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Caro papà,

ero arrivata in Congo da tre giorni, e ancora non sapevo assolutamente niente di questa terra, vedevo solo tutte facce nere, solcate dalla fatica e dalla fame. Era il mio primo giorno di lavoro, all'ospedale militare. Mi dicono questa è la stanza dove consultiamo le donne: uno stanzino di neanche dieci metri quadrati con 6 persone all'interno tra medici infermieri e donne con bambini. All'esterno 39 gradi, l'umidità rendeva le pareti del piccolo stanzino bagnate, le mosche si appoggiavano sulla pelle inzuppata di sudore.

Dopo un paio di ore in mezzo alla confusione vedo arrivare una donna, che si copre il volto con il pagne, secca secca, solo una piccola curva prominente a livello dell'addome fa supporre che sia una donna incinta. Chiede di essere visitata perchè è seguita dal progetto ma è stata ricoverata in ospedale.

Io e la mia collega Eva decidiamo di farla passare prima delle altre, le scansiamo il pagne dal volto e vediamo lembi di pelle che si stanno staccando dalle sue labbra, dalle palpebre, dalla fronte.

Il corpo è tutto piagato, gli occhi edematosi e purulenti, le labbra talmente gonfie che non riesce a parlare.

Intuitivamente la diagnosi è una Leyll, da nevirapina. La donna, Silvie, che fa la meccanica per guadagnarsi da vivere, ci dice che è ricoverata in un altro ospedale da circa una settimana, ma che le lesioni sono iniziate da circa due settimane e che continuano a peggiorare.

Inizialmente non era andata in ospedale, ma dal feticher; pensava infatti che fosse un fetiche (il malocchio) e ha cercato di farselo togliere. Intanto la situazione peggiorava ma ha dovuto aspettare per racimolare un pò di soldi per potersi permette il ricovero in ospedale.

Ci assicura che è stata brava, ha continuato a prendere la terapia che noi le avevamo dato per salvare il bambino, e che l'ha finita solo il giorno prima, ed è per questo che è venuta da noi.

Io e Eva ci guardiamo negli occhi e tutte e due intuiamo perchè si è ridotta così: non ha interrotto la terapia.

“Perchè non è venuta prima?”, le chiediamo all’unisono.

Ci spiega che non poteva dire ai parenti di andare dai Mundele (i bianchi in lingua monokutuba), altrimenti avrebbero scoperto il segreto della sua sieropositività!

Iniziamo immediatamente i trattamenti necessari: alcune piaghe sono già in fase di cicatrizzazione ma sono gli occhi che destano grave preoccupazione, oltre al forte bruciore non vede bene.

Non so proprio da chi farla visitare, noi qui cerchiamo di arrangiarci non siamo proprio degli oculisti, e sopratutto non sappiamo di chi poterci fidare.

Decidiamo di portarla nella clinica più rinomata della città e di darle un pò di speranza perché si abbandona e si mette si piangere dal dolore e dalla disperazione. Le dico che ci siamo noi, che ci prenderemo cura di lei, del suo bambino ma è evidente il suo terrore: ha paura di essere scoperta dalla sua famiglia, ha anche paura che possa succedere qualcosa al suo bambino.
Silvie si riprende, viene da noi una volta a settimana, sta meglio, gli occhi le bruciano ancora ma con il collirio va meglio, fino a che un giorno mi dice che si sente qualcosa di strano alla vagina: "ne s'ouvre pas, ne s'ouvre pas"continua a ripetere.

Alla prima consultazione le piaghe avevano interessato anche la mucosa vaginale, le avevo dato anche il betadine ginecologico per disinfezione e avevo cercato per tutta la città una pomata steroidea, ma i nomi commerciali dei farmaci in Congo sono diversi e tutti i farmacisti mi guardavano increduli quando parlavo di steroidi, non capivano...

La visito e capisco cosa vuole dirmi: le piccola labbra a causa delle sinchie si ero chiuse, appiccicate, erano diventate un tutt'uno... Ci vuole un'incisione, penso, poi guardo Eva, guardo il ventre di Silvie e penso, fra qualche giorno scade il termine, deve partorire e come fa con la vagina ridotta in questo modo? Chiamo telefonicamente Francesca, la responsabile del progetto, che in quel periodo era tornata in Italia, per chiedere consiglio. Secondo noive fare un cesareo, ma devo trovare un ginecologo fidato che la visiti.

