INTRODUZIONE 1
CAPITOLO 1 L’ADOZIONE INTERNAZIONALE: IL SISTEMA LEGISLATIVO ITALIANO 3
1.1 L’adozione internazionale 3
1.2 Breve storia della legislazione italiana in materia di
adozione internazionale 3
1.3 Dati statistici sull’adozione internazionale 15
CAPITOLO 2 I PROTAGONISTI DELL’ADOZIONE INTERNAZIONALE 18
2.1 L’abbandono come punto di partenza 18
2.2 Il bambino in attesa: paure e aspettative 21
2.3 I genitori: le motivazioni 22
2.4 Il bambino immaginato 25
2.5 Le ansie e i timori dei genitori durante l’attesa 27
CAPITOLO 3 PROBLEMATICHE CONNESSE ALLA COSTRUZIONE DI UNA NUOVA FAMIGLIA 29
3.1 Difficoltà di adattamento di un bambino adottivo straniero 29
3.2 L’accettazione della diversità e la cura della
differenza 31
CAPITOLO 4 ILFALLIMENTO DELL’ADOZIONE INTERNAZIONALE 35
4.1 Dati del fallimento: il fenomeno delle “restituzioni” 35
4.2 Doppio trauma: la sofferenza del minore 44
4.3 L’abbinamento genitori/bambino: prevenire la
restituzione 46
CAPITOLO 5 PREVENIRE È POSSIBILE: L’APPROCCIO DELL’ARTIGIANATO EDUCATIVO 50
5.1 Che cos’è l’artigianato educativo 50
5.2 Le tipologie di personalità 51
5.3 Le relazioni all’interno delle famiglie: opposizioni e
affinità 59
5.4 Una storia di adozione difficile 67
CONCLUSIONI 69
BIBLIOGRAFIA 70
RIVISTE 73
SITOGRAFIA 74
D. W. Winnicott
Questa frase di D. W. Winnicott, che ho voluto mettere in apertura, mi ha fatto riflettere sulle difficoltà insite nel percorso dell’adozione, ed in particolare dell’adozione internazionale. Winnicott ci dice che l’evento adottivo è un evento molto complesso ma che non ha, a priori, né garanzie di riuscita, né certezze di insuccesso.
L’adozione, e in particolare quella internazionale e interetnica, si presenta come un vero e proprio crogiolo di differenze: bambine e bambini di tutte le origini, di tutte le età, testimoni e protagonisti di altrettante storie diverse, percorrono circuiti internazionali per essere trovati e trovare affetti profondi, la “propria famiglia”, quella che - lo si auspica - diverrà tale. Analogamente, le caratteristiche delle famiglie adottive sono assai diversificate pur nell’esigenza di individuare in esse requisiti e risorse che costituiscano il presupposto all’assunzione del ruolo genitoriale, e che devono essere accuratamente verificate, valutate, formate. Nell’adozione internazionale gli ambienti di vita e le vicende vissute dal figlio, prima dell’adozione, portano in sé elementi di diversità connotati anche culturalmente, relativamente a sistemi comunicativi e valoriali differenti.
Il percorso dell’adozione internazionale, che a prima vista potrebbe sembrare idilliaco perché basato su una scelta d’amore, può diventare un percorso molto difficile, pieno di sofferenze e dolore per i genitori adottivi e soprattutto per i bambini adottati, arrivando addirittura a sfociare nella rottura del rapporto stesso con le relative conseguenze che poi vedremo. La problematica mi ha molto incuriosito e mi ha spinto a documentarmi meglio sull’adozione internazionale e soprattutto sul fallimento della stessa. Non pensavo di trovare tante ricerche in merito. Ciò sta a significare come il problema sta diventando di interesse sociale.
Nella prima parte del lavoro ho voluto fare una breve storia del sistema legislativo italiano per capire meglio come avviene l’adozione internazionale e che cosa è cambiato negli anni nel nostro sistema legislativo. Ho inserito anche i dati della Commissione per le Adozioni Internazionali aggiornati per avere un’idea del fenomeno in Italia.
Poi mi è sembrato doveroso parlare dei protagonisti dell’adozione internazionale cioè dei bambini e dei genitori adottivi sottolineandone gli aspetti psicologici, rilevando qual è il vissuto dei genitori e del bambino prima dell’adozione e quali sono le ansie, le paure e le aspettative di entrambi.
Nel terzo capitolo, invece, sono descritte le dinamiche che portano alla costruzione di una famiglia multietnica: il primo incontro, le difficoltà che genitori e figli incontrano nell’adattamento reciproco. Sono trattati i temi dell’identità e della differenza e dell’importanza del riconoscimento del valore di quest’ultima per una buona riuscita dell’adozione internazionale, non solo nell’ambiente familiare, ma nell’intero contesto sociale di cui la famiglia fa parte.
Successivamente ho focalizzato l’attenzione sui dati del fallimento dell’adozione internazionale. sulla sofferenza che provoca ai minori restituiti e alle famiglie adottive in generale e su come è possibile prevenire tale fenomeno. In ultimo ho introdotto la teoria dell’artigianato educativo, soffermandomi soprattutto sulle affinità e le opposizioni tra i copioni proposte dalla scuola di Prevenire è Possibile. Tale modello, a mio avviso, potrebbe essere di grande utilità, per prevenire il fallimento delle adozioni internazionali, non solo come strumento per formare i genitori adottivi, ma anche e soprattutto in fase di abbinamento genitori/bambino, per capire meglio quale famiglia va bene per un determinato bambino.
L’ADOZIONE INTERNAZIONALE: IL SISTEMA LEGISLATIVO ITALIANO
Lo scopo dell’adozione internazionale è quello di dare una famiglia ad un bambino per il quale non sia stato possibile trovarne una idonea nello Stato d’origine. Con l’adozione internazionale si cerca di soddisfare due bisogni:
1. quello di un bambino in stato di abbandono di trovare una famiglia che lo accolga e si prenda cura di lui;
2. quello di una coppia di coniugi di riuscire a diventare genitori.
La soddisfazione di questi bisogni, tuttavia, non è automatica. I genitori adottivi, infatti, devono misurarsi con la diversità del bambino venuto da lontano e con le difficoltà che questa può comportare.[1] Il bambino deve misurarsi con la cultura dei genitori adottivi ed anche con la propria cultura d’origine per poter acquisire una propria identità. Ed è per questi motivi che l’adozione internazionale si pone oggi come un problema sociale.
“Alle problematiche già molto complesse legate all’inserimento di un minore in un nuovo contesto familiare, nei casi di adozione internazionale si aggiungono anche quelle relative all’integrazione in un contesto sociale e culturale differente.”[2]
La legislazione italiana si è fatta carico, in anni recenti, di regolarizzare la pratica dell’adozione internazionale per tutelare e proteggere il minore dall’adozione selvaggia e per cercare di dare al bambino in stato di abbandono la migliore famiglia possibile, ma come vedremo ancora questo non basta.
1.2 Breve storia della legislazione italiana in materia di adozione internazionale
L’adozione è sempre esistita anche se con finalità diverse . In passato, infatti, ci si preoccupava di più di garantire il diritto di una coppia ad avere un figlio, piuttosto che quello di un bambino abbandonato ad avere una famiglia in cui crescere. Potevano adottare solo i coniugi ultra-cinquantenni che non avevano figli, in modo da garantirsi l’assistenza per la vecchiaia o per trasmettere, con minori spese fiscali, il loro patrimonio, in modo che non andasse perduto.[3] In questo tipo di adozione l’aspetto affettivo era accantonato per lasciare spazio ad un vero e proprio accordo tra privati che aveva la semplice finalità di procurare un discendente.
Con la legge del 5 giugno 1967 n. 431, sull’adozione speciale, viene regolamentata per la prima volta l’adozione, ponendo al centro di essa il diritto del bambino ad avere una famiglia. L’adozione internazionale, però, non è stata presa in considerazione da questa legge, perché in Italia non era ancora diffusa a tal punto da essere ritenuta rilevante; il legislatore si è limitato a non vietarla.
Le prime adozioni di bambini stranieri in Italia, infatti, risalgono proprio alla fine degli anni sessanta. Esse furono promosse da un piccolo gruppo di associazioni molto qualificate e motivate che operavano nel campo del sociale. Queste organizzazioni private non potendosi avvalere di un’apposita legge in materia di adozione internazionale operavano in modo molto complesso. Si potevano percorrere due strade per ottenere l’adozione.
La via più rigorosa era quella che prevedeva di segnalare il bambino adottato all’estero al Tribunale per i minorenni italiano come bambino abbandonato e applicare a questo minore la legge 431/67 sull’adozione speciale, che consentiva ai genitori adottivi di tenere il bambino solo se venivano considerati idonei in base alla suddetta legge.[4]
Oppure si poteva percorrere la strada più semplice e più veloce che era quella della delibazione in Corte d’Appello, con la quale si saltava il passaggio al Tribunale per i minorenni e il provvedimento straniero veniva riconosciuto valido come adozione ordinaria, anche se i genitori adottivi non possedevano le caratteristiche previste dalla legge italiana per l’adozione di un bambino.[5]
La mancanza di regolamentazione in materia di adozione internazionale è durata fino al 1983, anno dell’approvazione della Legge n. 184 intitolata “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento di minori”.
Con la nuova legge la competenza in materia di adozione internazionale è attribuita al Tribunale per i minorenni. Coloro che vogliono adottare un bambino straniero devono possedere gli stessi requisiti richiesti a coloro che adottano un bambino italiano:
1. i coniugi devono essere sposati da almeno tre anni;
2. i coniugi devono essere idonei ad educare istruire e mantenere i bambini che vogliono adottare;
3. l’età dei coniugi deve superare di almeno diciotto e di non più di quaranta l’età dell’adottando (art. 30 in rel. all’art. 6 della Legge 184).
Il Tribunale per i minori deve accertare il possesso di questi requisiti da parte degli adottanti prima che l’adozione sia stata dichiarata dal giudice straniero. Se ciò non avviene il minore adottato all’estero non può entrare in Italia e l’adozione non ha nessuna validità per il nostro ordinamento. Con la nuova legge, dunque, il primo passo da fare per adottare un bambino straniero è quello di ottenere la dichiarazione d’idoneità dal Tribunale per minorenni. Vi sono notevoli differenze, però, tra l’idoneità richiesta per l’adozione nazionale e quella richiesta per l’adozione internazionale, infatti, quest’ultima non è così rigorosa come la prima ed inoltre, nell’idoneità per l’adozione internazionale, non viene valutata la competenza dei futuri genitori nell’educazione di un bambino che proviene da un altro paese e neanche la loro motivazione. La fase, poi, dell’adozione vera e propria, non è regolamentata ed è lasciata in mano alla coppia adottante che decide se e quando avvalersi della dichiarazione di idoneità e a chi rivolgersi per ottenere l’adozione nel paese straniero.
“La coppia, al di fuori di qualsiasi controllo, è libera di agire autonomamente recandosi all’estero e rivolgendosi ad intermediari privati, spesso non qualificati e privi di scrupoli”.[6] I bambini adottati per questa via potrebbero essere stati rapiti, acquistati o estorti con la forza ai loro genitori. La legge apre così le porte ad un pericoloso fai da te.
Un’altra zona d’ombra di questa legge è quella della preparazione della coppia ad affrontare l’adozione. La preparazione dei futuri genitori adottivi è molto importante ai fini della riuscita dell’adozione internazionale. Si deve tenere conto dell’ambiente di provenienza del bambino straniero e, quindi, della sua diversa cultura, della diversa lingua, delle diverse abitudini alimentari. A tal fine la legge all’articolo 30 dice che il Tribunale prima di disporre l’idoneità della coppia deve effettuare delle indagini per verificare “la capacità degli aspiranti di diventare buoni genitori adottivi”.[7] Il problema sta nel fatto che la legge non dice chi deve svolgere queste indagini e come. La legge 184/83, in definitiva, pur avendo il merito di aver regolamentato per la prima volta una materia assai complicata come l’adozione internazionale, non è riuscita a tutelare effettivamente la personalità del bambino e i suoi diritti.
La Convenzione dell’Aja del 1993 è l’occasione, per l’Italia, di rivedere l’ordinamento giudiziario sull’adozione internazionale e di modificarlo adeguatamente. “La Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 sulla protezione dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale è il primo importante accordo fra paesi d’origine e paesi di destinazione dei bambini adottati all’estero”.[8]
Coloro che hanno sottoscritto questo accordo auspicano che in futuro l’adozione internazionale avvenga in un’ottica di collaborazione tra gli Stati che la praticano e l’obiettivo principale che si propongono è quello di garantire i diritti del bambino in stato di adozione. Il principio più importante sul quale si fonda la Convenzione è il principio di sussidiarietà che fa l’interesse del minore, in quanto stabilisce che un bambino può essere adottato da una famiglia di altra nazionalità solo se è stato dichiarato dalle autorità del suo paese come bambino in stato di abbandono, e solo se le suddette autorità hanno verificato che non è possibile un’adozione nazionale.[9] Secondo la Convenzione, l’adozione internazionale non deve essere la prima soluzione all’abbandono, poiché per il minore la soluzione migliore sarebbe quella di non lasciare il proprio paese per non subire un ulteriore trauma che si aggiunge a quello dell’abbandono della sua famiglia d’origine; l’adozione internazionale deve, quindi, rappresentare l’ultima chance.
Un altro principio importante su cui si basa la Convenzione è l’interdizione del profitto e di ogni forma di lucro. A tal fine , essa affida agli organismi propri di ogni stato il compito di gestire l’adozione internazionale per prevenire la sottrazione, la vendita, e la tratta dei minori. Suggerisce, pertanto, l’istituzione di autorità centrali sia nei paesi di origine che in quelli di accoglienza. Gli enti autorizzati devono avere determinate caratteristiche per essere idonei a fungere da intermediari tra la coppia adottante e il Paese d’origine del bambino e possono operare solo dopo avere ricevuto un’autorizzazione da parte delle autorità centrali del proprio paese.
La mediazione degli enti è obbligatoria. La Convenzione chiarisce esplicitamente quali devono essere i compiti specifici dell’autorità centrale del Paese d’origine, e quelli dell’autorità centrale del Paese di accoglienza.
Il Paese d’origine deve preparare una scheda sulla storia familiare e sanitaria del bambino da adottare, comprendente anche “l’origine etnica, religiosa e culturale della famiglia d’origine”.[10]
Deve, inoltre, accertare lo stato di abbandono del minore, certificando la sussidiarietà dell’adozione internazionale, che si sta compiendo, nei termini che abbiamo già citato, e deve assicurarsi che la famiglia d’origine sia stata messa al corrente delle conseguenze a cui va incontro con l’adozione, che riguardano l’interruzione dei rapporti con il bambino.
