cui è contenuta una sintesi delle caratteristiche;

viene poi descritta l'emozione di base intorno a cui quel tipo ideale si è fissato.

 Ogni idealtipo contiene la descrizioni dei copioni di disagio e si conclude con una breve

analisi delle risorse e delle virtù che ciascun tipo possiede. La descrizione  dei tipi procede

per approssimazioni e semplificazioni e introduce, passo dopo passo, al possesso degli

strumenti di artigianato educativo che consentono di predisporre un progetto personalizzato

per i diversi copioni di disagio.

I brevi quadretti di storie di vita al termine di ogni tipologia servono a illustrare come i

copioni non siano mai univoci. Ciascun uomo è un particolare esperienza di vivere emozioni

e sentimenti, ma in tutti c'è tutto. Ciascuno vive tutte le diverse emozioni ma per ciascuno

assumo un particolare risvolto a seconda di uno specifico vissuto che sta alla radice del suo

modo di essere. In questo capitolo fermiamo l'analisi all'approssimazione che il suo vissuto

sia un copione e che tale copione lo abbia fissato su alcune modalità di sentire, di pensare

e di agire che lo limitano nelle sue potenzialità. Per liberarsi da tali limiti spesso s'incanala in

percorsi fallaci che lo imprigionano ulteriormente e ciò rende sempre più complesso e strutturato

 il suo disagio.

La tassonomia che viene presentata dall'artigianato educativo non è monotetica (il fatto

di possedere un insieme unico di caratteristiche è necessario e sufficiente per essere identificato

all'interno di un tipo) ma politetica (politipica). Non vi è un singolo e specifico attributo o un

insieme di segni che definisce rigidamente il tipo. Il tipo raggruppa insieme i soggetti che hanno

un numero sufficiente di caratteristiche comuni che concorrono (sindrome = syn dromo) e che

rimandano intuitivamente ad un'essenza. Le storie di vita aiutano la comprensione della logica

dell'artigianato educativo, lo strumento proposto per verificare con maggior precisione i copioni

sarà il questionario.

Un singolo tipo infatti oscilla nelle sue adiacenze, si sente attirato dalle persone a lui affini ma non

riesce a far sue le qualità in loro personificate, si sente respinto dalle caratteristiche di altre

 persone confliggenti con le sue e innesca processi di azione che lo impelagano in copioni

 bipolari o tripolari. Questo accade, ad esempio, al soggetto che non ha stima di sé, si sente

inferiore (invisibile) e inizia a sperimentare invidia nei confronti degli altri caricandosi di aggressività

 contro di loro (ruminante). Più aggredisce, più sperimenta sia la colpa sia la disistima per

 se stesso, che rimuove giustificando il suo bisogno di difese (avaro).

Le storie raccolte in questo capitolo sono suddivise secondo le tipologie e spesso presentano

un percorso di artigianato educativo realizzato o proposto. Alcune storie più significative sono

 già state proposte in "Droga Disagio devianza" e in "L'Empatia nel gruppo di incontro"

per mostrare come l'uso di sostanze stupefacenti sia una copertura del disagio interno.

Il vuoto di risposte e di sentimenti riempienti avvia all'uso di una o più droghe elettive: l'assunzione

si stabilizza in ragione della coincidenza tra i vissuti desiderati e gli effetti delle sostanze.

 La cocaina per l'avaro-ansioso, gli eccitanti per il ruminante, gli allucinogeni per il delirante,

l'hashish per lo sballone, l'alcool per l'invisibile. Nel caso del soggetto con

bisogno di attaccamento (l'adesivo) può attuarsi una politossicodipendenza poiché il

soggetto è tremendamente vorace per il suo bisogno di appagamento. In altri casi

la progressiva debolezza psichica causata da eccitanti porta a far uso di sostanze che

lo tranquillizzano e narcotizzano il suo disagio, non a caso per moltissimi il punto

di arrivo è l'eroina. L'analisi approfondita del rapporto droghe/tipi è possibile a

partire dalle derivazioni ad hoc del Questionario di Artigianato Educativo.

 

 

“Ogni tossicodipendente è diverso, o meglio, la stessa sostanza agisce su ogni persona molto diversamente secondo i contesti interiori  e relazionali che la persona attraversa” (Gallo A., 1998, p.40). L'elettività verso le diverse sostanze spiega sia perché taluni tossicodipendenti usano eroina, altri cocaina, altri alcool, ecc. sia perché nelle persone si instaurano effetti diversi a partire da sostanze uguali e, di conseguenza, processi di assuefazione e di dipendenza diversi. Questo spiega il perché di tossicodipendenze croniche da una sostanza dalla quale altri soggetti hanno remissioni spontanee, spiega il fenomeno dell'inversione degli effetti, in seguito al quale uno stimolante si trasforma in depressivo e un depressivo funge da stimolante, spiega anche perché vi siano trattamenti con diversi gradi di efficacia a seconda delle tipologie dei soggetti.

R. Assagioli propone la descrizione di sette tipi umani (tipo Volontà, tipo Amore, tipo Attivo-Pratico, tipo Creativo-Artistico, tipo Scientifico, tipo Devozionale-.Idealistico, tipo Organizzativo) che vengono correlati all'abuso delle diverse sostanze psicoattive (cfr. Percipalle, 1999). La descrizione dei tipi proposta da Assagioli ha molti punti in comune con quella dell'Artigianato Educativo, primo tra tutti aver rischiato, in tempi di relativismo psicologico, l'ipotizzazione di una tipologia, il secondo è il numero di sette, il terzo è l'individuazione dei tipi sulla base di una essenza specifica che però non si riferisce ad una emozione di base. I tipi dell'Artigianato educativo e quelli della psicosintesi non si sovrappongono perché nella nebulosa dei tratti che caratterizzano la continuità tra le tipologie, Assagioli pone l'accento su punti di individuazione che, dal nostro punto di vista, sono intermedi. Il tipo amore è una via di mezzo tra l'adesivo e l'invisibile, il tipo volontà tra l'adesivo e l'avaro, il tipo devozionale idealistico tra invisibile e apatico, il tipo attivo pratico tra avaro e ruminante, il tipo creativo artistico tra apatico e sballone con caratteristiche del delirante, il tipo scientifico tra delirante e sballone, il tipo organizzativo tra ruminante e delirante. Con tale riferimento anche le affinità elettive con le sostanze sono scentrate, pur essendo pertinenti.

 

Il menzionare la psicopatologia corrispondente all'idealtipo è utile al solo fine di migliore i processi intuitivi ed immaginativi che consentono di traguardare ogni singolo idealtipo. Le psicopatologie sono frutto di copioni multipli con sequenze associate tra di loro, hanno però un riferimento di facile intuizione che può essere utile per entrare nella logica emozional-cognitiva di ciascun idealtipo I copioni miscelati, interconnessi e confusi, alle spalle delle psicopatologie, richiedono strumenti più attenti e complessi di quelli degli artigiani dell'educazione che si offrono nel contesto della prevenzione possibile a tali profondi ed articolati disagi.

L'analisi dei tipi operata attraverso gli strumenti del Questionario di Artigianato Educativo e delle sue derivazioni applicate a problemi specifici, ha portato ad analizzare anche il rapporto tra tipi e percezioni ambientali, percezioni del tempo, rapporto con il cibo e disposizioni psicosomatiche.

Il compito degli artigiani dell'educazione è quello di intervenire sui singoli e sui gruppi per operare spostamenti emozionali verso le emozioni adiacenti o crescite emozionali verso le emozioni affini, con l'obiettivo di rendere più armoniche ed equilibrate le personalità degli educandi. Se la trasmissione educativa primaria o culturale non ha spostato verso emozioni adiacenti i loro vissuti, il miglioramento della loro armonia interna potrà essere perseguito attraverso emozioni individuali e collettive di segno opposto a quelle che li caratterizzano negativamente. Laddove, ad esempio, vi sia eccesso di attivazione e di rabbia è necessario infondere e far vivere l'emozione della quiete pacifica e dell'umile sensibilità, laddove vi sia eccesso di controllo e di inibizione occorre saper trasmettere l'emozione della piacevolezza, del senso e della generosità della vita.

 

Tratti e tipi

Da Ippocrate, che descriveva i temperamenti sanguigno, melanconico, collerico, flemmatico, a Galeno fino ad oggi medicina e psicologia hanno proposto numerose categorizzazioni fisico-psichiche  di cui le più note sono quella di Kretschmer (tipi picnico con tratto di carattere ciclotimico, tipo leptosomico con tendenza alla schizotimia, tipo atletico con carattere viscoso) e quella di Sheldon (1942) (endomorfo, ectomorfo e mesomorfo che rispettivamente indicano mancanza di temperamento o movimenti inibiti o carica energetica).

Jung  propone otto tipi ottenuti dalla miscela della introversione/ estroversione con le modalità del pensiero, del sentimento, della sensazione e dell'intuizione.

Egli descrive il dogmatico (estroversione della attività di pensiero); l'introverso nel pensiero ha invece profondità psicologica ma non estensione. L'estroverso nella affettività vive sentimenti transitori, l'introverso nell'affettività tende ad isolarsi. L'estroverso nelle sensazioni è alla ricerca del piacere, l'introverso è invece imprigionato nell'attaccamento alle cose. L'intuizione può dispiegarsi nell'estroversione come continua analisi delle potenzialità o nell'introversione (tipica degli artisti, dei sognatori e mistici).

Una tipologia psicologica che merita interesse è quella della Karen Horney che interpreta i conflitti delle prime fasi dello sviluppo come eventi da imputare ai comportamenti dei genitori e non ai fattori pulsionali descritti dalle teorie psicoanalitiche classiche. Gli esiti sono quelli di personalità che tendono ad avvicinarsi agli altri, o a confliggere o ad allontanarsi.

Cattell R.B. (1955) cerca di raggiungere l’obiettivo di dare una spiegazione all’intera personalità riassumendo tutti i fattori che derivavano dall’incrocio delle aggettivazioni riferite al comportamento umano e apre la feconda strada dell'analisi fattoriale applicata a tipi e tratti. Eysenck (1967) rappresenta una svolta intorno alle teorie tipologiche: egli discute su una struttura gerarchica della personalità, di cui i tratti sono gli elementi di primordine ed i tipi sono elementi superiori formati dalla combinazione dei diversi tratti. Eysenck  riesce a rendere più efficace la tipologia di Jung coniugandola con il concetto di emotività di Wundt. Eysenck introduce la variabile emotività, descritta come presenza minore o maggiore di neuroticismo, e la dimensione dell’attività,  proposta da Heymans e Wiersma [1906], che diventa così un terzo asse dell'attività, oltre alla introversione-estroversione di Jung, ed alla emotività o neuroticismo. Le composizioni delle tipologie mostrano ricorrenti segni concordi in modo non difforme da quanto precedentemente detto sia sui temperamenti che sulle emozioni.

L'applicazione della analisi fattoriale ai tratti ed ai tipi dell'artigianato educativo ha mostrato il raggrupparsi in fattori che individuano i tipi, come espressione dell' interconnessione di alcuni tratti. La nostra verifica è però posta all'interno di una ipotesi che non descrive solo tratti e tipi ma anche le adiacenze ed i punti di contatto tra i tipi. Le risultanze, come vedremo, sono delle aree di convergenza e sovrapposizione che conducono alla validazione, per approssimazione, dei tipi.

Data la difficoltà  di descrivere in modo efficace la struttura del tipo può essere utile la tabella successiva che cerca di comparare le diverse tipologizzazioni con la tipologia dell'artigianato educativo

 

Artigianato educativo

K. Horney

Eysenk

Jung

Kretschmer

Sheldon

Galeno

Avaro

Si allontana

Attività/introv

Dogmatico (Pensiero+estro)

Atletico

Mesomorfo

Sanguigno

Ruminante

Confligge

Attività/estrov

Profondo

(Pensiero+intro)

Atletico 

Mesomorfo

Collerico

Delirante

Si allontana

Introv/non emot.

 Potenzialità

(Intuiz.+est)

Leptosom.

Ectomorfo

 

Sballone

Si avvicina

Emotività/estrov

Piacere (Sensz.+est)

Transitorio

(affetto+est)

 

Endomorfo

Malincon.

Apatico

 

(In)attività

 

Picnico

Endomorfo

Flemmatico

Invisibile

Si allontana

Emotività/introv

Isolato

(Affetto+int)

Leptosom.

Ectomorfo

Malincon.

Adesivo

Si avvicina

Attività/emotività

Attaccato

(Sensz.+int)

Picnico 

 

Sanguigno

 

 

 

1. L’avaro

 

L'avaro 

Il disagio: la vulnerabilità, l'inquietudine, l'insicurezza, il possesso, le difese dell'io, l'autoreferenzialità, l'egoismo, la paura, l'ansia, l'ossessione, la mania, la cocaina,  l'oppressione, il dominio, il controllo.

Le risorse: l'autocontrollo, le regole, il senso di responsabilità, la concretezza, la cura e l'attenzione.

Il saggio

 

La paura

La personalità dell’avaro si è formata intorno ai diversi modi di respingere, controllare e gestire la paura. L’uomo sperimenta la paura come conseguenza dell’esperienza del dolore. Il dolore è un riflesso nervoso che passa da una fase di acuzie (essere trapassati dal dolore) allo stemperamento in una regione corporea più ampia ed in una durata più lunga. Le resistenze contro la percezione del dolore possono anche condurre a metabolizzarlo in estenuante sofferenza. La persona che sa sopportare il dolore è colui che ha reso minime le sue resistenze all’accettazione del dolore.

In linea di massima il dolore fisico e quello psichico hanno processi di intensità/stemperamento equivalenti; sono invece molto diversi i tipi di resistenze. Il dolore fisico non può essere cancellato ma al massimo “anestetizzato” (viene diminuita la percezione del dolore), il dolore psichico può essere “rimosso”, gestito, trasformato e trasferito.

L’aver sentito un dolore ha acceso i precursori del dolore: la capacità di annunciare il dolore e dunque di “fare paura”.  L’essere vivente utilizza la paura per fuggire al dolore, reagire e mantenersi in vita: l’antilope fiuta l’odore del leone e fugge, il polipo vede l’ombra del sub e adegua il suo colore a quello degli scogli, il cane sente un tuono e si nasconde. L'ultima esperienza di paura è quella che ci offre la via per comprendere i complessi meccanismi del dolore psichico: il tuono produce paura perché evoca un pericolo “grande e potente” ma impreciso. Il cane sente la paura senza che questa paura sia attribuibile ad un'entità precisa (se la paura fosse un riflesso condizionato connesso al processo saetta-tuono, nessun animale avrebbe paura dell’innocuo tuono dopo che la terribile saetta è già passata).

La paura perde spesso il suo oggetto di dolore specifico ed acquisisce la natura di emozione autonoma che mette in moto le difese.

Con il termine “avaro” s'intende una persona circondata da difese costruite affinché nulla dall’esterno possa penetrare dentro la persona, ferendola. Tali difese hanno però prodotto due effetti negativi: hanno reso molto difficile l’apertura dal dentro verso il fuori ed hanno imposto alla persona di trattenere ogni cosa nel suo interno. L’avaro costruisce le difese in ragione della sua vulnerabilità; tanto più si sente vulnerabile tanto più si chiude a riccio. E’ possibile comprendere le difese e la loro connessione con il trattenere dentro di sé (la psicoanalisi ha costruito una complessa interpretazione della fase anale) analizzando la quotidiana sensazione di vulnerabilità che l’uomo sperimenta nel momento del defecare. Il fatto che la maggior parte di persone abbiano bisogno di sentirsi protette chiudendosi a chiave non è connesso al pudore (che è una elemento) ma al sentirsi indifesi.

Nella fase anale, immediatamente successiva allo svezzamento (situazione frustrante per la soddisfazione orale), il bambino scopre la possibilità di trattenere o meno gli alimenti all'altra estremità del tubo digerente. Il controllo degli sfinteri è una scoperta rilevante poiché trasforma in gesto volontario e cosciente quanto avveniva nell’automatismo organico.  Nell’atto dello svuotamento dell’alvo ogni essere umano sperimenta una particolare condizione di vulnerabilità: mai si sente esposto come in quel momento, al punto di aver assolutamente bisogno di celarsi, chiudersi, difendersi.

Il controllo degli sfinteri consente di regolare l’atto evacuativo; è interessante osservare che tale atto in tedesco è “Bescherung” che significa dono, vocabolo che ha profondamente influenzato Freud disponendolo allo studio della fase anale. La prima forma di difesa e di accumulazione presente nel bambino è proprio il trattenere le feci; la stipsi cronica si accompagna con le stesse caratteristiche dell’avarizia: pessimismo, convinzione di non essere amati e diffidenza.

Un importante riflesso delle difese è il modello di apprendimento che caratterizza l'avaro difensivo. Il bimbo apprende interiorizzando le informazioni e costruendo un sistema per la loro conservazione. I comportamenti cognitivi divengono però progressivamente indipendenti attraverso la capacità di controllo sugli stimoli: e cioè nel dare risposte inalterate al variare degli stimoli o nel variare le risposte al permanere degli stimoli. L'atteggiamento difensivo è conservatore e se riesce nel non variare il range delle risposte di fronte a stimoli diversi, non ha successo nella variazione delle risposte di fronte a stimoli simili. Ciò determina uno sviluppo intellettuale limitato perché l'atteggiamento difensivo non consente di considerare contemporaneamente diverse alternative e diverse connessioni. Resta in memoria un repertorio, anche ampio,  di risposte quasi automatiche non flessibili sulla base delle sfumature con cui si caratterizzano i contesti. L'individuazione della tipologia difensiva è possibile solo se l'educatore prova a produrre sfumature di modificazione agli stimoli ed osserva quanto siano ripetitive le risposte. Ciò consente di verificare la mancanza di capacità di rappresentazione attraverso l'immagine. 

 

Il disagio dell'avaro

Il mondo interiore dell’avaro è centrato sul controllo come forma di difesa principale nei confronti dei pericoli e delle perturbazioni esterne. L’avaro si autodescrive come persona positiva, concreta, capace di programmazione, di chiarezza e di “farsi i suoi conti”. Quest’ultima caratteristica è per l’avaro un pregio di rilievo tanto che non valuta positivamente le persone che non “sanno farsi bene i loro conti” e dunque falliscono o cedono sotto le pressioni altrui.

L’avaro dà una grande importanza a se stesso ed è costantemente impegnato a difendersi ed a progettare il proprio personale miglioramento delle condizioni di vita.

Una delle forme più tipiche dei suoi processi di difesa è quella di non mostrare i propri punti deboli, che equivale al mantenersi chiusi e non esprimere i propri sentimenti, considerati alla stregua di debolezze. Mostrare, offrire, aprirsi e dare sono le difficoltà principali di un movimento dell’io che tende a proteggersi. Egli tiene ogni cosa nascosta dentro di sé, a volte, tanto profondamente da renderla inaccessibile. Un vissuto problematico non resterà sulla superficie della sua consapevolezza il tempo sufficiente per essere ben analizzato e compreso: dovrà scomparire dalla vista ed essere dimenticato, proprio perché critico e inquietante. L’avaro non tollera l’indecisione, il disordine ed il dubbio: ogni cosa deve trovare la sua collocazione, senza indugi o scrupoli che diano inquietudine, fuori e dentro di lui.

A ben vedere l'avaro è molto disordinato nella sostanza, pur essendo sempre attento e vigile al fine di controllare che, nella forma, "tutto sia a posto". Egli è un convinto cultore della forma ed attraverso la forma impone la sua logica alla realtà mentre ne violenta la sostanza.

La sostanza degli atti emozionali e dei sentimenti sfugge alla sua comprensione perché non è mai sottoposto al vaglio di una analisi di coscienza.

Non pratica nemmeno una buona igiene mentale prima di esprimere giudizi di merito nei confronti degli altri e la mancanza di comprensione profonda del vissuto altrui lo porta ad una grande confusione ed ad un ulteriore bisogno di controllo.

Intanto il contatto con il suo mondo interiore si allontana e, progressivamente, viene vietato dal suo sé; la autentica consapevolezza di sé ed il riconoscimento dei propri pensieri, motivazioni e difese è sempre più difficile.

Nei confronti del mondo i suoi principali metodi di difesa sono incentrati sul bisogno di mantenere l’ordine, la prevedibilità e la ripetizione conservativa.

L'avaro è inoltre molto legato agli aspetti più materiali e concreti dell'esistenza e considera spesso se stesso alla stregua di una bene da mantenere; manifesta a volte un culto del proprio corpo e dell'efficienza fisica, altre volte del proprio ruolo e del proprio prestigio sociale. Si esprime sempre con una grande considerazione di sé.

Nell’ordine è pignolo e formale: un oggetto posizionato in un certo luogo (un soprammobile sul tavolo) deve essere esattamente al centro del tavolo e non deve mai essere cambiato di posto. Se un suo cassetto o un suo armadio non ha un ordine logico ha poca importanza purché la forma sia rispettata e il cassetto ben chiuso.  

Un elemento importante delle difese dell’avaro è quello di non attribuire mai a se stesso i motivi dell’insuccesso; le sue difese gli impediscono di accettare le critiche tanto più di convenire con altri sulla personale responsabilità in un insuccesso. Per tale motivo nega anche l'evidenza ed attribuisce agli altri errori, responsabilità e comportamenti che sono suoi. Egli teme che gli altri si comportino con lui nello stesso suo modo: per predominare l’avaro infatti utilizza gli errori altrui che mette in luce puntualmente e spietatamente con puntigliosa e circostanziata chiarezza. Solitamente riesce ad avere ragione proprio perché si è attentamente preparato nell’analisi di quell’aspetto o di quell’avvenimento, ma non accetta di fuoriuscire dal suo discorso poiché sa bene di poter incorrere in errori. L’avaro è altresì sempre preoccupato di difendere la sua posizione ed il suo ruolo, anche se non lo manifesta apertamente. Per questo è rispettoso delle regole, preferibilmente di quelle che lo difendono da chi è più in alto nella gerarchia, meno quando è in relazione con i suoi sottoposti. L’aver acquisito un certo status (un certo grado nella carriera sociale) significa essere diventato padrone delle regole che lo descrivono e delle prescrizioni che lo definiscono: attraverso il potere l’avaro può condizionare le persone che gli sono sottoposte fino all’inquisizione. Nelle forme più acute la sua ricerca di potere lo porta a modalità ossessive e maniacali.

Nel movimento dell’Io che caratterizza l'avaro l’orgoglio assume l'aspetto di un sentimento esasperato della sua dignità e dei suoi meriti. E' un orgoglio utilitarista perché gli facilita le difese e l'esercizio del potere contro coloro che attentano alla sua grandezza.

L'orgoglio per senso di superiorità, per condizione sociale o per nascita aristocratica o per esaltazione di sé è invece connesso al narcisismo della superbia. Siamo portati considerare equivalenti questi due diversi connotati dell'orgoglio per il fatto che essi si mostrano con frequenza contemporaneamente in copioni bipolari avaro-superbo ma è importante identificare e definire l'orgoglio difensivo dell'avaro che ha sempre una rendita sociale, nell'aiutare l'affermazione di potere, ed una rendita personale: è il motore attraverso cui l’avarizia pensa di poter compensare e giustificare la sua chiusura egoistica. L'avaro si inganna considerando amore verso gli altri la sua ansia di controllo. Tale falso amore si esplica nell’atto del nutrire e nell’aiutare per appagare la tensione interna dell’orgoglio. Tal tipo di avari ansiosi sono convinti di essere cari e servizievoli, viziando e riempiendo di cure sempre però in cambio di un ringraziamento e, in qualche modo, di una sottomissione. In questo senso l’amore dell’avaro è manipolatorio poiché non è mai incondizionato: se non ottiene ciò che vuole l’avaro diventa piagnucoloso e si lamenta dicendo di non essere amato abbastanza per tutto ciò che fa. A volte il suo piagnucolare è anche segno di autocommiserazione o addirittura di stizza.

Nell’ambito degli stili di controllo bisogna menzionare due tecniche particolarmente congeniali all’avaro: la manipolazione e la condiscendenza accattivante. Per manipolazione si intende un imbroglio gestito attraverso stimoli ripetuti che inducono altri a fare ciò che l’avaro desidera. Spesso la madre “avara” invece di educare manipola il figlio per ottenere, con insistenza e furbizia, che lui compia le azioni routinarie della vita quotidiana. (E’ utile accompagnare il concetto con un esempio: una madre vuole che il figlio si lavi le mani prima di andare a tavola, il figlio piccolo abitualmente risponde di no; la madre inizierà un percorso di imbroglio dicendo: “Andiamo a vedere se dal rubinetto esce acqua?, vediamo se c’è il sapone?”.  Raggiungendo così l’obiettivo delle mani lavate, ma costruendo un percorso diseducativo che condurrà il bimbo a diventare reattivamente un oppositore: uno di quei bambini che dicono sempre di no). La manipolazione è per l’avaro la via più sbrigativa per raggiungere lo scopo e rappresenta una forma perversa di affettività.

Altra tecnica di controllo è quella del mostrarsi condiscendente ed accattivante, fino a modalità seduttive. Quando non è in grado di dominare ed imprimere il suo controllo sulle persone e sulla realtà sarà disposto a conquistarsi lo spazio sopportando il potere altrui per riuscire ad ingraziarselo fino al momento in cui avrà individuato i punti deboli dell’altro e potrà ribaltare la situazione. Attraverso un atteggiamento condiscendente cerca di farsi benvolere o addirittura compatire, cerca poi di disorientare e confondere le idee, attua la strategia di spezzare il ritmo dei pensieri e delle azioni altrui fino lentamente ad imporre la sua visione.

Fin qui i tratti essenziali del processo di costruzione di una personalità intorno alla paura: il controllo, il calcolo, l’ordine, la conservazione, l’attribuzione di responsabilità ad altri. Nella descrizione si affacciano però già alcuni tratti più forti e patologici: l'ambizione di  potere, i disturbi d'ansia, l'ansia libera e generalizata, i disturbi da evitamento d'ansia, i disturbi ossessivi e compulsivi, i disturbi da tic, i ritualismi, gli anancasmi, le ipocondrie, le manie. E' bene indicare anche la propensione al gioco d'azzardo patologico in ragione dell'attuale dilagare di questa cultura. Nonostante la sua ferrea razionalità l'avaro è infatti talmente attratto dalla forma che non può evitare di applicare alla fortuna aspetti formali e magici quali il succedersi di certe regolarità dei numeri estratti o delle carte da gioco distribuite.  

 

Le risorse dell’avaro

La descrizione di una tipologia inizia sempre dagli aspetti negativi di un certo copione di comportamento; ciò non dipende da pessimismo, ipercriticità o fastidiosa volontà di mostrare i difetti nelle personalità. La lettura del comportamento e la spiegazione della sua umanità è sempre più facile partendo dalle caratteristiche negative anziché da quelle positive.  L’articolarsi di un difetto consente una visione più accurata e precisa di quanto non sia possibile nell’analisi delle risorse presenti in un copione. Una risorsa infatti viene utilizzata per migliorare il vissuto e produrre altre risorse, senza mai pensare alla struttura logica e valoriale che sottintende. I pregi che incontriamo nell’avaro sono il suo senso di responsabilità, l’attenzione e la cura con cui sa occuparsi di cose e persone e la sua straordinaria capacità organizzativa.

L’avaro potrà esprimere queste preziose qualità solo quando la vita lo avrà costretto a rompere il suo guscio ed accettare i sentimenti imparando così la tolleranza e la generosità nei confronti di sé e degli altri.

La responsabilità e la cura sono valori. In essi il controllo non è più agito per trattenere e possedere, ma per consentire alla libertà altrui di raggiungere il pieno sviluppo e la forma più armonica. La differenza tra l’esercizio del potere e l’esercizio della responsabilità sta nella posizione che il soggetto ha verso gli altri: invece di imporre la sua strategia si interroga su cosa è davvero utile per l’altro. La piena responsabilità è infatti conseguenza della consapevolezza dei confini tra sé e gli altri. Questo modello di responsabilità è frutto dell’attenzione, dello studio e dell’ascolto; non si tratta di un ruolo sociale in base al quale una persona è responsabile di qualcuno o qualcosa (condizione che si può equiparare al possesso) ma di una disposizione interiore che porta a volgersi con cura nei confronti di qualsiasi situazione, persona ed aspetto della vita. Anche di quegli aspetti che “non sono di stretta competenza”. E’ indispensabile non confondere il concetto di responsabilità con quello di dovere. La prima è un sentimento che impegna stabilmente la persona ed è un suo “modo di essere” e di avere un valore. Il secondo è un imperativo spesso codificato in norme e regolamenti che investono alcuni ambiti dell’esistenza.