Un parto cesareo in Congo non è uno scherzo, la sterilizzazione delle sale parto è una barzelletta e il tasso di mortalità per infezioni post chirurgiche è molto alto. Inoltre la maggior parte dei ginecologhi quando vedono affacciarsi la possibilità di un cesareo, non indugiano, vedono soldi, soldi più che si aggiungono al loro misero stipendio, e allora perchè non farlo?

Mi serve una persona di fiducia, non voglio mettere Silvie nella mani di un macellaio che fa il cesareo solo per arrotondare lo stipendio...

Ed è così che la accompagno all'ospedale più nuovo (si fa per dire) della città. li la visita una ginecologa alta, grossa, imponente che, al termine della visita mi dice: “Oltre alle sinechie delle piccole labbra, c'è una necrosi diffusa a tutta la vagina; se partorisce per via vaginale rischia la morte per emorragia, i punti di sutura non possono reggere su una cute cosi necrotica e friabile”.

Silvie mi guarda, non capisce. In quella piccola stanza siamo io, lei, e la ginecologa. Mi implora di aspettare, ha paura, non vuole fare il cesareo, mi chiede di poter fare il parto vaginale, poi se qualcosa non va, farà un cesareo di urgenza, guardo la ginecologa in maniera interrogativa, mi risponde no, il rischio è troppo alto.

Silvie continua a non essere convinta, provo a parlarle  a tu per tu, mi dice che lei non ha i soldi, e le rispondo di stare tranquilla, dal punto di vista economico sarà il progetto italiano a farsene carico, ma non basta, le dico di fare la visita nestesiologica così siamo pronti a qualsiasi evenienza.

Si allontana smarrita avviandosi alla nuova visita, e non dice più niente. Io la aspetto nervosa,  ho paura che forzarla non sia giusto, ma devo fidarmi della ginecologa, non si può lavorare da soli e questo non è il mio campo, mi ripeto.

Quando esce con un'occhiata furtiva, mi fa capire che vuole parlarmi, ma lontana da li, da occhi indiscreti che potrebbero capire che la mia presenza possa far pensare alla sua sieropositività.

Allora mi allontano e mi dirigo verso la macchina; lei sa dov'è parcheggiata, era venuta con me, anche se l'avevo fatta scendere all'ingresso posteriore dell'ospedale (sempre per non dare nell'occhio!). Ci vediamo alla macchina e, mentre provo nuovamente a spiegarle l'importanza del cesareo, a dirle che la sua gravidanza è a termine, che potrebbe partorire da un momento all'altro, che un cesareo d'urgenza è gravato da molte più complicanze, che è meglio organizzarsi prima, che non si deve preoccupare perché avrei comprato tutti i farmaci necessari per la mattina dopo, mi dice che ha visto una persona in ospedale e se posso parlarci io. Le chiedo: “Chi è?”. “E’ mio fratello, è medico e lavora in quell'ospedale”.

Parlo con il fratello, cordialmente provo a spiegargli la situazione, ma vedo una certa resistenza nei suoi occhi. ha capito ma ha già deciso, non mi ascolta, e mi congeda dicendomi: "Dio è grande, non possiamo credere di essere più grandi di lui, sarà quello che Dio vuole, mia sorella partorirà per parto vaginale, sarà Dio a decidere la sua sorte!”.

Entrambi mi salutano e si allontanano, io mi appoggio alla macchina incredula, mi accendo una sigaretta, ho bisogno di riprendermi, non ci credo, mi sento impotente, inutile. Quella donna rischia di morire di parto come tante in Africa che non hanno i soldi per permettersi il cesareo. lei che potrebbe perchè è supportata da noi, non vuole, non è possibile. A causa del ritardo nella diagnosi dovuto al feticher è ridotta in questo stato e ora non vuole ancora capire. Demoralizzata e scoraggiata, salgo in macchina e mi avvio verso casa, penso di essere stata chiara con Silvie, le ho detto e ripetuto: “Pensaci bene e stasera chiamami, io comunque compro tutto il necessario!”. Il telefono non suona, ed io aspetto. Eva, la mia collega, sta facendo le valigie, domani lascia il Congo, mi vede assorta e preoccupata: “Pensi ad Silvie?”. “Si, non posso accettare di essere cosi impotente!”. Eva è pratica, prende il telefono e la chiama. Sono le nove di sera, alle prime due chiamate non risponde, alla terza risponde e dice che ci sta pensando, che ne ha parlato con la madre, e che ci richiamerà domani mattina. Sperando che il piccolo non decida di venire al mondo proprio quella notte, d'altronde Silvie ha deciso di chiamarlo Sagesse...
Al mattino chiedo ad Eva se Silvie ha chiamato, …niente, … va beh, …non posso cambiare il mondo, …forse è come dice il fratello … sarà quel che Dio vuole, …Ho una grande amarezza.
Ma mentre sono tuffata dentro dentro le diecimila questioni di ogni mattina, suona il telefono, è lei  e mi dice: “Va bene, facciamo il cesareo, j'ai confiance en toi!”. Vado di corsa in farmacia a comprare dagli aghi di sutura ai farmaci anestetici, e poi in ospedale dove incontro Silvie, la mamma e un altro loro parente che non capisco bene chi sia, in una stanzetta isolata.