Un altro compito molto importante che compete all’autorità centrale del Paese d’origine è quello dell’abbinamento tra gli aspiranti genitori e il minore. Questo abbinamento sarà effettuato dopo aver certificato l’idoneità all’adozione internazionale da parte della coppia con un esame psico-sociologico. Nella fase finale dell’iter adottivo l’autorità centrale del Paese d’origine verificherà il rilascio del permesso d’ingresso del bambino adottato nel Paese della nuova famiglia ed il suo effettivo trasferimento.
Anche il Paese d’accoglienza ha, naturalmente, dei compiti precisi da espletare. La sua autorità centrale deve certificare, innanzitutto, l’idoneità della coppia adottante, preparando una relazione che deve contenere le motivazioni che hanno portato la coppia ad avvicinarsi all’adozione internazionale e le capacità della stessa ad affrontarla. Deve, poi, fornire alla coppia adeguate informazioni sulle difficoltà che comporta un’adozione internazionale. Il Paese d’accoglienza ha, poi, la possibilità di accettare o rifiutare l’abbinamento proposto dalle autorità centrali del Paese d’origine del minore.
Importantissimo è il riferimento che fa la Convenzione sul rispetto dell’identità del bambino, infatti, essa dichiara che in tutto il percorso dell’adozione internazionale, e anche dopo, deve essere sempre considerata la sua origine etnica e culturale, il suo credo religioso e gli usi e costumi della sua terra d’origine.[11]
La Convenzione dell’Aja è stata ratificata dall’ordinamento italiano con la legge 31 dicembre 1998 n. 476, “Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta all’Aja il 29 maggio 1993. Modifiche alla legge 4 maggio 1983 n. 184 in tema di adozione di minori stranieri”. La legge di ratifica, facendo proprio il testo della Convenzione, stravolge completamente il capo primo del capitolo terzo della legge 1983 n.184, intitolato “Dell’adozione di minori stranieri”.
Già da subito si possono scorgere i profondi cambiamenti rispetto alla precedente legge; infatti, nel secondo articolo si dichiara che le persone che vogliono intraprendere l’iter per l’adozione internazionale “devono presentare al Tribunale per i minorenni non più una domanda ma una dichiarazione di disponibilità”.[12] Il legislatore ha, così, chiarito subito che adottare un bambino non è un diritto che la coppia può rivendicare, “che colui che adotta offre, non chiede, e tanto meno pretende. Il soggetto della procedura deve essere il bambino straniero abbandonato. È lui che ha il diritto ad una famiglia, ed è questo lo scopo dell’adozione”.[13]
L’adozione viene, così, ad essere definita, una volta per tutte, come un atto di accoglienza verso un bambino abbandonato e non come la soluzione ai problemi personali o di coppia relativi alla mancanza di un figlio. Solo ragionando in quest’ottica potrà avvenire la completa accettazione del bambino straniero in seno alla famiglia.
La legge 476/98, inoltre, ha fatto proprio il principio cardine della Convenzione dell’Aja, cioè quello della sussidiarietà dell’adozione internazionale che ribadisce che l’adozione deve essere l’ultima strada da percorrere per realizzare l’interesse del bambino, qualora non ci sia stata la possibilità di aiutarlo all’interno della propria famiglia e del proprio paese d’origine.
Un’importantissima innovazione della legge di ratifica è quella che sostituisce il generico riferimento alle “adeguate indagini” della legge 184/83, che il Tribunale doveva svolgere prima di rilasciare l’idoneità all’aspirante coppia che ne faceva richiesta, con una procedura che comprende diverse fasi ognuna delle quali è descritta in modo dettagliato con la precisazione dei tempi di espletamento e degli organi coinvolti.
Con la legge 476/98 in Italia è stata istituita la Commissione per le adozioni internazionali. Quest’organo pubblico stabilisce i contatti con le autorità centrali degli altri Paesi e si fa garante dell’organizzazione e della regolarità dell’intera procedura. Esso ha il compito fondamentale di gestione e vigilanza nei confronti degli enti pubblici e privati a cui gli aspiranti genitori adottivi devono obbligatoriamente rivolgersi per iniziare una pratica di adozione all’estero. La Commissione rilascia un’autorizzazione all’ente privato che si occupa di adozione internazionale, che lo rende idoneo ad operare in questo campo, tale provvedimento può essere revocato dalla stessa, se non sussistono più le condizioni di idoneità dell’ente.
Con la nuova procedura al Tribunale per i minorenni compete la valutazione dell’idoneità della coppia ed anche la dichiarazione finale dell’adozione vera e propria. Il tribunale può, inoltre, revocare l’adozione se accerta che essa non fa l’interesse del minore.
I servizi socio-assistenziali del territorio sono coinvolti in tutto l’iter procedurale dell’adozione internazionale con compiti precisi. Essi devono fornire ai futuri genitori tutte le informazioni sull’adozione all’estero, devono preparare le coppie, che dichiarano la propria disponibilità all’adozione, al difficile compito che le aspetta e, cosa più importante, acquisiscono elementi sulla situazione personale, familiare e sanitaria degli aspiranti genitori e sulle loro motivazioni all’adozione, al fine di valutarne l’idoneità. Inoltre si fanno carico di osservare la coppia dopo l’adozione e di prestare aiuto nei casi di richiesta; tutto ciò lavorando sempre in stretta collaborazione con il Tribunale per i minorenni e con gli enti autorizzati.
Il procedimento per l’adozione internazionale, in base alla nuova normativa, si apre con la presentazione da parte degli aspiranti genitori adottivi della dichiarazione di disponibilità da presentare al Tribunale dei minorenni del proprio distretto. Se il tribunale riscontra subito nella coppia una carenza dei requisiti previsti dalla legge può pronunciare immediatamente un decreto di inidoneità. Se ciò non si verifica il tribunale trasmette entro 15 giorni copia della dichiarazione di disponibilità ai servizi degli enti locali. I requisiti richiesti sono quelli previsti dall’articolo 6 della legge 184/83 e cioè: la coppia deve essere sposata da almeno tre anni, deve essere idonea ad educare, istruire e mantenere i minori che vuole adottare e deve superare di almeno diciotto e di non più di quaranta l’età dell’adottando.
Il lavoro dei servizi sociali deve svolgersi nei quattro mesi successivi alla trasmissione della dichiarazione di disponibilità. I loro compiti sono: informazione e preparazione degli aspiranti genitori adottivi, e acquisizione di elementi psicologici, sociali e familiari utili alla valutazione della loro idoneità. A fine lavoro i servizi sociali devono stilare una relazione completa sulla coppia, che servirà al giudice per stabilire la loro idoneità.
Il giudice, entro due mesi dal ricevimento della relazione dei servizi sociali, dovrà emanare il decreto di idoneità della coppia, che deve contenere anche delle indicazioni utili per la scelta del minore da parte dell’autorità straniera, come ad esempio il numero dei minori che può essere adottato. L’intero documento sarà, poi, inviato dallo stesso Tribunale, insieme alla relazione dei servizi sociali, alla Commissione per le adozioni internazionali e all’ente autorizzato se è già stato stabilito dalla coppia, che intratterranno i rapporti con il Paese d’origine scelto.[14]
Se il Tribunale decide la revoca del decreto, per cause sopraggiunte in un secondo momento, deve comunicarlo tempestivamente alla Commissione e all’ente autorizzato, perché questi blocchino subito la procedura in corso.
La Commissione, dopo aver ricevuto la documentazione dal tribunale, avvia la procedura di adozione internazionale, controllando l’operato dell’ente autorizzato preposto. Il suo compito concreto è quello di verificare che la proposta di abbinamento, fatta dall’autorità del Paese d’origine del minore e accettata dalla coppia adottante, risponda all’interesse del minore. La Commissione ha poi l’importante compito, come abbiamo già detto, di rilasciare l’autorizzazione per l’ingresso e il trasferimento in Italia del bambino straniero e di verificare che l’adozione, fatta nel Paese straniero, sia corrispondente alle disposizioni della Convenzione. La Commissione, inoltre, tiene l’archivio di tutta la documentazione relativa alla procedura, anche quella sull’origine del bambino, sulla sua situazione sanitaria e sulla identità dei suoi genitori naturali.[15]
Gli enti autorizzati devono essere interpellati obbligatoriamente da coloro che intendono adottare un bambino straniero. Gli enti autorizzati hanno il compito fondamentale di seguire l’adozione in tutte le sue fasi, fino al trasferimento del minore straniero in Italia. Inoltre, devono garantire alla nuova famiglia il sostegno necessario, qualora essa lo richieda, e comunque devono monitorare l’inserimento del minore nel nuovo contesto e comunicare le informazioni al Tribunale per i minorenni. Agli enti compete, inoltre, di presentare le certificazioni necessarie alla coppia adottante per ottenere delle agevolazioni economiche.
Gli enti autorizzati per poter operare devono non avere scopo di lucro e devono avvalersi di personale qualificato per integrità morale e formazione od esperienza nel campo dell’adozione internazionale. Tutti gli enti, oltre ad occuparsi di adozione internazionale, devono farsi promotori di iniziative volte alla tutela dei diritti dell’infanzia e devono garantire la trasparenza del loro operato.
Sono gli aspiranti genitori adottivi a scegliere e a dare l’incarico all’ente autorizzato, l’importante è che esso sia iscritto all’albo stilato dalla Commissione. L’ente che ha ricevuto l’incarico, innanzitutto, deve informare gli adottanti su come si svolge la procedura che stanno per intraprendere e sulle prospettive di adozione che ci sono nel Paese straniero che essi hanno scelto. L’ente è in contatto diretto con le autorità centrali del Paese straniero alle quali deve trasmettere la dichiarazione di disponibilità all’adozione degli aspiranti genitori, insieme al decreto di idoneità rilasciato dal Tribunale italiano e alla relazione dei servizi sociali. Il Paese contattato, in risposta alla documentazione, invierà all’ente una proposta di incontro con un bambino scelto dalle autorità straniere competenti.
Gli operatori dell’ente autorizzato, quando vengono a contatto con le autorità del Paese straniero, hanno l’importante compito di occuparsi non solo dell’iter burocratico, per verificare che la procedura si svolga secondo la legge, ma anche di dialogare con coloro che si sono presi cura effettivamente del bambino per potere apprendere tutte le informazioni necessarie sulla sua storia di vita.[16]
L’ente sottopone la proposta al vaglio degli aspiranti genitori adottivi. Se essi accettano e gli incontri con il bambino da adottare si concludono con un parere positivo, “l’autorità del Paese straniero deve attestare che il bambino è realmente stato abbandonato, che l’abbandono non è stato forzato né comprato per denaro e che l’adozione internazionale realizza il miglior interesse del bambino perché non vi sono alternative nel paese d’origine”.[17] A questo punto il bambino straniero viene di fatto affidato alla coppia che ne ha fatto richiesta. L’ente autorizzato deve per legge informare immediatamente il Tribunale per i minorenni, i servizi sociali e la Commissione per le adozioni internazionali. Una volta ricevuta dall’ente autorizzato la documentazione, la Commissione per le adozioni internazionali autorizza l’ingresso e la permanenza del minore adottato in Italia, dopo aver certificato che l’adozione è conforme alle disposizioni della Convenzione dell’Aja.
Un’importante innovazione della legge è quella che permette al bambino adottato di giungere in Italia non più da solo, come se fosse un pacco postale, ma accompagnato dai suoi nuovi genitori. Dopo il trasferimento nel nostro Paese la nuova famiglia, se lo vorrà, potrà avvalersi del sostegno offerto dall’ente e dai servizi sociali.
Dopo che il bambino è entrato in Italia ed è trascorso l’eventuale periodo di affidamento preadottivo, la procedura si conclude con la trascrizione del provvedimento di adozione nei registri dello stato civile. L’organo a cui compete questa trascrizione è il Tribunale per i minorenni del luogo di residenza dei genitori nel momento del loro ingresso in Italia con il minore.
Il Tribunale, quindi, ha solo il ruolo di certificare l’avvenuta adozione, può intervenire solo quando constata che non si è agito a norma di legge.
Con la trascrizione del provvedimento di adozione nei registri dello stato civile il minore diventa definitivamente un cittadino italiano e un membro a tutti gli effetti della nuova famiglia multietnica appena nata.
Ulteriori modifiche in materia di adozione internazionale, nel nostro ordinamento legislativo, si sono avute con la legge 28 marzo 2001, n. 149. Un importante cambiamento apportato dalla legge riguarda i prerequisiti che devono possedere i futuri genitori adottivi per ottenere l’idoneità. L’articolo 6 della legge 184/83 riformato dalla legge 149/01 dice che gli aspiranti genitori adottivi devono avere alle spalle “tre anni di matrimonio o convivenza stabile e continua nel periodo precedente al matrimonio per almeno tre anni accertata dal tribunale, non separazione personale neppure di fatto, effettiva idoneità ad educare, istruire e mantenere i minori che si intendono adottare”.[18] La legge, quindi, riconosce nella convivenza prima del matrimonio una garanzia di stabilità del rapporto di coppia. La nuova normativa ha, inoltre, modificato il limite di età in cui è consentita l’adozione di un bambino molto piccolo fissandola ad almeno diciotto anni e a non più di quarantacinque. Questi limiti possono essere derogati se la mancata adozione può comportare per il bambino gravi danni, oppure quando è solo un coniuge ad aver superato il limite d’età di non più di dieci anni, o ancora quando i genitori adottivi hanno un figlio naturale o adottivo di età minore, o, infine, quando è in ballo l’adozione di un fratello o una sorella di un bambino già adottato dalla coppia.
La legge 149/01 ha trattato anche un tema molto delicato, quello di dare o meno all’adottato la possibilità di essere informato sulla sua origine e sull’identità della sua famiglia biologica. La nuova disciplina prevede che il minore abbia il diritto di sapere della sua condizione di figlio adottivo e che siano i genitori adottivi ad informarlo. Il legislatore ha ritenuto opportuno lasciare ai genitori l’onere di informare il proprio figlio sulle sue origini, escludendo un intervento da parte del tribunale o dei servizi sociali. Inoltre, la legge dice che i genitori adottivi e l’adottato possono venire in possesso della documentazione relativa all’identità dei genitori biologici solo, però, nel caso in cui sussistano gravi motivi, come ad esempio in caso di malattia genetica.
Un’altra modifica introdotta riguarda l’obbligo di richiedere il consenso del minore che abbia compiuto quattordici anni prima di procedere all’adozione, mentre per il minore di dodici anni la legge stabilisce che venga soltanto ascoltato dal tribunale.[19]
Sebbene la legge abbia cercato di affrontare alcune delle questioni più importanti e su cui più si discute in materia di adozione, alcuni ritengono che non si sia riusciti a fare delle concrete innovazioni e quindi il dibattito continua.
1.3 Dati statistici sull’adozione internazionale
Dal rapporto della Commissione per le adozioni internazionali sui fascicoli dal 16/11/2000 al 31/12/2007[20] emerge che a chiusura dell’anno 2007 in Italia il bilancio numerico sull’adozione internazionale è estremamente positivo. In questo anno si è registrato, infatti, il più alto flusso di ingressi di bambini adottati (3240) dall’insediamento della Commissione. Nel 2007 c’è stato uno spostamento del baricentro dei paesi di provenienza dei bambini caratterizzato dalla perdita di egemonia dei Paesi dell’est che ha determinato una geografia adottiva più complessa e variegata come si evince dal seguente grafico.