Una persona matura ed evoluta non “ha la responsabilità di” ma “si sente” responsabile delle cose e delle persone che gli sono affidati. Un’altra importante distinzione a cui pervenire è quella tra il concetto di responsabilità e quello di colpa. Al di là di un primo ed ovvio bisticcio linguistico che conduce a confondere questi due processi mentali e relazionali, la piena condizione di assunzione di responsabilità non determina insorgenza di sensi di colpa. La persona responsabile conosce ed analizza molto bene (con la meticolosa precisione dell’avaro) la propria e la altrui intenzionalità in merito alle evenienze. L’attenzione e la attribuzione a sé e all’altro delle caratteristiche dei comportamenti libera la persona responsabile dai sensi di colpa di fronte ad eventi negativi. Il secondo valore operativo dell’avaro è la sua capacità di organizzazione e di pianificazione. Questa capacità è conseguente al bisogno di portare a sistemazione ogni cosa, anche nei più piccoli dettagli. Egli manterrà in memoria tutte le questioni in sospeso aspettando la buona occasione per sistemarle. Ma, da buon avaro, senza sprecare energie superflue. In due modi: dando un tempo legittimo (senza eccessivi costi) per definirle e cercando di ottimizzare le prestazioni al fine di individuare le coincidenze organizzative più opportune.    

Per fare questo il suo sistema è quello di rivisitare periodicamente tutti gli ambiti di cui si occupa e far riemergere, nella sua elefantiaca memoria, i diversi problemi per verificare se quello sia il momento più opportuno per la loro risoluzione.

 

Storie di tipi

Fernando 28 mesi. La sua compagnia è molto piacevole. É un conquistatore di adulti e bambini. Gioca con tutti, è molto affettuoso, tutti gli fanno le moine, è sempre al centro dell'interesse generale. Sa far bene ogni cosa, parla molto bene ed usa le sue capacità per ottenere quello che vuole. É uno di quei bambini che sembra avere raggiunto un buon grado di sviluppo, di socialità, di armonia personale. Ma c'è qualcosa che non va. Ad un'osservazione più attenta ci si accorge che tutto funziona bene se il mondo intorno a lui rientra sempre in quelle regole che lui conosce così bene.

Non riesce a reagire ad un evento imprevisto con il sentimento più appropriato; usa sempre lo stesso tipo di risposta, conciliante ed accattivante; sembra credere che tutti lo amino in maniera così smisurata da concerdergli tutto. Ha infatti sviluppato un atteggiamento tale che è difficile resistergli. Quando dovrebbe usare lo spirito di competizione o l'aggressività rinuncia, fa sparire dal proprio raggio d'azione quella cosa con cui era entrato in contatto ed in conflitto.

Non è infatti assolutamente tipico di lui affrontare i problemi, o ci riesce a suo modo o li rimuove completamente. Un'altra sua peculiare caratteristica è di non accettare di essere rimproverato e di non ammettere mai di aver sbagliato. É capace di incolpare sempre qualcun altro per qualche cosa di cui lui è responsabile con un’innocenza tale ed una tale sicurezza, che diventa sconcertante. Tanto più quando ti accorgi che è lui il primo a crederci. Sembra che sia chiuso in un mondo perfetto nel quale l'imperfezione, il male, gli errori non possono entrare.

La mamma di Fernando ha vent’anni ed è separata dal marito ed ha stabilito un rapporto con il figlio di un'intensità enorme. Lui non la chiama mamma ma amore e viceversa. Il loro legame è un sodalizio di difesa dal mondo dentro il quale non può entrare nessuno perché tutte le regole del gioco relazionale tra mamma bambina e figlio bambino sono esclusive. Gli altri, i genitori della mamma, interferiscono e da loro ci si deve difendere.

 

Lorenzo ha 17 anni frequenta la prima classe dell'Istituto Commerciale, lo scorso anno era al Professionale dove ha ripetuto per ben due volte la prima. Quest'anno ha deciso di impegnarsi per prendere il diploma (questo è ciò che ha dichiarato al Preside al momento dell'iscrizione) perché sollecitato dalla sua ragazza che frequenta, con buon profitto, la quarta.

La madre di Lorenzo è separata dal marito e lavora come operaia di giorno e assistente domiciliare per anziani di sera, inoltre fa la donna di pulizie per una signora del paese in cui abita.

Lorenzo descrive suo padre come un uomo forte e deciso che, a seguito di una relazione con una collega della madre, ha dovuto separarsi a causa dei pettegolezzi della gente. Dopo anni la separazione ha posto fine ai litigi ed alle botte ma Lorenzo non ha ancora superato le tensioni interne accumulate.

Non si riesce a far accettare a Lorenzo nessun rimprovero perché lui non ammette mai di aver sbagliato. E' permaloso e lunatico in preda ad un'inquietudine continua che lo ha portato a bravate pericolose come manomettere un trattore e dar fuoco ad un pagliaio. Spiega queste azioni come prodotte dalla sua necessità di stare in pace ed esserne impedito dagli altri e, di conseguenza, doversi difendere attaccando. Il contadino a cui ha prodotto quei danni aveva la colpa di essersi intromesso nelle sue vicende personali e famigliari per il solo fatto di aver accompagnato la madre di Lorenzo al pronto soccorso dopo che era stata violentemente percossa dal marito.

La ragazza di Lorenzo è un'adesiva che ha trovato nella appariscente sicurezza di Lorenzo una malposta sicurezza affettiva. Il progetto di Lorenzo è però quello di appoggiarsi a lei per passare la prima e tentare di superare un concorso in polizia su cui da tempo fantastica. Vuole a tutti i costi vincere, per dimostrare al padre di essere forte come lui.

L'intervento educativo su Lorenzo inizia nella sua classe; i suoi insegnanti lo inducono a presentarsi ed a parlare di sé per spiegarsi, senza doversi costantemente giustificare mediante scuse e bugie. L'intera classe è al corrente delle pendenze giudiziarie per l'incendio al fienile e viene messa in guardia dalla sua prepotenza e dalle sue bravate. Viene svolto dal preside anche un intervento sulla sua ragazza, per stabilire un rapporto confidenziale. Lorenzo dapprima ribolle per queste interferenze ma, calcolatore com'è, non reagisce per convenienza. Un suo primo importante cambiamento avviene quando comincia ad avere qualche successo nello studio ed a non vedere più ostilità nei suoi confronti nell’atmosfera della scuola. Il fatto di essere contenuto in regole precise, lo tranquillizza ed avvia il suo processo di inserimento.

Il suo orgoglio gli aveva sempre impedito di donare gli autentici sentimenti che internamente comincia a percepire verso le persone. Prima di tutto verso la madre. Sarà per lui un'importante soddisfazione lo stupore della madre che, a colloquio con i professori, sente raccontare di un Lorenzo per lei assolutamente inedito. L'intervento educativo su Lorenzo acquista poi maggiore efficacia quando, attraverso l'esperienza dei gruppi di incontro, diventa un promotore di alcune delle attività extracurricolari nella scuola.

 

Serena, 62 anni, continua a tiranneggiare sia il marito che i quattro figli, tutti sposati, che, abilmente manipolati, accettano condiscendenti la telefonata quotidiana cui Serena pretende il racconto di ciò che avviene nelle loro rispettive famiglie. La sua principale occupazione è quella di intervenire, con l’abilità di un navigato politico, all’interno della vita altrui determinando così la continuità della sua impostazione famigliare nei figli.

E’ assolutamente incapace di rilassarsi e stare in pace; ogni volta che sta per cedere ed abbandonarsi ad un momento di relax è preda dell'ansia e, lamentandosi del fatto che nessuno la aiuta, inizia a por mano a qualcosa: sistemare la casa, lavare i pavimenti, pulire e controllare porte e finestre, ecc. Ma, anche quando tali attività sono ultimate, sente riemergere da dentro di sé qualche tensione o problema. Allora si alza e telefona per controllare che nelle case dei figli tutto vada bene. Chiude il telefono solo per mettere a posto qualche dettaglio in disordine. Il suo “motorino” interno continua a girare, sempre in moto, senza fine, senza pace. Di questa condizione colpevolizza tutti: prima di tutto il marito, che non ha più alcuna voce in capitolo, e poi i generi e le nuore che non rispettano i suoi figli e che non danno sufficientemente importanza a lei ed a ciò che tutti i giorni fa per loro.

Serena dice a se stessa di desiderare la pace ed attribuisce a chi la circonda il fatto di non poter mai stare tranquilla.

Alcuni eventi giungono però a sconvolgere la sua vita: due suoi figli si separano dalle mogli e ritornano a casa, subisce un intervento chirurgico e scopre che il marito ha vissuto una relazione con un’altra donna durata più di vent’anni.

Il suo tentativo di intervenire con controllo per riparare alle diverse situazioni, non avrà esito e scoprirà di aver completamente perso potere e controllo. La sua reazione sarà dapprima di autopunizione distruttiva (cadrà in una acuta depressione e sospenderà il controllo sulla realtà, lasciandola con tolleranza "andare in disordine") poi riprenderà forze e, ancora una volta, prenderà il sopravvento in lei la dismisura del controllo. L’alleanza dei tre uomini (marito e due figli) contro di lei la ridimensionerà domandola fino a costringerla a mettere i piedi per terra ed a rendersi conto della sua condizione e del suo fallimento.

Non è dato sapere se il suo cambiamento sia effettivo, all'apparenza è ridimensionata e più tollerante anche nei confronti dei nipoti. Ciò che sembra certo è che i tre uomini, nella loro coalizione, non abbiano alcuna intenzione di abbassare la guardia.

 

L.T., 45 anni, cocainomane da molti anni, è agli arresti domiciliari per reati connessi alla droga. Sposato con un figlio, divorziato, convive con la vecchia madre che ignora la sua tossicodipendenza, e la sua attuale partner, coinvolta anche lei, seppur ancora nella prima fase dell'intossicazione, nell'uso di droga. Era un commercialista affermato che iniziò ad usare cocaina in occasione di una festa e, ripetuta più volte l'assunzione, ne divenne dipendente. Per lungo tempo aveva conciliato la droga con la sua professione, metodicamente, con circospezione e calcolo, entrando sempre di più nei meccanismi del mercato degli stupefacenti ed investendo nel traffico il suo denaro. Pur se abilissimo nel non sgarrare alle regole e nel non commettere errori, viene fermato dalla polizia sulla base della segnalazione di un confidente, trovato in possesso di sostanze stupefacenti ed arrestato. Dopo il carcere non esercita più da anni la professione e, nonostante il controllo della polizia, vive organizzando lo spaccio nella zona dove abita. La sua è la condizione di un uomo completamente fallito me egli non mostra di avvedersene, e colpevolizza chi lo circonda per la condizione in cui vive, comportandosi da despota. Pretende di essere "servito e riverito" in quanto si definisce "una persona speciale" e si lamenta della scarsa cura della madre nel preparare il desco; le fa continuamente notare la polvere sui mobili, i soprammobili nella posizione sbagliata e le ordina sgarbatamente di pulire, di mettere in ordine, di stirare meglio le tovaglie, le camicie, ecc.; è assillante nella richiesta di riordinare le stoviglie immediatamente dopo il pranzo e, mentre la madre rigoverna la cucina, le gira attorno dando ordini ed insultandola. Senza peraltro muovere un dito per aiutarla. E' in lite con tutti i vicini ritenendoli confidenti della polizia ed impegnati nel suo controllo minuto per minuto. Per questo motivo le tapparelle del villino plurifamigliare in cui abita debbono essere sempre rigorosamente abbassate, giorno e notte, senza che la luce del sole filtri mai nell'appartamento. Esce con mille attenzioni di notte, dopo aver mandato in avanscoperta la fidanzata, oppure fa uscire lei per andare a trattare i suoi affari. Verrà nuovamente arrestato e ristretto in carcere con una lunga pena. Rifiuterà comunque ogni offerta di aiuto.

 

P.G., 28 anni, da due anni in comunità. Ex "guerriero del nulla" e cocainomane. Per anni ha imperversato nella sua città con gesta di violenza e vandalismo. Con il suo fisico da gigante godeva nell'incutere terrore alle sue vittime. Entra in comunità dopo la morte del padre al quale aveva promesso, senza convinzione, di cambiare. Pur con molte difficoltà riesce ad accettare le austere regole di vita comunitarie che gli vengono proposte dai responsabili come una sfida che lui "non riuscirà a vincere". Invece gioca ad eccedere, diventa meticoloso fino all'ossessione nelle piccole responsabilità che gli vengono proposte: responsabile del deposito delle scarpe, litiga con tutti se non le trova perfettamente pulite ed ordinate con precisione geometrica. Il suo primo grande cambiamento avviene quando, per metterlo alla prova, gli viene affidata la responsabilità del pollaio in un piccolo centro della comunità. In un primo tempo sembra non reggere, si sente sminuito nell'avere a che fare con i polli e sembra sul punto di mollare tutto ed abbandonare la comunità. Poi ha forti accessi di ira quando non riesce a farsi obbedire dagli animali che, naturalmente, seguono il loro istinto e non i suoi ordini. Lentamente però riesce a farsi riconoscere dagli animali ed impara la pazienza di attendere i loro movimenti e la loro armonia; li segue con cura e riorganizza intelligentemente il pollaio. Ne è orgoglioso. A seguito di questa esperienza si riapre al dialogo con gli altri e, finalmente, di fronte a tutto il gruppo si sfoga con un lungo pianto. Da lì comincia a costruire, come tuttora sta facendo, la sua nuova personalità.

 

2. Il ruminante

 

Il ruminante 

Il disagio: lo sdegno, la reattività, l'autocaricamento, l'irritazione, la rabbia, la collera, l'ira, le amfetamine, la aggressività verso gli altri, la violenza, la mentalità paranoide, l'aggressività verso se stessi,  la depressione. Il comportamento delinquenziale, la ribellione, il pregiudizio razziale, il conflitto sociale, le tifoserie sportive, la cultura del conflitto.

Le risorse: il senso di protezione il desiderio di giustizia, la carica interiore, l'impegno, la motivazione al lavoro.

Il soggetto attivo

 

 

La rabbia

La formazione di questa emozione primaria scaturisce dall’aver trovato un ostacolo che impedisce “l’andare verso” la meta. Il bimbo che è impedito nell’appagamento del suo attaccamento alla madre si carica di energie per scavalcare o distruggere gli ostacoli che si frappongono tra lui e la madre. La rabbia consiste nell’atto ripetuto di caricarsi interiormente: ripetere cioè dentro di sé la tensione desiderante facendola crescere progressivamente. Questo processo di accrescimento energetico interno è ciò che assegna il nome al “ruminante”.

La carica che si accresce nell’individuo è prodotta dal bisogno di avere maggiori energie a disposizione per raggiungere lo scopo: raggiungere l'appagamento, essere coccolati, essere presi in braccio, farsi vedere, esprimere un bisogno, richiamare l’attenzione su di sé, ecc. Tale carica si trasforma in rabbia quando l’ostacolo permane e quando il bisogno viene frustrato: a questo punto prende corpo il risentimento (sentimento che si accende a causa della riflessione su di sé di un sentimento non appagato). La presenza di un ostacolo impedisce l'appagamento del bisogno: il bisogno di attaccamento, ma anche quello di piacere, di pace, di sicurezza.

La rabbia può esplicitarsi in azione aggressiva (o autoaggressiva) quando l’individuo anticipa dentro di sé la soddisfazione che gli avrebbe procurato il raggiungimento della meta. Il ruminante si sente frustrato nell’essere impedito e nel cozzare contro una barriera per lui inviolabile e deve dislocare in qualche modo la carica di tensione accumulata. Tanto più ha accresciuto in sé il desiderio e le fantasie di anticipazione tanto più forte sarà l'energia interna con cui convive. La percezione di tale energia interna e l'andamento del suo mantenerla viva ed accrescerla è l'emozione di base in sé. La sua espressione più evidente è nella rabbia per le implicite caratteristiche di visibilità e di spiegazione ma, a ben vedere, tale processo di accrescimento dell'energia interna è comune con la crescita dell'entusiasmo. Si trasforma e si esprime attraverso la rabbia in ragione dell'ostacolo che incontra. All'origine vi è l'attivazione, nel momento dell'incontro con l'ostacolo l'attivazione si esprime attraverso la rabbia. Tale processo diventa un modo di intendere il proprio personale rapporto con la realtà. La capacità di caricarsi è infatti la base di tutti i processi di motivazione tendenti al raggiungimento di ogni qualità emozionale ed è la misura della potenza con cui si vivono tutte le emozioni (ad eccezione naturalmente della pace, della calma e della demotivazione, che sono all’opposto negli assi accensione/spegnimento e agitazione/calma).  

La carica interna viene percepita come una emozione particolarmente intensa e riempiente: sotto quest’angolo di visuale si comprende come sia difficile spegnere la rabbia perché consente un autoappagamento in sostituzione del bisogno non realizzato. Finché la carica è accesa ci sono ancora possibilità di raggiungere l’obiettivo e quando l’obiettivo non raggiunto produce frustrazione, si tende a dislocare la rabbia altrove: nello sfogo. La ricerca dello sfogo della rabbia contro un oggetto sostitutivo è un autoinganno molto raffinato nel ruminante. La ricerca della piena soddisfazione nello sfogo consente di continuare a coltivare la rabbia ma “non si sfoga mai” perché è insito nella sua fenomenologia solo il processo di accrescimento che si alimenta nella ricerca stessa dello sfogo.

Lo sfogo appare quasi sempre una delle tante giustificazioni dell’aggressività: un desiderio distruttivo prodotto dalla frustrazione del bisogno. Il bisogno originario rimane pur sempre inevaso (pur se in secondo piano) e lo sfogo aggressivo produce un evento di cui il soggetto si sente poi responsabile (la colpa). Ora, se l’individuo è già prigioniero del copione ruminante, la colpa produce uno spostamento della tensione rabbiosa, dall’oggetto al sé. L’aggressività diretta contro il sé si trasforma in depressione, descrivibile come un ruminamento contro se stessi con la tendenza a caricarsi di tensione verso la scopo di farsi del male. La depressione è la realizzazione progressiva di tale processo: più la tensione contro di sé aumenta, più il dolore viene desiderato "rabbiosamente", ma poco percepito perché l'intensità dell'attivazione mette in secondo piano la sensibilità al dolore. La volontà di soddisfazione perversa del “riuscire a sfogarsi” almeno contro se stessi, è un copione. E’ facile comprendere come il desiderio di farsi del male sia già implicitamente “farsi del male” e godere del fatto di stare male. Ciò avviene fino a quando il dolore interno diventa eccessivo e la voglia di sfogo non si proietta nuovamente verso l’esterno: sulle cause reali o immaginarie del malessere da frustrazione che l’individuo sperimenta.

L’idea dello sfogo è dunque inutile ed estremamente pericolosa perché induce all’aumento delle energie contenute e accende sempre più la rabbia; anche l’ipotesi del controllo (e dell’autocontrollo) della rabbia è sbagliata. Spesso è proprio il controllo a rappresentare un ulteriore ostacolo contro di cui caricarsi reattivamente. L’efficacia delle terapie della non violenza sono ormai inconfutabili per lo spegnimento della tensione aggressiva; l'ipotesi della gestione equilibrata di “una certa aggressività” è invece giustificazione per mantenere attivo il percorso del rimuginamento rabbioso interno. Altra cosa è invece comprendere l’utilità connessa alla capacità di carica e di motivazione diretta al raggiungimento di uno scopo: essa è tra le più importanti risorse su cui l’uomo può contare per cambiare la realtà che lo circonda realizzando con giustizia ed equilibrio grandi imprese.  

Galvanizzare l’interesse di un ruminante nei confronti di un obiettivo da raggiungere è il più semplice passaggio educativo attraverso il quale egli può imparare a dislocare le sue energie: il ruminante infatti tende a sentirsi un salvatore del mondo capace di grandi sogni e grandi imprese. Questo percorso può condurre il ruminante verso il sentimento della giustizia ed a coltivare il valore dell'impegno. Non senza rischi: egli può perdere l'orientamento scivolando nel fanatismo, specialmente se rinforzato da sinergie gruppali con altri ruminanti.

 

Il disagio del ruminante

La caratteristica saliente del ruminante è quella di tendere ad accrescere le energie interne attraverso il rimuginare. Nel caso egli sia ferito da una azione o da parole di un’altra persona inizierà il suo tipico movimento interno tornando costantemente con il pensiero sull’accaduto ed arrabbiandosi sempre di più. Naturalmente questo processo non è visibile dall’esterno (ad occhi non esperti nel coglimento empatico del vissuto altrui). Solo quando la tensione sfocia in un comportamento animoso, con conseguenze di aggressività, reazione e conflitto e con ulteriori conseguenze di colpa e di ricerca di espiazione anche autodistruttiva essa appare evidente. Per questo il ruminante può essere descritto come "un'acqua quieta che nasconde i peggiori gorghi". Le sue espressioni di rabbia o di impegno appaiono visibili quando diventano comportamento ma non lo sono quando appartengono al vissuto di rimuginamento interiore.

Le modalità attraverso cui egli è riconoscibile e prevedibile sono la sua capacità di accendersi ed il suo desiderio di stare acceso quasi come unica dimensione e possibilità del vivere. Quando non è acceso tutto gli appare come privo di intensità, quasi che l’intensità delle situazioni dipendesse dal suo protagonismo negli eventi. Raramente riesce ad essere un semplice spettatore che osserva e si mette in luce all'improvviso con un intervento che fa crescere di intensità quando gli accade intorno. Questa sua dimensione di attività lo porta ad una elevata capacità di concentrarsi finalizzata ad “appuntirsi” per convogliare tutta la sua energia in un punto. Per questo non tollera che la sua tensione interna venga distolta dalla concentrazione su un obiettivo; altrimenti dovrà dislocare la concentrazione su molteplici cose fino a perdere energia ed a cadere nella confusione.

Quando è carico è fortemente reattivo. Può dunque manifestarsi attraverso atti non immediatamente comprensibili perché repentini, rumorosi ed inquietanti. Spezzare una penna, buttare violentemente a terra una borsa, sbattere senza motivo la porta, rispondere sgarbatamente senza motivo. Se è in tensione acuta arriva a dire cose che neanche pensa ma non le sa trattenere e spesso ferisce senza esclusione di colpi. Detesta le persone che gli sottraggono energie e se incontra degli apatici vuole a tutti i costi svegliarli. Con gli altri è un trascinatore e riesce a trasmettere motivazione al lavoro ed alle imprese ma, troppo carico com’è, senza pazienza e frettoloso, difetta di capacità organizzativa e, pur spendendo moltissime energie, viene sopravanzato da soggetti molto più meticolosi ed attenti. In ragione delle ingiustizie che costantemente subisce (sono sempre altri che traggono vantaggio dalle sue energie) diventa ancor più ruminante e reattivo alla vista dell’ingiustizia. Si accende di sdegno per questioni sociale ed è un accanito lottatore. Questo è però il terreno per lui più scivoloso perché può essere facilmente istigato e utilizzato da altri.

Una proprietà della attivazione rabbiosa è quella di essere facilmente empatizzabile per l'intensità che mette in campo (vedremo nella storia di Marco un esempio eclatante). Mentre quando un soggetto è attivato è per lui difficile porsi nella condizione di ascolto del vissuto altrui.

La crisi del ruminante corrisponde ad un rivolgere verso di sé la carica e la tensione che di solito rivolge all’esterno nelle sue frenetiche attività. Quando non riesce a dislocare il suo eccesso di carica contro i nemici, si irrita e inizia un percorso depressivo da cui è difficile distoglierlo poiché, contrariamente all’aggressività che può essere spenta attraverso l’esercizio della pace e della calma (o con l’aiuto di qualcuno che assorbendo l’aggressività riesce a trasmettere la emozione della quiete ed insegnarla), la depressione non ha punti di aggancio rivolta com’è tutta all’interno. Poco efficace è il controllo e l’autocontrollo che, oltretutto, appare al ruminante come una diminuzione della sua importanza e della sua autostima ed ogni aiuto al depresso può rinforzare ulteriormente la sua depressione. Far evolvere la depressione in modo sano è possibile solo attraverso l’apertura di uno sfogo verbale del ruminante che finalmente incontra qualcuno a cui raccontare e descrivere le ingiustizie che ha subito, evitando che il risentimento che egli percepisce possa ritornare ad essere un copione di nuova carica aggressiva. In altre parole evitando di istigarlo ed aiutarlo a non autoistigarsi mediante pretesti spesso infondati. Questo processo può infatti culminare nella paranoia, ovvero in una illusione di persecuzione e/o di grandezza, gelosia, ecc. attraverso la quale il ruminante si inventa i nemici per attingere dalla illusione della loro esistenza la carica con cui ruminare. Per questa via possono apparire comprensibili i tratti patologici del ruminante: il disturbo oppositivo provocatorio, le tendenze aggressive, il disturbo della condotta, il disturbo da eccesso di attivazione iperattiva e da deficit di attenzione, il disturbo paranoide di personalità, il disturbo esplosivo intermittente, la piromania, le tendenze suicidogenee e i diversi episodi depressivi minori o maggiori.

 

Le risorse del ruminante

Il ruminante evoluto, e cioè colui che è diventato equilibrato con l’aiuto di qualcuno che ha assorbito la sua aggressività e lo ha orientato verso impegni costruttivi, è un soggetto che possiede una energia formidabile per la realizzazione di progetti ed attività rivolte al bene comune.

Se in grado di comprendere e gestire intenzionalmente il processo di costruzione e di rafforzamento della sua motivazione impegnandola in percorsi concreti, egli diventa un individuo prezioso per la comunità di persone che lo circonda. Possiede infatti un forte senso della giustizia e si mobilita quando vede situazioni in cui vengono oppresse persone più deboli.

La sua natura di trascinatore lo propone come un leader motivatore del gruppo rendendolo in grado di aprire processi di cambiamento. E’ però di estrema importanza che conosca i suoi limiti e che sappia riconoscere l’effetto delle sue azioni e riesca ad evitare di continuare a sfondare porte che sono già aperte. Se non perviene a questa consapevolezza rischia di generare reattività eccessive e di diventare bersaglio troppo facile da parte delle energie che lui stesso ha messo in moto. L'aggressività e l'entusiasmo hanno in comune la stesse capacità di attivazione delle energie e di motivazione/mobilitazione. Se il ruminante riesce a orientare le sue energie nell'impegno lo perseguirà con entusiasmo, determinazione e tenacia. Può così essere capace di esprimere una incredibile forza interiore, può sopportare fatiche, difficoltà ed insulti non demordendo mai dal suo compito e dall'impresa che ha da realizzare. Per questa via egli si realizza e gioisce nel sentirsi utile per gli altri. 

 

Storie di tipi

Federico ha 36 mesi e frequenta l’asilo nido. Preferisce la solitudine alla compagnia degli altri. La sua è una solitudine attiva, si avverte benissimo la sua presenza, è vigile ed attento. Sta in disparte, osserva, gioca fino a quando non decide o è costretto ad interagire con un altro bambino. Riesce a però giocare con gli altri solo se è lui a gestire la situazione; l'altro bambino non può esercitare alcuna azione che metta in discussione la sua supremazia, pena una reazione anche molto violenta.

Federico recita uno schema fisso simile ad un suono dapprima basso, poi sempre più acuto fino a diventare insostenibile ed a costringere chi lo ascolta ad interromperlo. Se esempio sta giocando con le costruzioni e qualcuno si avvicina lui, fa cenno di andare via, se l'altro si avvicina ancora e tocca le sue cose, lui protesta, se poi l'altro si appropria di un pezzo, Federico urla, se l'altro scappa, lui si alza e continua ad urlare con quanto fiato ha in gola, manifesta tremore, corre dietro all’altro bambino e lo colpisce violentemente. Non si riesce a calmarlo se non con molta fatica. La stessa cosa accade quando lo si sgrida o gli si fa notare qualcosa. A volte si siede in un angolo con il suo biberon di cui distrugge sistematicamente, mordendole, le tettarelle, e osserva tutt'intorno in modo inquietante. Il suo inserimento al nido è stato molto problematico; inizialmente alternava momenti di rabbia violenta a momenti di totale isolamento. Ancora oggi manifesta questi comportamenti. Farlo mangiare è difficoltoso; masticare è la sua attività preferita per ciò tiene a lungo il cibo nella bocca ed è esasperantemente lento.

La madre di Federico ha una personalità fortemente ansiosa ed ha con il marito un legame conflittuale che la porta ad avere continui litigi in presenza del bambino. A lui viene richiesta una mediazione tra i due che non è ovviamente capace di dare, riesce solo a caricarsi della loro aggressività.