Consegno tutti i sacchetti con i farmaci ma avverto una strana sensazione nell'aria: la ginecologa, che il giorno prima era molto disponibile, mi dice che c'è un problema e che quel giorno non la possono operare. Il problema è che quel giorno è il 30 aprile, il giorno dopo ci sarebbe stata la festa dei lavoratori, e poi la domenica, in cui si fanno solo le urgenze. “Ma come? abbiamo convinto la donna e ora rischiamo di farla partorire in urgenza?, che diavolo di problema c'è oggi?”.

“La sterilizzatrice è rotta e non abbiamo teli sterili per la sala operatoria”, mi risponde. Resto in attesa, lunga due ore, nel frattempo tutte le sage femme, allertate del possibile cesareo mi chiedono come devono comportarsi, come devono fare i farmaci antiretrovirali. Mi imbarazza dover tenere una piccola lezione pratica per spiegare loro come utilizzare l'AZT, e come fare la profilassi al bambino. Dopo due ore di attesa il primario della ginecologia dice che non è possibile operarla quella mattina, o aspettiamo o la portiamo da un'altra parte. Non so che fare,  Silvie  non vuole più andare via da li, mi dice: “E dove mi porti?”. Non lo so dove portarla ma ho il sospetto che non la vogliano operare perchè sieropositiva, se la lascio li c’è il rischio che inizi il travaglio e nessuno la operi.
Mi prendo la responsabilità di portarla all'ospedale militare. Non ho un buon rapporto con i medici di quell’ospedale, tantomeno con i ginecologhi, però lavoriamo li da anni, ed io conosco le sage e conosco il colonnello, decido di chiedere a lui. Quando lo dico ad Silvie, rivedo nei suoi occhi il terrore: “Perché?, tutto da capo, una altra visita, una altra decisione, un altro ospedale… , e poi qui c'è mio fratello…” Le spiego che non vedo altra soluzione e che debbono venirmi dietro a distanza.  Mi allontano di un centinaio di metri, Silvie e la mamma mi seguono, in maniera furtiva si infilano in macchina, le porto all'ospedale militare e speriamo bene...
Quando arrivo per fortuna c'è Denise, la sage che collabora con noi. Mi dice che stanno facendo un  cesareo ad una donna arruolata nel nostro progetto, che non c'è problema, ne faranno un altro, mi da l'ordonnance per il necessario (ovviamente diverso da quello che mi avevano chiesto nell'altro ospedale) e vado nuovamente in farmacia a comprare il necessario.

Quando torno e vado verso la sala parto vedo da lontano Denise che si sbraccia, cerca di parlarmi ma non capisco perché quando si emoziona, o si arrabbia, balbetta e diventa incomprensibile. La faccio calmare e mi spiega che i ginecologi hanno deciso di bloccare tutti e due i cesarei del progetto per un problema di divisione di soldi tra ginecologi e anestesisti. Non fanno i cesarei perchè non si accordano su come dividere il compenso ed è tutto rimandato a lunedi.

“Non è possibile! non posso crederci!, cosa faccio ora?” Denise mi propone di provare in un altro ospedale, “No! mi rifiuto, questa donna non può subire di nuovo lo spostamento in un altro ospedale! in più ce ne è un'altra a partorire che ha le membrane rotte: C’è il rischio altissimo di contaminare il bambino, è già in flebo con la profilassi, come faccio a portare tutte e due in un altro ospedale?, e poi dove?, è ormai pomeriggio, il primo maggio si avvicina, il week end inizia, che faccio?”.