La tendenza dell’ultimo periodo indica, infatti, che ai Paesi dell’est si sono affiancati Paesi di altre aree geografiche: Federazione Russa, Colombia, Ucraina, Brasile, Vietnam e Etiopia, seguiti, con incidenze comunque interessanti, dalla Polonia, dalla Cambogia e dall’India.
Il numero medio di bambini adottati per coppia è aumentato al punto che nel 2007 ogni coppia ha adottato mediamente 1,27 bambini, segno di una diversa e più generosa apertura delle coppie italiane all’esperienza dell’adozione.
In generale i coniugi adottivi sono caratterizzati da livelli di istruzione medio alti e l’età di maggior frequenza è per i mariti 40/44 anni e per le mogli 35/39 anni.
La presenza di figli naturali si conferma limitata nei nuclei familiari che hanno richiesto l’autorizzazione all’ingresso in Italia di minori stranieri, fenomeno questo strettamente connesso ai problemi di infertilità di coppia che risultano essere la motivazione prima per l’accesso all’esperienza adottiva. Nel 2007 si registra un lieve aumento delle coppie che al momento dell’adozione hanno già uno o più figli, con un’incidenza pari al 13,8% delle coppie adottive nell’anno. Nel 2007 si ha anche l’incidenza massima di coppie richiedenti l’ingresso di 2 o più minori.
I motivi dell’abbandono dei minori risultano diversi a seconda del paese di provenienza:
· Africa ® la maggior parte dei bambini risulta abbandonata o i genitori, che spesso risultano malati o indigenti, rinunciano al bambino. In questa area del mondo, lo stato di abbandono è decretato da un’autorità locale e il principio della sussidiarietà è accertato dall’istituto che ospita il minore.
· America latina ® molto spesso sono i servizi sociali e i tribunali a intervenire con l’allontanamento dei minori dai propri nuclei familiari perché trascurati, anche se l’abbandono risulta comunque molto frequente tra i bambini entrati in Italia a scopo adottivo. L’abbandono è decretato sempre da un provvedimento giudiziario, ma soltanto dopo molti tentativi di reinserimento del bambino nella propria famiglia di origine, cosa che determina un allungamento dei tempi che portano all’adottabilità di un minore.
· Asia ® in larga parte del continente asiatico, e in particolare in Vietnam, la maggior parte dei bambini sono abbandonati dalla nascita nei pressi di un istituto religioso o semplicemente in strada. In casi marginali è possibile evincere che l’abbandono è praticato quale risposta a situazioni di scarsità economica o di disagio sociale (bambini nati da relazioni illegittime).
· Europa dell’est ® l’incidenza percentuale di perdita della patria potestà dei genitori è molto alta e riguarda il 64% dei bambini che sono stati adottati in Italia nel 2007. Nella maggior parte di questi Stati esiste una banca dati centralizzata dove i bambini abbandonati sono registrati affinché possano essere adottati nel loro Paese.
I dati raccolti dalla Commissione nel periodo che va dal 1° gennaio 2008 al 30 giugno 2008[21] confermano i dati del 2007 sull’età delle coppie adottanti e anche il cambiamento della geografia dei paesi di provenienza con la perdita di egemonia dei paesi dell’est Europa.
Nel primo semestre 2008 i principali paesi di provenienza sono stati Ucraina, Colombia, Brasile, Vietnam, Etiopia, Polonia, Federazione Russa, Cambogia e India. È, inoltre, in sensibile crescita il numero di nuovi paesi di provenienza dei minori adottati in Italia: Kazakistan, Lettonia, Libano, Mali, Maurutius, Repubblica del Centro Africa, Repubblica Dominicana, Senegal e Uruguay. L’ultimo semestre monitorato ha fatto registrare in totale 46 Paesi di provenienza dei minori. La presenza nel territorio dei bambini adottati nel primo semestre 2008 evidenzia che nelle regioni del Nord Italia – dove è stata accolta la metà dei minori autorizzati all’ingresso in Italia dall’inizio del monitoraggio – si hanno proporzioni tutt’altro che irrilevanti di bambini provenienti dall’Africa (63,3%), dall’Asia (59,3%) e dall’America latina (50,1%). Rispetto all’età dei bambini entrati dalle diverse nazioni è importante segnalare che nell’ultimo semestre si è avuto un flusso proporzionalmente molto forte di bambini piccoli dall’Asia e dall’Africa. Le età medie dei minori adottati più alte si registrano in Polonia (8,79 anni), Lituania (8,48), Ungheria (8,12), Cile (7,76) e Slovacchia (7,59); mentre quelle più basse si riscontrano in Kazakistan (3,13), Cambogia (2,90), Burkina Faso (2,77), Armenia (2,44) e Vietnam (1,26). Non sorprende, dunque, verificare che nelle regioni del Nord Italia, a seguito dell’adozione di un maggior numero di minori provenienti dall’Asia, dall’America latina e dall’Africa, si riscontra una più alta incidenza di bambini piccoli.
CAPITOLO 2
I PROTAGONISTI DELL’ADOZIONE INTERNAZIONALE
2.1 L’abbandono come punto di partenza
“L’adozione ha un tragico inizio che consiste nell’abbandono di un minore”.[22] L’esperienza dell’abbandono incide gravemente e a diversi livelli sul vissuto di tutti i bambini che la sperimentano.
“Si tratta di un evento che può produrre effetti gravissimi nel bambino molto piccolo, privo di risorse a cui ricorrere per far fronte a una frattura che mina le basi dell’esistenza stessa. Anche in età meno precoci gli effetti della perdita delle figure genitoriali possono essere fortemente destrutturanti e le possibilità di costruire un nuovo e positivo attaccamento con figure adulte –
cui accordare e da cui ricevere fiducia – risultano ridotte e complicate dall’esperienza pregressa”.[23]
Gli studi sui bambini che subiscono delle deprivazioni affettive nel corso della primissima infanzia sono tantissimi. Già a partire dagli anni quaranta Spitz ha effettuato ricerche su bambini ospedalizzati che hanno messo in evidenza come la separazione per lunghi periodi di tempo dalla madre provochi nei neonati difficoltà nell’assimilazione del cibo e disturbi del sonno.
Negli anni cinquanta Bowlby ha formulato la cosiddetta teoria dell’attaccamento, “la quale prende in considerazione il legame del bambino con la madre come punto focale e determinante del suo sviluppo successivo”.[24] Per Bowlby il legame di attaccamento è “una necessità primaria che si sviluppa indipendentemente dalla soddisfazione dei bisogni fisiologici di base ed è presente fin dalla nascita.”[25]
Il neonato nei primi mesi di vita, infatti, ha la necessità di avere a fianco una persona che si occupi di lui a tempo pieno, non soltanto per alimentarlo e vestirlo, ma anche e soprattutto per trasmettergli quella sicurezza che deriva dalla sua presenza e dal contatto fisico. Generalmente la figura principale di attaccamento nei primi mesi di vita del bambino è la madre, la sua funzione primaria è quella di fungere da base sicura per il bimbo, che, grazie alla sua presenza, inizialmente fisica e poi interiorizzata, si sente protetto e in grado di affrontare il mondo esterno.
Negli stessi anni della divulgazione della teoria dell’attaccamento di Bowlby, Nicole Quémada, neuropsichiatra infantile, ha sostenuto l’importanza del ruolo della figura materna e che essa e il bambino sono un tutt’uno, cioè fanno parte di una speciale organizzazione in cui ciascuno dei due forma e perfeziona l’altro, sono quindi due figure complementari. “La madre e il bambino, amandosi, si formano o si perfezionano a vicenda. L’ammaternamento è promosso dalla madre e la maternizzazione dal figlio[…] La simbiosi che entrambi realizzano è legata soprattutto a un dono reciproco. È un doppio attaccamento, di giorno in giorno più profondo[…] Il suo benessere e la figura della madre sono una cosa sola.”[26]
Tutti i bambini sono predisposti fin dalla nascita alla realizzazione di un legame di attaccamento e solo in rari casi non ci sono le condizioni per l’instaurarsi di tale legame, ciò può accadere, ad esempio, ai bambini che hanno sempre vissuto in istituto, senza una specifica figura di riferimento. Bowlby affermava che lo sviluppo di un bimbo privato di cure materne, è quasi sempre compromesso, intellettualmente e socialmente. Il bambino può avere severi disturbi sia sul piano fisico che mentale: ritardi e irregolarità nello sviluppo psicomotorio, gravi turbe sul piano psicoaffettivo, deficit cognitivi e nello sviluppo del linguaggio, con conseguenze estreme come manifestazioni di aggressività, verso se stessi o verso gli altri, o manifestazioni di indifferenza o ancora, gravi forme di depressione che possono portare il bambino a lasciarsi morire. Per vivere un bambino ha bisogno di sapere che c’è qualcuno che lo desidera, che lo ama, che lo incoraggia.
Gli studi psicologici degli ultimi cinquant’anni hanno, dunque, messo in evidenza che fin dai primi giorni di vita un bambino ha estremo bisogno di una figura materna che si prenda cura di lui. Questa presenza costante permette al bambino di diventare una persona adulta, equilibrata e capace di amare.
Oggi sappiamo che i bambini con una deprivazione affettiva precoce possono avere un ritardo nello sviluppo fisico, apatia, scarsa volontà di alimentarsi, facilità a contrarre malattie. Inoltre possono avere un ritardo nello sviluppo psicomotorio nelle aree della locomozione e dell’acquisizione del linguaggio. Essi hanno un comportamento o eccessivamente passivo o, all’opposto, apertamente aggressivo, ricercano continuamente attenzioni e affetto, hanno un desiderio esagerato di possedere gli oggetti, e sono intolleranti alle frustrazioni. In casi limite la privazione di un legame esclusivo può portare il neonato al raffreddamento affettivo, ciò significa che potrebbe essere impossibile ottenere dal bambino un futuro interesse per le persone, per l’instaurarsi di psicosi precoci o autismo infantile.
“Il bambino resta immaturo per mancanza d’amore. Questa immaturità lo rende in capace d’amare, lo rende infelice, solitario, asociale, amorale, incline alla delinquenza. Tutto questo accade come se, non avendo conosciuto l’amore della madre, egli non avesse imparato ad amare”.[27]
Nei casi in cui, invece, avviene la rottura di un legame di attaccamento precedentemente instaurato, questa rottura viene vissuta dal bambino come un evento altamente traumatico, che può compromettere la sua capacità di crescere e maturare. Se, poi, all’esperienza dell’abbandono si aggiunge quella dell’istituzionalizzazione, ciò non può che aggravare ancor di più la già difficile situazione di carenza affettiva che il bambino sta vivendo.[28] Un bambino che vive in istituto, infatti, riceverà sicuramente delle cure materiali adeguate e le persone che si occuperanno di lui saranno senz’altro affettuose, ma verrà a mancare al piccolo quel legame esclusivo che si instaura ventiquattr’ore su ventiquattro tra un figlio e il genitore che si prende cura di lui. Gli educatori di un istituto devono spesso allontanarsi per altri compiti, si alternano, non sono sempre presenti quando il bambino ha un bisogno da soddisfare.[29] Il bambino cresce senza punti di riferimento, diventa diffidente nei confronti degli altri, vive nell’insicurezza e nell’instabilità.
Quando il rapporto positivo che il bambino ha avuto con la madre nei primi mesi o anni di vita viene interrotto bruscamente, il dolore del bambino e la sofferenza che ne deriva è fortissima, perché in questo caso egli subisce una vera e propria rottura con la vita precedente felice e piena d’amore. Ciò può accadere anche quando l’attaccamento tra il bambino e il genitore non è di tipo sicuro, cioè quando tra loro non si è instaurato un buon legame. Il tipo di attaccamento che si instaura tra il bambino e la madre, infatti, non è sempre di tipo sicuro. Bowlby, nella sua teoria, ha descritto altri tipi di attaccamento che possiamo definire disfunzionali per la crescita del bambino: l’attaccamento angoscioso e l’attaccamento evitante.
Il primo tipo di attaccamento è dovuto all’incongruità e alla discontinuità della disponibilità della figura di attaccamento verso il bambino; ciò porta il piccolo a ricercare, a volte per un lungo periodo, la conferma della disponibilità dell’adulto di riferimento e a dare, conseguentemente, poca attenzione alla scoperta del mondo, al raggiungimento dell’autonomia e alla relazione con gli altri. L’attaccamento evitante ha conseguenze ancora più gravi, perché porta il bambino a fuggire dalla figura di attaccamento, ritenuta competente, ma non disponibile, per la paura di incorrere in ulteriori frustrazioni. Il bambino, tuttavia desidera stare con lei e pertanto viene continuamente deluso.[30]
La possibilità che un bambino presenti dei problemi d’attaccamento nelle relazioni affettive future dipende, dunque, dalla forza e dalle caratteristiche degli attaccamenti iniziali, dall’età in cui è avvenuta la separazione o la rottura e da eventuali incontri successivi.
Per questi bambini che nella vita non hanno avuto la possibilità di sviluppare un attaccamento sicuro con le figure di riferimento sono necessari interventi educativi specifici ma diversi a seconda dei casi. Per ognuno loro è di fondamentale importanza individuare una coppia che abbia in sé le caratteristiche per rispondere ai bisogni educativi che sono di quello specifico bambino e non di altri.
I bambini che hanno vissuto un’esperienza così frustrante come quella dell’istituto o che comunque non hanno avuto un’infanzia serena, essendo stati sballottati da una famiglia all’altra, fanno molta fatica ad instaurare dei rapporti affettivi che durano nel tempo con altre persone che dimostrano loro affetto. Ciò avviene perché hanno paura di essere delusi ancora, non sanno cosa voglia dire dare, né ricevere, e soprattutto hanno paura di chiedere e di amare. “La non continuità della presenza materna o le separazioni precoci che per durata superano la capacità dell’infante di mantenere vivo il ricordo della madre, generano in lui confusione e tensione e sono vissute come angoscianti”.[31]
Come abbiamo visto, il bambino cerca, fin dalla nascita, di instaurare un rapporto significativo con l’adulto che si prende cura di lui, e lo fa mettendo in atto comportamenti specifici, come il pianto o il sorriso, che servono a catturarne l’attenzione. Il bambino si comporta in questo modo anche con adulti che non si mostrano disponibili nei suoi confronti o che non sono capaci di soddisfare i suoi bisogni.