 

Dalla cabina telefonica ai sassi contro un pulmann. Un ragazzino di 10 anni, Marco,  è da solo per strada ed assiste alla scena di devastazione di una cabina telefonica da parte di un gruppo di ragazzi. Mentre li vede arrivare percepisce l'emozione che provano, li vede poi entrare nella cabina e strappare, con un brivido esaltante, cornetta e filo. E poi correre via urlando con in mano l'inutile trofeo della loro razzia. Nel calarsi nel loro vissuto egli fa sua (empatizza) la loro eccitazione in ragione del vuoto emozionale che egli sta sperimentando (è da solo per strada). La sensazione di aver assistito ad una prodezza fa sì che egli la interiorizzi. Si ritroverà in un contesto simile dopo sette anni e, al termine di una partita in cui la sua squadra ha subito una sconfitta, proporrà ai suoi amici un gesto analogo nella confusione generale della rissa di fronte allo stadio.

I due episodi, tratti dalla storia di un ex ospite di una comunità per minori, emergono nel corso di un colloquio educativo con Marco e sono molto utili per rappresentare sia il processo di empatia che l'innesco di un copione aggressivo. Il presupposto è il vuoto interiore di marco: la sua coscienza è come una pellicola fotografica vergine che può essere impressionata da un'immagine che egli successivamente sviluppa.  

Immaginiamo però la prima scena della cabina telefonica e lo stesso bambino: egli ha però a fianco il suo papà e sta gustandosi il sapore di un gelato. E' pieno di vissuto e di sapore e nel vedere la scena proverà un senso di paura senza aderire emozionalmente al vissuto dei devastatori.

Da una condizione di vuoto e solitudine può essere empatizzato un altrui vissuto trasgressivo e diventare una possibile risposta alle contingenze della vita.

Dopo l'episodio dello stadio Marco entra a far parte di una tifoseria sportiva insieme ai suoi amici e tale aggregazione riempie il suo vuoto. La sua squadra è una "fede" per la quale è disposto ad ogni rischio. Un episodio angosciante segnerà però la sua vita. Nel corso di una trasferta egli è coinvolto in episodi di violenza contro una tifoseria contraria: pulmann incendiati, giovani tifosi feriti, di cui un paio gravemente. Marco viene fermato dalla polizia insieme ad altri tre suoi amici e trattenuto per accertamenti. Marco e due amici sono insieme in un camera di sicurezza della questura e si rinforzano a vicenda: "Questa volta ci hanno fermati perché anche la polizia ce l'ha con noi, la prossima volta gliela faremo pagare più cara!". E, rinforzandosi a vicenda, giustificano le loro azioni accrescendo la loro aggressività. Enrico è invece casualmente solo in un'altra cella e, ad una ispezione tre ore dopo, lo trovano morto suicida, impiccato. Marco racconta di Enrico come di un ragazzo senza basi, un po' come lui: "Sul furgone della questura era in crisi, diceva: Come farò a dirlo a mia madre, alla ragazza che ho appena conosciuto, al mio principale presso cui lavoro da una settimana". La tragedia di Enrico mostra come l'aggressività rivolta verso se stessi si trasformi in depressione. 

 

Sarah e la depressione. “Sarah non ama esprimere la collera sotto alcuna forma; di norma essa reprime i suoi sentimenti di collera e solo occasionalmente si permette un’espressione di risentimento. Rivolge all’interno la collera, diventa depressa e quando esprime un risentimento si sente in colpa, il che fa aumentare la sua depressione. Tuttavia i risentimenti che prova sono tanti e quando si sono accumulati fino a traboccare essa esplode in una rabbia incontrollabile, scaglia oggetti, rompe piatti, urla alla gente e, in generale, perde il controllo. Subito dopo queste esplosioni essa singhiozza in modo incontrollabile e si sente in colpa perché non è riuscita a piacere agli altri mentre la sua unica speranza di felicità è proprio quella di piacere alle persone ok”(Johns, 1990, pp.60)

 

L.P., 42 anni, proviene da una famiglia operaia del nord. Interiorizza dal contesto familiare e sociale in cui vive la dimensione della prepotenza, anche finalizzata alla protesta sociale. Si esalta nelle manifestazioni di piazza nel corso delle quali vive numerosi scontri fisici molto violenti. Per via di queste dimostrazioni di coraggio è stimato e temuto dai suoi compagni. Si sente però squalificato nei contesti di discussione in cui prevalgono gli intellettuali ed ha difficoltà nello stabilire relazioni con le ragazze che lo rifiutano. Queste sue delusioni fanno sì che in lui prenda corpo la paura e, per ritrovare l'energia perduta, inizia ad assumere anfetamine. Progressivamente ne diventa dipendente e, poiché le occasioni di scontro politico sono diminuite a causa del riflusso delle lotte negli anni '80, diventa un ultrà di una tifoseria sportiva. Nel frattempo si è sposato, ha una figlia e lavora come operaio metalmeccanico. Durante uno scontro fisico dopo una partita viene arrestato e, già provato dalla dipendenza, cade ancor più in depressione. Dopo il carcere diventa eroinomane. Distrugge la sua famiglia nella quale cerca di mantenere una posizione di dominio attraverso la prepotenza che diventa spesso terrore. La moglie lo lascia e la figlia, crescendo, non lo vorrà più vedere. Nel 1985 entra in comunità per recuperarsi dove, finché contenuto psicologicamente dalla struttura, trova apparente equilibrio che però perde non appena esce per le saltuarie verifiche. La sua rabbia lo porta alla megalomania ed alla rivincita, la sua impossibilità di rivincita alla disperazione. Ha numerosissime ricadute nel corso della quali diventa autodistruttivo ferendosi ripetutamente in incidenti di lavoro e tentando più volte l'overdose, fino a quando decide di non tornare più nell'ambiente originario e di ricostruirsi una vita senza tentare più alcuna forma di rivincita.

Il suo cambiamento corrisponde ad una resa nei confronti del mondo con cui era in perenne conflitto al fine di affermare la sua esistenza. Attraverso la resa gli è possibile conquistare il sapore della serenità.

Il processo attraverso cui è avvenuto il cambiamento è stato graduale: dapprima l'uscita dalla depressione per ritrovare la consistenza di se stesso. La protezione dei rapporti comunitari lo ha fatto emergere dalla depressione senza sfociare nella aggressività, in ragione del clima di parità e di fratellanza e delle regole che contengono il suo esubero. L'accumulo della aggressività lo porta però a debordare non appena cade la protezione del patto comunitario. Solo la scelta di non contendere più con la realtà del suo contesto originale di vita lo ha portato alla capacità di trattenersi e riaprirsi ad altri sentimenti.

 

C.M., 35 anni, vissuta con un padre duro, autoritario e tirannico, si allontana da casa dopo aver subito una violenza sessuale dal padre. Inizia una vita senza punti di riferimento portando dentro di sé la voglia di liberarsi della violenza subita mediante la sottomissione di altri che seduce e "violenta". Inizia a fumare hashish per caso a 15 anni per "liberarsi dai condizionamenti" e stabilisce una relazione con un cocainomane più anziano di lei, con una personalità simile a quella del padre. Lui la introduce all'uso di cocaina, di cui era spacciatore, poiché si eccita nel vederla "andare completamente fuori", anche al fine di poter accontentare alcune sue fantasie sessuali. Avendo a disposizione una certa quantità di eroina inizia ad iniettarsela. "Con l'eroina, racconta, mi trovavo in una posizione diametralmente opposta rispetto alla "coca": quando mi bucavo di eroina mi sentivo finalmente serena, e qualsiasi situazione mi trovassi a vivere non mi pesava più. All'inizio ho usato l'eroina come mediatrice della cocaina, che mi procurava una grande agitazione interiore: mi stravolgevo di coca e poi, per calmarmi, mi bucavo di eroina. Poi questa diventò l'elemento fondamentale della mia vita". Dopo sei anni lascia il suo convivente. Inizia a vagabondare e, per procurarsi l'eroina, inizia a vendere droga, a rubare, a concedersi a persone "convenienti", poi, dopo un arresto e dopo che non riesce ad avere droga a credito dagli spacciatori, poiché se la inietta, inizia l'esperienza più degradante della prostituzione. Esce da questa situazione per via di un incontro con un uomo da cui ha una bambina e prova a smettere con la droga senza riuscirci. Dopo alcuni anni, a seguito di un ricovero in un reparto di psichiatria, le viene tolta la custodia della figlia e, qualche mese dopo, approda in comunità.

Passa attraverso un lungo processo di cambiamento: dapprima si chiude in se stessa e non sopporta l'idea di essere gestita da altri e di non potersi isolare, poi iniziano ad emergere le contraddizioni di una vita ed un grande desiderio di affetto. Le viene affidato il compito di accogliere i nuovi ospiti con i quali si adopera al meglio esprimendo nel rapporto con loro i suoi affanni affettivi. Trasferisce nella motivazione all'aiuto la sua disperazione, la sua solitudine e il suo farsi violenza,  ma agisce ancora sulla base del suo copione ruminante. Quando qualcuno la delude perché non presta sufficiente attenzione alle sue indicazioni va su tutte le furie. Il risentimento che iremerge la fa esprimere con parole ed atteggiamenti duri, che feriscono. Causa così l'abbandono della comunità da parte un ospite appena entrato: precipita nella più profonda e fertile crisi di cambiamento. Si arrende all'evidenza di essere incapace a gestire la sua vita e ridimensiona i modi di dislocare le sue energie. Lo fa totalmente e radicalmente dopo aver capito l'effetto di umiliazione che i suoi modi ingenerano. Vede l'altro umiliato, sente lo stato d'animo che egli vive e lo fa suo. Sceglie, per la prima volta, di chiedere scusa nonostante l'oggettività delle sue ragioni (il rimprovero fatto all'ospite era giusto, l'aggressività con cui ella lo esprimeva era eccessiva). Si rappacifica con l'ospite che rientra in comunità e comprende le dimensioni emozionali della pace e dell'umiltà per lei totalmente sconosciute.

 

F.G., 24 anni, orfana di entrambi i genitori vive dall'età di quattro anni in un collegio piuttosto duro, da cui scappa a 14 anni. La sua testimonianza: "Sono stata ricoverata in un ospedale psichiatrico a 15 anni per una disintossicazione da eroina. Mi hanno fatto la cura del sonno pur non avendo alcuna assuefazione, ho reagito perché le punture mi facevano molto male e non riuscivo a camminare. Mi hanno sottoposta ad un trattamento con Diazepam e non ho più smesso di assumere tali psicofarmaci fino al mio ingresso in comunità. Nel corso degli anni non è stato difficile farmi prescrivere anfetamine e tranquillanti che prendevo in quantità sempre maggiori. Assumevo contemporaneamente: plegine, mogadon, tavor, roipnol e fiale di valium endovena oltre all'eroina. Mi ritrovavo sempre depressa e non riuscivo più a parlare e comunicare, avevo paura di tutto e di tutti, con manie di persecuzione e confusione mentale. Sono entrata in comunità con una diagnosi di anoressia ed ero incapace di fare alcunché. Al sesto mese di comunità riuscivo a sentirmi un poco più lucida ma mi era ancora difficile mettere insieme un discorso; percepivo un blocco duro e teso di nervi del cervello che non mi permetteva di esprimermi. Piano piano sto riuscendo a vincere molti blocchi ed ancora ora sto lottando per superarli." F. G. lascerà la comunità a seguito di un conflitto con i responsabili, di cui si pentirà ma non valuterà più di rientrare e, nel frattempo, andrà a vivere con un vecchio nonno di cui, nel frattempo, aveva ritrovato l'affetto. In fondo il distacco conflittuale dalla comunità sembra sia stato benefico perché nel comprendere il dispiacere causato ai responsabili, con cui nel tempo mantiene un rapporto, comprende il senso di equilibrio posseduto da altri. La tranquillità del nonno con cui convive e che accudisce si offrono a lei come un'esperienza relazionale serena mai precedentemente sperimentata.

 

M S., 26 anni: "Fin da quando ero bambino sono sempre stato un oppositore polemico. Ero un bambino testardo che diceva sempre di no a tutto. Facevo così perché mia madre mi portava altrimenti a far sempre ciò che voleva lei. Mia madre mi ha sempre trattato da bambino piccolo e, con furbizia, mi ha sempre convinto su quello che dovevo dire, fare, vestirmi, ecc. per questo ho cominciato a dire di no a tutto e tutti.

All'età di 9-10 anni ero un po' quello che andava contromano a tutto; cercavo sempre di fare qualcosa di diverso rispetto agli altri; se i miei fratelli o i miei amici giocavano a calcio io ero quello che non giocava mai. Il motivo era perché non mi andava di fare le stesse cose. A scuola non andavo neanche male; ero svogliato, studiavo ma non andavo alle interrogazioni per non dare soddisfazione agli altri!

Tutti mi dicevano che ero simpatico per il mio modo di fare, con le ragazze ero antipatico perché tutte mi dicevano che ero bello e mi montavo un po' la testa cercando di non dare soddisfazione; avevo sempre questa cosa di fare il contrario. Facevo anche molte bravate per mettermi al centro dell'attenzione. Sono una persona precisa, puntuale; ho conservato sempre un certo ordine come orari, puntualità, modo di vestire...avvisavo sempre a casa quando non potevo arrivare in tempo.

All'età di 13 anni ho cominciato a fumare hashish, un po' perché mi piaceva e un po' per farmi vedere ed ho continuato a fumare per 3 anni. Eravamo i soliti 4-5, fumavamo tutti i giorni e stavamo bene insieme; lavoravamo tutti e il fine settimana mettevamo un po' di soldi per ciascuno e compravamo il fumo.

Una volta iniziato a bucarmi era difficile che mi facessi delle paranoie; ero convinto che sarei riuscito a fermarmi al momento giusto invece ho continuato sempre fino a quando mi sono reso conto che non riuscivo a stare senza roba e mi sono accorto, con rabbia, che ero arrivato dove gli altri mi dicevano che sarei arrivato. A 20 anni sono stato arrestato per associazione a delinquere. In carcere sono dovuto cambiare per adeguarmi, altrimenti finivo davvero male. Quando sono uscito dal carcere avevo abbassato le penne e l'orgoglio ma ho dovuto iniziare una psicoterapia per capire cosa fare della mia vita. Nel corso dei colloqui ho progressivamente capito le ragioni della mia rabbia e la pazienza dello psicologo che mi ascoltava e assorbiva la mia rabbia senza reagire né fare commenti mi lasciava interdetto. Ho anche cercato di provocarlo apposta per far arrabbiare anche lui e finalmente litigare ma non ci sono mai riuscito. Una volta gli ho anche sputato in faccia: mi aveva raccontato che mia madre pagava la mia psicoterapia e che avrei dovuto ringraziarla almeno per questo. Poi è venuta anche mia madre ai colloqui. Sono stati momenti molto brutti ma anche molto belli. Mia madre piangeva ed allora mi sono messo a piangere anch'io. Credo di essere cominciato a cambiare in quel momento".

 

3. Il delirante

 

Il delirante 

Il disagio: il distacco, il trasalimento, l'eccesso di autostima, l'espansione dell'io, lo snobismo, la presunzione, il disgusto, la squalifica, la solitudine, la superbia, il capriccio onnipotente, gli allucinogeni, la dissociazione, il pensiero schizoide

Le risorse: la sorpresa, l'intuizione,  l'acutezza di ingegno,   l'autosufficienza, la libertà.

Il creativo

 

Il distacco (trasalimento - sorpresa - disgusto)

Attaccamento e distacco, fusionalità e differenziazione sono le matrici che segnano la comparsa nella psiche di due poli: il sé e l'altro. Il diaframma tra sé e altro è distacco o separazione. La separazione indica l'allontanamento da un situazione fusionale (che vedremo più tipica del copione dello sballone), il distacco è invece opposto all'attaccamento (che implica sicurezza avvolgente, nutrimento, sazietà affettiva).

Il movimento del distacco assomiglia al "prendere le distanze" ovvero ad un allontanarsi consapevole (anche se non necessariamente intenzionale) da qualche attaccamento. Il distacco è il processo di base a cui far risalire l’emozione della differenziazione e dell’innesco dei processi di apprendimento centrati sulla dissociazione e riassociazione delle idee.

Sul piano delle sensazioni il distacco è connesso al  trasalimento ed alla sorpresa che implica una riorganizzazione delle precedenti sensazioni e che si determina qualora ciò che è percepito ed a cui si è prestata attenzione non è congruente con le precedenti conoscenze.  Il percepito può essere accettato e riorganizzzzare la conoscenza o rifiutato. Sul piano biologico la sorpresa (negativa) è assimilabile al disgusto, sensazione che precede ed accompagna il vomito e che segnala la necessità di liberarsi da un cibo insano già ingerito. Il vomito provoca l’espulsione del contenuto gastrico attraverso la bocca per contrazioni e conati dello stomaco ed ha l’importante funzione biologica di salvaguardare l’organismo da cibi guasti e nocivi che sarebbero pericolosi se digeriti e assimilati. Il disgusto è originariamente prodotto dal fiuto che discerne la qualità di un cibo ed è un'intelligente sensazione dell’organismo per tenere lontano da sé ciò che di guasto (o percepito come guasto) può essere ingerito. Effetti di disgusto sono prodotti da tutti i sensi (la vista, il tatto, il gusto) ma all'olfatto è affidata una sorta di anticipazione intuitiva.

La sensazione di disgusto si forma nel bimbo quando egli sente un sapore diverso dal latte materno (o dal primo latte assaggiato, della balia o artificiale). La processualità delle sensazioni va dal trasalimento, al distacco, al disgusto o alla sorpresa. Il trasalimento è ancora da considerarsi una sensazione, la sorpresa richiede l'autopercezione di un sé in grado di sperimentare la sorpresa medesima (o il disgusto). Tra il trasalimento e la sorpresa - disgusto  c'é  il distacco, considerato per questo motivo nucleo di un'emozione di base. 

Nel processo di svezzamento (stabilizzato oggi intorno ai cinque mesi) il bimbo entra in contatto con altri gusti, che riesce ad accettare pacatamente solo se l’attaccamento alla madre non è diventato critico. L’innesco della sensazione del gusto/disgusto nell’impatto con un sapore ignoto si modula in concomitanza con i tempi dello sviluppo biologico del bimbo e del ciclo dell’allattamento. Può esservi una necessità di interruzione precoce dell’allattamento per scarsità di latte o per suo scarso potere nutritivo, o una tardiva interruzione del latte materno per eccesso di attaccamento della madre al figlio. L’uno o l’altro caso rendono necessaria una particolare modulazione del processo di attaccamento/separazione del duo madre/bimbo; l’andamento di tal processo è la causa della variazione della emozione del distacco nel suo farsi riflessiva all’interno del sé. A differenza del mondo dei mammiferi animali, in cui l’allattamento risponde essenzialmente all’orologio biologico-istintuale, nell'uomo il processo attaccamento - distacco ha diverse possibili modulazioni.

Se l’attaccamento è ancorato nella reciprocità tra madre e figlio, la sorpresa nei confronti di un sapore ignoto sarà accompagnata dal contemporaneo percepire l’odore della madre, il suo calore e la sua voce un sapore diverso da quello del latte interverrà come scoperta di un sapore altro, dissociato dalle altre contemporanee sensazioni.   Se la madre è già lontana dalla fusionalità (dissociata negli interessi che coltiva contemporaneamente all’allattamento) e non ha più un saldo legame con il bimbo, quest’ultimo non riesce ad associare un nuovo sapore con l’insieme di contatti uditivi, olfattivi, tattili e visivi che contraddistinguono il suo esistere nel mondo. 

Se l'attaccamento della madre al bimbo è invece persistente, il bimbo sarà attratto da qualcosa di altro che però conosce ma, non potendo attuare il processo nuovo gusto - disgusto - accettazione del nuovo gusto accenderà dentro di sé una induzione di  associazioni che non divengono mai reali.

L'eccesso di attaccamento della madre può produrre due condizioni di autopercezione del sé nel bimbo. O una struttura dipendente o una struttura eccessivamente indipendente. Il processo di dissociazione/riassociazione lascia del tutto liberi  i paradossi poiché l'esito delle riassociazioni è sempre indeterminato.

Nuovo gusto, sorpresa e successiva curiosità o disgusto, rifiuto e allontanamento, anche capriccioso, dall’esperienza sono diversi esiti della trasformazione della sensazione in emozione. L’insieme delle sensazioni percepite, accompagnate dai segnali che caratterizzano la posizione della madre all’interno della fusionalità del duo, diventano emozione poiché attraverso esse si realizza la scoperta del sé e dell’altro.

Attraverso il percorso del trasalimento-distacco-sorpesa-disgusto prende forma quel percorso di identità originato dalla differenziazione all’interno del duo. Il tempo dello svezzamento è l’origine di tutti i processi di dissociazione equilibrata (o non) del pensiero. Con ciò non si intende attribuire allo svezzamento in sé la responsabilità dell’innesco dei successivi copioni “deliranti”, ma individuare l’origine dell’emozione del “nuovo gusto” o del “disgusto” nei processi di relazione madre/figlio e di coscienza riflessiva concomitanti con l’armonia delle diverse sensazioni (visive, olfattivi, uditive, tattili).

Per maggior precisazione dobbiamo ora ricordare che il significato da attribuire al termine disgusto è più ampio: dis-gusto è l’immediato rigetto di un gusto che può però essere accolto e ri-gustato attraverso la compensazione affettiva delle altre sensazioni a “garanzia” della continuità del rapporto.

Nel momento in cui la madre utilizza una goccia di limone sulle labbra del bimbo di tre mesi per produrre un piccolo shock nelle papille gustative e far cessare il singulto, il bimbo esprime storcendo le labbra il suo disgusto ma percepisce il sorriso divertito della madre per la sua espressione o di chi gli sta vicino e viene riavvolto nella fusionalità affettiva.

Quando al disgusto si accompagna l’affettività materna e le altre sensazioni della sua presenza, si attua una dissociazione compensata con una nuova associazione che consente la scoperta di un nuovo gusto, e cioè la sorpresa. Tale processo è la base di ogni ulteriore forma di apprendimento, possibile solo dunque se sorretto dall’affettività.

L’emozione del distacco può dunque essere considerata il motore di tutte le successive esperienze della curiosità - rifiuto, sorpresa - delusione - disgusto, selettività - indifferenza, superiorità - inferiorità, associazione - dissociazione - riassociazione, libertà - dipendenza.

Come si forma nella coscienza del bimbo l’esperienza della dissociazione e riassociazione? Per tutto il tempo del suo sviluppo biologico egli ha immagazzinato informazioni essenzialmente congruenti che si associavano senza contraddizione alle precedenti; il distacco è causato dall’impatto con una informazione incongruente e destabilizzante che rende necessaria la costruzione di una nuova congruenza. Il suo pensiero però non è ancora sufficientemente complesso da riarmonizzare le sensazioni. “Non rifiutare vedrai che è buono!” è il messaggio che complessivamente gli perviene dalle altre sensazioni circostanti ed egli accetta il gusto riassociandolo alle altre sensazioni. E’ questa riassociazione il nucleo di una emozione emergente: il bimbo si autopercepisce come sede delle precedenti sensazioni, dunque come entità che sta differenziandosi. Il tragitto che lega l'oggetto al bambino passa attraverso un'altra persona perciò nello sviluppo del bambino la differenziazione dall'altro precede le mediazioni simboliche ed oggettuali. L'apprendimento (ricostruzione interna di processi esterni) è tanto più ampio quanto più è esteso la iato tra la capacità autonoma di risolvere i problemi da solo o di risolverli sotto la guida di un adulto. In questa zona di sviluppo prossimale, la cui ampiezza è data dal distacco, si attua la prima esperienza di coscienza.

L'eccessiva ampiezza di questa zona costruisce copioni che recitano eccessi di differenziazione. Essi non si innescano necessariamente in fasi precoci: affinché si instauri un copione di ricerca - sorpresa di nuovo gusto, c'è bisogno di numerose esperienze, sempre più complesse, di associazione - dissociazione - riassociazione. L'eccessivo attaccamento della madre al bimbo, invischiante o affannoso, può essere la principale causa di un copione delirante. Ma l'esperienza della associazione - dissociazione - riassociazione può essere vissute in molte relazioni interpersonali o di gruppo ed anche simboliche come quella con la propria cultura.

 

Il disagio del delirante

Il delirante è un personaggio che gioca con il proprio copione di associazione - dissociazione delle percezioni, delle idee e dei concetti. Egli vive dei suoi pensieri e delle loro connessioni, traendo massima soddisfazione dalle nuove intuizioni che riesce ad avere. La sua intelligenza non si fonda sul calcolo e sulla razionalità, al contrario quando è di fronte ai problemi cerca soluzioni complesse anche se inutili o controproduttive. Per questo non riesce ad essere facilmente comprensibile e, soprattutto, difetta di concretezza e praticità. Inoltre si propone con una grande presunzione fondata sulla sua personale capacità di comprendere; in effetti egli è in grado di distanziarsi a sufficienza dalle cose, dalle persone e dagli eventi per averne una visione d'insieme ma, spesso, difetta nell'analisi dei particolari, si riferisce costantemente a schemi di interpretazione personale non verificati nel dialogo con altri e preferisce le intuizioni rapide e sommarie piuttosto che un lavoro meticoloso in profondità. Il suo modo di analizzare i problemi è sempre originale e la sua immediatezza nel trarre conclusioni lo fanno apparire affrettato e presuntuoso, cosa che lui non fatica ad ammettere. "Non è colpa mia se ho sempre ragione!" è una frase tipica del suo modo d'essere e di pensare.

La tensione verso la differenziazione implica una sbilanciato processo di identità. Egli ritiene che la condiscendenza verso l'altro sia una perdita del sé: avendo subito eccessi di avvolgimento si spinge verso forme estreme di autonomia. La libera scelta di poter essere e pensare secondo i propri schemi conduce sì al disvelamento della realtà e aumenta la coscienza del proprio essere nel mondo, ma può condurre a due esiti diversi:

- al processo positivo di comprendere se stessi nella propria unicità e, allo stesso tempo, comprendere che anche altri attuano lo stesso tipo di comprensione di sé; (questa possibilità è data dal cogliere empaticamente negli altri il vissuto attraverso il quale si differenziano e si comprendono nel loro essere persone).

- Al processo negativo di differenziarsi costruendo i propri schemi interpretativi della realtà senza prendere in considerazione la possibilità che questa operazione sia tipica anche delle coscienze a noi esterne, pur accadendo in loro con modalità, linguaggi, codici e categorizzazioni anche molto lontane dalle nostre. La coscienza che si differenzia in solitudine (sente solo la propria personale unicità) perde il contatto con le altre coscienze e le categorie che formula non trovano possibilità di confronto, non aderiscono a quelle degli altri e neppure confliggono, semplicemente evaporano. Rimangono il senso di confusione, di insicurezza e di solitudine. Il punto di arrivo del pensiero divergente è quello di rompere continuamente gli schemi dell'esperienza e costruirne sempre di nuovi.

L’eccessiva stima di se stessi, l’esagerata fiducia sulle proprie possibilità, la sottovalutazione dei propri errori (attribuiti alla non comprensione degli altri), la presunzione di essere nel giusto per motivi fondati sulla propria interpretazione logica della realtà, l’impenetrabilità all’umiltà di fronte alla verifica dei fatti, il senso di superiorità rispetto agli altri, conduce a quella forma di delirio che è la superbia.

La superbia dell’intelligenza ha come motore iniziale la curiosità del sapere. Scoprire idee nuove, volontà di analizzare le cose a modo proprio, gustare l’originalità della propria mente e giocare con la propria intelligenza è tipico del superbo. Il bambino acuto, intuitivo ed intelligente prova piacere per i complimenti ricevuti e cercherà di incrementare questa soddisfazione muovendosi in una ricerca, sempre più ardita, di connessioni fantastiche tra i pensieri. Il suo mondo interiore è uno spazio libero dove gli è possibile muovere e far crescere le sue fantasie. Esse non diventano però progetti  realizzabili. Per quel bambino la comprensione diventa l’unica cosa vera e importante da comunicare agli altri che abitano il suo mondo della vita.

Non conosce altro sistema comunicativo per esistere se non quello del farsi accettare per quello che capisce, discute e trasmette in modo del tutto sproporzionato rispetto all’età. Egli da' gioia e soddisfazione intellettuale ai genitori attraverso la sua capacità di intuizione e la sua creatività; non riceve, né conosce, né comunica sulle dimensioni affettive che invece sembra gli siano negate. Non è accolto con tenerezza, piuttosto è apprezzato con intelligenza. Ciò lo porta a concepire il mondo mediante gli strumenti della comprensione e non quelli della affezione.