Decido di andare a parlare con il colonnello. Vedo uscire dalla sua stanza ginecologi ed anestesisti, ed appena il colonnello mi riceve è lui stesso a dirmi: “Dottoressa non si preoccupi, ho detto loro che in mezz'ora voglio che la questione sia risolta!”. Tiro un sospiro di sollievo, anche se ormai mi sembra che le cose si siano messe male: “Con che umore i ginecologi opereranno quella donna e gli anestesisti la addormenteranno?”. Preferisco non pensarci, ormai sono qui e non posso fare altrimenti, maledico questa terra, e il loro Dio denaro.
Il primo cesareo inizia alle 16. E’ dalle 8 del mattino che sono in giro, decido di andare a casa, a  recuperare le energie, mi sento sfibrata. In un'ora sono di nuovo lì, entro in sala parto. La sage femme mi dice che hanno appena iniziato il secondo, quello di Silvie. Stringo i denti, speriamo bene! Esco fuori e fumo un’altra sigaretta e mi avvicina una bimba di sette-otto anni mi, con occhi teneri mi guarda e mi chiede: “Come sta la mia mamma?”. E’ l'altra figlia di Silvie, le dico di non preoccuparsi che sta andando tutto bene e si siede accanto a me ad aspettare. Dopo dieci minuti rientro in sala parto; il bambino è nato, è ancora tutto sporco, una prima sage mi dice che sta bene, ma mentre esco per dirlo alla bimba, una seconda sage mi chiama urlando, mi dice che il bimbo è in sofferenza respiratoria e che ha bisogno dello steroide, il bimbo non respira. Corro verso il nostro magazzino che per fortuna è li vicino, sono sicura che deve essercene una scorta di riserva, non avrei il tempo per andare in farmacia, per fortuna la trovo, glielo iniettiamo subito e il bambino inizia a respirare. Le gambe mi tremano...
Silvie esce dalla sala operatoria, si è risvegliata, sta bene, le dico che dobbiamo trasferire il bimbo in rianimazione perché lo steroide lo ha fatto respirare, ma non sta ancora bene. Intanto mi chiedo se forse lo abbiamo fatto nascere troppo presto, non lo so ma so che questa è l'Africa. Così faccio qualche cosa di pratico, vado a comprare il latte per il bimbo, Silvie non potrà allattarlo e la rianimazione è in un altro ospedale. E’ sera e vado a casa sfinita.
Il bimbo di Silvie si è salvato, si chiama Sagesse, anche se è un maschio, ora ha tre mesi e sta abbastanza bene, ma la sua storia continua e il resto te lo racconto nella prossima mail.

Sono legata a questa donna in maniera particolare, un pò perchè la stimo, fa la meccanica con il suo corpo esile, fragile, piagato, ma ha l'onestà di non chiedere mai più del necessario (cosa rara in Congo), ed ha la capacità di parlarti con gli occhi; un pò perchè mi ha fatto concretamente conoscere la realtà africana con un impatto forte.

La sera del suo cesareo sono tornata a casa pensando: o domani prendo il primo volo e me ne torno in Italia, o decido di buttarmi in questa avventura, c'è veramente bisogno e forse posso farcela.
Un bacione
Giulia

 

 

Come ti dicevo, in Congo il progetto procede discretamente bene, il numero di donne che prendiamo in carico aumenta, siamo a circa 400 dal gennaio 2009, la percentuale di trasmissione è molto bassa, ma tutto questo richiede un grosso lavoro e una grossa fatica. E la fatica più grande è che mi ritrovo a dover essere organizzatrice, logista, gestionale, economista, farmacista e, e questo ti farà piacere, counselor.

Ti spedisco alcune fotografie delle lezioni di formazione che faccio in Congo alle counselor africane che hanno un ruolo molto importante nella gestione dei pazienti di malattie infettive.

Penso che in Congo ci sia molto più bisogno di qualcuno in grado di organizzare un sistema sanitario, dei politici, degli organizzatori, più che dei medici.

Ho preso un po’ di tempo per riflettere sulla importante esperienza di vita che ho fatto in Congo. Vorrei essere più competente in organizzazione sanitaria per poter dare indicazioni più appropriate e contribuire meglio al miglioramento di questa coraggiosa impresa. 

A presto

Giulia