Il più delle volte i bambini danno a se stessi la colpa dell’abbandono subito, perché non sono certo in grado, per la loro tenera età, di pensare a cause di natura sociale, gli unici due colpevoli possono essere lui o i suoi genitori. Per i figli è impossibile pensare che i genitori possano sbagliare, perché ai loro occhi essi sono come degli eroi, inoltre i bambini hanno bisogno di credere che le decisioni degli adulti siano giuste per poterli considerare in grado di fornire loro un solido appoggio. Così addossano su se stessi tutta la responsabilità della loro sofferenza e arrivano a pensare che il genitore tornerà a prenderli quando saranno diventati buoni. I bambini vivono in un mondo immaginario e fantastico in cui si rifugiano per non guardare in faccia la realtà e il loro comportamento esteriore è di adeguamento passivo, o di un’apparente indifferenza, o ancora di ribellione e provocazione. In un ambiente privo di stimoli, in cui il bambino non trova nessun modo per accrescere la sua autostima, egli “impara presto quanto sia inutile, se non dannoso, esprimere i propri sentimenti e i propri desideri e quanto sia preferibile nasconderli. Egli impara ad avere con l’adulto un rapporto formale e a mascherare il proprio vissuto dietro una accondiscendenza che gli permette di ottenere tutto ciò che è possibile”.[32]
Il bambino in attesa prova sentimenti contrastanti, da un lato egli sente il bisogno di affidarsi di nuovo ad un adulto che gli dia quell’affetto di cui ha bisogno, dall’altro teme di venire tradito di nuovo. Per evitare il perdurare della condizione di conflitto, che logora il bambino, è necessario far durare il meno possibile questa fase di incertezza della sua vita.[33]
Il bisogno di cure e di attenzioni, il bisogno di sentirsi importante per qualcuno, può far emergere nel bambino l’idea del genitore perfetto: il genitore immaginario. Con la fantasia egli inventa il genitore senza difetti, troppo perfetto per esistere veramente nella realtà. Così facendo il piccolo cerca di colmare il vuoto che c’è dentro di lui, la sua solitudine, ed è anche un modo per fuggire da quella realtà che tanto lo fa soffrire.
“Il genitore immaginario blocca la ricerca delle responsabilità dell’età adulta, porta all’assunzione di atteggiamenti di rottura, di sfida e di provocazione, rafforza la tendenza alla commiserazione e alla ribellione, prolunga all’infinito l’età dell’infanzia e dell’adolescenza, facilita la strada verso la disperazione esistenziale. Il genitore che non c’è e che esiste nella mente non può certo risolvere la disgregazione dell’io e il bisogno di un modello genitoriale protettivo e rassicurante. Il bisogno non soddisfatto di identificazione con il genitore e di nutrimento affettivo porta il minore straniero adottato a intraprendere una dura lotta con se stesso e a sbilanciare il rapporto tra il mondo dell’illusione e il senso della realtà a favore del primo: il desiderio di fare della propria vita un progetto per la ricerca della propria autorealizzazione può essere seriamente compromesso”.[34]
Nel momento dell’adozione il bambino dovrà fare i conti anche con la certezza della perdita definitiva delle figure di riferimento che lo avevano circondato ed, inoltre, nel caso specifico dell’adozione internazionale, con lo sradicamento dalla sua terra d’origine. Tutti questi fattori ci portano a considerare quanto sia importante preparare il minore all’adozione quando si trova ancora nella sua terra. “Fornire al bambino il tempo e gli elementi che consentano il crearsi di una familiarità precedente all’esperienza e al contatto diretto con i nuovi genitori e con la nuova vita significa dargli la possibilità di maturare, con un minimo di gradualità, l’idea del cambiamento che sta per avvenire e dotarlo di strumenti che gli consentano di prevedere, almeno in parte, quanto sta per accadere moderando la sensazione dell’essere in balia delle scelte altrui”.[35]
Occorre spiegare ai bambini che cosa è l’adozione, occorre che essi capiscano che è per sempre in modo che svanisca la loro paura di venire lasciati di nuovo. È necessario che essi si rendano conto che queste nuove persone venute da lontano a prenderli desiderano solo avere un figlio da amare, proprio come loro desiderano dei nuovi genitori che si prendano cura di loro e che li amino incondizionatamente.
La maggior parte delle coppie che adotta un figlio straniero non ha figli biologici. La condizione di infertilità della coppia è, quindi, alla base della scelta del percorso adottivo. “È estremamente importante che le famiglie che ricorrono all’adozione siano riuscite ad assumere la propria sterilità. Non elaborata, negata o pseudo-riparata, essa può condizionare i rapporti con l’adottato”.[36]
Nella maggior parte dei casi la scelta di fondare una famiglia adottando un bambino non è frutto di una pianificazione, non è una scelta che è stata prevista dalla coppia all’inizio del loro percorso insieme, ma è piuttosto una scelta obbligata, una risposta agli eventi imprevisti della vita che sicuramente richiede un lungo processo di adattamento.
Queste coppie hanno bisogno di essere aiutate a superare la frustrazione che deriva dall’impossibilità di avere dei figli per poter realizzare una buona adozione. Può accadere, infatti, che “il bambino adottato non riesca a sanare una ferita ancora aperta e dolorosa, che possa addirittura essere oggetto di inconscio rifiuto in quanto simbolo vivente di una sofferenza non ancora superata”.[37]
Il superamento della delusione per la scoperta della propria sterilità è necessario per fare della scelta dell’adozione internazionale una scelta consapevole e serena che porterà i genitori adottivi ad accettare il nuovo arrivato incondizionatamente e a poter affrontare in modo efficace le difficoltà legate all’inserimento di un bambino straniero in un nuovo nucleo familiare. Prima di arrivare alla scelta dell’adozione la coppia che scopre la propria infertilità, per evitare di considerare in futuro il bambino adottato come un sostituto di quel figlio tanto desiderato, deve necessariamente passare attraverso un lungo e doloroso percorso che comprende il superamento di diverse fasi caratterizzate ognuna dalla prevalenza di uno specifico sentimento: la sorpresa, il rinnegamento, la rabbia, l’isolamento, la colpa, la depressione, il dolore ed infine la risoluzione.[38] La ferita conseguente alla scoperta della propria sterilità è, infatti, molto profonda e di difficile elaborazione, perché impone alla coppia l’accettazione della perdita di una capacità legata alla propria identità sessuale e sociale, che la stessa coppia vive come la morte di una parte di sé. Per poter elaborare questa esperienza così sconvolgente, la coppia deve riuscire a superare il rimpianto per un figlio impossibile ed evitare di considerare come bisogno primario quello di avere un figlio ad ogni costo.
I coniugi devono imparare a tollerare questa mancanza, solo facendo così possono essere pronti ad accogliere un figlio generato da altri. Solo così, la scelta adottiva può essere considerata non una scelta compensatoria ad una perdita subita, né una forma di terapia della coppia per allontanare la sofferenza, ma una scelta fondata sul recupero di una dimensione affettiva, in cui è possibile progettare l’inserimento di un bambino, in cui è possibile maturare il desiderio di prendersi cura di un figlio.
Le coppie che hanno già dei figli biologici e desiderano adottare un bambino sono un numero esiguo rispetto alle coppie senza figli. Le motivazioni all’adozione, in questo caso, possono essere diverse. Il desiderio di un altro figlio può nascere, ad esempio, dall’impossibilità di portare a termine un’altra gravidanza per problemi di salute o perché si è troppo avanti con gli anni, oppure dal bisogno di riempire il vuoto lasciato dai figli ormai grandi, e in misura minore da intenti filantropici.
I genitori adottivi, come il bambino, giungono, quindi, alla scelta dell’adozione con alle spalle una situazione personale spesso non risolta. La decisione di adottare un bambino dovrebbe arrivare, comunque, dopo aver fatto la considerazione che non vi sia differenza tra l’allevare un figlio proprio e uno adottivo. Ma spesso i coniugi, anche inconsciamente, ritengono la paternità e la maternità adottive inferiori a quelle biologiche.
È importante, invece, che i genitori adottivi siano convinti del fatto che “essere nati da”, non corrisponde ad “essere figlio di”. Come abbiamo avuto già modo di sottolineare, l’ammaternamento non è legato in sé e per sé alla procreazione. Sono le figure genitoriali, indipendentemente dal fatto che siano o meno i genitori biologici, a far sì che il bambino si sviluppi in modo normale. E la maternizzazione è l’insieme dei comportamenti attraverso i quali il bambino fa diventare una donna la propria madre. Lo stesso avviene con l’appaternamento, anzi possiamo dire che i padri adottivi sono più presenti di quelli biologici, perché partecipano, fin dall’inizio, insieme alla moglie, alla scelta dell’adozione.[39] Bisogna, quindi, sfatare il mito dell’esclusività del legame di sangue, perché genitori non si nasce , ma si diventa.
“Ancor più della coppia in attesa di un figlio naturale, la coppia adottiva è portata a fantasticare su come sarà il figlio adottivo. Il bambino immaginato è, di solito, un bambino neonato o almeno piccolissimo. Forte è il bisogno di pensarlo come un bambino senza passato”.[40] Tutti i genitori immaginano come sarà il figlio in arrivo, sia fisicamente che caratterialmente, e quest’immagine si basa soprattutto sulle caratteristiche somatiche e sul temperamento dei familiari. I genitori adottivi costruiscono un’immagine del loro futuro figlio meno rassicurante e molto vaga rispetto agli altri. Per loro è molto più difficile fantasticare, perché non sanno nulla del bambino che adotteranno.
Essi si chiedono che cosa questo bambino ha ereditato dai suoi procreatori e in che misura questa eredità influenzerà la sua vita, si domandano se sarà un neonato e se non lo sarà in che ambiente è vissuto fino ad ora, cosa ha appreso. Tutte queste domande rimangono senza risposta e fanno vivere la coppia in uno stato di grande ansia.[41]
L’immagine che la coppia adottiva ha del futuro bambino è emotivamente più coinvolgente di quella dei genitori biologici perché fa leva più sulle aspettative dei genitori che sulla realtà e, quindi, assume un’importanza determinante nel rapporto che i genitori adottivi instaureranno con il bambino che gli verrà affidato. Il bambino vero e quello immaginato verranno continuamente messi a confronto, e a volte questo confronto andrà a discapito del primo. Se il bambino reale non riesce a soddisfare i bisogni dei genitori, perché non corrisponde all’immagine che essi si erano fatti di lui, sarà molto difficile per loro accettarlo e dargli spazio, non solo nella loro vita ma soprattutto nel loro cuore.
I genitori adottivi costruiscono l’immagine del loro futuro figlio in base alle loro esigenze personali, ma soprattutto facendosi influenzare dagli stereotipi culturali.
Quando l’immagine che si erano creati non corrisponde alla realtà, spesso i genitori rimangono perplessi di fronte al bambino, non capiscono il suo comportamento e hanno paura di non poterlo considerare figlio a tutti gli effetti, di conseguenza si comportano con lui in modo ambivalente confondendolo. “La coppia che intraprende l’adozione si interroga e fantastica sulle caratteristiche del bambino, il sesso, l’età, l’origine etnica. Si chiede se il figlio che aspetta potrà rinascere in un’altra cultura, se porterà con sé i caratteri della sua origine; si interroga sulle implicazioni della sua storia. Il gruppo etnico cui potrebbe appartenere suscita nei genitori fantasmi e proiezioni”.[42]
Anche se i genitori adottivi sanno che devono essere disponibili ad accettare qualsiasi bambino senza preferenze, le immagini e le esperienze pregresse di entrambi influiscono sui loro orientamenti. Ad esempio è frequente nei coniugi immaginare il loro futuro figlio come un bambino senza passato, a loro piace pensare che la sua vita comincia nel momento in cui viene adottato. Per questo motivo molte coppie si dichiarano disponibili ad adottare solo bambini molto piccoli. E anche nel caso dell’adozione di bambini più grandi molti genitori credono che basti non parlare del passato per eliminarlo automaticamente.
“Il pensiero della vita precedente è causa di ansie e timori, e dall’altra parte è rassicurante l’idea che l’adozione rappresenti una nuova rinascita. Rimuovere il passato è una tentazione forte, e più piccolo è il bambino minore è il suo passato”.[43]
La paura più grande di un genitore adottivo è quella della non riuscita dell’adozione stessa. Il genitore teme che il bambino non si affezioni a lui e questa paura lo porta a cercare di avere un legame esclusivo con il figlio, spesso opprimendolo e impedendogli di aprirsi verso il mondo esterno, ostacolando in tal modo la sua crescita. I genitori si chiedono anche come sarà il loro bambino da adulto, se insomma riuscirà nella vita. Essi si domandano se questo figlio non generato da loro ha le effettive capacità per essere all’altezza delle loro aspettative, temono che il bambino abbia difficoltà che sono dovute a fattori ereditari o a carenze affettive e che esse non siano recuperabili. I genitori hanno paura che i diversi comportamenti sociali del bambino appresi nella sua cultura d’origine potrebbero essere poco accettati nella nostra società e che, per questo motivo, gli altri lo considerino diverso.
L’integrazione nella società è un problema molto importante per i genitori adottivi. “La reazione agli eventuali rifiuti della gente nei confronti dei loro bambini costituisce per i genitori la preoccupazione più assillante”.[44] Tutti i genitori temono che i loro figli vengano rifiutati e soprattutto hanno paura di non potere esercitare alcun controllo sull’eventuale sofferenza dei loro bambini. Inoltre, i genitori si sentono responsabili del possibile fallimento del figlio in ambito sociale, perché colpevoli di non aver saputo modificare i suoi comportamenti inadeguati. È per questo che i genitori adottivi tendono ad attribuire tutti i comportamenti spiacevoli del bambino a fattori ereditari, denigrando in tal modo le sue origini.
L’ansia che deriva dal timore di non poter realizzare le loro aspettative porta spesso i futuri genitori a negare i problemi reali. I genitori preferiscono non parlare dei loro problemi passati e futuri e al momento dell’adozione useranno questo modo di fare anche con il bambino. Tutto ciò è molto pericoloso per gli equilibri della futura famiglia, infatti, “tacere vuol dire per grandi e piccoli elaborare da soli immagini non condivise e quindi sempre diverse, con la conseguenza di una persistenza di gradi più o meno rilevanti di estraneità reciproca”.[45]
I genitori, invece, per una buona riuscita dell’adozione, devono cercare di fronteggiare le loro ansie e le loro paure, devono imparare a convivere con esse. Già parlarne insieme ed essere coscienti della loro esistenza è un aiuto importante per poterli risolvere. Il periodo dell’attesa è, quindi, necessario perché consente ai futuri genitori di approfondire le proprie convinzioni, di riflettere sulle proprie aspettative e sui propri pregiudizi. I genitori, confrontandosi, capiranno che per costruire un rapporto solido con il proprio bambino, basato sull’amore e sulla disponibilità, non si dovrà dare nulla per scontato, ma che tutto si dovrà conquistare giorno dopo giorno, con una costante attenzione ai problemi.