Ama la sua autonoma autosufficienza ed è caparbio nel non chiedere aiuto: se ha di fronte un problema (far funzionare un videoregistratore che non conosce, ad esempio) non si rivolge a qualcuno per avere spiegazioni, ma tenta di capirne il funzionamento da solo, anche a prezzo di inconvenienti. Il motivo di fondo di tal comportamento è la convinzione di dover inserire nei suoi personali schemi l'intera struttura dei comandi dell’apparecchio. La spiegazione di qualcun altro sarebbe per lui limitante e attiverebbe un apprendimento solo mnemonico: la sua zona di sviluppo prossimale (problem solving autonomo o diretto da adulti) è eccessivamente ampia.

Mette in conto il rischio di non essere compreso; è per lui una condizione abituale il fraintendimento altrui. Quando ha tentato di spiegare il motivo del suo agire, non gli sono mai state sufficienti le parole perché si scontravano con il semplicismo pratico degli altri. Del resto la fatica di tener dietro a più pensieri contemporaneamente ed ad affrontarli in profondità, lo ha portato più volte ad essere squalificato e deriso, lo ha gravemente ferito ed ha rotto la sua unità interna.

Per il delirante non vale la pena ricercare un confronto con chi non sa reggere la sua complessità e la sua intensità. La sua superbia si presenta inizialmente come capriccio anche autodistruttivo specie se il soggetto non accetta di farsi contenere nella relazione dagli altri e di ascoltarne i consigli pratici ed equilibrati.

L’attività mentale a cui si sottopone nel costruire processi di ragionamento aperti e dissocianti è logorante ed egli non ha altra pace che la temporanea sazietà prodotta da qualche nuova intuizione.  Se egli non viene aiutato a condensare la sua unità interna può prodursi una vera e propria scissione in diverse parti della sua personalità; tale tendenza verso la schizofrenia potrà poi evolversi mediante stati melanconici, stati stuporali, allucinazioni, stati crepuscolari, obnubilamenti e stati sognanti. Lo sviluppo nella direzione della patologia può condurlo verso il disturbo schizotipico di personalità, il disturbo narcisistico di personalità, l'iperproduttività ideativa, l'incapacità di pianificazione del futuro, le difficoltà di adattamento, la dispersione di interessi non coerenti, l'umore disforico, i disturbi psicotici schizofrenici, i disturbi dell'alimentazione tra i quali la anoressia nervosa, il disturbo di dismorfismo corporeo.

Se egli non viene aiutato a riassociare i suoi processi mentali attraverso la riscoperta della dimensione affettiva, può aprirsi verso forme capricciose ed astiose rivolte verso altri e connesse ad un ripiegamento ed ad un ritiro verso il sé, con esiti di anoressia mentale. Il rifiuto dell’altro che non lo comprende e lo squalifica è il messaggio nascosto nel disgusto verso il cibo “guasto” con cui l’altro lo nutre. Egli si sente oggetto di un amore sbagliato che non lo considera nelle sue qualità e non si modula a seconda delle sue esigenze. Di conseguenza, rifiuta capricciosamente tale amore rifiutando di nutrire se stesso, oggetto di un amore non appropriato. “Mia madre mi nutre come se io non fossi io ma quella che lei dice che io sono. Dunque se io soffro perché non mangio riesco a far soffrire mia madre nel vedermi soffrire ed almeno la sofferenza è davvero vera!”

Il delirante è esposto a tali situazioni di grande disagio per il suo desiderio di libertà dalla dipendenza di qualcuno (dalla madre o dalla famiglia) e può accadere in lui un processo di pseudoindividuazione: cerca di dissociarsi per liberarsi ma in questa azione agisce sulla base di un copione di allontanamento solo apparente. Per liberarsi dalla dipendenza dalla madre o dalla famiglia cerca di costruirsi una relazione di coppia che, però, puntualmente fa entrare nella famiglia d'origine. Per potersi “liberare” si fidanza e porta il fidanzato ufficialmente in casa come parte accettata ed integrante della famiglia da cui si vuole liberare. Oppure, per potersi sentire libero, mette in atto comportamenti stravaganti o antagonisti che lo conducono al conflitto con la cultura originaria famigliare, alla quale si oppone solo per essere diverso e non per scegliere autonomamente i valori in cui credere.

Questa differenziazione “capricciosa” lo allontana dalla vera autonomia, lo rende selettivo nelle scelte e instabile nei comportamenti, perdendosi nella confusione e nella assoluta incertezza sulla sua identità.

Non gli è facile, senza un aiuto esterno, orientarsi tra gli esiti, spesso negativi, delle sue azioni poiché disprezza come sistemi di verifica anche quelli più oggettivi, legati al successo o insuccesso nelle iniziative. C’é sempre quel qualcosa in più che gli altri non considerano che gli consente di non mettere in discussione il suo modo di essere e di pensare. Il regno del fraintendimento e delle ambiguità gli spalanca le porte e con la sua superbia appaga la sua vanità.

 

Le risorse del delirante

Il delirante evoluto è un intelligente e creativo portatore di libertà e di ingegno. La sua evoluzione è essenzialmente legata alla capacità di vedere il mondo con gli occhi e non con la mente. Lo sforzo del delirante deve procedere nella direzione del senso di realtà appoggiando le sue congetture e le sue riflessioni su ciò esiste davvero nella sua vita e nelle persone intorno a lui, osservando i fatti e gli eventi. Per far ciò deve imparare l’umiltà; ovvero a guardare la terra su cui mette i piedi. Può essere fuorviante per lui la cosiddetta “concretezza” intesa come il calcolo razionale per perseguire scopi utilitaristici. Il delirante abbisogna di realtà e concretezza, non di razionalità, in specie se formale.

Se riesce ad applicare il suo pensiero alla realtà, accettandola per quello che è, non ha pari nel processo di interpretazione e di elaborazione di strategie di cambiamento. Egli individua con facilità tutte le relazioni compromesse nella dipendenza e nell’oppressione e sa riconoscere i piccoli e grandi giochi attuati per costringere lui ed altri nella dipendenza.

Deve però trovare la capacità di smascherarli apertamente senza ricorrere a qualche ulteriore intuizione che lo allontana ancor più dalla realtà. Se si lascia imbrigliare dalle logiche che egli stesso può produrre con il suo pensiero, finisce con il facilitare la squalifica da parte degli altri e la sua autosqualifica.    

Ma se non si gingilla più con le idee e i ragionamenti e la sua libera intelligenza è messa a disposizione della affettività, il delirante è l’innovatore originale ed acuto, lo scopritore di nuove vie che conducono le persone a vivere livelli di sempre maggiore libertà e consapevolezza. Libertà e consapevolezza si rinforzano vicendevolmente nel sé ed il delirante amplifica la sua autostima; anche la sua autostima può perdersi nell’inutile vanità (che è doppiamente inutile poiché senza conferme nel reale il delirante non ne gusta nemmeno il piacere), oppure essere donata a qualche invisibile per innescare in lui processi di liberazione dalla vergogna e dalla oppressione. Se un invisibile riceve un complimento da un delirante ricava una fortissima sensazione di importanza che può trasformarsi in emozione di accettazione di sé.

Già dai primi giochi mentali illogici descritti in precedenza e in cui il superbo si perde è possibile intravedere il processo di autentica follia che la superbia induce: il nucleo della superbia può essere sgretolato attraverso il benefico esercizio dell'umiltà, la quale graffia, ferisce e corrode il duro nucleo emotivo e razionale che imprigiona. Umiltà deriva da humus, terra, e rimanda al concetto di concretezza e di fatica nel legame con la realtà.

L'antidoto della superbia è infatti l’umiltà, l’accettazione della sconfitta e il perdono. Giacché il perdono è l'unico sentimento capace di contenere la superbia. Come il sentimento della superbia è sempre mosso dalla tensione di superare i limiti dentro cui il superbo si sente imprigionato (da altri, dal mondo, dalla natura, da Dio), allo stesso modo il perdono è paradossale e illogico. Il perdono rende necessario il superamento dei propri limiti. E se la superbia cerca di essere onnipotente senza riuscirci, il perdono può essere molto più grandioso, tanto da apparire follia.  Negli eventi psichici concreti il perdono verso gli altri è anche perdono verso se stessi; infatti perdonare significa rinunciare al senso di vendetta ruminante e sciogliere i grumi di tensione che si sono accumulati nella psiche. Significa fermare l'accrescersi del delirio ed aprirsi alla rassegnazione di fronte all'evidenza.

 

Storie di tipi

Federico, 8 anni. E' un bambino vivace e loquace. Parla molto correttamente e riesce a coinvolgere anche gli adulti nei suoi giochi spiegando molto correttamente e tecnicamente come sono fatti e come si gioca. Al punto che, se non conosci quel gioco, riesce a metterti in imbarazzo facendoti sentire un incapace. Intraprendente ed intelligente non riesce però ad accontentarsi di quello che è. Deve eccedere ed eccellere. Tende a stare sempre con gli adulti ed a seguire i loro discorsi, intervenendo ed interrompendo, a volte anche con pertinenza, discorsi molto più grandi di lui. Quando viene allontanato da qualcuno che, anche con dolcezza, gli chiede di andare a giocare con i cugini della sua età, ammutolisce, si allontana per tornare poco dopo con una interpretazione del motivo per cui è stato allontanato: "Mi hai mandato via perché non dovevo sentire che voi parlavate di..., ma io lo so benissimo e penso che...". Anche di fronte ad una risposta chiara ed esplicativa non si arrende. Può fermarsi solo di fronte ad una interlocuzione arguta ed inaspettata. Anche con la madre mantiene un atteggiamento di superiorità o, almeno di distacco, a tal punto che la madre è, da una parte, orgogliosa per un figlio così colto ed intelligente, ma, dall'altra, è anche in difficoltà a mostrare a lui il suo affetto. Eppure l'affetto sarebbe l'unica forza capace di dare a Federico quell'unità interna e quella certezza che gli è indispensabile per fermare la sua esasperata attività mentale. Il padre è invece molto soddisfatto dell'intraprendenza del figlio ed ha già programmato con cura il suo futuro, le scuole che farà ed il suo destino professionale. Critica le preoccupazione della moglie e ritiene che i problemi che solleva su Federico siano solo un esagerato gusto femminile per le smancerie e le sdolcinature.

 

Evelina, 70 anni. Sembra che il lei non ci sia uno spazio reale per i sentimenti. Eppure le persone che la conoscono considerano normale e comune il rapporto con lei. Vive in un piccolo paese con la figlia, il marito della figlia e due nipoti. Ha le sue abitudini (la spesa, le amiche, la Messa, qualche gita, il cimitero), si occupa di tutte le cose di casa dalle pulizie all'organizzazione del pranzo e della cena, con routine da cui non deborda. Il suo modo di fare e di essere non può essere all'apparenza criticato da nessuno eppure produce grande sofferenza psichica nelle persone che convivono con lei. Anche se per i suoi famigliari è molto difficile spiegare il perché. E questa condizione di crisi interna alla famiglia si perpetua da anni conducendo la figlia dapprima ad una crisi coniugale e poi ad una lacerante dispersione di identità: si autoattribuisce la colpa del fallimento della sua vita, cerca ripetutamente percorsi di uscita e di cambiamento ma, tutte le volte, torna al punto di partenza: a vivere con la madre. "Mi sento in colpa perché non riesco ad amarla, eppure lei non mi ha mai fatto niente!" dice la figlia lasciando così intravedere il processo delirante nella madre. Evelina è imprigionata nel distacco emotivo da tutto, se stessa compresa. Sono ricorrenti in lei quattro modalità: 1) qualunque evento viene banalizzato e reso privo di sapore, con una stupidità demenziale che annichilisce sia la figlia che le altre persone intorno a lei; 2) non esce dal percorso della sua logica e dei suoi ragionamenti che esprime, dapprima parlando tra sé e sé e poi interrompendo qualunque discorso o situazione; 3) non accetta il dialogo su nulla, pur facendo finta di essere disponibile a qualunque riflessione e discussione; 4) segue un programma quotidiano di dispiegamento di oggetti, di stoviglie, di panni producendo un enorme disordine che poi fronteggia con una grande quantità di lavoro per rimettere a posto; di fatto impedisce qualunque forma di collaborazione con lei.

E' costantemente alla ricerca del "distacco" da tutto perché qualunque emozione di attaccamento è pericolosa e sconveniente. Tanto che sembra non possedere alcuna vita interiore se non ciò che misteriosamente nasconde nel suo ricorrente borbottio. Il suo distacco e il suo sacrificio quotidiano la rendono però inossidabile ed inattaccabile impedendo a chi vive con lei un contatto emotivo ed affettivo e ciò la rinforza nel distanziamento ed annichilisce chi vive nel suo contesto.

 

L.M., 44 anni, figlia unica di un ufficiale dell'esercito di alto lignaggio, ha manifestato fin dall'infanzia disturbi di tipo anoressico; nel senso che più volte è caduta in periodi di anoressia e bulimia oscillando tra il rifiuto del cibo e la fame insaziabile. La squalifica del padre (che desiderava un figlio maschio) nei confronti della figlia è stata ripetutamente interpretata come l'origine del capriccio autodistruttivo della anoressia finalizzata a ferire il padre. Il padre, peraltro, dichiarava in concomitanza con il ciclo anoressico della figlia il dispiacere per non essere riuscito ad accettare l'idea di avere una sola figlia femmina ed il dispiacere di non essere riuscito a non mostrare tale dispiacere alla figlia. La bulimia invece appariva come controciclo della anoressia e era interpretata come meccanismo compulsivo scatenato dal volere a tutti i costi ferire il padre nel suo rigore igienista. L.M. cresce tra queste oscillazioni senza costruirsi un equilibrio interiore stabile. La madre sta sullo sfondo, apaticamente, a confermare trama ed effetto delle squalifiche paterne e non sarà mai nemmeno lambita da alcuna forma di rimorso per non aver dato alla figlia l'affetto di cui aveva bisogno. A diciannove anni, mentre frequenta Economia e Commercio, vive una intensa relazione amorosa con un chitarrista di un affermato complesso. Lui, persona semplice e molto armoniosa, è sinceramente innamorato, lei entra in conflitto con se stessa. Inizia ad interrogarsi sul possibilità che tale amore non sia reale ma un gioco che una parte di lei sta conducendo contro l'immagine del padre. Il fatto poi che il padre non sia particolarmente sfavorevole verso il giovane la induce a pensare di essere vittima di congiura. Rompe con il giovane chitarrista in modo teatrale e violento tagliando completamente i rapporti. Subito dopo scopre di essere in cinta. Decide di portare avanti da sola la gravidanza e da alla luce un figlio maschio. Emerge in lei una iperazionalità molto efficiente: accetta il corteggiamento di un assistente universitario della facoltà in cui studia con il quale, dopo poco tempo, si sposa e da cui avrà altri due figli: una femmina ed un maschio. Finisce il suo percorso di studi e inizia la professione nella quale ottiene grandi successi ed affermazioni personali. Tutti e tre i figli manifestano segnali più o meno acuti di schizofrenia.

 

Il primogenito T.P., 24 anni, è dalla madre sempre considerato il mistero della sua vita ed è oggetto della sua tensione innamorante e morbosa che, a tratti, sfocia nella rabbia. Ben presto si ribella e non accetta la posizione in cui la madre lo ha messo. Ha un rapporto di squalifica nei confronti del suo padre adottivo che sminuisce sempre nel confronto con il padre vero mai conosciuto e quindi idealizzato. Si allontana da casa a 18 anni ed inizia ad assumere droga. Entrerà in comunità dopo tre anni di emarginazione dura. Vincerà il suo conflitto più profondo solo quando, tornato in verifica a casa ed incontrata una situazione devastata e devastante, si arrenderà al fatto di non poterci fare nulla e deciderà di rientrare subito in comunità. Infatti le sue tensioni riguardavano sia i sensi di colpa per essere stato cattivo esempio per i fratelli (iniziati da T.P. all'uso di droga) sia la sensazione onnipotente di essere l'unico a poter riaggiustare la situazione famigliare. Con molta più umiltà oggi, dopo aver ultimato il programma di recupero, ha scelto di non vivere con la famiglia ma presso un lontano parente e si è proposto come supporto esterno alla tragica situazione famigliare.

 

C.P., 22 anni, è quella che ha sofferto e soffre maggiormente. Probabilmente la madre ha cercato di identificarsi in lei ed ha trasmesso la angoscia delle sue oscillazioni. Il primogenito era figlio del sogno e del capriccio, l'ultimogenito era figlio del senso del dovere e del successo sociale. La figlia è per la madre l'oggettivazione delle sue  contraddizioni da dirimere attraverso la ricerca di autodefinizione di sé per differenziarsi dalla figlia. La schizofrenia di C.P. si manifesta all'improvviso dopo la assunzione ripetuta di hascisc. Il linguaggio diventa incoerente, comincia a recitare molte parti: a volte vuol dichiarare che tutta la casa è una vergogna e comincia a rovesciare per terra il secchio dell’immondizia, a volte inizia ad essere distruttiva nei confronti del lavoro della madre giungendo anche a danneggiarla seriamente, a volte si comporta come una ballerina vista in TV dentro il cui personaggio è entrata, e in molte altre espressioni senza senso. Un miglioramento attuale sta manifestandosi da quando il fratello maggiore, intuendo questo suo personaggio di ballerina, ha iniziato un gioco di complimenti con lei assecondando questo personaggio. A tale rapporto ella, dapprima ha reagito violentemente dichiarando: "Quello che dici è giusto, ma non mi piace come lo dici!", poi ha accettato di essere ammansita. Ora c'è un sentimento di base tra i due che può forse far scaturire qualche forma di comprensione e di equilibrio.

 

A.T., 19 anni, il più scosso di tutti. Fragile e senza capacità di difesa ha subito tutte le contraddizioni della sua famiglia e si chiuso dentro il suo mondo. Anche lui interpreta la realtà secondo schemi di senso totalmente soggettivi. Continua da anni a ripetere di essere un figlio adottivo e non ha mai modificato tale convinzione anche di fronte alle evidenze. Anzi, proprio a seguito delle insistenti tentativi di convincimento da parte del padre, ha dichiarato di essere vittima di una congiura di tutti che non vogliono fargli incontrare i veri genitori. Ha messo in atto un processo di invidia nei confronti del primogenito. "Tu almeno sai di chi sei figlio anche se non hai mai conosciuto tuo padre !", gli dichiara ed inizia un conflitto tagliente e feroce, distruttivo e mirato a danneggiare le cose che il per il fratello maggiore sono più care. Quando scopre che la madre è oggetto di attenzione e di amore da parte del fratello maggiore inizia sistematicamente a farle del male nella convinzione che sia l'unico modo per diminuire il fratello. La tensione familiare diventa insopportabile fino a quando il fratello maggiore entra in comunità. A quel punto si placa perché ha la convinzione di averlo vinto ed eliminato. Fa comunque la guardia alla madre ed alla casa che cerca di trasformare in un fortino inespugnabile: convince tutti della necessità di dotare l'appartamento di serrature di sicurezza, porte blindate, antifurto elettronici sofisticati, etc. Controlla le telefonate che il fratello maggiore fa ogni settimana dalla comunità ed impedisce alla madre di andarlo a trovare per un intero anno. Questa assenza di frequentazione sarà comunque positiva per il fratello maggiore che intanto, lentamente, ritrova il suo equilibrio e l'impedimento a rientrare a casa in verifica sarà utile per fermare la sua riemergente onnipotenza. Solo quando sarà convinto di aver vinto, grazie all'umiliazione subita da T.P., A.T. abbasserà le difese e l'incontro tra i due diventerà possibile. La carica esistenziale e la capacità di perdono di cui il fratello maggiore è dotato al momento della sua uscita dalla comunità lo fanno apparire agli occhi del fratello minore sempre invidiabile ma in qualche modo emulabile. Da qualche mese è entrato in una comunità per psicotici dove attualmente risiede.

 

Un paziente schizofrenico

"L'analisi di un incidente accaduto tra un paziente schizofrenico e sua madre può illustrare la situazione di doppio vincolo. Un giovanotto che si era abbastanza ben rimesso da un accesso di schizofrenia ricevette in ospedale una visita di sua madre. Contento di vederla le mise d'impulso il braccio sulle spalle, al che ella si irrigidì. Egli ritrasse le braccia e la madre gli domandò: "Non mi vuoi più bene?". Il ragazzo arrossì, e la madre disse ancora: "Caro, non devi provare così facilmente imbarazzo e paura dei tuoi sentimenti". Il paziente non poté stare con la madre che per pochi minuti ancora e, dopo la sua partenza, aggredì un inserviente e fu messo nel bagno freddo" (Gregory Bateson, 1976, p.262)

Il doppio vincolo impedisce al soggetto di operare una chiarificazione anche polemica con la madre, di cui però ha colto distintamente il vissuto che non è conforme alle sue aspettative ma non è nemmeno distintamente difforme. Egli non è né accettato né rifiutato nel suo gesto; viene negato il senso del gesto (disconfermato) e viene anche negata la possibilità di scoprire la disconferma. Al paziente sembra negata la possibilità di accertare la verità circa il proprio vissuto. Egli è prigioniero della sofferenza e nella impossibilità di ribaltare la sua posizione facendo chiarezza il motivo. Il sentimento interiore che rende impossibile la chiarezza è l'orgoglio. Quel paziente è soprattutto prigioniero di un capriccio senza fine contro la madre che è diversa da come lui la vorrebbe ma non riesce, e non vuole, dirle la ragione di questa differenza. Anche perché la madre vive un analogo sentimento di superbia tanto che non prende nemmeno in considerazione l'ipotesi di commettere errori.

La tensione cognitiva dello schizofrenico lo porta a salire senza tener conto dell’esperienza “fino ad un particolare gradino della scala dei problemi umani, sul quale poi restano fissati. L’altezza implicata da questo salire...non ha alcun rapporto con l’esperienza...non si tratta solo dell’impossibilità di procedere ulteriormente nell’esperienza, ma piuttosto dello strettissimo legame e della soggezione a un determinato livello o gradino della problematica umana. L’ordine di altezza umana diviene quindi fondamentalmente sbagliato ed una particolare idea o ideologia diventa fissata ovvero assolutizzata: se si fanno ancora delle esperienze esse non vengono più valorizzate ed utilizzate perché il loro valore è ormai rigidamente determinato” (Binswanger, 1952, p.351).

 

4. Lo sballone

 

Lo sballone

Il disagio: l'insaziabilità emozionale, lo sballo, la ricerca di piacere, del superficiale e dell'effimero, l'edonismo, la lussuria, le nuove droghe sintetiche, il narcisismo, il vuoto esistenziale, l'angoscia, l'isteria

Le risorse: l'attrazione verso l'altro, la fusionalità, lo slancio del sé, la tolleranza, la generosità.

Il generoso

 

 

Il piacere

La percezione delle sensazioni del piacere è concessa solo a chi riesce a “lasciarsi andare” a godere i diversi gusti della vita. Maggiore è il controllo e l’autocontrollo, minori sono le sensazioni di piacere percepite.

Il piacere si svolge lungo diverse curve d'intensità e durata, a seconda della sua qualità e del suo ambito psicofisico ed entra in contatto con il sé attraverso le porte dei cinque sensi. Ben diverso è il processo di piacere di una lunga nuotata in acque fresche e riposanti, dall’ebbrezza di un profumo primaverile che colpisce all’improvviso il nostro olfatto. Le diverse durate e intensità variano dalla repentina sorpresa invasiva del profumo al prolungato ascolto attivo della fatica muscolare, mitigata dalla freschezza dell’acqua e dalla soddisfazione del galleggiamento in una azione ripetuta e partecipata come le diverse bracciate del nuoto.

Ma, a ben vedere, in questi due processi di piacere manca qualcosa; è possibile comprenderne gli effetti di sensazione ma nel pensare al formarsi dell’emozione inerente tali piaceri, l’assenza dell’”altro” come testimone e partecipe rende incompiuto il processo. Non è possibile che si formi l’emozione se intorno alla sensazione non è contemporaneamente attuato un minimo evento di condivisione, seppur simbolica.

L’emozione, ovvero la piena consapevolezza della sensazione all’interno della coscienza, acquista una sua vita propria solo se è stata riflettuta anche in un altro sé, diverso dal nostro. Uscendo dall’acqua dopo la nuotata riusciamo a definire con completezza l'emozione solo quando ci rallegriamo con soddisfazione e vanteria con i nostri amici che ci aspettano sulla spiaggia e possiamo rituffarci con la pienezza emozionale di una sensazione divenuta partecipata. Ed ora possiamo anche ripensare alla nostra prima nuotata ed alla emozione in essa vissuta come ad un momento in cui la partecipazione era determinata dal pensiero della presenza dei nostri amici in attesa sulla spiaggia o di qualche nostro amico presente con noi lo scorso anno (presenza simbolica).

La pienezza del vissuto emozionale è infatti dato dalla presenza altrui con cui si empatizza l’effetto nel sé della sensazione.

Non c’è emozione di piacere in assenza di un altro reale o simbolico che la viva con noi o si accorga che noi la viviamo. Ciò che si ha in assenza dell’altro è la sola sensazione del piacere e vedremo come sia proprio questo l’origine dei processi di perversione. C’è una sola possibilità di formazione dell’emozione in assenza dell’”altro”: il misticismo. L’emozione mistica è la condivisione del piacere con Dio. La consapevolezza della sua “alterità” da noi è conseguenza della piena accettazione del nostro sé, dell’accertamento dell’esistenza del sé negli altri e della ricognizione delle emozioni e dei sentimenti nell'Uomo fino ai loro confini: il che equivale alla restituzione delle emozioni e dei sentimenti a Dio. Ciascun essere umano possiede un “immaginario” di Dio, di cui raramente arriva a discutere con altri perché una relazione trascendente non può essere descritta in un linguaggio formale. La coscienza del sé procede attraverso la progressiva costruzione di immaginari simbolici nella direzione della trascendenza, a partire dalla condivisione delle sensazioni con un altro uomo, con gli altri uomini, con l’altro generalizzato, con la condivisione della condizione umana con gli altri contemporanei e con gli altri appartenenti a generazioni passate. Verso l’approdo dell’emozione del piacere nel leggero brivido della carezza del vento vissuta come una carezza della Sua mano. L'educazione alla sensibilità emozionale non può prescindere da una riflessione sul senso della fusione emotiva con l'altro; ove essa resti nelle dimensioni corporee e mentali rimane una fusione effimera, a volte isterica o angosciante. Per evitare tali disagi accade che la fusione col vissuto altrui venga evitata, inibita, controllata e, ove comunque accada, il suo ricordo prontamente rimosso. Il confine della fusione è lo spirito, quel contatto tra anime che rende piena la comprensione del vissuto empatizzato e che rende certa l'unipatia. Sul piano spirituale non è possibile però applicare le regole della psicologia ed è necessario astenersi da indicazioni a volte ovvie e inutili; almeno fino a quando la ricerca psicologica e spirituale non avranno compiutamente definito i confini tra anima e psiche, il loro specifico e rispettivo funzionamento e le loro proprietà.  

Ciò che è lecito affermare sul piano psicologico è che, ove le sensazioni siano gestite egocentricamente, conducono a perversioni del processo di piacere. Prive del riscontro nell’altro, le sensazioni non entrano compiutamente nella coscienza e si volatilizzano senza acquisire il valore di emozione. La sensazione del piacere è tra le prime ad essere sperimentata, ma tra le ultime ad essere integrata nel sé. Vi sono uomini che nell’arco della loro intera vita non riescono a pervenire ad una soddisfacente esperienza del piacere, poiché resistono alla trasformazione delle sensazioni in emozioni e, contemporaneamente, ricercano sensazioni sempre più forti. L'emozione è per loro del tutto effimera tanto che, per rinforzarla, hanno bisogno di altre sensazioni che la sorreggano.

Quando il processo di separazione-differenziazione dalla madre si è presentato problematico l’appagamento emozionale non riesce ad essere pieno. Più le contraddizioni nel vissuto di piacere sono acute, più si manifestano oscillazioni nella direzione dell’isteria o nella direzione dell’angoscia.