Il momento pre-adottivo è importantissimo. Se la coppia che desidera adottare un bambino straniero viene adeguatamente supportata nel riconoscimento dei propri pregiudizi, delle ansie, delle paure e viene aiutata con strumenti mirati nella scelta dell’adozione internazionale e se il bambino da adottare viene scelto dalle autorità competenti in base all’affinità che potrebbe avere con la coppia di genitori adottivi, in base ad un’analisi accurata dei vissuti e delle personalità di entrambi, l’adozione internazionale riuscirebbe senz’altro ad essere più efficace di quanto non lo sia adesso.
CAPITOLO 3
PROBLEMATICHE CONNESSE ALLA COSTRUZIONE DI UNA NUOVA FAMIGLIA
Il primo incontro tra i genitori e il bambino adottivo è inevitabilmente complicato dalla diversità culturale e dalle differenze legate ai contesti di vita precedenti.
Le difficoltà dell’adattamento reciproco sono da attribuirsi, innanzitutto, al fatto che le aspettative di entrambi sull’incontro tanto fantasticato non trovano conferma nella realtà e ciò comporta a volte che i genitori non riescono a sentire quel bambino come loro figlio e il bambino non considera quegli adulti come genitori. A ciò, nell’adozione internazionale, si aggiungono i problemi che riguardano l’inevitabile diversità culturale che rendono i genitori e il figlio adottivo dei veri e propri estranei. Diversità nel modo di comportarsi di fronte alle situazioni, diversità nel modo di vedere la realtà, diverse abitudini quotidiane, rendono veramente difficoltoso l’adattamento di un bambino straniero nel nuovo nucleo familiare. Per evitare ciò è importante che i genitori adottivi imparino a conoscere il bambino nel suo paese d’origine, per condividere con lui la sua realtà quotidiana, ciò li aiuterà ad accettarlo per quello che è, e cioè un bambino che ha una storia alle spalle, delle esperienze e dei bisogni che sono dovuti alla sua precedente esperienza di vita. Inoltre, il bambino non avvertirà una rottura netta con il suo passato e si sentirà più rassicurato, i genitori avranno la sensazione di aver condiviso con il figlio qualcosa di suo e di conseguenza si sentiranno più vicini a questo bambino nonostante rappresenti per loro ancora un estraneo.[46]
Il percorso di adattamento di un bambino straniero nella nuova famiglia adottiva è reso più difficile “dal cambiamento improvviso e marcato di alcuni elementi di riferimento per il bambino, tali da determinare in lui, inevitabilmente, un senso di estraneità”.[47]
Il bambino può sentirsi un estraneo, perché il nuovo ambiente è completamente diverso da quello a lui familiare; diverso può essere, ad esempio, il paesaggio, il clima, gli animali e diverse possono essere le case, le strade, i mercati, i negozi. Il segno più evidente della differenza tra il bambino e il nuovo mondo è rappresentato dalla mancata comprensione del linguaggio utilizzato dai nuovi genitori e da tutte le altre persone con cui il bimbo viene a contatto; non solo il linguaggio verbale, ma soprattutto quello non verbale, fatto di gesti, di mimica facciale, di diversità nel tono della voce, di postura, che può essere molto diverso da quello che il bambino ha appreso nella sua cultura d’origine. Meno visibili, ma non per questo meno importanti, sono le difficoltà che il bambino incontra nel nuovo ambiente dovute ai valori, alle norme di comportamento, alle abitudini di vita che non corrispondono a quelli appresi nella cultura d’origine. Tutto è nuovo, dunque, per il bambino. Egli non deve fare i conti solo con due nuove figure genitoriali, che deve imparare a conoscere, ma anche con tutta una serie di nuovi codici, di nuove regole, di nuovi modi di comunicare a cui non era preparato, che gli rendono veramente difficile sentirsi parte integrante del nuovo nucleo familiare.
“La marcata differenza di contesti e di interlocutori fa sì che al bambino di diversa etnia vengono a mancare, più che al bambino della stessa etnia dell’ambiente adottivo, gli strumenti per prevedere le reazioni dei nuovi genitori ai suoi comportamenti e che pertanto egli sia meno in grado di controllare gli eventi e di partecipare attivamente alla loro determinazione”.[48]
La costruzione del sé in un bambino adottato, quindi, avviene in un contesto diverso da quello in cui è nato, i genitori non devono pretendere, però, neanche con richieste implicite, che il figlio rinunci alle parti fondamentali del suo sé, alla propria storia di vita precedente, e che dimentichi le proprie origini. Per una buona riuscita dell’adozione internazionale è necessario che i genitori siano attenti alla diversità e che la vivano in modo positivo. I genitori che fanno finta che la differenza non esista, o che le danno un’accezione negativa, o che attribuiscono ad essa le difficoltà del bambino nell’inserimento a scuola o in famiglia, rischiano di compromettere lo sviluppo del bambino e dell’intera famiglia.[49]
È importante superare il conflitto, tipico delle società occidentali, che attribuisce valore al simile e disvalore al differente. I genitori adottivi devono entrare nell’ottica della differenza, devono rendersi conto che adottare un bambino straniero vuol dire non solo prendersi cura di un bambino diverso, per cultura e caratteristiche somatiche, ma anche rendere diversa la famiglia stessa. Nella cultura occidentale, fin dai tempi del pensiero greco, si è privilegiata la categoria dell’identico, ciò ha portato alla negazione della differenza. Tutto è riconducibile all’uno, di conseguenza, la non-identità, che si manifesta attraverso il pluralismo, la diversità, l’alterità, viene considerata conoscenza falsa, e quindi viene negata. Il privilegio dell’identità ha condizionato e vincolato tutto il pensiero occidentale: nel linguaggio, nell’organizzazione della vita sociale, nella percezione dell’identità dell’io. Questo modo di pensare ha dato sicurezza alla cultura occidentale, le ha dato forza e coerenza contro gli attacchi esterni, ma nello stesso tempo l’ha impoverita e irrigidita. Il principio dell’identità, quindi, è stato a lungo struttura e regola della cultura occidentale. La differenza è stata, invece, considerata per secoli un anti-valore, in contrapposizione all’univocità della logica dell’identità che teorizza un’educazione fondata sulla convergenza e sulla conformazione. La cultura contemporanea, gradualmente, ha messo al centro e ha riaffermato come principio – valore la differenza.[50]
“L’affermarsi della Differenza non cancella il ruolo dell’Identità, piuttosto lo fa regredire dal proscenio allo sfondo, lo colloca in una condizione di subalternità rispetto alla Differenza.”[51] Nel nostro tempo, che è il tempo della globalizzazione, dello scambio tra le culture, l’identità non può essere più univoca, ma deve aprirsi ad altre identità, deve accettare e riconoscere la categoria della differenza. Bisogna, quindi, educare alla diversità in modo che essa non diventi disuguaglianza, ma risorsa della famiglia e dell’intera collettività. Innanzitutto, è necessario riconoscere la diversità, che fa parte dell’individualità di ogni persona, e dare ad essa un’accezione positiva, tanto da considerarla come un valore da custodire e da coltivare.[52]
Come abbiamo già sottolineato, per i bambini stranieri adottati la diversità culturale può essere un ostacolo per l’inserimento nella nuova famiglia. Essi, infatti, anche se arrivati nel nuovo paese molto piccoli, hanno già appreso gli stili di vita, i valori, il metro di giudizio degli eventi e i modi di reagire propri del contesto sociale d’origine, che spesso sono molto diversi da quelli che vengono proposti nel nuovo ambiente. Queste differenze vengono accentuate dalle diverse caratteristiche somatiche dei bambini che appartengono ad un’altra razza. Anche se il bambino cerca di adeguarsi al nuovo stile di vita, il diverso colore della pelle o i diversi lineamenti del viso, lo fanno sentire diverso e, soprattutto, lo fanno apparire diverso agli altri membri della comunità con cui egli viene a contatto ed anche e soprattutto ai propri genitori.[53]
Questa diversità viene accettata dai figli se i genitori dimostrano, sia esplicitamente che implicitamente, di essere sereni di fronte ad essa e se rispondono con sincerità a tutte le domande che i bambini pongono loro senza mostrare imbarazzo o preoccupazione. Non tutte le coppie, però, riescono a staccarsi dal pregiudizio occidentale che è quello di considerare la diversità come un ostacolo, o qualcosa di cui liberarsi, e, quindi, hanno reazioni diverse ad essa, che vanno dal netto rifiuto alla sua accentuazione.
Alcune famiglie adottive negano accanitamente la differenza culturale e somatica tra genitori e figlio, altre attribuiscono ad essa la causa delle sue difficoltà relazionali e di adattamento, altre ancora, invece, riconoscono e accettano le differenze come parte integrante della storia familiare.[54] Alcuni genitori, quindi, chiedono al figlio adottivo di adeguarsi subito al nuovo stile di vita, essi “ritengono che egli debba divenire al più presto simile ai coetanei bianchi, perdendo quel bagaglio di abitudini e valori che lo rende diverso e che sembra rendere ancor di più evidente la sua appartenenza ad un’altra origine”.[55]
Per lo stesso motivo cercano di minimizzare le differenze che il figlio fa loro notare, cercando di nasconderle anche a loro stessi. Così facendo, però, non fanno altro che essere ambigui e contraddittori nei confronti del bambino, essi gli dimostrano sì affetto, ma non per quello che lui è, cioè un bimbo dal colore della pelle diverso, ma per quello che potrebbe diventare, e cioè un bel bambino bianco. I genitori chiedono, in questo modo, al figlio di rinunciare alla sua identità passata per cercare almeno di assomigliare ai suoi coetanei bianchi.
La non valorizzazione della cultura di appartenenza del bambino è un grave errore, da parte dei genitori adottivi, che può compromettere la costruzione dell’identità del piccolo. Infatti, sappiamo che per un bambino straniero adottato è più facile inserirsi nel nuovo ambiente culturale se i propri genitori accettano e valorizzano la sua cultura d’origine e se lo aiutano ad integrarla con la nuova. “I bambini adottati, se non accettati pienamente nella loro diversità e non valorizzati in essa, possono sviluppare stereotipi positivi verso gli appartenenti alla razza dominante e negativi verso gli appartenenti alle minoranze razziali e di conseguenza non riuscire ad accettare la propria origine”.[56] I genitori adottivi hanno, quindi, il gravoso compito di guidare i loro piccoli verso l’assunzione di una identità multietnica. Ma, per fare ciò, devono essere loro, in prima persona, liberi da pregiudizi verso l’etnia di appartenenza del bambino e verso la diversità in generale.
Chi si avvicina all’adozione internazionale deve sapere che la cosa più importante, per una buona riuscita dell’adozione stessa, è quella di prendersi cura della differenza attraverso la valorizzazione delle diverse storie di genitori e figli, delle diverse culture d’origine, delle evidenti differenze somatiche se esistenti. Negare queste differenze è un grosso rischio che impedirebbe al figlio la costruzione della propria identità.[57]
CAPITOLO 4
IL FALLIMENTO DELL’ADOZIONE INTERNAZIONALE
4.1 Dati del fallimento: il fenomeno delle “restituzioni”.
I problemi che insorgono all’interno di una famiglia adottiva dovuti, come abbiamo visto, soprattutto alle diversità culturali esistenti tra genitori e figli, portano spesso i genitori a vedere nel bambino tanto desiderato la causa delle frustrazioni che permeano la famiglia stessa.
Quando una famiglia non sta bene tende a espellere quell’elemento che ritiene essere la causa di tali tensioni.
Il senso di impotenza che i genitori avvertono dentro viene in qualche modo “coperto” da azioni molto forti e radicali fuori, come l’allontanamento da sé del figlio, che hanno il senso di allontanare l’ansia e l’angoscia derivanti dal “non sapere cosa fare”.
Il disagio e la difficoltà diventano insuperabili e appaiono sempre più diffusi negli “ snodi di passaggio”, cioè nei momenti critici evolutivi (come per es. l’adolescenza) che pongono dei nuovi problemi, a cui si dovrebbero dare nuove spiegazioni e trovare nuove soluzioni.
La mancanza a livello nazionale di dati sulle adozioni internazionali difficili
e la diffusa percezione che il numero delle adozioni non riuscite fosse di gran lunga superiore a quello reso noto dai servizi territoriali e dai tribunali per i minorenni hanno indotto la Commissione per le Adozioni Internazionali a promuovere sul tema la prima ricerca in Italia per riflettere sulle possibili cause di queste difficoltà che raggiungono la loro massima espressione nell’espulsione del figlio adottivo dal nucleo familiare.
La ricerca è stata promossa dalla Commissione per le Adozioni Internazionali di Roma ed è stata realizzata con la collaborazione dell’Istituto degli Innocenti di Firenze unitamente ad un gruppo di esperti di differente professionalità durante il biennio 2002-2003. I dati definitivi sono stati presentati alla Camera dei Deputati a Roma il 16 dicembre 2003.[58]
I risultati della ricerca ci inducono a pensare che forse è necessario da parte dei servizi, nel corso dei colloqui con le coppie finalizzati alla relazione socioambientale, non badare tanto, o soltanto, a indagare, bensì soprattutto a rendere le coppie consapevoli delle possibili difficoltà, inducendole a considerare molto seriamente l’opportunità di un percorso di crescita e di sostegno alla genitorialità dopo l’ingresso del bambino in famiglia, o ancora tentare di prevenire i problemi del post-adozione utilizzando un diverso sistema per pervenire alla scelta importantissima della coppia per un determinato bambino proveniente da un determinato paese.
Molti degli insuccessi registrati si sarebbero potuti evitare se la coppia, all’ingresso in Italia e anche prima dell’adozione vera e propria, fosse stata seguita, affiancata, sostenuta, orientata, se insomma avesse avuto un ancoraggio forte e sicuro.
I futuri genitori devono essere coscienti e responsabili dell’impegno educativo che devono assumere che necessita di esser sostenuto, perché il sostegno prevenga la frattura e non venga richiesto quando è troppo tardi.
Esaminiamo i dati della ricerca.
I minori stranieri adottati e successivamente restituiti ai servizi sociali territoriali con uno o più passaggi nelle strutture residenziali nel periodo oggetto di indagine (1 gennaio 1998 - 31 dicembre 2001) sono stati complessivamente 164. Si registra una prevalenza femminile (55% del totale) e una più bassa incidenza maschile (45%). Questo dato è più incisivo nella fascia d’età d’ingresso in Italia compresa tra i 12 e i 14 anni. Considerando le altre fasce d’età, infatti, le differenze sono minime. come si evince dal grafico 1.
Il picco delle restituzioni si ha intorno agli 8/9 anni sia per i maschi che per le femmine e una grande incidenza si ha anche nella fascia d’età tra 9 e gli 11 anni. La minore incidenza di restituzioni la possiamo vedere nella fascia d’età adolescenziale. Dal grafico si vede anche che l’età media d’ingresso dei minori stranieri è prossima agli 8 anni ed è più spostata verso quella adolescenziale.
Certo sappiamo che l’età non è l’unico fattore di rischio, ma certamente possiamo dire che a età più avanzate di inserimento nel nucleo familiare sono correlati maggiori rischi di restituzione. Tali rischi sono massimi nell’età preadolescenziale e adolescenziale. Questo periodo della vita è critico non solo per i minori inseriti a queste età nel nucleo familiare adottivo, ma anche per molti bambini che hanno iniziato un percorso adottivo molti anni prima essendo stati adottati in tenera età.
Accanto all’età d’inserimento anche la provenienza dei minori restituiti fornisce interessanti indicazioni.
Nella graduatoria delle provenienze dei minori restituiti spicca su tutte la nazionalità brasiliana: si hanno infatti 44 bambini brasiliani restituiti, seguiti a grande distanza dai bambini russi (21), colombiani (20), rumeni (17), polacchi (14), cileni (9), indiani (9) e peruviani (7).
Dunque, provenire da un determinato Paese piuttosto che da un altro è un elemento che può incidere sulle sorti dell’esperienza adottiva, cosicché a rilevanti flussi in entrata di bambini adottati da un certo Paese non corrisponde necessariamente un più elevato numero di insuccessi dell’adozione. Ad esempio possiamo constatare che i minori rumeni adottati sono in numero maggiore rispetto ai minori brasiliani, ma ciononostante si hanno un numero di restituzioni inferiori per i bambini rumeni a meno della metà rispetto ai bambini brasiliani.
Sono i Paesi dell’America latina (51,5% delle restituzioni totali) a far segnare le incidenze più alte di restituzioni, con valori decisamente superiori a quelle dei minori provenienti dall’area dell’Est Europa (39,3% delle restituzioni complessive).
I minori brasiliani presentano inoltre alcune interessanti peculiarità che li distinguono piuttosto nettamente dall’insieme dei minori adottati e successivamente restituiti: contrariamente a quanto si verifica per il complesso dei minori restituiti, tra di essi si ha una prevalenza di maschi (26) sulle femmine (18); si registra, rispetto alle altre nazionalità, una più alta incidenza di ingresso di bambini piccoli. Questa ultima osservazione sulla presenza di precoci età tra i minori brasiliani restituiti sembrerebbe contraddire quanto precedentemente detto rispetto ai maggiori rischi di restituzione al crescere dell’età, ma in questo caso è necessario valutare anche il peso specifico dei vissuti dei bambini brasiliani che provengono spesso da esperienze di particolare ed estrema deprivazione. Per i bambini piccoli e in particolare per i bambini brasiliani, si può dunque affermare che la qualità del vissuto, e non solo la durata, risulta un forte fattore di rischio che può incidere profondamente sulla riuscita dell’esperienza adottiva.
Il successo dell’esperienza adottiva dipende dai genitori almeno quanto dai bambini. Generalmente i fattori di rischio di insuccesso per i genitori sono strettamente connessi alle motivazioni che li hanno spinti verso l’adozione e alle aspettative che ripongono nei figli. Un altro elemento spesso segnalato come fattore di rischio è l’esigenza di avere figli biologici nella famiglia adottiva al momento dell’adozione.
Il fenomeno della restituzione monitorata ha interessato in modo trasversale tutte o quasi le regioni italiane sebbene con intensità diverse legate essenzialmente a tre variabili strettamente connesse l’una alle altre:
a) regione di residenza dei genitori adottivi;
b) adozioni decretate dai tribunali per i minorenni presenti sul territorio regionale;
c) presenza delle strutture di accoglienza sul territorio regionale.
In generale le regioni caratterizzate da un alto numero di adozioni internazionali decretate dai competenti tribunali per i minorenni hanno, in valori assoluti, anche un corrispondente più alto numero di restituzioni (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Campania) sebbene in tal senso si segnalano alcune rilevanti eccezioni (Toscana e ancor più il Lazio)
Tra le coppie adottive che restituiscono i minori vi sono forti elementi di continuità. Queste famiglie presentano tutte un basso numero di figli naturali, un alto tasso di occupazione, soprattutto del padre.
L’età media dei genitori adottivi intervistati per il fallimento dell’adozione al momento dell’ingresso del minore in Italia è superiore rispetto alla media dei genitori adottivi complessivamente considerati, 45 per i mariti e 42 per le mogli contro 40 per i mariti e 39 per le mogli della media complessiva.
I dati raccolti indicano senza incertezze che il periodo critico rispetto ai rischi della restituzione nell’esperienza adottiva si concentra negli anni della crescita adolescenziale. L’età media all’allontanamento dei minori restituiti risulta, infatti, prossima ai 13 anni. Mettendo in relazione l’età media dell’allontanamento con l’età media dell’ingresso in Italia (8 anni circa) si ha una durata media dell’esperienza adottiva dei minori successivamente restituiti di circa 5 anni e mezzo.
Relativamente alle motivazioni dell’allontanamento dal contesto familiare bisogna innanzitutto segnalare che sono state indagate mediante domande a risposta aperta. Le frequenze più alte si registrano in merito a motivazioni generiche che non di rado sottendono altro: difficoltà di relazione, conflittualità con la famiglia, inadeguatezza/incapacità della coppia. Frequenze più basse si hanno per motivazioni più specifiche: abuso, aggressività del minore, abbandono e maltrattamenti.
Tra i casi rilevati di minori allontanati dal nucleo familiare adottivo a seguito di aperto conflitto o difficoltà a proseguire la relazione genitori- figli si rilevano un numero elevato di minori adottati insieme ad uno o più fratelli e dalle storie raccolte emerge come raramente l’allontanamento coinvolga tutto il gruppo dei fratelli ma piuttosto riguardi prevalentemente uno solo e nella fattispecie il bambino più grande.
Il ricovero in struttura residenziale è stata la prassi comunemente utilizzata quale risposta alle necessità di nuova collocazione del minore una volta uscito dal nucleo familiare
I bambini brasiliani presentano episodi ripetuti di ingressi in struttura residenziale a causa del fallimento adottivo (44 minori e 55 ingressi). Per tutte le altre provenienze sono pochi i casi in cui un minore ha avuto esperienza di più strutture a causa del fallimento dell’adozione.
Molto interessanti, infine, sono le informazioni collezionate relativamente al collocamento del minore una volta dimesso dalla struttura di accoglienza, che registra la frequenza massima in corrispondenza del rientro del minore in seno alla famiglia adottiva pari a 30 casi su 93 per i quali il fallimento rilevato non è definitivo bensì transitorio. Frequenze importanti si registrano anche relativamente al collocamento in altra struttura (22 su 93), all’ingresso in altra famiglia adottiva (15 su 93) e al raggiungimento della vita autonoma (13 su 93).
Dai dati della ricerca emerge che il numero delle restituzioni nell’ambito dell’adozione internazionale, valutato in base al criterio dell’interruzione – transitoria o definitiva – di un rapporto difficile tra genitori e figli che culmina con il collocamento di questi ultimi in strutture di accoglienza, non è così elevato, sebbene preoccupante.
È bene precisare però che l’allontanamento del minore dalla famiglia adottiva non è che una delle manifestazioni in cui si può concretare il mancato successo di un’adozione e qualche volta non è affatto il peggiore dei mali, soprattutto se viene effettuato tempestivamente, con una pronta attivazione dei servizi sociali.
In questo caso, infatti, minori malamente collocati in famiglie rivelatesi inadatte al compito adottivo, possono usufruire di risorse sociali più appropriate e in alcuni casi trovare nuove famiglie in grado di accoglierli con maggiore consapevolezza. Il rimanere a tutti i costi nella famiglia adottiva, magari patologica o maltrattante, può arrecare al minore danni maggiori di un accoglimento in adeguata struttura.
Il successo di un’adozione, infatti, non si misura sempre con il mantenimento a ogni costo dell’unità familiare.
Cruciale per una buona riuscita dell’adozione è il momento dell’abbinamento tra coppia adottante e minore. Come abbiamo visto prima dell’entrata in vigore della legge 476/1998 l’abbinamento era superficiale e a volte del tutto casuale. Ora il nuovo sistema dell’adozione internazionale ha reso obbligatorio, per le coppie in possesso del decreto di idoneità rilasciato dai tribunali, che desiderano adottare un bambino straniero, il ricorso all’ente autorizzato, in un regime semiprivatistico sottoposto al controllo pubblico.
Il legislatore italiano ha tentato di dare indicazioni sull’attività dell’abbinamento, che si svolge interamente all’estero. Ha previsto, infatti, in primo luogo che il decreto di idoneità contenga anche indicazioni per favorire il miglior incontro tra gli aspiranti all’adozione e il minore da adottare e in secondo luogo che l’ente abbia cura che la proposta di incontro sia accompagnata da tutte le informazioni di carattere sanitario riguardanti il minore, dalle notizie riguardanti la sua famiglia di origine e le sue esperienze di vita, che poi trasmetterà agli aspiranti adottivi.
Nulla dice, invece, sul momento decisivo della scelta del minore e degli aspiranti genitori da abbinargli, né forse avrebbe potuto farlo per la parte di competenza esclusiva dell’autorità straniera, senza provocare indebite ingerenze nella sovranità di un altro Paese. Tutto è rimesso alla professionalità e correttezza degli enti, che in questa fase sono i veri arbitri dell’abbinamento, la legge, infatti, consente loro di concordare con l’autorità straniera di procedere all’adozione ovvero di rifiutare qualora la consideri inopportuna. Questo potrebbe accadere ad esempio perché non ravvisa la sussistenza dei requisiti dell’adozione oppure perché non ritiene i coniugi idonei con riferimento a quel particolare minore proposto. Sarà compito degli enti autorizzati, attraverso operatori preparati e attenti e contatti trasparenti con le autorità locali (in particolare nei Paesi non aderenti alla Convenzione) riempire di contenuto questa fase lasciata inevitabilmente oscura e imprecisata dal legislatore, da una parte sostenendo nel Paese straniero la coppia nel momento dell’incontro, dall’altra assicurandosi che analogo sostegno, preparazione e ascolto riceva il minore, al fine di favorire nel miglior modo possibile l’inizio di quell’emozionante avventura che è l’adozione.
4.2 Doppio trauma: la sofferenza del minore
Il fallimento dell’adozione può essere inteso come un processo volto al negativo, antievolutivo, che può sfociare in una condizione patologica.
È bene precisare che il vissuto del fallimento è naturalmente inscritto nel processo adottivo. Esso è un’esperienza emotiva che entra a far parte della storia adottiva fin da subito perché è sulla base di un fallimento della genitorialità naturale che si determina l’abbandono di un bambino, ed è quasi sempre sulla base di un’esperienza di fallimento della procreazione naturale che le coppie sterili giungono all’adozione. Le esperienze precedenti del bambino e dei genitori adottivi hanno quindi una caratteristica in comune che è il vissuto di “mancanza” che entrambi hanno sperimentato, sebbene in modo diverso. Nella maggior parte dei casi al momento dell’adozione le modalità relazionali precedentemente vissute dai bambini emergono poco dopo il loro arrivo in famiglia. Bambini che hanno vissuto esperienze di vita anche drammatiche, violente, spinti precocemente all’autonomia, ad autogestirsi, possono mal accettare di trovarsi con adulti che rimandano loro le differenze tra adulti e bambini, che danno regole e limiti. Il bambino deprivato alterna richieste e manifestazioni fortemente regressive derivanti dallo stato di deprivazione, o carenza, alternate a richieste di autonomia legate alle modalità difensive che egli aveva dovuto mettere in atto nel passato per sopravvivere. I genitori adottivi non sempre sembrano essere in grado di capire o sopportare la rapidità con cui avvengono questi passaggi.
Appare significativo nel fallimento adottivo quanto spesso vengano riferiti, nelle interviste ai ragazzi, episodi di minacce, castighi e punizioni da parte dei genitori adottivi durante la permanenza nel nucleo familiare.
Questo dimostra una difficoltà importante, se non una vera e propria incapacità da parte degli adulti nello svolgere il loro ruolo genitoriale a valenza riparatoria, che dovrebbe rispondere ai bisogni profondi di contenimento e di continuità del bambino. Per il figlio adottivo in questi casi si ripropone l’esperienza di abbandono da parte della coppia genitoriale e viene compromessa alla base la possibilità per lui di crescere ed essere “riparato” nel corpo e nella mente che sono stati tanto danneggiati.[59]
Dove non si è riusciti a creare lo spazio per ospitare il bambino nella coppia genitoriale, non si è riusciti a mettere in gioco le risorse necessarie a costruire un contenitore nel quale accogliere le sofferenze del proprio figlio, la relazione adottiva sembra destinata al fallimento.
Le storie narrate dai genitori a seguito del fallimento dell’esperienza adottiva, si spogliano di sentimenti, di emozioni per assumere le sembianze di semplici “cronache di una morte annunciata”. Questi bambini vengono abbandonati due volte, restituiti al mittente come un apparecchio difettoso che non risponde più alle aspettative. Bambini portati in comunità perché i genitori adottivi non ce la fanno più e gettano la spugna.
Dobbiamo considerare il peso sociale ed umano dell’esperienza del fallimento adottivo: la quota di sofferenza che viene vissuta da tutti i protagonisti appare veramente elevatissima. I bambini e i ragazzi, dopo aver vissuto l’allontanamento dalla propria famiglia d’origine si trovano a sperimentare una nuova situazione di rifiuto, quello della famiglia adottiva con una conseguente ulteriore e profonda ferita identitaria e la ricaduta in una situazione di forte incertezza sul proprio futuro.
Si tratta di una sofferenza che non appare circoscritta alla conclusione negativa della esperienza adottiva, ma che sembra portare il minore verso un percorso di disadattamento o devianza.
I disagi dei protagonisti di queste adozioni “difficili” si manifestano in una gamma di comportamenti messi in atto dai minori: comportamenti aggressivi e distruttivi verso le figure genitoriali o altre figure che rappresentano l’autorità o verso i coetanei; atti di autolesionismo; comportamenti antisociali o devianti; disturbi di carattere psicopatologico; carcerazione; ricoveri psichiatrici.[60]
Per comprendere le motivazioni legate al fallimento delle adozioni internazionali oltre alle dinamiche psicologiche esistenti nella famiglia adottiva, bisogna tenere conto anche degli aspetti legati alle differenze culturali e alla distanza comunicativa tra i membri della famiglia stessa.
Occorre ricordare, come afferma Bertolini che: “l’approccio pedagogico individua come pertinente non tanto il tipo di comportamento manifestato da un individuo, quanto le motivazioni che, sostenendolo, lo rendono comprensibile dal punto di vista di chi lo ha prodotto”.[61]
Per proteggere i bambini da esperienze traumatiche come quella del fallimento della relazione adottiva risulta indispensabile lavorare intensamente con la coppia genitoriale per individuare le caratteristiche di personalità che possono essere utilizzate per accogliere non solo il bambino ma il bambino e il suo trauma.