La fusionalità intrauterina e dei primi mesi di vita precede la coscienza del sé che si forma appunto nel processo di differenziazione; il piacere delle sensazioni vissute nelle fasi della vita precedenti alla coscienza fa parte del bagaglio di conoscenze archetipe dell’uomo ed è la sede delle nostre certezze affettive empatizzate. Il piacere di succhiarsi un dito (o il ciuccio) è ovviamente un piacere vicario rispetto al seno, ma è pur sempre un piacere in sé e non necessariamente un imbroglio. Il bimbo succhia il ciuccio e ne trae piacere perché ha precedentemente ricavato una alta sensazione di piacere dal seno della madre ed ha empatizzato con lei un piacere in reciprocità. Dall’iniziale accertamento della sensazione di piacere il bimbo si è andato progressivamente evolvendo e differenziando dalla fusionalità con la madre ed ha progressivamente trasformato in emozione piena la precedente sensazione di piacere nel succhiare il seno. La sensazione di piacere è divenuta emozione di piacere perché il bimbo ha percepito l’emozione di piacere della madre nel sentirlo succhiare e nel sentire che lui aveva piacere nel succhiare. Ed ecco che l’emozione diventa coscienza poiché il bimbo avverte che è proprio lui (è il lui che risiede nel suo sé) a sperimentare la sensazione di piacere nel succhiare.

Per rendere più chiara la comprensione di questo processo di coscienza intensa basta paragonarlo a quanto viene sperimentato come “vivido presente” anche nella vita adulta di molti uomini in occasioni particolari: l’intensità emozionale nel corso di un incidente (quando il tempo sembra rallentarsi), un particolare episodio di gioia o di incantamento, la percezione di una notizia che ci riguarda personalmente (il professore che ci chiama per interrogarci, un telegramma ci informa della vincita ad un concorso, un presentatore televisivo ci interpella per intervistarci). La sensazione di sorpresa diventa emozione vissuta nel dirsi: “Sta chiamando proprio me?”.

La possibilità di vivere il piacere nelle diverse esperienze della vita è strettamente collegato alla coscienza di sé: se le sensazioni di piacere sono rimaste limitate e contenute in quel mondo esclusivo del duo madre/figlio, la possibilità di por fine alla fusionalità e trasformare la sensazione in un'emozione cosciente e condivisa sarà in gran parte preclusa. Le sensazioni del piacere confineranno sempre con l’angoscia come minaccia di separazione e di fine della fusionalità.

La separazione problematica si esprime a volte addirittura con sintomi isterici. L’insieme di stati crepuscolari, sfoghi affettivi, crisi di pianto o di grida sempre in presenza d'altre persone, con cui si descrive l’isteria, sono metafore del tentativo di liberarsi dalla possessione da parte dell’altro o di ritornare ad essere un tutt'uno o cancellare gli atti che hanno prodotto la separazione. Affinché nuovamente si verifichi la fusione desiderata con l'altro o accanitamente sfuggita e la sua verità sia finalmente confermata da un testimone. La crisi isterica è sempre in presenza di qualcuno che rappresenta l’altro da cui ci si vuole separare o il testimone che si vuole informi o il sé o l'altro. Stati isterici acuti conducono ad una sorta di pseudodemenza, a somatizzazioni fisiche come la cecità, l’anestesia, il tremore, la paralisi, i tic nervosi e diversi disturbi della motricità, come il camminare lentamente e non saper stare in piedi. Tutti questi sintomi rivestono il ruolo di tentativi vicari di fusionalità - separazione. La prevalenza della fusionalità non consente di vivere il piacere in altre relazioni e la sua persistenza porta a convertire la separazione impossibile in isteria.

L’angoscia, al contrario, è conseguente ad una separazione subita e problematica, nelle sue forme comuni non patologiche si esprime come incertezza, pessimismo, paura del futuro. E’, ad esempio, angosciante in senso proprio il pensiero che possano essere pregiudicati i propri punti di appoggio, l’eccessivo timore della disapprovazione nei rapporti interpersonali o quello stato d'animo in cui “si vede tutto nero". L'angoscia può essere ben rappresentata dalla seguente metafora: una torcia elettrica che, invece di far luce, getta un fascio di buio su tutte le cose verso cui è puntata.

 

Il disagio dello sballone

Lo sballone vive una forte attrazione verso il piacere che sa gustare con sensibilità emozionale intensa; cerca di sperimentare le sensazioni più forti nei confronti di tutto ciò che vive per saziarsi di un sapore finalmente appagante. Ma non è mai pago. Ama la sorpresa e insegue la fantasia di realizzare finalmente ciò che sente dentro di sé e che sempre gli sfugge. La sua ricerca di intensità è applicata ad ogni ambito della vita: da se stesso, dai suoi ricordi, dalla sua immaginazione, dalla sua autopercezione corporea e psichica, alle altre persone con cui condivide momenti effusivi e fusionali, fino alle sensazioni che gli vengono date dal mondo. E quando le serate finiscono, quando la sensazione di piacere si attenua o scompare, quando non è possibile inventare una situazione nuova che faccia risalire l’euforia, lo sballone cade nella malinconia manifestando oscillazioni esagerate nell’umore e nel comportamento.

Allora lo sballone può scivolare verso stati patologici quali l'isteria, i disturbi sessuali e dell'identità di genere, il disturbo istrionico di personalità, i disturbi da sonnambulismo e i disturbi di enuresi.

Lo sballone non sa costruire strategie per dare corpo alle sue sensazioni, anzi è infastidito dall’idea che qualche calcolo possa far diminuire quella estemporaneità delle sensazioni che, secondo lui, è la spontaneità. Non sa riconoscere che una persona generosa è “spontaneamente” generosa ed una persona invidiosa è “spontaneamente” tagliente; per lui la spontaneità è quel valore estetico assoluto in sé, attraverso cui attua un rapporto personale con il mondo e con gli altri. Insegue con affanno una naturalità in cui romanticamente perdersi ed, alla fine, ne percepisce più l’aspetto triste e malinconico di quello magico ed euforizzante. “E naufragar m’è dolce in questo mare” è per lo sballone un manifesto di vita che lo conduce alla ricerca di esperienze assolutamente personali e irripetibili, nelle quali, però, non trova stabilità proprio in ragione del fatto che esse sono personali e irripetibili. Lo sballone ha bisogno di costruirsi un concreto percorso di responsabilità per pervenire a quella pienezza emozionale che cerca. Solo il massimo di attenzione e cura nel costruire i vissuti emozionali potrà dare a lui la certezza di quella condivisione che desidera ed, al contempo, fugge.

Lo sballone si manifesta spesso come giocherellone che non prende sul serio alcuna responsabilità. Eppure nella parola responsabilità c’è l’antidoto allo sballo, all'inconsistenza, alla volubilità, all'incoerenza, ai sogni e al disordine. Lo sballone ha bisogno di purificarsi, diventare semplice e scoprire di essere amato non solo per quello che finge di essere, incantando le persone ma per quello che è e che fa. Il valore della responsabilità conduce a questo. Assumersi la responsabilità di un lavoro per qualcuno o assumersi la responsabilità di qualcuno che ha bisogno conduce alla interiore sensazione di essere importanti per qualcuno.

“Nell’orizzonte culturale ed esistenziale di molti giovani, scrive Giancarlo Milanesi (1994), [la vita appare] come ricerca del piacere, dell’avventura, dell’eccitazione e della novità. Questo sistema di valori è presente in giovani che danno una estrema importanza alla vita eccitante, stimolante, variegata e con molte novità, al piacere, alla gratificazione dei desideri ed al godimento attraverso il sesso e il cibo, all’audacia, all’avventura e anche alla creatività. Si tratta di un tipo di giovani che hanno assimilato i modelli edonistico - consumistici [...] e che hanno bisogno di continue stimolazioni, eccitazioni e novità per trovare la felicità - piacere nella vita".

Il problema centrale dello sballone è il superamento della fusionalità attuabile solo se anche la fusionalità diventa un'emozione e non una semplice sensazione. Il piacere dell’unipatia (ovvero del comune e concorde sentire un'emozione) è esso stesso emozione intensa e appagante, pur se occasionale e fuggevole. L’unipatia sostiene e rinforza le emozioni condivise e costituisce un particolare piacere del vivere. Lo sballone cerca l’unipatia senza riuscire a gustarla poiché teme che, al suo scemare, faccia comparsa la terribile angoscia costitutiva del suo copione. Non sa gestire le emozioni poiché è prigioniero delle sensazioni: non gli è stata consentita l’evoluzione verso l’accertamento di sé mediante piena esperienza dell’emozione. Non sa difendersi dalle sensazioni negative rielaborandole e infine vive male anche le sensazioni positive perché la loro fine fa venire a galla il suo profondo vuoto esistenziale.

 

Le risorse dello sballone

Senza ombra di dubbio lo sballone sa slanciarsi ed accendersi nelle sensazioni della vita. Il suo è il copione che muove forti energie emotive e che conduce a vivere la più ampia possibilità di piacere.

Lo sballone evoluto, che ha saputo contrastare con efficacia la tendenza all’incoerenza ed all’improvvisazione e che ha saputo acquistare un comportamento responsabile, è una persona che sa generosamente regalare emozioni e sentimenti.

E’ un grande animatore, poeta e musicista. Sa toccare le corde dei sentimenti e sa trasportare nel suo slancio d’amore le persone più chiuse e fragili. Così come è estremamente pericoloso per le sue doti seduttive se è ancora involuto nel copione negativo, è estremamente prezioso per la costruzione di climi relazionali improntati alla tenerezza ed alla amicalità. Riesce immediatamente simpatico e produce la disposizione alle relazioni anche nei soggetti più difficili da avvicinare: la sua capacità di cogliere il fascino in ciascuna persona gli consente di aprire alla scoperta della parte migliore di sé tutti coloro che si coinvolgono emotivamente con lui.

 

Storie di tipi

Emiliana ha 25 mesi. E' molto socievole e condivide volentieri i suoi giocattoli con altri bambini. Di contro è portata ad usare liberamente i loro, capita così che qualcuno si arrabbi, la spintoni o le tiri i capelli. Le maestre dell'asilo intervengono spesso per dare indicazioni del tipo "Lascialo è suo! riprenditelo è tuo!" ma Emiliana non stabilisce mai confini di spazio e di proprietà. Non difende mai i suoi giochi, ma non si trattiene dal prendere i giochi degli altri

La madre racconta che Emiliana la preoccupa perché vuole vestirsi da sola facendole perdere molto tempo e vuole sempre scegliere lei cosa indossare ammirandosi davanti allo specchio. “Utilizza i miei trucchi” dice la madre “e riesce persino a farseli prestare dalle mie amiche a cui non ho il coraggio di dire di negarglieli anche se Emiliana esagera. Inoltre fatica ad addormentarsi, ha paura del buio e teme che il giorno finisca. Alla sera vuole sempre stare sveglia e non andare mai a letto anche se, per la stanchezza diventa insofferente e piagnucolosa. Riesco ad addormentarla solo con molte coccole e consentendole di tenere con se pelouche di ogni tipo, anche se ho l’impressione che si addormenti solo quando tocca i miei capelli.

Mi dice di sentire nelle mani una sensazione fresca e liscia che le dà piacere e dunque si addormenta. Devo confessare che sono diventata molto apprensiva nei suoi confronti dopo che un incidente alla figlia della vicina di casa ha sconvolto l'intero vicinato. Da allora ho paura di perderla di vista e spesso, mentre corre e salta come gli altri bambini, corro a riprenderla interrompendola, come dice lei, sempre sul più bello.”

 

R.T., 28 anni, dall'età di un anno ha sempre vissuto con i nonni paterni, dai quali è stato spesso manipolato ed usato come domestico. A 16 anni abbandona i nonni e, poco dopo, inizia a lavorare come marinaio. Successivamente si imbarcherà anche per lunghi viaggi. Inizia a far uso di marijuana a bordo e ne diventa consumatore abituale. Solo dopo alcuni anni diventa eroinomane. Non si imbarca più e frequenta ambienti di malavita; la sua disinvoltura nei rapporti con le donne lo conducono in breve tempo ad avere alcune prostitute che lavorano per lui. Sul piano sessuale è sempre alla ricerca del nuovo e dell'eccitante che gestisce attraverso il consumo di droghe. Verrà arrestato e, dopo una lunga crisi esistenziale in carcere, approderà alla comunità. Si descrive: "Sono portato a dare confidenza alla persone anche se non le conosco bene. Ho bisogno di trovare calore umano e condivisione e nello stesso tempo ho paura di affezionarmi troppo. Sono sempre stato un grande bugiardo ma più per vanteria che per difesa. Ho raccontato storie su di me inventandole così bene che ho finito per crederci anch'io. Al punto che non so più quali sono vere e quali sono inventate. R.T. evidenzierà solo dopo molto tempo la radice psicologica del narcisismo che lo porta ad atteggiamenti estetizzanti. Uno dei passaggi più importanti avviene in comunità quando viene a lui affidata la responsabilità dell'ordine della casa. Nella sua vita egli aveva sempre teorizzato il disordine come elemento creativo e nutriva grande antipatia per le persone ordinate, considerandole autoritarie e oppressive. Scopre, quasi all'improvviso, la bellezza di un luogo ordinato e pulito sentendosi finalmente a "casa sua ", quella casa che non ha mai avuto. Per un lungo periodo passa all'eccesso opposto e diventa insopportabile chiedendo una attenzione esagerata all'ordine. Tale periodo lo aiuta; scopre che più una realtà è adornata, più è difficile da mantenere pulita ed ordinata ed applica questo principio anche a se stesso. Diventa più essenziale anche nel vestire, nel parlare e nel gesticolare mostrandosi contenuto, quasi contratto. Attraverso questo esercizio lentamente si purifica dalla sue tensioni e coglie la dimensione estetica della semplicità.

 

F.G., 25 anni, vive con una madre innamorata di lui. Vivono in una grande sintonia di emozioni: "sentiamo allo stesso modo gli odori, i sapori, abbiamo sempre avuto la stessa sensibilità", dice la madre che si bea nel solo guardare il figlio. La storia di droga di F.G. nasce a scuola con alcuni spinelli e poi passa all'eroina. La madre sa benissimo che il figlio si buca ma non lo vuole ammettere né a se stessa, né al figlio; tantomeno accetta di vedere la realtà del suo comportamento anomalo, perché il figlio è la ragione della sua vita, la conferma di se stessa più grande che ella possa mai sperimentare. Il figlio sa benissimo, nel profondo della sua coscienza, che la madre sa che lui si droga, ma lo nega, prima alla madre ("per tranquillizzarla", dice tra sé e sé), poi a se stesso ("non è possibile che lei si possa accorgere del fatto che io uso droga"). Tra i due prosegue un'intensa complicità di protezione e la verità viene messa costantemente da parte. La complicità tra i due si incrementa ed anche quando il figlio entrerà in comunità la madre arriverà a portargli clandestinamente la droga anche li. Quel momento sarà però il punto critico di ribaltamento di tutta la loro relazione perché il figlio rifiuterà l'eroina e comincerà a rileggere l'intera storia del loro rapporto esplicitandolo alla madre. Le racconterà, nei colloqui di confronto successivi, anche le sue esperienze omosessuali, che costituiranno un forte deterrente per la madre, o per paura o per meccanismi di gelosia, nell'astenersi dal perpetuare un rapporto invischiante.

 

T.T. è una ragazza di 22 anni che frequenta discoteche e casualmente entra in un rave party, una festa organizzata a base di Acid-House Music. "Ne avevo sentito parlare moltissimo poiché mio fratello vi partecipava sistematicamente tutti i fine settimana ed aveva avuto l'indicazione del luogo dove si sarebbe tenuto il party quella sera. La discoteca pullulava di persone, sembravano formiche a velocità accelerata, tute dai colori più vivaci, occhiali, cappelli, scarpe ed ogni altro accessorio di una stranezza estrema. Proprio in quell'istante un ragazzo viene fuori da una porticina cadendo in avanti senza nessuna volontà di proteggersi il volto; un altro ragazzo lo aiuta a rialzarsi. Rimango impalata come una statua e lo vedo rialzarsi ed iniziare a muoversi con movimenti blandi ma ritmati; stava ballando i toni bassi della musica house che, quando il volume è molto alto ti battono dentro come fa il tuo cuore. I suoi occhi mi fissavano, mi sorridevano intensamente, ma la sua felicità euforica era finta, prodotta artificialmente. Era molto sudato ed i capelli erano appiccicati alla fronte in modo da farlo sembrare un cucciolo il cui pelo bagnato fa intravedere le sembianze del suo corpo. Così la sua testa mi si rivelava in tutta la sua tondità. Cosa c'era in quella testa? Sicuramente qualche cellula nervosa se l'era giocata per il resto della sua vita; per godere di una notte magica quel ragazzo si era preso. Il suo corpo infatti continuava a muoversi automaticamente, indipendentemente dal suo cervello, sembrava come quando si muore per una potentissima scossa elettrica ed il corpo si muove freneticamente per alcuni istanti dopo che la scossa è terminata. Il suo cervello in quel momento era inattivo, completamente in balia della sostanza. Ma qualche ora prima aveva funzionato; e chissà quali sono state le tappe che aveva seguito per arrivare in quel punto dove si trovava ora? Cosa aveva pensato nel momento in cui si era "calato" (così si dice in gergo per indicare il fatto di essersi preso un extasy) e cosa lo aveva spinto a calarsi? Vagava con lo sguardo vuoto di chi cerca nella folla imbestialita dal panico un volto, qualcuno, ma il terrore era lontano da lui, sicuramente era molto più vicino a me".

L'extasy è un'illusione e niente meglio delle illusioni riesce ad impadronirsi di noi, cioè a guidarci completamente; illuso di essere felice, di vivere quell'intenso attimo di vita, quel ragazzo era come se si fosse fermato nel tempo, non era suo quel momento, lo aveva regalato ad una pasticca”

 

S.R., 16 anni, muore suicida lasciandosi cadere dal balcone di casa sua dopo aver preso in braccio il suo gattino. Nella ricerca fatta sulla sua vita non sono stati individuati particolari problemi di relazionali in famiglia, con amici o di andamento scolastico e tantomeno disturbi di ordine psicologico o psichiatrico. Le testimonianze su di lei la descrivono come fanatica della rock star Madonna, della quale imita il comportamento e la filosofia di vita. Inoltre riesce ad entrare profondamente nella mistica erotica della sua musica nella quale naviga per ore. Dopo uno studio di alcuni mesi l'ipotesi che ha maggior probabilità è che S. R. sia entrata nella musica che stava ascoltando e si sia calata in una specie di incantamento magico che le ha fatto scordare il senso della realtà e, senza rendersi conto del significato reale del suo gesto, si è lasciata cadere dal balcone come se lei fosse protagonista di un film.

 

5. L’apatico

 

L'apatico

I problemi: l'apatia, la pigrizia,  la fuga dagli impegni, la demotivazione, il parassitismo emozionale, l'astenia, la coscienza sonnolenta, l'oblio, l'eroina, il soggetto abulico, l'autoanestesia

Le risorse: la quiete, la capacità di fare calma,  il rilassamento,  i portatori di pace.

Il pacifico

 

La quiete

Nel mondo della vita biologica e psicologica la quiete non esiste. La quiete viene perseguita come situazione ideale di stabile rilassamento conseguente allo spegnimento delle tensioni. Intorno alla sensazione della quiete corrono grandi equivoci:

1) Solitamente si intende per quiete la cessazione delle attività e la scomparsa dei disturbi

2) L'associazione del riposo o del sonno con la quiete porta a fraintenderne il senso: il riposo consiste nel ritemprare l'organismo dalla stanchezza eliminando le tossine, il sonno è una situazione di diminuzione della coscienza vigilante e non è necessariamente quieto. Può essere agitato, profondo, leggero, etc.

3) Un'altra associazione equivoca è quella della quiete con la rimozione dei problemi e l'oblio. Non può manifestarsi nessuna forma di calma dimenticando le tensioni: la temporanea distrazione da esse non è quiete ma sovrapposizione di un vissuto piacevole ad un altro spiacevole che resta presente nel sé, pur se in secondo piano. Ove si cerchi di produrre oblio, assoluta perdita di contatto con il sé, il disincantamento e l'amnesia sono condizioni non stabili che prevedono o una lacerante riemersione nella realtà da parte della coscienza, o l'estenuante e progressivo vortice autoanestetico per riprodurre oblio. La quiete non è distacco e dimenticanza, al contrario è contatto e incantamento.  Non si giunge ad una autentica pace cancellando la realtà circostante o interiore ma assorbendo la quiete possibile dal mondo e dal sé. Dallo spegnimento delle attività mentali e corporee e dall'attenzione focalizzata su ciò che vi è di quieto si può provocare in se stessi un certo grado di rilassamento. Il training di rilassamento procede attraverso la percezione attenta del corpo, del sé e del mondo che conduce ad ascoltare, riconoscere e mettersi in sintonia con l'armonia biologica. Questo primo benessere che si avvicina alla quiete può però essere quasi immediatamente contaminato dall'emersione della propensione al piacere: in questo caso il "piacere delle quiete". Ma il piacere non è quieto; la percezione del piacere allontana immediatamente dalla quiete perché mette in moto la tensione desiderante di gustarlo, replicarlo e mantenerlo.

4)   A volte si pensa alla quiete come esito di una totale protezione: posso stare in pace perché nulla può turbarmi, giacché chi mi sta intorno ha sistemato ogni cosa e mi protegge. Nemmeno in questo caso si può parlare di quiete, semmai di sazietà affettiva per pienezza di attenzione ricevuta, di efficace controllo sugli eventi dislocato nelle funzioni di altri, di fiducia verso chi circonda, di sospensione temporanea della vigilanza ansiosa, di indifferenza nei confronti degli eventi possibili. La quiete è un'altra cosa.

La sensazione della quiete viene descritta in psicologia come prima differenziazione nel bimbo tra eccitazione e stato di non eccitazione, quiete per l'appunto. Non si pone però il problema di definire cosa sia la quiete in ambito psicologico, né di osservare cosa produca la quiete nel sé emergente del neonato. I bimbi già dalla nascita iniziano un processo di organizzazione del sé cercando stimolazioni sensoriali e mostrando preferenze tra gli stimoli: un neonato sa riconoscere oggetti posti a 20 cm dagli occhi se l'immagine riappare entro due secondi, ritrae la mano e flette le dita se sente una carezza sul dorso della mano, sorretto in posizione eretta mostra il riflesso della marcia automatica, in acqua smette di respirare per brevi periodi e fa i movimenti del nuoto, strizza le palpebre se lo colpisce una luce troppo intensa, evita gli stimoli dolorosi, etc. La maggior parte di questi riflessi del neonato scompaiono progressivamente entro il primo e secondo mese di vita per ripresentarsi in forma più complessa più avanti. Intanto comincia un'attività sociale selettiva: dal secondo mese riconosce visivamente la madre e si calma se viene preso in braccio da lei, ride se è con gli altri e si lamenta se il gioco viene interrotto, vocalizza per attirare l'attenzione. Al quinto mese arriva ad interessarsi alla sua immagine allo specchio e la distingue da quella della madre.

I riflessi propri del neonato "apparente" (perché il neonato umano vero è alla spalle di quello che appare) richiamano capacità motorie intenzionali che egli non può ancora esplicare sia perché è impegnato con tutte le sue forze a reggere e controllare la testa (che rappresenta i due terzi della massa corporea) sia perché se sviluppasse immediatamente le sue potenzialità istintuali corporee (come gli animali) non potrebbe impegnarsi nella attività della costruzione delle reti neuronali indispensabili alla mente umana per affrontare la complessità della coscienza.

Quando i riflessi del neonato scompaiono, compare la quiete attiva e contemplativa attraverso la quale egli assorbe informazioni dal mondo ed entra in contatto con l'affettività.

La quiete non è pertanto assenza di attività o di stimolazioni ma presenza di una sensazione specifica di tutt'altro tipo. Il bimbo ha bisogno della quiete per crescere. Attraverso la quiete egli si dispone ad apprendere perché focalizza la percezione su qualcos'altro rispetto al movimento interno di sensazioni ed emozioni. Un bimbo mentre succhia il ciuccio si dispone alla quiete: tiene gli occhi chiusi, li apre, smette di muovere gli occhi, si calma e si predispone all'apprendimento, guarda qualcosa e smette di succhiare. Perché possa determinarsi percezione consapevole occorre uno spazio di quiete. Altrimenti la percezione è solo superficiale, con immediata reattività secondo le routine già apprese. Ogni nuovo apprendimento richiede la sospensione delle routine, la percezione consapevole di altri dati e la costruzione di un nuovo schema più complesso.

Siccome succhia anche dopo aver finito di mangiare si potrebbe pensare che abbia ancora fame o che cerchi, nel succhiare, una compensazione; invece sono proprio i bambini che hanno maggiore sazietà alimentare ed affettiva quelli che succhiano di più. La suzione e il dondolio sono manifestazioni della quiete mediante la quale il bambino contempla e costruisce se stesso e la comprensione della realtà.

Un livello troppo grande di eccitazioni o di stimoli lo condurranno invece all'iperattività con eccessiva attribuzione di importanza al mondo e all'ambiente ed una scarsa capacità di autoattribuzione intenzionale nelle scelte e nelle azioni.

I bambini iperattivi presentano minor capacità di concentrazione, di intelligenza e di azione intenzionale, frequentemente provengono da ambienti che li hanno eccessivamente stimolati (anche solo per sovraffollamento ambientale) e, divenuti adulti, hanno un atteggiamento fatalistico e demotivato.

Sembrerebbe dunque che l'assenza di quiete favorisca l'apatia e la demotivazione e la realizzazione della quiete favorisca lo sviluppo intellettivo. Ove si continui a pensare alla quiete come sinonimo di assenza di stimoli, rilassamento e oblio, la contraddizione è evidente. Ma la quiete è una sensazione specifica che si trasforma in emozione attraverso la contemplazione attiva e l'empatizzazione del fatto di essere contemplati.

Il termine contemplazione descrive uno stato di serenità garantito dal sentirsi oggetto della altrui contemplazione affettiva: il bimbo contempla il suono del carillon e le farfalline che ruotano davanti ai suoi occhi mentre avverte di essere contemplato dalla madre. Non è possibile contemplazione senza affettività: se contempli una cosa vuol dire che la ami.  Contemplare ed essere contemplati significa vedere una entità come "bella" e lasciarsi guardare come espressione di bellezza. Da ciò discende una visione della quiete come processo che dallo spegnimento delle tensioni conduce alla pienezza di riempimento. Trasmettere quiete impegna nella diffusione di questo particolare riempimento, insegnare la quiete passa attraverso l'orientamento alla visione della bellezza nascosta nelle cose. Per "visione della bellezza" non si intende solo la specifica percezione attraverso gli occhi ma un processo più generale: da quella del personale tono muscolare al riconoscimento olfattivo di un aroma.

Distinguere tra quiete contemplativa e pigrizia apatica è una operazione di ricognizione psicologica complessa: non solo ove essa sia rivolta ad interpretare il vissuto altrui, ma anche nell'autoanalisi del proprio vissuto.

Valgano due esempi: ho di fronte a me nello stesso scompartimento del treno una persona immobile ed assorta nei suoi pensieri da cui non ricavo alcun segnale. Il treno si ferma e lui resta immobile. "Un altro ritardo!", mi trovo ad esclamare dicendolo più a me stesso che ad altri. "Non si preoccupi, questo è un semaforo a tempo, tra due minuti il treno riparte!", dichiara la voce dello sconosciuto che continua a mantenere la sua posizione immobile e assorta e non dà segno di voler continuare la conversazione. Ho di fronte una persona che sa cos'è la quiete.

Se invece la persona è assorta nei suoi pensieri ma tendenzialmente apatica (o semplicemente stanca, infastidita o forse preoccupata) alla mia esclamazione non darà risposta, e, solo dopo miei numerosi tentativi di aprire un dialogo, chiederà: "Sta parlando con me?".

Un secondo esempio riguarda la personale capacità di autosservazione ed autoascolto. Mentre osservo la massa d'acqua che cade da un'imponente cascata sento muovere dentro di me pensieri e ricordi e lascio la cascata sullo sfondo. Poi scelgo di mettere la cascata in primo piano e sono interessato da qualcosa che mi incuriosisce (un particolare zampillo, l'ondeggiare di una vicina pianta), poi il pensiero e la curiosità si fermano e guardo solo la cascata: se mi incanto e la contemplo trovo la quiete, se mi annoio e mi allontano, perché non mi incuriosisce più, entro nell'apatia. 

L'apatia è una condizione di assenza di stimoli e disturbi che ripiega nell'indifferenza, nell'indolenza e nell'insensibilità anche affettiva.

 

Il disagio dell'apatico

L'apatico è inattivo, manca di motivazione, volontà e desideri, e non esprime giudizi sugli eventi del mondo come buoni o cattivi, desiderabili o indesiderabili.

L’apatico a prima vista sembra una persona umile perché non attrae nessuna attenzione su di sé; da' l’impressione di essere assente, annebbiato e stordito. L’apatico è rigido, e non rispondendo ostinatamente ai richiami fingendo ottusità, riesce ad imbestialire le persone che contano su di lui.

L'apatico regredisce ad un comportamento originario in cui semplicemente "si scioglie" nel suo vissuto, senza farlo diventare oggetto. Questo stadio della consapevolezza è magistralmente descritto da Edith Stein (1985, p.165): "Amiamo e odiamo, vogliamo e facciamo, ci rallegriamo e ci rattristiamo e lo esprimiamo e di tutto ciò siamo, in un certo senso, consapevoli, senza che tutto questo sia colto, senza che sia oggetto; su questo non facciamo nessuna meditazione, non lo trasformiamo in oggetto della nostra attenzione, né della nostra osservazione, e neppure della valutazione, e non stiamo lì a guardare che specie di carattere manifesti. Al contrario, facciamo tutto questo riguardo alla vita psichica altrui che grazie al suo legame al corpo fisico percepito, ci sta di fronte agli occhi come un oggetto fin dal principio. Mentre lo apprendo uguale al mio, arrivo a considerare me stesso come oggetto uguale a lui". L'apatico tende a non rendere oggetto il suo proprio personale vissuto e, così facendo, si chiude al coglimento empatico del vissuto altrui. Riesce così a diventare insensibile agli stimoli ed alle sensazioni in modo da non doversi coinvolgere.

Si può diventare apatici a seguito di lutti, abbandoni o dolori che ci sconvolgono la vita lasciandoci inebetiti. Oppure si può scivolare nell'apatia quando non si sono ricevuti sufficienti stimoli e spinte alla motivazione o quando le azioni o i propositi o gli impegni assunti sono stati ripetutamente squalificati. Il copione dell’apatico può essere la conseguenza dell’indifferenza con cui un essere umano è stato accolto e trattato. Il bimbo ha fatto un disegno impegnativo e trepida per mostrarlo al papà. Il padre lo nota appena senza dare alcuna importanza al disegno ed al desiderio di gratificazione del bimbo perché preso dalle sue attività. Naturalmente quel bimbo avrà difficoltà ad impegnarsi in un nuovo disegno.

Altra caratteristica dell’apatico è quella di avvolgersi nei suoi pensieri e fantasticare di compiere le azioni che dovrebbe fare nella realtà. Il suo modo di pensare è in linea con il suo sistema di organizzazione delle azioni, massimamente ripetitive e flemmatiche. Egli pensa di alzarsi dalla poltrona, vestirsi, uscire, fare le tutte le commissioni che urgono e poi tornare a casa, ma non si alza dalla poltrona. Ciò che colpisce nel suo modo di concepire le attività e di realizzarle non è tanto la lentezza quando la ripetizione delle attività, tendenti tutte allo sforzo minimale, spezzettate in singoli gesti, a volte numerati e cadenzati. Non accetta di tener dietro a più cose contemporaneamente poiché dovrebbe cambiare ritmo al suo lavoro e, soprattutto, al suo pensiero.

Nonostante il fatto che la sua pigrizia gli procuri guai tende a cullarsi in essa; se le cose che gli sono affidate, il suo lavoro, gli oggetti che gli appartengono vanno a male rimuove prontamente il dispiacere dicendo a se stesso che poco gli importa. Di fronte a questioni davvero rilevanti, si dichiara incapace e si appoggia come un parassita alle persone del suo intorno. Il sistema che adopera è solitamente quello di piangersi addosso e manovrare gli altri con il suo senso di impotenza e incapacità. E poi gratificare gli altri con complimenti e moine. Ma non si coinvolge e non c’è da attendersi reciprocità da lui. Sa bene quando lo spazio di azione con l’altro è esaurito e modifica il bersaglio delle sue richieste: propone costantemente agli altri una condizione di accordo e di amicalità comoda e poco impegnativa, mostrandosi condiscendente e comprensivo. Di fatto è indifferente ai vissuti altrui ma riesce ad accattivarsi le loro simpatie perché, interpellato per un parere o per una richiesta di solidarietà, riesce sempre a dire ciò che le altre persone desiderano sentirsi dire. Ha infatti la fine capacità di prendere le posizioni che richiedono il minor sforzo e il minor coinvolgimento. Evita il confronto o la chiarificazione, si limita a comprendere ed a dare sempre ragione a chi ha di fronte, in modo da accattivarsene la simpatia per poi utilizzarla nel momento di un particolare bisogno.

Certamente la sua vita non acquista mai un particolare colore o intensità di vissuto ma non sente l’esigenza di modificarla o migliorarla; per farlo occorre la fatica di accendersi di motivazione o di sperimentare l’ansia del cambiamento vivendo turbamento e fragilità.

Il pigro che abbia tentato l’attivazione di sé senza riuscirci (o per scarsa motivazione o per indolenza nel compiere le azioni) rischia di entrare in una condizione sfibrante di astenia: una stanchezza estenuante e sfibrante prodotta dal non avere agito pur essendo attraversati da forti stimolazioni. La sofferenza dell’astenia è prodotta dal non trovare gusto nelle attività intraprese o, almeno, non trovarne a sufficienza e, dunque, piombare nella noia, sgradevole sensazione di insufficienza di impulsi. I disturbi patologici della personalità dell'apatico si esprimono, oltreché nell'abulia, in molti disturbi cosiddetti fittizi, nella amnesia dissociativa, nel disturbo di depersonalizzazione, nel disturbo passivo di personalità, nella ipersonnia primaria.

La pigrizia determina disordine emotivo perché il pigro evita anche la fatica di riorganizzare e chiarire i propri sentimenti, li subisce solamente.

La pigrizia infatti non consente di giungere alla pace agognata ma solo ad un penoso senso di vuoto ed ad una profonda tristezza prodotta dai ripetuti fallimenti.

Apatia e pace appartengono allo stesso ceppo emozionale, ma hanno una natura interna bel diversa pur se appaiono equivalenti nell'espressione esterna. Su questa equivalenza è possibile investire per spostare l’apatico verso la sua evoluzione. Certo dovrà prima acquistare il senso della motivazione e dell’organizzazione, lo slancio d’amore e di attaccamento, la concretezza dell’umiltà e il desiderio della libertà. Il suo itinerario educativo è lungo e complesso poiché tende a ritrarsi da tutte le sensazioni e a non elaborare nessun tratto emozionale come parte costitutiva del sé. Il suo sé è infatti molto povero e vuoto. Quando se ne rende conto sperimenta una profonda disistima, che purtroppo lo conferma nell’inutilità di qualsiasi iniziativa. Questo circolo vizioso rinforza l'apatico nella sua pigrizia astenica: non vale mai la pena di...

 

Le risorse dell’apatico

L’apatico evoluto si presenta invece come un soggetto che possiede una delle più grandi doti: è un portatore di pace. La sua capacità di fare calma, di non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni e dai conflitti, lo rende in grado di insegnare a spegnere le tensioni e di indicare la via per raggiungere la quiete. Il saggio capace di quiete e contemplazione è un soggetto estremamente vivo ed attivo dentro di sé; il suo rapporto con il mondo è di partecipazione ottimistica e amorosa.

Egli è pervenuto a tale traguardo attraverso il coinvolgimento nelle diverse emozioni della vita da cui non è più passivamente trascinabile. Per realizzare questo percorso ha trasformato al positivo ciascuna delle emozioni di base con cui è entrato in contatto: ha conosciuto la tensione della carica e la ha saputa trasformare in impegno, ha lavorato sui suoi processi di dissociazione e con umiltà si è trattenuto dall’andare oltre scegliendo di essere libero anche dal suo eccessivo desiderio di libertà, ha gustato il piacere ma senza precipitare nell’angoscia, consapevole che senza la fusionalità temporanea con altri che vivono il piacere esso è sempre evanescente, ha sperimentato il suo senso di insufficienza e, senza avvitarsi dentro di sé, ha imparato ad essere umile, ha conosciuto la grazia della vicinanza e dell’attaccamento e li ha fatti uscire dal suo io non attaccandosi più ad altri ma lasciandoli attaccare a sé, si è fatta amica la paura sopportando il dolore, libero dall’ansia ma vigile nei confronti dei pericoli.

Al termine di questo cammino ha imparato la distinzione tra apatia e quiete contemplativa ed attraverso quest’ultima ha stabilito un contatto profondo con la sua personale umanità realizzando quanto meglio poteva del suo sé.

La quiete contemplativa ed attiva è un punto di arrivo essenziale nel percorso di crescita delle emozioni verso i sentimenti. Un sentimento, per essere tale, necessita di un accordo di base tra tutte le emozioni sperimentabili. Nel concreto dell'esperienza vitale degli uomini molti pensano di poter fare a meno della pacifica contemplazione della realtà. Cosicché i loro sentimenti non si presentano mai armonici e non coinvolgono la sua umanità a tutto tondo. Sono però sentimenti fragili perché privi della possibilità di contemplare e contemplarsi. Basta un accento, anche poco marcato, sull'aspetto critico di una componente che l'intera incastellatura del sentimento non regga, lasciando nel vuoto l'uomo che pensava di possederlo.

 

Storie di tipi

Andrea 32 mesi. Ci si dimentica di lui, non ti guarda mai negli occhi. Se gli si porge un oggetto non lo prende subito. Evita ogni tipo di relazione diretta, aggira gli ostacoli, non vuole essere osservato mentre sta facendo qualcosa, se lo si fa smette immediatamente. Sfugge agli altri bambini che gli chiedono di giocare. Difficilmente sorride e difficilmente piange, solo se si fa male, non chiede di essere consolato ma si intuisce che vorrebbe esserlo. Ha imparato tardi a camminare. Non accetta proposte di gioco, vuole fare da solo, sta solo per ore a ripetere lo stesso gioco. Non riesce ad avere un buon rapporto con gli altri che si dimenticano di lui; è un'ombra. Non risponde ai richiami, ne è quasi spaventato perché ha paura che gli si chieda di partecipare a qualcosa.

Scappa e ti osserva di nascosto. Si riesce a farlo partecipare proponendogli qualcosa prima che abbia il tempo di pensare, all'improvviso e usando l'imperativo. Quando è costretto, in questo modo, ad agire riesce a impegnarsi e prende gusto a quello che sta facendo. Mangia senza assaporare nulla, ingurgita automaticamente, non sente i sapori sembra che eviti anche il piacere.

Non ha avuto problemi di inserimento al nido, si è rassegnato subito. Il padre è medico, la madre insegnante, si sa già che da grande farà il medico o quanto meno dovrà rispondere a delle aspettative molto alte. Lui non ha bisogno di crescere, per loro è già cresciuto. Il problema è che lui non lo sa ed ha continuamente paura di non riuscire a dimostrare loro quello che si aspettano.

 

E.F. La signora è di età indefinibile, tra i 25 portati male e i 50 portati bene. Si può dire di lei che, se non è propriamente bella, senz'altro era molto bella. Ora, nonostante le cure di bellezza, i massaggi ed i vestiti, è una povera larva. Senza desiderio. In qualche barlume di lucidità, nonostante l'astinenza, persona persino colta e gradevole. Vive dividendo il suo tempo tra il suo letto - letti separati - dal quale guarda, o più probabilmente è guardata, due televisori, una grande a colori col telecomando ed una piccola in bianco e nero, sempre sintonizzata sullo stesso canale, poste una sopra l'altra, ed un buco di eroina che si fa’ ogni due o tre ore o più sporadicamente, a seconda dei periodi. Oppure il progettare tra sé e sé o con una amica, al telefono, l'andare a comprare questo o quel vestito. Ma esce raramente. Per qualche bridge o al seguito del marito. Quando esce si trucca, vistosamente ma con molta cura. Occhiali neri ed orecchini pendenti, pellicciotto e borsa firmata. Si legge nei suoi poveri occhi una angoscia continuamente rimandata. Problemi mai presi in considerazione ma solo riposti in un cassetto. Eredita la sua tossicodipendenza da una storia che non è mai trapelata e finge di nascondere la sua condizione a tutti, marito compreso che, in ragione del suo denaro, del suo disinteresse per lei e della comodità della sua inesistenza, generosamente le consente di andare lentamente verso la totale autodistruzione. E' una vittima della sua pigrizia immolata sull'altare del perbenismo, della facciata e dei falsi rapporti.

 

D.R., 35 anni. Ha vissuto un'infanzia nella frustrazione e nel senso di inutilità, senza ricevere calore affettivo in un contesto di indifferenza ed egoismo. Coinvolto da amici si presenta ad un servizio per tossicodipendenti e si fa somministrare metadone fingendosi tossico. Viene invitato a ripresentarsi e, poiché negativo al controllo delle urine (non aveva mai preso prima di allora nessuna droga), gli viene dato metadone a mantenimento per molto tempo. Dopo due anni di alterne esperienze con metadone e psicofarmaci inizia a bucare eroina e diventa dipendente. Senza grande spirito di iniziativa ben presto esaurisce il denaro per comprarla ed inizia l'accattonaggio dello "schizzetto" da altri tossici. Iniettandosi con siringhe usate diventa sieropositivo e comincia a preoccuparsi della sua condizione. Attraverso l'interessamento dei parenti entra in comunità dove trascorre un lungo periodo senza infamia e senza lode, finché non viene affrontato con molta durezza dai responsabili. Troppo pavido per andarsene si adatta alle maggiori difficoltà che lo strappano dall'isolamento in cui tende sempre a cullarsi. Ma mantiene ancora angoli mentali di rifugio e di compensazione. Verrà dunque messo ancora di più alle strette proponendogli lavori molto pesanti ed impegnativi per provocare le sue reazioni; non si ribella, sordamente brontola, fa finta di non capire i rimproveri, gioca sulle ambiguità e cerca protezione presso i direttori del programma. Viene così presa in considerazione l'idea di affidargli un compito più sedentario ma impegnativo: la sedentarietà come attrattiva per evitare la fatica del lavoro fisico, l'impegno per responsabilizzarlo. Assume quindi una responsabilità nel settore amministrativo proprio mentre la comunità attraversa una pericolosa crisi economica. Il suo nuovo compito si presenta dunque come molto più gravoso del previsto ma riconosce come autentica la difficoltà di vita della casa che lo ospita e, per la prima volta in vita sua, si accende di impegno nel lavoro. La scoperta delle emozioni dell'impegno, del sacrificio per il bene comune, dell'entusiasmo per il lavoro che lentamente da i suoi frutti, della soddisfazione per i risultati conseguiti, cambieranno la sua vita.

 

Roberto e Renata, 17 anni. Lungo una via di Roma due giovani camminano mano nella mano; ambedue hanno cuffiette auricolari per ascoltare musica proveniente da due diversi Walkman. Camminano mano nella mano ma sentono musiche diverse, ed i loro visi hanno espressioni diverse.

Roberto ha sempre cercato attenzione e gratificazioni dai genitori, specialmente dalla madre. La madre, brusca e ruminante, non ha mai mostrato sincero interesse nei suoi confronti: piuttosto si appagava del coinvolgimento emotivo determinato dalla sua ricerca di attenzione e tenerezza ma senza dare in cambio la pacifica e serena comprensione delle sue esigenze. Al di la' di momenti di intensità emozionale con la madre Roberto ha sempre vissuto in solitudine. Nonostante gli sforzi  Roberto non è mai riuscito a far crescere l'interesse della madre per i suoi disegni, i suoi giochi e la sua fantasia. Al contrario è spesso sgridato nelle occasioni in cui è maldestro, disordinato o distratto. Comincia così ad "assentarsi". Passa ore a guardare la Tv, dimenticando di fare i compiti, va male alla scuola elementare e le maestre lo rimproverano per il suo disordine e la sua sbadataggine. Anche nello sport del pattinaggio, dove in un primo tempo sembrava riuscire, commette errori, cade spesso e si fa ripetutamente male, ricevendo critiche per la mancanza di plasticità nel movimento e la goffaggine. Più è rimproverato e più si "assenta" nel suo alambiccarsi mentale; spesso si imbambola e, se richiamato, è lento a rispondere. Ciò costituisce occasione per ulteriori rimproveri. Dimentica libri e quaderni a scuola, indumenti nella palestra e, all'incrementarsi delle critiche, aumenta il suo isolamento per non sentirne il fastidio; più le rimuove più ricade nelle dimenticanze. A dodici anni ha forti ritardi nell'apprendimento e vive un forte svantaggio. Continua a sognare grandi successi per sé ed a raccontare con immagini fantastiche l'ingegnere che sarà da grande, ma non si impegna nello studio e viene ripetutamente bocciato. Non esce dal suo copione e non sembra accorgersi che gli altri lo considerano uno stupido, senza volontà e intelligenza. Anche ora che, a 17 anni, lavora come apprendista presso un parrucchiere per signora ed ha interrotto gli studi, continua a raccontare delle sue grandi capacità di disegno e del suo futuro da ingegnere.

Renata è stata annichilita dalla morte del papà avvenuta quando lei aveva 13 anni. A distanza di quattro anni sembra ancora inebetita da quel dolore. Il forte legame con il padre era fondato su una grande sensibilità condivisa da entrambi. Padre e figlia sapevano osservare ed interpretare all'unisono tutti gli eventi della vita quotidiana ed il padre appariva immenso e magnifico agli occhi della figlia. La madre, troppo superficiale e vanesia, non è stata in grado di sostenere la figlia nel dolore. Anzi le sue iniziative, tutte tendenti a far si che Renata si distraesse dal pensiero della morte del padre, hanno sortito l'effetto contrario. Un ulteriore dolore ha straziato Renata quando  la madre ha scelto di convivere con un altro uomo e, dalle discussioni tra di loro,  ha appreso che la loro relazione era di molto precedente alla morte del padre. Renata non sogna più, abbandona gli studi, si rifugia in casa e trascorre la giornata in ripetitive faccende domestiche. Raramente scende nella parrucchieria della madre dove lavora Roberto, con cui, a volte, fa lunghe passeggiate alla domenica per le vie di Roma. 

 

6. L’invisibile

 

L'invisibile

Il disagio: la mancanza di autostima, il senso di inadeguatezza l'insufficienza del sé, la vergogna, la voglia di scomparire e il complesso di inferiorità, l'alcoolismo, il soggetto fobico

Le risorse: la discrezione relazionale, il pudore, la sensibilità, l'arte di sollevare gli altri.

L'umile

 

La vergogna

Si intende comunemente per vergogna una emozione che va dall’imbarazzo, al pudore, all’inizibizione. Il primo passo per comprendere il movimento dell’io denominato vergogna è immedesimarsi nel momento in cui si comprende di “stare facendo una brutta figura”. In tali occasioni siamo presi dal desiderio di scomparire, di sprofondare, di nascondersi e di diventare invisibili. Ma non tutti coloro che “fanno una brutta figura” precipitano in una inibizione acuta e dolorosa; alcuni reagiscono con sfrontatezza, con arroganza, con ilarità, con indifferenza, con autocontrollo o con autocommiserazione (ciascuna di queste modalità è tipica di ciascun copione, come è facilmente intuibile). L’invisibile invece si curva su di sé, non avanza alcun movimento di difesa e subisce il peso della vergogna. Peso che lo schiaccia e lo inibisce ancor di più.

E’ probabile che l’emozione della vergogna prenda forma intorno ai sei mesi, periodo in cui si è soliti individuare il momento più critico della differenziazione del bimbo dalla madre. Nel cercare di individuare il significato della vergogna come fenomeno emozionale umano, diffuso e univoco, abbiamo la necessità di interpretarlo nelle sue due principali componenti.

La prima è il forte coinvolgimento nelle emozioni condivise con altri. Al contrario dell'indifferenza (dell'apatico) che vige nel tenere gli eventi ad una buona distanza dal sé, e cioè non consente loro di diventare "oggetto" dell'attenzione ma, semplicemente, li scioglie dentro i vissuti, la sensibilità di fronte agli accadimenti relazionali li rende oggetti fortemente presenti  con aperta consapevolezza di loro. Il soggetto sensibile manifesta una diretta inclusione di se stesso nelle emozioni che sprigionano dai rapporti. Percepisce ciò che vive, ne è partecipe e lo oggettiva immediatamente. Ciò che sente è oggettivo per sé e per l'altro ed egli è assolutamente trasparente allo sguardo estraneo. Il soggetto si sente nudo, disarmato e vulnerabile e lo è perché è tenero, senza scorza e senza maschere, dunque riceve ogni emozione come un colpo forte ed intenso. Anche un complimento lo imbarazza e lo spinge a ritrarsi nella verecondia, nel diventare schivo e peritante.  Il vocabolo bashfull designa nella lingua inglese il timido come un soggetto "pieno di colpi".

La seconda componente è quella della comparazione tra il sé e gli altri. La sua radice, che è il “sentirsi meno di”, può essere individuata nel momento in cui il bambino, uscito dalla fusione con la madre, scopre che a fianco della madre esistono altre persone: il padre, i fratelli o altre figure che occupano uno spazio accanto ad essa. Questa secondo aspetto coniuga la separazione dalla madre con la scoperta di essere meno, solo una parte tra le altre. Non è necessario essere stati oggetto di esplicita squalifica (il disgusto altrui), che indubbiamente rafforza e rende drammatico l'accertamento dei propri limiti, per sperimentare il lato più oscuro della vergogna, è sufficiente che l’età dell’oro (la fusionalità) si scomponga in più parti e che il soggetto senta la sua partecipazione insignificante e per ciò si percepisca ridotto e sminuito.  Se il suo precedente percorso di accertamento del sé non è stato gestito con sufficiente affettività da una madre avara o apatica, o comunque troppo superficiale per la forte sensibilità di quel bambino, a lui non sarà dato di viversi compiutamente e con fiducia. Tutte le parti del sé, corporeo e psichico, del bambino hanno bisogno di essere riempite dall’affettività affinché egli le possa conoscere ed accettare.

Quanto più il processo è incompiuto, almeno nella sue istanze fondamentali (la bocca, la pancia, la digestione, il respiro, la testa, l’udito, il fiuto, il tatto, il posto, la protezione, le routine, le abitudini, la confidenza, la sicurezza,...), tanto più la scoperta di non essere “tutto” conduce a non sentirsi completi e sufficienti. Il copione della vergogna è legato alla bassa stima di sé; proprio perché non si stima, non si accetta abbastanza e non si ama, l’invisibile si espone alla sopportazione ed alla sofferenza: è convinto di meritarsela.

L’emozione dello scomparire ripiegando su di sé è, contemporaneamente, processo di assorbimento di dolore nel sé e sbriciolamento del sé per far passare il dolore. Meno emerge il sé, meno è consistente il luogo in cui si ascolta il dolore. L’invisibile ha grande capacità di sopportazione del dolore, egli ne è permeabile e si lascia trapassare per le basse difese e per la scarsa consistenza del sé. Valuta talmente poco se stesso che non attribuisce grande importanza nemmeno al dolore acuto, da cui si lascia trafiggere senza rifiutarlo, evitando così la metabolizzazione del dolore in sofferenza.

 

Il disagio dell'invisibile

L’invisibile prova un profondo senso di disistima e sfiducia di se stesso. Non si sente mai “abbastanza” e tutti sono sempre migliori di lui e tutto ciò che fa è sempre meno bello e importante di quanto fanno gli altri. Quando riesce in qualcosa è solito attribuire il suo successo alla fortuna e non alla sua preparazione. Non perde occasione nel farsi autogoal, ovvero nel mostrarsi agli altri inferiore, inadeguato, incapace o imbarazzato.

L’invisibile vive le diverse atmosfere ed i climi sociali con una sensibilità sfibrante, aggravata dalle sue difficoltà comunicative. Non riferisce ad altri quanto vive, nella convinzione che gli altri non darebbero pso e credito alle sue sensazioni ed ai suoi pensieri, inconsistenti e banali per come essi sono, secondo lui.

Vive una forte chiusura introversiva ed è attento a non mostrare nulla di sé nel timore di essere svelato e giudicato. Non è a mai a suo agio ed addirittura soffre quando è obbligato ad improvvisare le sue reazioni. Ha bisogno di tempo per prepararsi ad ogni incontro per la vergogna di essere scoperto per quello che è. Per questo motivo tende a ritrarsi dalle conoscenze e dalle relazioni, anche se non ama la solitudine. La sua solitudine è una conseguenza della sua fuga; piuttosto di agire si nasconde ed osserva, ammira ed invidia coloro che sono in grado di comportarsi in modo socialmente adeguato.

L’invisibile non cura molto il suo aspetto fisico, in parte per sottovalutazione di sé, in parte perché spera di passare inosservato. Non indosserà mai nulla capace di attirare l’attenzione e, anche se desidera più di ogni altra cosa l'essere riconosciuto ed accettato per quello che è, cerca di non far trasparire nulla di autentico.

La sua vergogna lo porta all’inibizione, al pavore, al pudore ed alla sua continua autoesclusione dalle situazioni che possono provocargli imbarazzo.

Non ama mostrare i suoi sentimenti perché pensa che siano fuori luogo, fuori tempo, scontati. A lui piacerebbe moltissimo poterli esprimere e donare finalmente a qualcuno, ma si autoconvince che non sarebbero capiti ed accettati.

Non è in grado di accumulare energia e motivazioni perché è abituato a sminuzzarsi per timore di occupare troppo spazio; anche i suoi sentimenti debbono essere sempre deboli e non visibili. Non riesce ad arrabbiarsi perché l’ira è una emozione troppo consistente perché possa albergare nel suo sé.

Una caratteristiche del movimento dell’io della vergogna è quella di crescere di intensità: una persona che si vergogna, si vergogna anche di vergognarsi. La crescita dell’emozione è un progressivo avvitamento nel movimento dell’io. L’avvitamento è la via dell’invisibile per diventare ancora più invisibile fino a cercare di scomparire del tutto, soprattutto di scomparire dalla percezione di sé.

La sua è la storia di chi è stato bersaglio di sfiducia ricevuta in precedenza come quel bambino che viene posto a confronto con il fratello maggiore: “Hai visto quanto è bravo tuo fratello a scuola, come riesce bene nello sport, come rimane subito simpatico alle persone!”. Tale paragone, che non è necessariamente una squalifica, ma solo un confronto (magari davvero oggettivo), condiziona le sue effettive possibilità di riuscita nel raggiungere risultati. Egli sente di essere sconfitto in partenza ed abbandona ogni confronto a meno che non venga incoraggiato con rinforzi multipli. L’incoraggiamento e l’impalcatura di sostegno (scaffolding) serve a rendere possibile l’impegno e la disposizione fiduciosa.

Senza sostegno anche con forte direttività l'invisibile evita il confronto e non si mette alla prova: senza prove e senza successi effettivi ed oggettivi non cresce la stima di sé. La via di uscita dalla bassa autostima è quella di ottenere risultati attraverso la metodicità e la disciplina, che costituiscono il vero antidoto per l’invisibile.

Un aspetto non secondario del complesso di inferiorità è il suo ciclico accompagnarsi ad senso di superiorità tutto interno e non oggettivato nelle cose. Se dal confronto con la realtà l'invisibile esce perdente e sconfitto accade che dentro di sé inneschi una valutazione compensativa di superiorità incompresa da altri, inspiegabile ed ancorata su uno schema di valutazione del merito completamente intimista e, di conseguenza, assolutamente ineffabile. Gli altri vincono il confronto e sono oggettivamente migliori di lui ma non possiedono qualcosa che egli ha dentro, nemmeno arrivano a sfiorare la comprensione del suo mondo interiore, della sua sensibilità e impressionabilità. Naturalmente queste doti non gli servono mai per realizzare qualcosa di concreto e sono da considerarsi difetti anche se egli sente di essere inspiegabilmente superiore proprio per quelle caratteristiche che lo rendono inferiore. Questo ragionamento è la trama di un copione bipolare tra invisibile e delirante mediante oscillazioni tutte interne al sé tra inferiorità e superiorità che rimangono sempre inverificabili. A fronte di queste possibili oscillazioni interne può essere utile accompagnare al sostegno comparazioni con altri, dalle quali l’invisibile possa emergere positivamente. L'incoraggiamento all'invisibile può essere formulato mediante: "Vedrai che ci riuscirai, perché sei una persona in gamba e non commetterai gli stessi errori di...(figlio di amici, lontano parente sconosciuto, personaggio di un telefilm visto insieme)". E’ infatti indispensabile che le comparazioni avvengano con persone lontane, non confrontabile nell'esperienza quotidina, per due ragioni: l’invisibile non deve avere mezzi per compararsi con loro al negativo (“Si, è vero, ma lui non ce l’ha fatta per sfortuna, io non ci riesco per colpa mia!”), cosa che accadrebbe se tali soggetti fossero appartenenti al suo mondo della vita. Debbono però essere persone concrete e non soggetti astratti su cui operare generalizzazioni del tipo: “Ce l’hanno fatta tutti, dunque ce la puoi fare anche tu!”. La seconda ragione è che l’invisibile non deve essere mai incanalato nella direzione dell’invidia o della gelosia, che sono una polarizzazione su un altro corno del suo copione.