4.3 L’abbinamento genitori/bambino: prevenire la restituzione
Una fase particolarmente delicata dell’iter adottivo è rappresentata dalla fase di abbinamento. Chi è preposto a questa scelta deve coniugare la struttura e le caratteristiche della coppia aspirante l’adozione con le caratteristiche del bambino. Non tutte le coppie possono adottare tutti i bambini e viceversa. Un’affrettata scelta di abbinamento che non pondera eventuali rischi di fallimento potrebbe avere un esito devastante sulla relazione coppia-bambino.
I fattori di rischio connessi alla vicenda post-adottiva sono per lo più legati alle variabili relazionali e psico-emotive che si instaurano tra la coppia ed il bambino, soprattutto nel caso di un’adozione internazionale quando oltre agli aspetti comunicativi bisogna tenere conto della distanza culturale.
L’esito negativo di queste adozioni problematiche, come abbiamo visto, costituisce un evento traumatico particolarmente doloroso per il bambino, che si trova a subire nuovamente una esperienza di abbandono, pertanto difficilmente elaborabile, ed è un’esperienza lacerante anche per i genitori. Emerge l’evidente necessità che i servizi presidino in maniera attenta la fase del post-adozione, seguendo in particolar modo il momento in cui i figli si avviano all’età adolescenziale.
Oltre ad aumentare le energie per il post adozione c’è il bisogno di occuparsi di più e meglio delle precedenti fasi di selezione e formazione degli aspiranti genitori adottivi e della fase dell’abbinamento con il minore, fasi sicuramente delicate e cruciali per una buona riuscita dell’adozione. L’adozione è un evento altamente complesso e che necessita, in tutto il suo processo, di adeguatezza e compiutezza.
Il tema dei fallimenti nelle esperienze di accoglienza appare indubbiamente connesso alla qualità della valutazione della situazione del bambino e della sua famiglia, all’adeguata preparazione degli operatori dei servizi e dei soggetti accoglienti, nonché del bambino stesso in relazione al significato ed alla prospettiva dell’esperienza di allontanamento e di accoglienza che deve affrontare. Nelle storie di fallimenti adottivi a volte la sordità nei confronti del vissuto reale dei bambini diventa un rischio, una carenza nelle capacità di aiuto che contribuisce ad acuire il senso di solitudine affettiva-emotiva nel bambino.
Nelle esperienze di adozioni internazionali fallimentari o molto conflittuali hanno rilevanza, non solo le dinamiche psicologiche emergenti nelle relazioni tra genitori e figli, ma, come abbiamo già evidenziato, anche gli aspetti legati alle differenze comportamentali e comunicative tra i membri di famiglie multiculturali le cui origini sono largamente eterogenee. Anche la presenza di eventuali pregiudizi e stereotipi, positivi o negativi che siano, da parte dei genitori (ma anche degli operatori), verso paesi e popoli distanti e culture diverse, come verso l’adozione stessa, hanno una rilevanza.
L’adozione internazionale e interetnica, si presenta come un vero e proprio crogiolo di differenze: bambine e bambini di tutte le origini, di tutte le età, testimoni e protagonisti di altrettante storie diverse, a volte malati, soli o insieme a fratelli e sorelle percorrono circuiti internazionali per essere trovati e trovare affetti profondi, la “propria famiglia”, quella che, lo si auspica, diverrà tale.
Analogamente, le caratteristiche delle famiglie adottive sono assai eterogenee rispetto alle motivazioni che hanno spinto all’adozione, rispetto agli stili educativi, rispetto al patrimonio culturale che si portano dietro.
Nell’adozione internazionale gli ambienti di vita e le vicende vissute dal figlio, prima dell’adozione, portano in sé elementi di diversità relativamente a sistemi comunicativi e valoriali differenti a quelli della coppia genitoriale adottante.
Tale diversità di cui il bambino è portatore può essere rinforzata dalle dinamiche della famiglia adottiva in maniera negativa. In questo modo il bambino rischia di diventare ricettacolo delle parti negative di ciascuno dei genitori e di trovarsi in una situazione dove si innesta sofferenza e disagio, in cui a comportamenti non sempre adattivi, esplosioni emotive, rivendicazioni, sfida e provocazioni, la coppia risponde assumendo reazioni di contro aggressività, di espulsione, di fuga, non riuscendo ad accogliere tutte le conseguenze mentali e psicologiche che periodicamente possono presentarsi. Si evidenzia così una sterilità affettiva nella coppia che viene spesso attribuita al bambino.
L’adozione è, prima di tutto, l’incontro fra due storie, dove ciascuno dei protagonisti porta in sé sofferenze, tensioni, delusioni, proiezioni e speranze di vita legate alle vicende vissute. La coppia, o per meglio dire i componenti della coppia dovrebbero avere la capacità di assumersi la responsabilità di sé e dei propri limiti per potersi dedicare disinteressatamente ai bisogni dell’altro.
Solo questa maturità affettiva può permettere di avvicinarsi all’altro non per ridurlo a sé, ma umilmente e gratuitamente, accogliendolo in quanto se stesso, in quanto altro che turba ma che può permettere di generare. Il generare affettivamente rende la coppia capace di prendersi cura dell’altro in un rapporto dove il desiderio riparativo prevalga sul bisogno narcisistico.
Spesso nei casi di adozioni fallite emerge chiaramente che il fallimento stesso sia dovuto all’inabbinabilità della coppia per la presenza di problematiche tali che la rendono non adatta all’adozione in generale o nello specifico all’adozione di quel determinato bambino e che esplodono quando il figlio pensato diventa un bambino reale.
Tra i bambini abbandonati due volte si annida una sottile sensazione di angoscia e di rabbia, quale riflesso dei sentimenti di grande deprivazione affettiva provati.
Questi bambini, forse, se avessero avuto dei genitori diversi avrebbero potuto contare su delle modalità di contatto e di relazione diverse o più appropriate per ciascuno di loro.
Anche i genitori, se avessero avuto un sostegno adeguato, soprattutto in fase di abbinamento e di formazione, avrebbero potuto adottare un bambino che corrispondeva meglio al loro modo di essere e a cui poter offrire condizioni di vita migliori.
L’adozione internazionale può essere una grande risorsa ed un’opportunità vitale per molti bambini stranieri e per molti genitori italiani, a patto che sia ben chiaro il rispetto delle differenze, delle radici e della soggettiva individualità che ogni bambino porta con sé.
Il rapporto tra coppia adottiva, servizi ed enti autorizzati dovrebbe essere inteso quindi come un percorso pensato proprio alla luce dell’obiettivo di evitare la crisi e il fallimento del progetto adottivo, sin dalla fase dell’informazione per poi passare attraverso i mesi della valutazione dell’idoneità e della formazione alla genitorialità e quindi il sostegno adottivo e post adottivo. È molto importante ripensare al momento dell’abbinamento coppia/bambino in modo che questo non diventi casuale o solo un fatto di disponibilità di minori nel paese adottante, ma in modo che diventi una scelta consapevole e programmata. Qualsiasi momento va progettato come strumento per evitare i fallimenti.
CAPITOLO 5
PREVENIRE È POSSIBILE: L’APPROCCIO DELL’ARTIGIANATO EDUCATIVO
5.1 Che cos’è l’artigianato educativo
“L’Artigianato educativo” è stato il titolo del 5° Convegno Nazionale di “Prevenire è possibile” svoltosi a Terni nel Febbraio 1998 ed organizzato dal professor Vincenzo Masini. Il progetto Prevenire è possibile ha come scopo l’articolazione di itinerari educativi rivolti verso le personalità in disagio.
Francisco Bruno Gnisci Vice Presidente I.P.P.N.W. (Associazione Mondiale Medici per la Pace) Premio Unesco 1984 e Premio Nobel per la Pace 1985 così parla dell’artigianato educativo: “La nostra cultura è caratterizzata dai limiti di un materialismo che conduce al blocco delle potenzialità essenziali dello sviluppo umano […]. L’obiettivo [dell’artigianato educativo] è crescere e far crescere, nella convinzione che non ci siano patologie da rimuovere o malattie da curare, ma processi nuovi da innescare, esperienze da vivere, nuovi punti di vista da assumere per costruire percorsi personali di piena assunzione di umanità. […] la povertà affettiva è la risultante di una cultura centrata sullo sviluppo delle egocentricità, come espressione predominante nei rapporti umani. Una egocentricità non intenzionale, che rispecchia la profonda e lacerante ferita narcisistica predominante nella nostra civiltà. […] l’affettività è la base dell’esistenza degli esseri viventi […] dobbiamo imparare a gestire e a sviluppare l’affettività ed insegnare al bambino a far crescere la sua specifica potenzialità affettiva. […] Gli esseri umani sono un coprodotto di fattori biologici connessi alla fecondazione e di fattori relazionali e culturali attraverso i quali prende forma la nostra psiche. […] Il senso fondamentale dell’amore non è soltanto sentirsi attratti ed incantati dalla presenza di un bambino; l’amore è capire i bisogni per poterli soddisfare. […] Il disporsi con naturalità verso l’altrui modo di esistere, dando quella modulazione complementare di emozioni e sentimenti implicitamente richiesta dai comportamenti dell’altro, è il senso ultimo dell’artigianato educativo. Una riconquistata armonia nei gruppi e nelle culture.”[62]
La metodologia educativa dell’artigianato educativo inizia dall’espressione delle caratteristiche emozionali presenti nei soggetti e in base ad esse propone le strategie educative che possano riequilibrare eventuali disarmonie. Nella convinzione che è necessario individuare i valori su cui far leva per trasformare i copioni di comportamento, che gravitano su alcune emozioni ricorrenti, in sentimenti stabili e complessi.
Copioni e sentimenti sono l’evoluzione delle emozioni: i primi come ripetizione involontaria ed abitudinale di una concatenazione di emozioni che si attiva in eventi interni e/o esterni, i secondi come cosciente gestione del comportamento, intensionale, volontario o deciso sulla base di valori o disvalori.
L’Artigianato Educativo è un metodo che, agendo sul riconoscimento dei vissuti emozionali, cerca di evitare la formazione di copioni involontari per mezzo della comprensione dei valori, che significa dare ad una persona la possibilità di esperire emozioni e sentimenti a lei negati perché impossibili per i suoi personali copioni. Nel processo educativo di Prevenire è Possibile l’emozione da cogliere empaticamente è quella che manca. Non si lotta contro un’emozione perché la si rafforzerebbe. Ad esempio non si lotta contro l’emozione di rabbia ma si cerca di far sperimentare a quella persona la calma, la quiete in modo da arricchire il suo vissuto di un’emozione affine che la contrasti e la assorba. La persona ne risulta più ricca ed equilibrata.
5.2 Le tipologie di personalità
Secondo la teoria dell’Artigianato Educativo le emozioni di base, cioè le prime esperienze emozionali vissute dal bambino, sono sette ( paura, rabbia, distacco – sorpresa, piacere, vergogna, attaccamento) e corrispondono ad altrettante tipologie di personalità (avaro, ruminante, delirante, sballone, apatico, invisibile, adesivo). Queste tipologie sono qui descritte tenendo conto della componente negativa insita nel copione per capire in modo più evidente quali siano gli elementi che si oppongono ad un equilibrio personale, e di quella positiva per dare il senso della possibile evoluzione che ciascuna emozione può avere.
L’avaro
L’emozione di base che ruota intorno alla tipologia di personalità dell’avaro è quella della paura, che nasce dall’esperienza del dolore, dalla consapevolezza di non poter controllare, dal bisogno di difendersi affinché nulla possa ferire. La paura poi si può trasformare in inquietudine, diffidenza, apprensione. L’avaro si circonda di difese per questo non riesce ad aprirsi all’esterno e ha bisogno di trattenere tutto nel suo interno. E’ conservatore e sistematico, non tollera l’indecisione e il dubbio, ama l’ordine ma il suo è un ordine formale, il suo apparente equilibrio è solo la mancanza di comprensione del vissuto proprio e altrui. E’ manipolatorio, nel senso che pensa di essere servizievole riempiendo di cure, ma in cambio vuole sottomissione. Il suo non è un amore incondizionato, non riesce a dare un sentimento sincero di cui l’altro avrebbe bisogno, ma chiede all’altro di farsi totalmente gestire da lui. I tratti caratteristici del suo disagio sono: la vulnerabilità, l’inquietudine, l’insicurezza, il possesso, le difese dell’io, l’autoreferenzialità, l’egoismo, l’ansia, l’ossessione, la mania, la cocaina, l’oppressione, il dominio, il controllo.
I pregi dell’avaro sono il suo senso di responsabilità, l’attenzione e la cura con cui sa occuparsi di cose e persone e la sua straordinaria capacità organizzativa, qualità che lo rendono Saggio.
Il ruminante
L’emozione di base per il ruminante è quella della rabbia che scaturisce dall’aver trovato un ostacolo che gli impedisce di andare verso la meta che si era prefisso. Per raggiungere l’appagamento il ruminante ha bisogno di essere sempre carico, in modo da accrescere le sue energie per raggiungere lo scopo. Quando l’ostacolo permane e il bisogno viene frustrato tale carica si trasforma in rabbia che si esplicita in azione aggressiva che procura all’individuo un forte senso di colpa.
È un trascinatore riesce a trasmettere motivazione al lavoro e alle cose che fa, ma, impaziente com’è, non riesce ad organizzarsi e anche se ce la mette tutta viene oltrepassato da soggetti più meticolosi e attenti di lui. Quando non riesce a indirizzare la sua carica rabbiosa verso l’esterno, contro i nemici, si irrita e inizia un contro se stesso e inizia un percorso depressivo da cui è difficile distoglierlo.
Se la straordinaria energia del ruminante viene privata dell’aggressività e viene orientata verso impegni costruttivi, diventerà una grande risorsa per il perseguimento di attività rivolte al bene comune.
Il delirante
Ha come nucleo di base il distacco. La sua intelligenza non si fonda sul calcolo e sulla razionalità, al contrario egli cerca soluzioni complesse anche se inutili o controproducenti. Difetta, quindi, di concretezza e di praticità. Si propone con una grande presunzione fondata sulla sua personale capacità di comprendere. In effetti egli può avere una visione d’insieme delle cose, ma non riesce a fare un’analisi accurata dei particolari, si riferisce sempre ai suoi a schemi personali ed ha intuizioni rapide e sommarie senza un lavoro meticoloso e di profondità. Ha uno sbilanciato processo di identità dovuto alla tensione verso la differenziazione. Ritiene che la condiscendenza verso l’altro sia una perdita del sé: avendo subito eccessi di avvolgimento tende a forme estreme di autonomia.
L’eccessiva stima di sé, l’esagerata fiducia nelle proprie possibilità, la presunzione di essere nel giusto, il senso di superiorità rispetto agli altri, lo conducono al delirio di superbia. Egli ha un mondo interiore che è uno spazio libero dove far crescere le fantasie, che però non diventano progetti realizzabili. L’attività mentale a cui si sottopone nel costruire processi di ragionamento aperti e dissocianti è logorante ed egli non ha altra pace che la temporanea sazietà prodotta da una nuova intuizione. Se non viene aiutato a riassociare i suoi processi mentali attraverso la riscoperta della dimensione affettiva può prodursi in lui una vera e propria scissione della personalità.