Qualora l'invisibile non si metta in gioco e perpetui l'avvitamento su di sé egli si dispone alla oppressione psicologica da parte di altri. Se vale poco (o se il suo pur alto valore è inutile, inespresso e dunque inesistente) l'unica via per essere accettato è quella della umile e servizievole disponibilità, la quale ovviamente lo dispone ad essere schiacciato e oppresso da soggetti poco attenti e rispettosi, se non addirittura inquisitori e prepotenti. Ora, se l'invisibile si è aperto e si è affettivamente attaccato a qualcuno che, non comprendendo la profondità del suo sentire, lo calpesta e lo violenta, può diventare pericoloso e tagliente per non essere messo del tutto fuori gioco.

La sua incapacità di scendere in lizza per la aperta difesa di sé lo tormenta con invidia e gelosia. Invidia e gelosia sono copioni complessi il cui motore è l'oscillazione tra inferiorità e superiorità e la moltiplica è il risentimento ruminante verso qualcuno che non è possibile vivere come oggetto di amore e attaccamento. Le sue energie attivate dall’invidia (non avere qualcosa che altri hanno) e dalla gelosia (temere di perdere qualcosa che si ha) aprono verso gli aspetti più negativi dell'invisibile: la falsità, le maschere, le insidie mediante istigazione e le strategie di aggressività dissimulate.

E' questa la prima occasione in cui viene descritto un copione multiplo che si costruisce in termine ancora abbastanza semplici e comprensibili. I copioni della gelosia e dell'invidia sono infatti abbastanza diffusi da rendere possibile una discussione sulla loro genesi mediante alcune semplici pennellate discorsive, senza pretendere di entrare in profondità in tali pieghe della psiche. I copioni multipli sono alle spalle di vere e proprie patologie che necessitano di comprensione e di interventi molto più accurati, di tipi psicoterapeutico, rispetto all'artigianato educativo. Prendiamo il caso dell'alcoolismo (l'alcool è la sostanza elettiva per l'invisibile che trova in esso sia disinibizione iniziale che dissolvimento dell'io nella cronicizzazione): tale copione multiplo di dipendenza è organizzato a partire dalla oscillazione bassa/alta autostima, dalla componente depressiva del ruminante, dall'attaccamento ad una sostanza vicariante fino al bisogno di autoanestetizzarsi dalla angoscia del futuro. Allo stesso modo procedono dalla bassa autostima molti copioni multipli quali il disturbo di attaccamento di tipo inibito, i disturbi di tipo autistico,  il disturbo evitante di personalità, le fobie specifiche, la fobia sociale, la agorafobia, le ipocondrie, i disturbi di balbuzie e dei disturbi da incubi. Due riflessioni possono meglio rendere comprensibile il rapporto tra l'avvitamento nella vergogna introversa, l'autismo e fobie.

L'autismo è il ritiro dal mondo e la chiusura nel pensiero endogeno da parte di un soggetto chiuso in sé stesso, riservato, che indietreggia di fronte ad ogni contatto con la vita, introverso. Nel pensiero autistico la realtà perde di importanza ed il soggetto diventa incapace di volgere le sue attenzioni verso il mondo. E' totalmente compreso dalle sue sensazioni e dai suoi ragionamenti pseudofilosofici.

Le fobie rimandano alla struttura mentale ed emozionale dell'invisibile ma su un piano diverso. La vulnerabilità agli insulti fisici e psichici è causata dal fatto che l’invisibile li lascia entrare in profondità; non ha difese perché la scarsa autostima gli dichiara che non v'é nulla di importante da difendere nell'io. A seguito degli insulti l’invisibile si sente sporco e contaminato, reagendo con sintomi psicosomatici. La sua pelle cerca di buttar fuori attraverso i pori il dolore e gli insulti assorbiti manifestando allergie verso le situazioni, le persone e le sostanze che sono connesse all’assorbimento. Possono però darsi situazioni psicologiche nelle quali anche la somatizzazione è vietata dall'inibizione. Sono queste le situazioni di copioni multipli determinate da la compresenza di copioni di piacere/angoscia e copioni di paura/ossessione. Il soggetto diventa fobico perché non riesce a desensibilizzarsi contro gli eventi diventati del tutto interni al sé. Non può nemmeno difendersi con ulteriore invisibilità, perché le immagini, gli eventi, le persone, gli animali, le situazioni che lo hanno penetrato sono del tutto connesse con il sé. Egli è ormai tutt'uno con le cause del suo malessere; la reazione di difesa è dunque quella di evitare gli oggetti che per analogia lo portano in contatto con il suo dolore. Il copione può divenire ancora più complesso quando, per coprire le fobie, il soggetto innesca rituali ossessivi di evitamento.

Il fatto di elencare tali patologie ha un doppio scopo: possono servire a comprendere più in profondità la struttura psichica dell'invisibile e le personalità a cui può dar luogo, consentono inoltre, per educatori impegnati in strutture riabilitative ad accompagnare la psicoterapia con un armonico e congruente intervento educativo che, nel caso dell'invisibile, ruota tutto intorno alle diverse modulazioni della disciplina. 

 

Le risorse dell’invisibile

L’incapacità dell’invisibile di costruirsi difese ha accresciuto la sua capacità nel percepire il vissuto altrui, specialmente i vissuti di sofferenza. L’invisibile ha una grande capacità di sopportazione del dolore e della sofferenza: paradossalmente in ragione della sua sensibilità. Egli non frappone alcuna barriera tra sé e il dolore, lo incamera e si lascia annientare senza sfogarsi nemmeno con un gemito.

Il dolore inizialmente lo schiaccia, poi lo depotenzia, gli toglie energie e lo rende quasi evanescente. Ma lentamente scompare e lo lascia con una esperienza che lo spinge a fare qualcosa per gli altri; la sua sensibilità si può così riaprire all’esterno con lo scopo di sollevare, al momento giusto e all’altezza giusta, chi sta vivendo una sofferenza.

Un aspetto estremamente interessante dell’invisibile è lo sviluppo della capacità di coglimento empatico acuta al punto da riconosce la sofferenza altrui anche quando è nascosta o mascherata. La sua efficacia nel sollevare gli altri è amplificata dal fatto di riconoscere le pene altrui, anche non espresse; l'altro si sente così riconosciuto, compreso e degnato di attenzione.

Il rapporto di aiuto di cui l’invisibile è capace si fonda sulla realizzazione di due importanti valori: l’umiltà e la condivisione.

Umiltà in ragione della concretezza a cui l’invisibile fa sempre riferimento: parte dalla terra, dal dolore, dalle difficoltà, dalla fatica per giungere ad una sensibilità quasi sensitiva; condivisione perché riesce ad immagazzinare informazioni sugli altri con grande capacità di ascolto e grande memoria. Non può esistere condivisione di qualcosa se i soggetti che condividono non sono certi che l’altro sappia bene cosa si sta condividendo. E’ indispensabile far comprendere a chi è in difficoltà la propria profonda consapevolezza della difficoltà medesima. E ciò con informazioni e riferimenti concreti, tratti dalla osservazione e dalla memoria. L’invisibile è appunto un  grande osservatore capace di accumulare informazioni e, per di più, riesce a farlo senza essere visto.  Se l’uso di ciò che sa diventa servizio agli altri l’invisibile riuscirà, mediante la condivisione umile, a provare soddisfazione per se stesso nell’aiutare l’altrui sofferenza. Ma l'oggettiva stima di sé deriva solo dal rapporto con qualcuno che sappia comprendere il suo sentire, sappia incoraggiarlo nella azione, verificare con l'oggettività delle sue capacità  e mostragli i suoi meriti, le sue virtù. Spesso gli invisibili sono i martiri che consentono con la loro sofferenza agli altri di vivere ma la svalutazione si ribalta solo con l'aiuto di qualcuno che li premia come eroi della sofferenza, li conduce a scoprire il loro personale valore ed ad iniziare a valutarsi positivamente.

 

Storie di tipi

Marco 36 mesi. Solitario, non partecipa quasi mai attivamente, resta ai margini a osservare. Il suo modo di camminare è particolare, dà l'idea dell'ombra, non lo si nota. Non chiede mai, ti guarda di nascosto e se ad esempio hai una caramella cerca di rubarla mentre sei distratto. Non risponde alle richieste di gioco degli altri, svicola. É difficile interagire con lui, la tenerezza lo disorienta, arrossisce addirittura. Si vergogna di tutto quello che fa, anche della pipi, della cacca, guarda altrove, non è roba sua. Si riesce a farsi ascoltare da lui solo dandogli l'impressione che non possa farne a meno, non permettendogli di distrarsi e scappare e dandogli la sensazione che si è sicuri che lui riesca a fare quello che gli si chiede. In effetti ci riesce, ed allora ecco che sorride, finalmente soddisfatto.

É l'ultimo di 5 fratelli molto più grandi di lui. Nella sua famiglia nessuno ha il tempo di occuparsi della sua infanzia, sono tutti presi da altri tipi di impegni, compressi i genitori che lavorano fuori casa tutto il giorno. É costretto a confrontarsi continuamente con giochi e capacità non adatte alla sua età per cui ha sviluppato un forte senso di insufficienza. Non gli si è concesso di essere piccolo.

 

Chiara, 2 anni, secondogenita con una sorella maggiore di 7 anni. Maria, la primogenita, è una bambina molto estroversa che possiede la capacità di rendersi simpatica e di mostrarsi intraprendente, al punto di comparire in un programma televisivo per bambini riscuotendo un buon successo.

Chiara subisce l'invadenza della sorella e tende a ritirarsi ed isolarsi. La mamma la richiama di frequente e le dedica molto tempo ed attenzione, ma non coglie il fatto che Chiara si senta seconda in tutto rispetto a Maria. Quando in casa o tra gli amici della famiglia qualcuno mostra una forte personalità e galvanizza l'attenzione di tutti su di sé, Chiara si nasconde e, con aria spaventata, cerca di non farsi vedere, pur se curiosa ed interessata.

Ho riconosciuto Chiara osservandola mentre tenevo una riunione. Era seduta in prima fila, in braccio alla mamma, e mi guardava curiosa mentre parlavo ma, al termine dell'incontro quando ho cercato di accarezzarla si è girata verso la madre mettendosi a piangere per la paura che potessi toccarla. Successivamente ho saputo dalla madre che non era sempre particolarmente timida ma si mostrava tale solo in talune occasioni quando erano presenti ospiti o amici di famiglia.

Ho consigliato alla madre di osservarla di nascosto, mentre era sola con la sorella ed ella mi ha confidato che era stata molto colpita dal fatto di scoprirla cocciuta e testarda nel rifiutare di giocare con la sorella, per diventare però arrendevole tutte le volte che la sorella si avvicinava ai suoi giochi. All'arrivo della sorella, Chiara lasciava i giochi e correva a cercare la madre. "Ma se non le ho fatto niente!" rispondeva Maria interpellata.

Il divario di possibilità tra Chiara e Maria è talmente grande che Chiara non prova nemmeno a resistere quando la vicinanza è stretta. La madre di Chiara spiega di aver sempre badato a distribuire il suo affetto in maniera equilibrata tra l'una e l'altra e di aver fatto attenzione a che non si manifestassero disuguaglianze. Ma nella percezione di Chiara non è così: la sorella maggiore ha sempre occupato saldamente una posizione dominante e determinante e lei non si è mai sentita di "essere tutto" per la madre. Una bimba non possiede sistemi di pensiero così articolati e complessi da accettare di essere nata per seconda all'interno del sistema famigliare. Ciascun essere umano ha bisogno di sentirsi "tutto" all'interno del rapporto con la madre, per potersi poi sentire completo nel rapporto con se stesso e con gli altri. Maria sa di essere stata questo "tutto" ed ha avvertito l'attenzione della madre nel non farla ingelosire al momento della nascita della sorella.

La prima proposta di artigianato educativo è stata quella di differenziare l'una dall'altra anche tenendole lontane. Per Chiara è infatti necessario un percorso di maggior individuazione al fine di sentirsi più grande e capace, senza dover costantemente sostenere il confronto con la sorella. L'allontanamento l'una dall'altra, in concomitanza con l'inizio dell'anno scolastico ed utilizzando il tempo prolungato per Maria, produce in loro un reciproco desiderio di incontro alla sera.

Nelle discussioni di gruppo viene proposto ai genitori un costante scambio di ruoli per riuscire a tenere in relazione le due figlie: non appena una figlia richiede qualcosa ad uno, l'altro si mette immediatamente in sintonia con l'altra. E' necessario infatti limitare la prepotenza di Maria, rendendola più equilibrata e generosa, e fortificare Chiara che altrimenti rischia di entrare in un copione da invisibile, gratificandola nei suoi piccoli successi.

I primi risultati appaiono da lì a poco: Chiara inizia ad esprimersi con energia, esprime un gusto personale nel vestirsi, reagisce alla sorella imponendole giochi di suo piacimento e accetta di partecipare ad una recita nella sua scuola materna.

 

Arturo, 25 anni, figlio unico. I suoi genitori hanno acquistato un negozio di generi alimentari per offrirgli una possibilità di lavoro, giacché non ha portato a termine gli studi, né è riuscito ad inserirsi in altre attività lavorative. Il negozio è ben avviato ed egli approfitta della disponibilità di lavoro dei genitori per incontrare gli amici con cui staziona quasi tutto il giorno sul muretto di fronte al negozio. Si vergogna di gestire il negozio e prova una feroce invidia verso chi è riuscito ad avere una immagine sociale più brillante.

Non si mette però in competizione e preferisce gestire con falsità i suoi rapporti. La sua invidia è nascosta ed egli non la ammette nemmeno a se stesso, preferendo criticare anche ferocemente tutte le persone che gli sembrano superiori a lui. La sua occupazione preferita è fare pettegolezzi, mettendo in cattiva luce le stesse persone con cui, fino all'attimo prima, sorrideva e scherzava. Arturo è falso e bugiardo con gli altri per mascherarsi e trovare giustificazioni per una vita che conduce senza esserne contento. Attribuisce la sua condizione ad una serie di ingiustizie subite a scuola e sul lavoro, del tutto inventate, che, però, continua a raccontare come se fossero vere, fino al punto da crederci lui stesso.

Arturo ha scoperto all'età di 14 anni di essere un bambino adottato e, da allora, ha cominciato a detestare i genitori adottivi. Quella scoperta ha trasformato la sua sensazione di insufficienza, derivata dal trauma per essere stato abbandonato da parte dei suoi genitori naturali, in risentimento aperto verso gli altri.

L'ingiustizia subita è il pretesto per sprigionare la sua sottile aggressività verso tutti. La falsità diventa un costume che gli consente di mascherare i suoi sentimenti di inferiorità e la sua invidia aggressiva.

Il percorso di artigianato educativo, a cui Arturo viene casualmente introdotto, inizia con la frequentazione di un gruppo di preghiera presso la sua parrocchia. Sarà una ragazza a condurlo lì ed a proporgli una disciplina di incontri e di preghiera metodici. Anche gli incontri di discussione lo inizieranno a condurre verso la riconciliazione con il lavoro, l'amore e gli obblighi verso la comunità.

 

G.P. 38 anni. Proviene da una famiglia che lo ha sempre sminuito e squalificato perché il più piccolo di tre fratelli. Ogni volta che esprimeva l'intenzione di realizzare qualche progetto, si sentiva immancabilmente affermare :"Non so se ci riuscirai (...) non so se ci sei portato (...) non so se sei capace (...) comunque, fa come vuoi...". Al termine della scuola secondaria superiore decide di iscriversi all'università ed i genitori gli dicono esplicitamente: "Tu non riuscirai a fare l'università perché hai poca volontà e determinazione. Come puoi pensare di riuscire visto che trascorri le tue giornate a non far nulla per renderti utile? Comunque fai come vuoi". G.P. interrompe gli studi dopo tre anni e con soli 3 esami sostenuti, per iniziare una attività come rappresentante. Nel frattempo aveva già ripetutamente affogato nell'alcool la sua invidia nei confronti dei fratelli che stavano riuscendo bene negli studi, nello sport, con le ragazze. L'attività di rappresentante lo porta lontano da casa ed egli, per la prima volta, trova fiducia in se stesso riuscendo bene nel suo lavoro. L'attività di rappresentante lo costringe ad una disciplina ripetitiva ed efficace: ogni volta si presenta con lo stesso frasario, le stesse battute e con argomenti circoscritti ai soli farmaci che propaganda ma su cui ha una ferratissima preparazione. Ha anche imparato a svicolare da discorsi che lo portano a temi su cui non è preparato attraverso la tecnica della battuta o della barzelletta, imparata nel periodo di formazione aziendale. Continua però a bere in maniera eccessiva fino a quando, consultato il medico per problemi epatici, fa una cura disintossicante e prende un periodo di vacanza. In quell'occasione conosce la sua futura moglie con cui vivrà in serenità per otto anni. Una sua ricaduta nell'alcool dopo tanto tempo gli sarà fatale. Entrerà immediatamente in uno stato di intossicazione acuta, si chiuderà nei suoi sogni senza più uscire da casa e morirà, qualche mese dopo, a causa di una lesione cerebrale.

 

Bruno, 36 anni, orfano di madre. Il padre si risposa dopo 10 anni, vissuti da Bruno nella solitudine. Inizia la sua vita da emarginato quando, a 16 anni, se ne va da casa nell'indifferenza dei suoi genitori che, dopo qualche discussione, non si danno eccessiva pena per la sua scelta, occupati come sono a star dietro ai suoi tre fratelli nati nel nuovo matrimonio. Inizia così il suo vagabondare e si mantiene con piccoli lavori qua e là: vende accendini ai semafori, fa il garzone in un bar, abita da amici e, per qualche tempo, in un istituto. Inizia a bere alcolici ed ad usare stupefacenti. Ricoverato in ospedale per denutrizione ed acuta intossicazione viene avviato in comunità; vi resterà a lungo crescendovi fino all'età di 26 anni. In comunità incontra Wilma., ex tossicodipendente, della sua stessa età e, contro il parere degli operatori, lascerà con lei la comunità. Vivranno a casa dei genitori di Wilma, che si presenta finalmente una famiglia per Bruno. I genitori li aiuteranno a trovare lavoro ed ad organizzarsi la vita fino a quando si sposeranno. La nascita di un figlio rappresenta per Bruno un tracollo psicologico: la mancanza delle attenzioni precedentemente ricevute dalla moglie e dai suoceri, il peso della responsabilità e la sensazione di inettitudine che non lo lascia mai, lo porteranno a ricominciare a bere. Verrà poi scoperto mentre si buca dal suocero e, pieno di vergogna, fuggirà dalla sua nuova casa. Di nuovo vagabondo, dorme dentro auto abbandonate fino a quando, rintracciato da un amico, viene convinto a rientrare in comunità. Inizia una deprimente odissea di fughe e reingressi: per 5 volte entra e, quando viene chiamato ad assumersi responsabilità, anche le più piccole, per 5 volte fugge nell'arco di tre anni. Nel frattempo la moglie decide di lasciarlo ed intraprende una relazione con un altro giovane. Bruno è ancora una volta completamente solo; incontra la moglie ed il figlio e si nasconde per non farsi riconoscere. Si vergogna. Nel raccontare l'episodio dice "l'ho subito perdonata perché aveva perfettamente ragione". Dopo quell'incontro inizia però il suo vero cammino di ricostruzione. Si presenta in una piccola comunità e viene accolto. Li si integra efficacemente nel clima sociale e progressivamente ricopre responsabilità anche importanti, attraverso queste sue attività, che riguardano le relazioni con l'esterno, riesce a far crescere l'importanza della comunità dove vive. Si accende in lui lo spirito di concorrenza con le altre comunità, affinché la "sua" si affermi maggiormente. Dichiara apertamente la voglia di rivalsa e incalza il lavoro di tutti per migliorare. La sua tensione creativa è oggetto di discussione tra i responsabili ma non viene contrastata sia per la qualità del lavoro svolto, sia perché, attraverso questo impegno, Bruno sta trovando stima di sé. Gli viene però proposto di esercitare una attenta e continua riflessione sulle sue motivazioni per ribaltare criticamente le radici dei suoi meccanismi competitivi. Scopre che la vera motivazione non sta nella voglia di vincere una competizione, quanto nella scoperta del gusto di competere.

 

7. L’adesivo

 

L'adesivo

Il disagio: le povertà affettive, il bisogno di accettazione, l'attaccamento, l'insaziabilità affettiva, la politossicodipendenza, il soggetto bulimico, la disposizione al condizionamento, l'imitazione, la dipendenza.

Le virtù: la tensione affiliativa, il desiderio  di coesione, la capacità  relazionale, l'indispensabilità del gruppo.

Il fedele

 

L’attaccamento

La condotta di attaccamento ai cuccioli è un comando biologico a protezione della vita neonatale, che tende a suscitare reazioni di avvicinamento da parte degli adulti. Nell'uomo è un processo molto più complesso che nelle altre specie.

Il distacco provoca infatti proteste da parte del bimbo che le esprime con pianto o riflessi manuali con cui cerca di afferrare un dito o i capelli oppure con  il movimento di abbraccio o i diversi segnali di richiamo verso l’adulto affinché si rivolga a lui: pianto, balbettio, sorriso spontaneo del neonato e sorriso sociale. La struttura di attaccamento tra bambino e chi si occupa di lui si sincronizza attraverso le routine interpersonali e si perfeziona rinforzandosi con segnali reciproci.

L’attaccamento e il distacco sono tappe dello sviluppo del sé nelle quali le ripetute sensazioni di coesione e distanza danno forma ad un'onda emozionale avvolgente e sciogliente: il dialogo del duo madre - bambino. Tale dialogo introiettato è costitutivo del sé perché la sensazione di essere avvolto non è statica, se così fosse non sarebbe avvertita nel suo svolgersi, ma dinamica.

L'attaccamento avvolgente non è sempre attivo ma potenziale, può essere invocato in ogni momento e in ogni momento la presenza materna può attivarsi in funzione di tal richiesta. Il bisogno di attaccamento del bimbo si sazia attraverso un altro attaccamento, quello della madre nei suoi confronti; la pienezza affettiva è l'esito finale di un dialogo emotivo senza lacerazioni e senza risposte non esaudite.  Se l'attaccamento fosse una condizione statica non ne verrebbe avvertita la necessità, né espressa ed esaudita la richiesta: l'intero processo nella sua completezza è l'emozione di attaccamento.

La sequenza del processo è memorizzabile, la sua realizzazione ripetibile e la sua struttura coscientizzabile; in quanto oggetto della coscienza è già presupposto del sé. Il sé è il luogo dove ha sede l'intero processo. L'attaccamento è un'emozione riflessa nel sé, autonoma rispetto alle sensazioni che la precedono e ne sono costitutive.

Il concetto di sé è però molto più articolato perché è conseguente a processi plurimi di differenziazione, non solo di attaccamento ma anche di difesa, di reattività, di piacere e di quiete come appaiono nello sviluppo delle diverse emozioni di base e dei diversi movimenti dell’io tipici di tali emozioni.

La perdita o lo scioglimento di un legame o la deprivazione prolungata dalle cure materne turbano il processo di attaccamento e possono avere gravi conseguenze sulla vita futura del bambino, ma non mettono in discussione la formazione del sé e la sua autoriflessività. Le conseguenze riguardano le future possibilità di equilibrio del bambino nell'individuare le distanze relazionali più opportune e nel disporsi all’appagamento.

L’attaccamento del neonato ha lo scopo di raggiungere e mantenere un grado accettabile di vicinanza con l’adulto; quando l’adulto è troppo lontano il bimbo lo richiama con il pianto, l’adulto si avvicina ed offre la sua presenza saziando la richiesta espressa.

La sensazione di attaccamento diventa emozione nel sé quando è pienamente sperimentata nel duo bimbo/madre: la distanza dalla madre diventa accettabile dal bimbo solo quando egli ha percepito empaticamente che anche la madre sperimenta attaccamento nei suoi confronti. Solo se gli attaccamenti sono due, sulle due parti, può essere avvertita la coesione. Il tradizionale modello attaccamento - separazione è solitamente proposto in tre stadiazioni: 1) tensione di attaccamento nel bimbo che produce avvicinamento da parte della madre, 2) strutturazione della routine, 3) distrazione dalla diade “madre/figlio” da parte del bimbo che, rassicurato dalla implementazione della routine, esplora il suo intorno e perviene ad una autonomia relativa. Tale modello richiede un supplemento di descrizione.

L’attaccamento è una sensazione che si trasforma in emozione in ragione del suo specifico appagamento; se al richiamo del bimbo la madre risponde mostrando il suo attaccamento a lui con l’intensità e la durata necessari, il bimbo si sazia mediante il gradimento di tal attaccamento materno. Lo stato in cui il duo perviene è quello della grazia relazionale, sperimentata in sé con forme mentali di tenero obnubilamento, dondolii, gorgoglii di soddisfazione e sorrisi in reciprocità. Madre e figlio (adulto e bimbo) si compiacciono nella vicinanza reciproca, gradita e magica. L’attaccamento è una sensazione connessa al movimento dell’Io di “andare verso” per rispondere ad esigenze biologiche ed ottenere grazia dalla vicinanza. Questa esperienza di grazia per piena sazietà della vicinanza è lo snodo attraverso cui la tensione di attaccamento è diventata amore e coscienza di amare nell’essere umano.

Quel passaggio è il momento più importante nell’evoluzione psicobiologica della specie e del singolo individuo. La presa di coscienza di una emozione di amore è maturazione di nuova consapevolezza: l’emozione dell’amore rende coscienti della meraviglia di tal emozione.

Il continuo bisogno di attaccamento deriva dalla rottura di questa grazia a seguito della separazione o della perdita (o della deprivazione). E’ molto importante però distinguere con precisione la grazia dal piacere; la prima è connessa alla vicinanza, la seconda alla fusione. La prima conduce l’uomo allo sperimentare l'orizzontalità dei rapporti di amicizia, la seconda a sperimentare il coinvolgimento nel vissuto altrui. In ambedue può determinarsi un processo di sviluppo di affettività oppure una sua caduta.

Un particolare caso di attaccamento non saziato è la dipendenza che deriva dalla mancanza di gradimento nello svolgersi della relazione di attaccamento. La madre può possedere la capacità affettiva di “dare il meglio di sé” nel processo attaccamento-avvicinamento e riuscire a saziare il figlio che, appagato, si bea nel gradimento dell’attaccamento della madre a lui. Se la madre non ha sufficiente capacità affettiva (lei stessa non è stata appagata, è in preda ad ansie, ha vissuto inquisizioni ed intimidazioni da parte di genitori ossessivi, ecc.) non sa rispondere alla richiesta di attaccamento del bimbo con la certa realizzazione della grazia saziante. Il figlio sente la separazione dalla madre pur in sua presenza: la madre non si avvicina, né si allontana ed esprime richiami che sollecitano nel bimbo il desiderio di gradimento. Tali richiami tengono accesa la tensione di attaccamento nel bambino, che porterà in se stesso la non sazietà affettiva: in tal modo si instaura la dipendenza assoluta dalla madre, che costringe il bimbo a crescere con la speranza di un riempimento, mai realizzato, ma sempre lasciato intravedere come possibile. Il processo di dipendenza chiude il bimbo entro la cornice del solo rapporto con la madre, e non c’è possibilità di apertura empatica al di fuori di tal rapporto.

Un certo tipo di madri tendono a creare dipendenza poiché tale legame è l’unico tipo di relazione che hanno sperimentato e conoscono. In genere sono madri ansiose e apprensive con una percezione limitata della sfera affettiva. Sono più preoccupate del fatto che il figlio scopra la loro incapacità di dare (il loro non aver nulla da dare) e che il figlio non abbia più bisogno di loro (conferma della loro nullità), di quanto non lo siano di accertarsi del vissuto del figlio, di empatizzare e controempatizzare con lui fino a renderlo in grado di autopercepirsi come un sé.

Il vincolo perverso che si genera diventa micidiale se il figlio si autoattribuisce la colpa della non realizzazione della sazietà affettiva. Egli sente di avere la sazietà a portata di mano ma la vede sempre sfuggire per propria mancanza o incapacità. In questo modello di relazione chi crea dipendenza gioca ad accendere il meccanismo della colpa nell'altro. Ed è estremamente semplice: basta non ammettere mai la propria colpa, né agli altri né a se stessi, ed attribuirla.

Solo se si tiene presente l’oggettività della sazietà di attaccamento, la grazia, si possiede il giusto indicatore del buon funzionamento della relazione madre/figlio. Nella cultura contemporanea si attribuisce oggettività al comportamento materno sulla base di “scale di impegno e di dedizione”: questi non sono indicatori di affettività, ma esprimono tensioni e valori di attività e di disponibilità il cui tipo logico appartiene alle categorie della responsabilità, dell'incoraggiamento e del sostegno. Esse possono rinforzare l'affettività di attaccamento ma non la costituiscono né la sostituiscono.

Tipico di certe madri è il “fare per i figli cose che pesano” in modo da autopromuoversi a buone madri e così riuscire a far pesare la quantità di fatica fatta per ottemperare ai propri compiti magari svolti nella più totale assenza di grazia e di amore.

E’ questo il processo psicologico che consente la autogiustificazione di sé nel caso di abbandono del figlio o la strumentalizzazione del figlio per gestire le relazioni con il marito o la sua realizzazione di virago maternalizzata. Meno la madre ama, più rende dipendente il figlio, maggiore è la dipendenza maggiore è il bisogno di attaccamento, e quest’ultimo rende faticoso e sacrificante occuparsi del figlio che, in modo irritante continua a chiedere attenzione.

 

Il disagio dell'adesivo

Caratteristica emblematica dell’adesivo è la ricerca di attaccamento la cui forma di spostamento più nota è l’appagamento vicario nel cibo. La bocca è l’organo con cui il bimbo ha il primo contatto positivo: l’incontro con il seno materno e l’assunzione del caldo colostro. Il primo latte non solo gli scalda lo stomaco ma lo sazia e lo appaga dopo che ha lasciato l’utero materno.

Ma non è solo il latte che lo riempie quanto la sperimentazione del contatto materno, la prima carezza, un bacio sulla pelle, il primo abbraccio.

La mancanza della madre, l’assenza di un adulto che la sostituisca, la perdita del padre o la deprivazione affettiva conducono verso il copione dell’adesivo.

L’adesivo ha una forte propensione a ricercare nel cibo un appagamento vicario rispetto all’attaccamento ed è soggetto a manifestare molti dei diversi disturbi dell’alimentazione: dalla preferenza per i cibi dolci e nutrienti ai disturbi della nutrizione o dell'alimentazione incontrollata, fino alla bulimia.

La persona che tende alla bulimia passa attraverso un percorso ingravescente di rapporto patologico con il cibo: il suo bisogno di affetto si trasforma in affanno e poi in  ingordigia di affetto. Affanno dell'adesivo ed ansia dell'avaro sono due modalità psicologiche simili perché sono lo sviluppo di due emozioni di base adiacenti: l'attaccamento e la paura. L'affanno ha per motore il bisogno di attaccarsi, l'ansia ha per motore la paura di perdere.

La prima conseguenza dell'affanno è il rapporto disordinato con il cibo: desiderio costante di ingurgitare qualcosa, a qualsiasi ora, per non percepire la sensazione di fame. La sovrapposizione della sensazione di fame alimentare con la fame affettiva deriva dall'ubicazione somatica del languore: la bocca dello stomaco in corrispondenza al plesso solare. La sovrapposizione di queste sensazioni si complica in rapporto alla sua sensibilità, la cui origine è un luogo interno al sé, come per l'invisibile. Affanno affettivo e carenza di autostima sono sensazioni adiacenti perché l'una e l'altra si fondano sul l'eccessivo "farsi oggetto di se stesso". Sentire, in questo caso, in modo profondo il proprio sé come un involucro vuoto senza valore. Il processo bulimico si instaura quando il corpo e il peso diventano consistenti: la percezione corporea del sé diventa piena anche se, spesso, inizia un ciclo di disprezzo e di odio per il proprio corpo. Il copione diventa allora ancora più complesso: il disgusto di sé mette in atto un allontanamento da se stesso e matura un punto di vista fortemente selettivo. Il soggetto combatte allora con tutte le forze  per tentare di uscire dalla prigionia costituita  dalla sua massa corporea. Egli tenderà a pesarsi in ogni momento avvertendo il corpo come un impedimento negativo da punire, gustando al negativo la sensazione della fame senza farsi vincere da essa. Il ciclo bipolare bulimia - anoressia diventa ripetitivo ed ondulatorio e muove in connessione alle fasi relazionali che il soggetto ha con la famiglia, con le relazioni significative e con gli altri.

Il copione di base dell’adesivo è invece più semplicemente incentrato sul desiderio di sperimentare la sensazione di attaccamento, di cui è continuamente in attesa come di una promessa ancora non mantenuta. Le successive evoluzioni, anche patologiche, sono schemi di categorizzazione psicologica e di azione giocati in contatto con altri copioni che, invece di equilibrare, rendono ancor più gravi le condizioni del soggetto.

Per comprendere il copione di base dell'adesivo occorre mettere bene a fuoco la natura del  suo bisogno di attenzione: egli tende a richiamare l'interesse degli altri su di sé, a mettersi in mostra fin da piccolo per giungere addirittura ad interpretare il ruolo del pagliaccio nel gruppo. Pur di essere considerato sceglie di far ridere di sé. Ama il contatto fisico, si pone sempre a bassa distanza dalle persone, chiunque siano, le tocca, le richiama a sé. 

Quando un soggetto affamato di attenzione vive un momento di relativa sazietà affettiva manifesta una così consistente gratificazione interiore che all’esterno appare quasi come un imbambolamento infantile. A volte anche accompagnato dal dondolio tipico del bambino. Questo processo regressivo può produrre anche disturbi dello sviluppo, può somatizzarsi e, accompagnato a problematiche organiche come il ritardo mentale o guasti del metabolismo proteico, avere come esito l'oligofrenia. 

A scuola l’adesivo è facilmente riconoscibile; non solo per il suo costantemente “appiccicarsi” alle altre persone, ma anche per il suo appariscente protagonismo in ogni iniziativa. Se in una classe l’insegnate chiede: “Chi va a prendere il gesso?” oppure “Chi fa l’elenco con i partecipanti alla gita scolastica?”, l’adesivo è già in piedi accanto alla cattedra. Ma non è appagato per molto tempo, poco dopo si offre di nuovo per un’altra commissione. Questa sua invadenza irrita ed infastidisce, provocando il rifiuto nei suoi confronti da parte di insegnati e compagni. Ma non modifica il suo comportamento, incamera il rifiuto e sente ancora più forte il bisogno di attaccamento. Può essere contenuto e saziato solo affidandogli un compito prestabilito quando lui non se lo aspetta. La sua tensione di attaccamento crescerà con la crescita delle aspettative di appagamento che lo inducono a richieste ed interventi. Se viene accontentato solo dopo ripetute insistenze non sarà mai del tutto pago, perché le sue aspettative sono, nel frattempo, già divenute più alte. Per essere davvero appagato l’adesivo deve ricevere più di quello che richiede.

Una particolare dislocazione dell'affettività verso gli oggetti è naturale conseguenza del bisogno di attenzione: pupazzi, giochi, libri, oggetti diventano bersagli di una transizione vicariante. L'adesivo li anima, dialoga con loro, li considera una estensione del sé e non dismette mai il loro possesso. Egli si circonda di oggetti, li chiede in regalo, fa di tutto pur di averli con sé. Può diventare così possessivo da non aver pace fino a che quel pupazzo non è vicino al suo letto o quel giocattolo non è nelle sue mani o quella tal collezione non è completa. Nell'adesivo che non è riuscito a saziare la sua fame affettiva e che non ne ha nemmeno compreso la natura desiderante può prodursi il fenomeno della cleptomania. Il fatto che quell'oggetto gli piaccia accende immediatamente il bisogno di possesso e la sensazione di diritto di proprietà. E' suo ed immediatamente lo fa suo. 

L’adesivo si presenta come un buon amico perché ha bisogno di amici al punto da svendersi, diventare servizievole oltre misura, sottomettersi e lasciarsi ingannare.

Pur di essere apprezzato diventa condiscendente ed è facilmente condizionabile e manipolabile. Più vive carenze affettive, più concede potere all’altrui presenza: accetta qualunque ordine o proposta, anche insana, pur di essere parte di un gruppo. Nel rapporto con gli altri non cerca di far prevalere la sua opinione ma giunge a sacrificare se stesso purché vi sia accordo tra le persone e non avvenga nessuna separazione o allontanamento.

La sua proiezione verso gli altri lo rendono riconoscibile per altre due sue caratteristiche: l'imitazione e la sottomissione.

Egli imita le persone o i personaggi da cui si sente attratto. Le persone concrete che lo circondano sono modelli da cui attinge esempi di atteggiamenti e categorie di pensiero e di azione. "Mio zio che è grande dice che... e fa...". è una frase consueta quando, nel corso di un gioco infantile, non ha più risposte o risorse per farsi valere. Lo zio è bersaglio della sua attenzione e da lui l'adesivo ricava quei modi di essere copiati ed introiettati senza che essi siano precedentemente diventati oggetto della sua riflessione cognitiva. L'adesivo non empatizza la presenza dello zio e il senso delle sue parole o delle sue azioni, le ripete semplicemente adoperandole anche fuori del contesto in cui esprimevano il loro significato. Egli aderisce anche alle modalità di azione che si appiccicano a lui nella loro espressione superficiale, senza comprensione profonda. Imita dapprima le persone che gli piacciono per addivenire all'imitazione dei personaggi, anche astratti e inventati 8quelli dei fumetti, ad esempio), che gli risultano simpatici o attraenti. Manifesta così un comportamento organizzato su gestualità, espressioni e battute di spirito spesso inadeguate alle situazioni reali. Il disordine di questo insieme di atteggiamenti può subire una ulteriore trasformazione: ove maturi un distacco dal sé ed un desiderio di autorappresentazione grandiosa l'adesivo può percorrere la pericolosa via del delirio di immedesimazione. Egli si comporta come quel personaggio che a lui piace fino a credere di essere davvero quel personaggio. Il primo stadio è quello di sognare ad occhi aperti di essere e di "giocare a...", il secondo è quello di rimanere attaccato a quel sogno e considerarlo reale.

La sottomissione ad altri procede lungo il percorso della condiscendenza. La ricerca affettiva lo propone come un soggetto disponibile ad ogni contatto a cui l'adesivo si adegua per favorire le richieste dell'altro ed essere da lui accettato. L'altro è per lui sempre buono e positivo, in ragione dell'attenzione che mostra per l'adesivo e dall'altro l'adesivo può facilmente farsi "rapire"; il rapimento è un incantamento emozionale gratificante che fa apparire l'altro infinitamente buono e importante. E, anche di fronte ad attenzioni minime egli sente gratitudine per l'interesse che l'altro mostra; è infatti molto facile "comperare" l'adesivo. Basta ascoltarlo, gratificarlo e promettere una attenzione crescente per il futuro e contemporaneamente minacciare che, se egli non si comporterà secondo le aspettative, interverrà una separazione, determinata dalle situazioni, non dalla volontà dell'altro. L'ansia di separazione è il motore della personalità dipendente e, attraverso l'attrazione di appagamento e la paura di perdere tale possibilità, la sottomissione si attua. In due storie di vita vengono raccontati due percorsi di prostituzione maschile e femminile (Gino e Valentina) che contengono la miscela di questi processi. Una particolare disposizione ad essere abusati sessualmente nell'infanzia è connessa alla struttura di personalità dell'adesivo: egli è un soggetto che più frequentemente di altri può essere vittima di abuso perché la sua condiscendenza lo conduce al limite di situazioni di rischio e la sua incapacità di ribellarsi lo costringe all'accettazione dell'abuso. Spesso nella accettazione dell'abuso svolge un ruolo anche il disturbo reattivo di attaccamento di tipo disinibito; in tal caso non ci sono limiti sociali e relazionali all'attaccamento e tutto ciò che lo attua è necessario per la personale sazietà.

Ciò che emerge dai racconti di abuso in molti bambini è la loro incapacità di ricordare e raccontare gli episodi e la trama dello svolgimento della relazione. Ciò è dovuto a due caratteristiche dell'adesivo: l'obbedienza all'ingiunzione di mantenere il segreto  e il senso di colpa. Il segreto è infatti un accordo precedente al momento dell'abuso ed è uno degli elementi che ha reso la relazione con l'altro importante e significativa. Possedere un segreto comune è una complicità di possesso che garantisce la continuazione del rapporto e dell'appagamento di attenzione ricevuta. Il senso di colpa è dovuto al fatto che l'abusato si responsabilizza di quanto è accaduto perché non riesce a dare un giudizio negativo su colui che lo aveva considerato oggetto di attenzione. Da ciò la sua difficoltà nel raccontare quasi fosse un tradimento verso l'altro. Non da ultimo occorre ricordare che la carenza affettiva di base è anche mancanza di metro di misura dell'affettività e, di conseguenza, difficoltà di formulazione di giudizio in merito ad azioni di sfruttamento e di violenza attuate su di lui.  

 

Le risorse dell’adesivo

C’è un momento in cui l’adesivo comprende il suo eccessivo bisogno di attaccamento e trova qualcuno a cui esprimere tale bisogno e condividerne le manifestazioni. A quel punto il suo difficile viaggio nelle relazioni diventa un facile volo. Quando il suo bisogno di essere oggetto di attenzione è saziato, non sarà più petulante ma affettuoso, sensibile, affezionato e premuroso. L’adesivo ha una grande capacità di coltivare le relazioni, ricordarsi gli anniversari, far sentire la sua presenza con continuità alle persone. E' sempre presente nelle situazioni difficili ricordando agli altri che possono contare su di lui. Sa essere un consolatore. Ha un grande senso dell'amicizia ed è fedele anche quando la fedeltà gli costa e gli fa vivere contraddizioni. Ha grande memoria per le attenzioni che ha ricevuto e discrimina in modo netto le persone che lo hanno ferito da quelle che lo hanno aiutato e compreso. E’ un generoso portatore di aiuto specialmente nei confronti di persone che come lui hanno vissuto poca gratificazione di attaccamento. Egli tende sempre a prendere in considerazione l'aspetto positivo rispetto a quello negativo e trova comunque qualcosa di bello e piacevole in tutte le situazioni.

E’ in grado di tenere insieme persone molto differenti tra di loro accontentando i loro gusti e preferenze, in ragione della sua capacità di individuare le diverse modulazioni della propensione all’attaccamento presenti in ciascuno. Sa stare nei gruppi ed è in grado di mantenerli compatti ed in accordo mediando tra le diverse posizioni. E’ un ottimo gregario perché ciò che maggiormente gli interessa è il successo di tutti, dell’insieme, del gruppo e non il suo personale.

 

Storie di tipi

 

Vincenzo 36 mesi. Si muove silenziosamente e comunque sempre attaccato a qualcosa o a qualcuno, adulto preferibilmente. Ricerca una presenza affettiva continua, con lo sguardo soprattutto. Usa ogni gesto dell'altro, anche casuale, per catturare l'attenzione su di sé. Ricerca continui contatti fisici, vuole essere toccato; ti abbraccia, non parla molto, probabilmente perché il linguaggio è una forma di comunicazione che lui percepisce come separatoria. Anche con gli altri bambini del nido usa questo tipo di atteggiamento e riesce a farsi benvolere da tutti coloro che gli concedono quello che vuole. Alcune volte esagera dando l'impressione di voler soffocare i bambini che stringe fino a far loro male e la reazione di allontanamento dell'altro provoca in lui una crisi di pianto. Allo stesso modo i suoi rapporti con gli oggetti sono particolarmente intensi: li tocca, li tiene stretti, li fa quasi diventare tutt'uno col suo corpo, tanto che difficilmente un altro bambino tenta di portarglieli via. Il suo giocattolo è per lui vitale. Un metodo che a volte funziona è quello di fargli fare giochi in cui deve liberarsi per forza di qualcosa, deve dare qualcosa o scambiarlo, come una palla ad esempio. Mangia con avidità tutto. I dolci sono per lui motivo di grande gioia. Vincenzo ha bisogno di trovare l'amore dentro di sé per sé stesso, non si ama perché non è stato amato e cerca sensazioni sostitutive che lo facciano sentire vivo.

Con lui gioco a fargli fare tutto quello che è possibile, cerco di fargli sentire che è capace di fare, di parlare, di essere amato, ma è talmente preoccupato di avere che non riesce a dare niente.

Vincenzo ha avuto una storia difficile, figlio di una madre psichicamente instabile e di un padre assolutamente incapace di occuparsene, è stato separato più volte dai genitori e, insieme alla sorellina più piccola, è stato affidato a vari istituti.

 

Enrico ha otto anni ed i suoi genitori sono separati da tre anni. Enrico è un bambino che si presenta allegro, umorista e pieno di vita. Tende ad imitare tutto quello che fanno i suoi compagni di gioco. Anche alla scuola materna si appiccicava agli altri compagni e li imitava, fino al punto da seguirli anche nel momento di andare in bagno.

Non vede spesso il papà a cui era molto legato e ne sente un forte bisogno. La madre ha ripetutamente attentato al suo attaccamento verso il padre descrivendolo ad Enrico come una persona cattiva che non ha voluto bene alla famiglia. In Enrico si manifesta così un forte conflitto interno e lo maschera, sia in presenza della madre che del padre. Cerca con tutti un costante contatto per supplire alla mancanza del padre, da lui considerato il miglior compagno di giochi. Non vuol saperne di dormire nel suo lettino e pretende energicamente di mantenere il suo posto nel letto matrimoniale al quale si è ormai abituato e impedisce alla madre di vivere una nuova relazione affettiva per lei importante.

Enrico ha sempre bisogno di mettersi in mostra, di ridere, scherzare e di porsi al centro dell’attenzione giocando a fare il pagliaccio pur di destare simpatia. In questo modo nasconde un grande bisogno e un grande dolore. All'apparenza sembra poco sensibile ed emozionalmente ottuso, ma ciò dipende dall'essersi costruito molte difese per non soffrire. Egli infatti è sempre alla ricerca di sazietà emozionale, attraverso la collezione di giocattoli o sensazioni eclatanti. Sarà per lui vitale condividere con il padre il dolore della loro separazione, scoprendo la reciprocità di un amore che resta in attesa di essere finalmente pienamente vissuto.

 

Gino T. si sempre messo in mostra per un suo bisogno di accettazione da parte dei genitori; un po’ ingordo, grassottello, circondato da amici ed amiche non aveva mai vissuto come problema il fatto che gli altri ridessero di lui e delle sue bravate, anzi, queste ultime servivano a far sì che gli altri nutrissero interesse e considerazione nei suoi confronti. La sua crisi profonda avviene quando all’età di 14 anni si innamora di una coetanea e le chiede di mettersi insieme a lui. Lei lo guarda e si mette a ridere di gusto. Pensava infatti che fosse uno scherzo e non poteva nemmeno prendere in considerazione l’idea di una relazione con Gino: l’adesivo è per sua implicita caratteristica la persona meno seduttiva in assoluto. Quella risata rompe qualcosa dentro lui e gli porta definitivamente via l’infanzia. Cambia compagnia di amici e, per sentirsi grande, frequentare una banda di ladruncoli con cui inizia a compiere bravate più redditizie: piccoli furti, furti in appartamenti, ecc. In genere viene affidato a lui il compito più pericoloso che Gino accetta per sentirsi importante agli occhi degli altri. Verrà arrestato per furto di autoradio e, dalla perquisizione a casa sua, la polizia scoprirà una lunga serie di oggetti rubati che gli costeranno una detenzione di un paio di anni. In carcere ripete lo stesso copione e pur di essere accettato dagli altri diventerà servizievole e sottomesso, fino al punto di accettare di essere sodomizzato dai compagni di cella.

Uscito dal carcere completamente disorientato e privo di solidi punti di riferimento inizia a frequentare ambienti della prostituzione e dei trans, dove viene visto come il bravo ragazzo da apprezzare e dove, d'altra parte, si sente "all'altezza della situazione". Per farsi accettare tende a "fare il buono".

"Mi consideravo talmente inferiore...mi calcolavo talmente poco...Questo mi impediva di avvicinarmi con naturalezza, per esempio, ad una ragazza; per paura del rifiuto o di non essere in grado di portare avanti dei ragionamenti”. Scivolerà lentamente nella prostituzione e nell’uso di droga da cui si libererà dopo un programma di recupero.

 

V.P. 17 anni. Vive con la madre e la sorella priva di figure maschili di riferimento, frequenta le superiori con difficoltà nel profitto. Ragazza molto bella gioca a diventare ancor più attraente facendo la vamp: con minigonna e calze a rete cattura l’interesse dei ragazzi più grandi che, con facilità, la seducono fino a passare per tutti come una “che ci sta”. Bocciata al terzo anno riceve la proposta di frequentare un corso per indossatrici a Roma ed abbandona la scuola. Dopo aver fatto la valletta ad alcune feste ed essersi affiliata alla azienda che gestisce il corso e le sfilate, le viene proposto di “essere carina” con un imprenditore verso cui la azienda, che era già divenuta il suo mondo, aveva degli obblighi. Con riluttanza va alla festa ed all’appuntamento, ma non riesce a farsi violenza e rifiuta di trascorrere la notte con il suo cliente. In preda a confusione scappa via e torna a casa. La mattina successiva riceve la telefonata del proprietario dell’azienda che, dopo averla rimproverata, si mostra però molto comprensivo con lei chiedendole di tornare al lavoro e di incontrare nuovamente quell’imprenditore, per chiedergli scusa. Mentre si avvia alla stazione incontra una sua compagna di scuola. L'amica la invita a non andare ed a partecipare al gruppo di incontro che si sarebbe tenuto nel pomeriggio. Quella riunione è per lei vitale poiché comprende, per le esplicite dichiarazione dei membri del gruppo, cosa volesse dire l’avviamento alla prostituzione. L’anno successivo si iscrive nuovamente al terzo anno, sarà promossa ed ora frequenta l’università.

 

Roberto, 23 anni, due fratelli più grandi, il padre è commerciante di abbigliamento benestante. Roberto cresce viziato e protetto. Non si impegna a scuola consapevole di avere comunque l'avvenire assicurato nel negozio di famiglia. I genitori provvedono a tutte le sue necessità anticipandole e lui, in cambio, frequenta saltuariamente il negozio. Il solo atto di presenza è sufficiente a tranquillizzare la sua famiglia. Non ha grosse motivazioni ed aspetta solo che passi il tempo, rimandando, di giorno in giorno, il suo impegno nella attività di famiglia. In questo lungo periodo di vuoto frequenta un amico che lavora in una carrozzeria del quartiere. Scoprono insieme l'ebbrezza prodotta dai solventi per vernice e iniziano a sniffarli ripetutamente, la prima conseguenza degli effetti inebrianti è la confusione di idee ed un comportamento aggressivo e violento che produce preoccupazione in famiglia e violente discussioni. Dopo ogni discussione scende in carrozzeria e "si carica" attraverso lo sniffare. Le sue condizioni psico-fisiche ne risentono: dolori gastrici, disappetenza, obnubilamento ed i genitori lo accompagnano da uno specialista neurologo che gli prescriverà alcuni tranquillanti. Tali sedativi costituiscono per lui una scoperta e, in breve, ne inizia un consumo vorace. Utilizza dapprima ricette della vecchia nonna che da anni  ne abusa e poi entra in contatto con il mercato grigio. Da li passa all'uso di droghe illegali di ogni tipo. All'età di vent'anni è in una condizione di tossicodipendenza acuta e, dopo alcuni falliti tentativi di disintossicazione, viene avviato verso la comunità. Non fa difficoltà ad entrare, è abituato ad essere gestito da altri ed accetta di buon grado l'autorità dei responsabili. Inizierà però un autentico processo di cambiamento solo quando scoprirà il significato della povertà: in una serie di occasioni in cui ha rotto le regole gli viene proposto di rinunciare ad alcune sigarette come forma di autopunizione. Non accetta fino a quando un suo amico gli dichiara: "Se scegli di rinunciare alle sigarette, rinuncio anch'io insieme a te". Colpito e preoccupato del fatto di perdere l'amico al quale è molto legato, inizia l'esperienza della rinuncia. Comprende così il significato del sacrificio. Con semplicità infantile dirà a tutti: "Sto rinunciando a quattro sigarette al giorno!" perché si sentirà un eroe per il fatto di essersi posto tale obiettivo. Per tale via ha cominciato a conoscere la povertà ed il gusto della scelta. Lentamente farà la sua strada da solo.

 

C.L. 38 anni, omosessuale che ha vissuto una profonda emarginazione con l'esperienza di travestito. Proviene da una famiglia contadina molto tradizionale e solida; lascia presto gli studi, inizia a lavorare come operaio ed, a seguito di una serie di occasioni economiche ben calcolate, si mette in proprio riuscendo, in breve tempo, a gestire una florida attività economica. Intanto coltiva una relazione omosessuale stabile che rappresenta per lui quella apertura estetica e culturale mai vissuta in famiglia. La possibilità di concedersi alcuni lussi farà si che lentamente si monti la testa iniziando a frequentare locali notturni ed a spendere denaro al di sopra delle sue possibilità. In questi frangenti conosce alcune sostanze psicoattive e ne comincia a far uso con una rapida escalation. Il resto della sua storia è simile a quella di molti altri con l'aggravante della omosessualità, ormai completamente disinibita. Inizia a prostituirsi e a vestirsi con abiti femminili ed il suo processo di inversione sessuale si acutizza. Pensa anche all'intervento chirurgico che non farà solo in ragione del timore di perdere i clienti abituali che lo frequentano in ragione della ambiguità del suo sesso. Scoprirà di essere sieropositivo e in fase avanzata di AIDS, chiederà aiuto e verrà accettato in comunità. Il suo processo di cambiamento sarà innescato dall'incontro con i genitori, lontani da lui da molti anni, e dalla volontà di ricominciare la sua vita da capo. La scelta di rinunciare al suo spasmodico desiderio di sentire e possedere, si accompagnerà alla riscoperta della sua sensibilità, scaturita nella sua applicazione nel lavoro di giardinaggio, da cui trae grande soddisfazione e successo.

 

Considerazioni sull'analisi dei tipi

La struttura ricorrente della analisi degli idealtipi ha tenuto in considerazione le caratteristiche salienti delle emozioni di base inscritte in ciascun tipo facendo attenzione a non usare il termine personalità nemmeno casualmente ed occasionalmente. Una personalità autentica e reale è infatti sempre una miscela di elementi contenuti nei tipi ideale descritti. L'obiettivo dell'esame dei copioni derivati dalle emozioni di base è stato quello di offrire descrizioni capaci di suggerire modalità di analisi di personalità e di riscontro per le strutture di emozione empatizzate, verificabili nel comportamento oggettivo. In alcuni casi (l'invisibile e l'adesivo) si è proposto lo studio di alcuni copioni multipli sia perché al termine della analisi potevano essere comprensibili, sia perché tali copioni sono particolarmente diffusi nell'espressione del disagio. Le storie di vita sono di per sé esemplificazioni di copioni multipli ma sono state scelte in ragione del fatto che in esse sono evidenti i connotati salienti di ciascun tipo. Nel quadro di analisi non sono mai contenute osservazioni inerenti al sé ideale dei soggetti, allo loro maturità, alle loro capacità decisionali, alle loro finalità esistenziali, agli ideali ed ai valori di riferimento intrinseci ed estrinseci. Queste caratteristiche appartengono infatti ad una sfera cognitiva ed affettiva le cui dimensioni e la cui struttura afferiscono  alla analisi dei sentimenti e non a quella delle emozioni. Scopo dell'artigianato educativo è quello di individuare i percorsi di trasformazione delle emozioni in sentimenti e quindi tale distinzione, anche se in taluni casi forzata, è indispensabile per l'organizzazione della trattazione e per favorire la comprensione. Tra emozioni e sentimenti ci sono i valori e tutto ciò che ad essi poteva afferire, non doveva essere contenuto nell'analisi dei copioni di disagio. Non lo sarà nemmeno nello strumento del questionario di artigianato educativo. La discussione sugli ideali e sui valori sarà più avanti oggetto di studio per la ricognizione delle qualità relazionali, delle qualità personali e delle qualità sociali degli artigiani dell'educazione.

 

Tratto da: "Dalle Emozioni ai Sentimenti" Masini Vincenzo del 2000 Prevenire è Possibile

 

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