Il delirante evoluto, che ha umilmente accettato la possibilità di sbagliare, è una persona intelligente e creativa, portatore di libertà, ma nello stesso tempo capace di concretezza. È quindi in grado di trovare in modo acuto soluzioni innovative ai problemi o di aiutare gli altri a liberarsi dalle dipendenze attraverso il ragionamento.
Lo sballone
La sua emozione di base è il piacere nella fusionalità. Lo sballone vive una forte attrazione verso il piacere che sa gustare con sensibilità emozionale intensa; cerca di sperimentare le sensazioni più forti nei confronti di tutto ciò che vive per saziarsi di un sapore finalmente appagante, ma non è mai appagato. Lo sballone non sa costruire strategie per dar corpo alle sue sensazioni; si manifesta spesso come giocherellone, colui che non prende sul serio le sue responsabilità. Cerca sempre di vivere in tutt’uno con l’altro, alla ricerca di emozioni intense. È romantico, appassionato, spontaneo, ma privo di stabilità. Sta bene quando è in attesa dell’emozione, ma quando essa finisce, la malinconia, il pessimismo, se non addirittura l’angoscia, lo pervadono.
Lo sballone evoluto, che abbia saputo contrastare con efficacia la tendenza all’incoerenza e all’improvvisazione e che abbia saputo acquisire un comportamento responsabile, è una persona che sa regalare generosamente emozioni e sentimenti. La sua capacità di cogliere fascino in ciascuna persona gli consente di aprire alla scoperta della parte migliore di sé tutti coloro che si coinvolgono emotivamente con lui.
L’apatico
La sua emozione di base è la quiete. È inattivo e rigido, manca di motivazione. A volte è come assente, insensibile agli stimoli ed alle sensazioni in modo da non esserne coinvolto. Non riesce a tener dietro a più cose contemporaneamente perché è rigido e non vuole cambiare i propri ritmi, di fronte a situazioni critiche si dichiara inadeguato e si appoggia a coloro che lo circondano lamentandosi per il suo senso di impotenza e di debolezza. Di fatto è un indifferente, evita il confronto o la chiarificazione. La sua vita è piatta ma non sente l’esigenza di modificarla perché occorrerebbe la fatica di accendersi di motivazione o sperimentare l’ansia del cambiamento. Tutto lo porta a sperimentare un forte senso di vuoto ed una penetrante tristezza fino ad arrivare all’astenia che lo fa cadere nella noia e nell’apatia per la mancanza di impulsi.
L’apatico evoluto è portatore di pace. La sua capacità di fare calma e di non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni e dai conflitti lo rende in grado di insegnare agli altri a spegnere le tensioni e ad indicare loro la via per la quiete. Sa trasmettere la pace intesa come trasformazione al positivo di tutte le emozioni di base conosciute. Ha cambiato la rabbia in impegno, la vergogna in umiltà, il piacere in condivisione emotiva, la dissociazione in libertà riuscendo così a conquistare la vera quiete attiva e contemplativa che è un rapporto di amore con il mondo tutto.
L’invisibile
La sua emozione di base è la vergogna. Prova un profondo senso di disistima e sfiducia in se stesso. Se riesce in qualcosa attribuisce il suo successo alla fortuna e non alla sua capacità. Vive una forte chiusura introversiva, è attento a non mostrare mai nulla di sé, nel timore di essere giudicato e svelato. Perciò tende ad isolarsi anche se non ama la solitudine. Essa è, infatti, conseguenza della sua fuga. Piuttosto che agire, si nasconde ed osserva. Non cura molto il suo aspetto fisico, sia perché si sottovaluta, sia perché spera di passare inosservato. Non ama mostrare i suoi sentimenti perché pensa che siano fuori luogo, scontati. Non è in grado di accumulare energia e motivazioni perché è abituato a sminuzzarsi per timore di occupare troppo spazio; anche i suoi sentimenti devono essere sempre deboli e non visibili. L’invisibile evita il confronto e non si mette alla prova, impedendo così eventuali successi che aumenterebbero la stima di sé. La sua incapacità di difendere se stesso apertamente lo tormenta e gli fa provare invidia e gelosia verso gli altri. Questi sentimenti lo portano ad essere falso ad istigare gli altri, a portare delle maschere.
L’invisibile ha una grande capacità di sopportazione del dolore e della sofferenza. Riesce a cogliere empaticamente i vissuti altrui in modo così acuto da riconoscere la sofferenza degli altri anche quando è nascosta o mascherata. Il rapporto di aiuto di cui l’invisibile è capace si fonda sull’umiltà, in ragione della concretezza, a cui lui fa sempre riferimento, e della condivisione, perché riesce ad immagazzinare informazioni sugli altri con grande capacità di ascolto e grande memoria. Può aumentare la stima di sé attraverso la disciplina perché questa gli offre la possibilità di ottenere risultati verificabili che gli forniscono l’energia per continuare a mettersi in gioco.
L’adesivo
La sua emozione di base è quella dell’attaccamento. Il suo bisogno di affetto si trasforma in affanno, il cui motore è il bisogno di attaccarsi cioè di avere la necessità di una presenza al suo fianco. Il copione di base dell’adesivo è incentrato sul desiderio di sperimentare la sensazione di attaccamento di cui è continuamente in attesa. Egli tende a richiamare l’interesse degli altri su di sé, a mettersi in mostra fin da piccolo per giungere addirittura ad interpretare il ruolo del pagliaccio nel gruppo. Pur di essere considerato sceglie di far ridere di sé. Ama il contatto fisico, si pone sempre a bassa distanza dalle persone, chiunque esse siano, è appiccicoso, se rifiutato diventa ancora più insistente. L’adesivo si presenta come un buon amico, egli però ha bisogno di amici al punto da svendersi, diventare servizievole oltre misura, lasciarsi ingannare. Più vive mancanze affettive, più concede potere all’altrui presenza. Nel rapporto con gli altri non cerca di far prevalere la sua opinione, ma giunge a sacrificare se stesso purché vi sia accordo fra le persone e non avvenga nessuna separazione o allontanamento.
Per questo desiderio di essere accettato rischia di essere manipolato e condizionato anche perché considera l’altro sempre come buono e positivo.
Quando il suo bisogno di attenzione viene soddisfatto, l’adesivo diventa affettuoso, premuroso, sa coltivare le relazioni, ha un grande senso dell’amicizia e sa discriminare le persone che lo hanno ferito da quelle che lo hanno amato. Sa essere consolatore, ha un grande senso dell’amicizia ed è molto fedele. Tende sempre a prendere in considerazione l’aspetto positivo rispetto a quello negativo e trova qualcosa di bello e piacevole in tutte le situazioni. Le sue risorse consistono nell’essere un ottimo gregario, affettuoso, sensibile, affezionato e premuroso.
Questa delineazione è funzionale alla descrizione di personalità pur tenendo conto che ogni persona è l’espressione dinamica di copioni multipli e alla ricerca di percorsi di trasformazione delle emozioni in sentimenti.
5.3 Le relazioni all’interno delle famiglie: opposizioni e affinità
Non basta l’imitazione per entrare nel vissuto psichico di un’altra persona, poiché l’imitazione non consente lo scambio degli affetti ma solo la loro riproduzione. Ciò è possibile solo attraverso l’empatia, grazie ad essa si può percepire “l’esperienza vitale dell’altro corporale, psichico e spirituale”[63].
L’empatia è rivolta alla percezione soggettiva dell’altro, alla sua esperienza interiore e alla sua personalità. Nel bambino l’empatia può essere considerata lo strumento attraverso il quale apprende emozioni dalla madre.
La relazione con i genitori è il luogo in cui ognuno di noi apprende sequenze di azione non consce, che corrispondono alle disposizioni emozionali, sulla base delle quali ciascuno si attende una comunicazione pertinente. I diversi copioni, esaminati nel paragrafo precedente, possono presentare affinità elettive con altri o possono essere in opposizione, a seconda delle loro specifiche proprietà di empatizzazione e di motivazione. L’esperienza di nuovi vissuti (come nel caso di un’adozione internazionale) richiede apertura empatica.
Sono elettivamente affini le persone che possiedono motivazioni complementari: in esse ciascuno vede qualcosa di sé, ma in modo rovesciato.
Gli affini possiedono un tratto di base in comune, ma ciascuno di loro ha un aspetto di cui l’altro si sente privo e che vuole possedere. Le relazioni elettive sono fondate sull’immediata simpatia.
Le relazioni opposte sono quelle che ognuno di noi tende ad evitare per l’immediata antipatia che determinano. La relazione con gli opposti è difficile e richiede uno sforzo di elaborazione cognitiva perché il significato del loro punto di vista non ci è immediatamente accessibile.
L’ipotesi, su cui si fonda l’artigianato educativo, è che le modulazioni dei copioni rispondano a leggi relativamente semplici che conducono ciascun copione a rapporti di somiglianza, di affinità o di opposizione con gli altri copioni. Ciò si esplica nella vita quotidiana attraverso relazioni di sintonia immediata, simpatia elettiva, antipatia o indifferenza.
Il grafo delle affinità è prodotto dalla lettura delle tipologie, disposte in cerchio, nella relazione tra di loro. Esso ha una funzione didattica e di orientamento alla ricerca delle affinità. La stella a sette punte vede collocato l’affine nel luogo più lontano.
Seguendo il percorso delle linee della stella possiamo fare una prima descrizione delle affinità: l’avaro può trasmettere senso di responsabilità allo sballone, il quale può accendere con slancio emozionale l’insaziabile adesivo. L’adesivo può avvolgere di affettività il delirante e dargli unità interna mentre il delirante può trasmettere autostima all’invisibile che accende senso di protezione e di giustizia nel ruminante. Il ruminante riesce a motivare l’apatico che con calma e pazienza spegne l’ansia dell’avaro.
Il percorso delle affinità può anche essere letto al contrario: l’avaro mette l’apatico in conflitto con se stesso comunicandogli ansia e lo costringe a mantenersi acceso. L’apatico trasmette pace al ruminante che spegne il suo conflitto con se stesso e con gli altri. Il ruminante incoraggia l’invisibile per farlo uscire dalla sua oppressione e dalla vergogna. L’invisibile indica al delirante la via della concretezza e dell’umiltà. Il delirante riesce a far intuire all’adesivo i condizionamenti e le manipolazioni di cui è prigioniero, lo fa riflettere e lo induce a crescere nella realizzazione della sua libertà. L’adesivo placa l’angoscia dello sballone e la sua ricerca di emozioni appaganti insegnandogli la bellezza della continua affettività. Lo sballone riesce a porgere all’avaro il metodo per uscire dalle sue paure e dalle difese convincendolo a lasciarsi andare al gusto della vita, delle emozioni e dei piaceri. Il grafo a sette punte dimostra che ciascun tipo ha affinità elettiva almeno con altri due.
Le relazioni tra tipi simili e tra tipi adiacenti possono avere l’esito negativo di rinforzo dei copioni, infatti, le persone che vivono emozioni simili o adiacenti alle nostre non producono alcun spostamento del nostro vissuto emotivo. Quando si incontra qualcuno che percepisce la realtà esattamente come noi si attua una immediata simpatia che genera accordo, ma non si cresce non ci si arricchisce del punto di vista dell’altro.
La forma della stella che rappresenta gli opposti mostra relazioni diverse rispetto a quella delle affinità.
Quando si parla di opposizione tra copioni non s’intende parlare di conflitto fra di essi, ma del fatto che fra di loro non s’instaurano relazioni di simpatia, anzi i soggetti si tengono lontani gli uni dagli altri. Tali soggetti in opposizione restano ancorati al loro copione e non si spostano su altri atteggiamenti, in questo modo non riescono a conciliarsi e ad avere un rapporto in grado di produrre una relazione produttiva. Nel grafo vediamo che l’avaro è in opposizione con la dispersione di energie del delirante e con la logica del suo pensiero che appare all’avaro solo disordine. Il delirante si oppone alla mancanza di intuizione e di vita mentale dell’apatico, che tende a spegnere pensieri e problemi creativi, percepiti dal delirante come unico vero appagamento dell’esistenza. L’apatico non tollera l’affanno dell’adesivo e la sua petulante richiesta di attaccamento e di compagnia. L’adesivo è turbato dalla carica del ruminante, che lo spaventa. Il ruminante tiene lontano da sé lo sballone che non è in grado di portare a compimento nessuna iniziativa e che non tiene fede a nessun impegno. Lo sballone tratta con sufficienza l’invisibile che non sa gustare i piaceri della vita. L’invisibile sta lontano dall’avaro che non gli lascia spazio vitale mediante il suo atteggiamento da inquisitore.
Anche le opposizioni hanno una lettura in senso contrario: l’avaro tende a schiacciare l’inconsistente invisibile. L’invisibile non accetta le modalità di essere e di vivere dello sballone che definisce spudorato e volgare. Lo sballone non comprende l’atteggiamento carico di energia e di tensione del ruminante che non riesce ad apprezzare nulla della vita. Il ruminante considera l’adesivo una persona di poco conto, debole e mammone. L’adesivo valuta l’apatico come un essere freddo e insensibile. L’apatico sfugge all’inquieto e creativo delirante e considera stancante stare dietro alle sue idee irrealizzabili. Il delirante ha un forte disgusto per il controllo, i calcoli e le difese dell’avaro.
Tra questi diversi tipi c’è opposizione e incomprensione. Per stabilire una relazione c’è bisogno che almeno uno di loro cresca, impari cioè a porsi in modo diverso con l’altro (utilizzi un copione diverso in affinità). Tale crescita è un processo di conciliazione. La disponibilità ad entrare in contatto con gli opposti è conciliazione con i valori che si intravedono nel modo d’essere dell’altra persona. Tanto è minore il vincolo interpersonale, tanto più la conciliazione è possibile, tanto più stretto e obbligato è il vincolo, tanto è più difficile tale processo.
È molto difficile che un soggetto possa maturare un positivo sviluppo delle sue qualità interne seguendo uno sviluppo che percorre le linee dell’opposizione. I percorsi di crescita si sviluppano con maggiore armonia lungo le linee dell’affinità.
Nell'incontro con le persone affini è possibile acquisire modalità di vita, valori ed atteggiamenti in cui ciascuno è carente. L'incontro tra le diversità diventa così scoperta, attuazione delle personali affinità ed occasione di crescita.
La fissazione in un copione è infatti proprio il prodotto delle opposizioni che hanno costretto quel soggetto a considerare un limitato tipo di comportamenti.
Le relazioni di opposizione
L’insofferenza: (avaro-delirante) si verifica quando le persone si oppongono con costrutti articolati di comportamento. Quanto più uno è, intenzionalmente, ordinato, preciso, metodico, ripetitivo, tanto più l’altro è, intenzionalmente, confusionario, vago, innovativo e creativo. L’insofferenza produce litigio. Tra i due vigono squalifiche reciproche. Tali estremi non presentano punti di contatto. La conciliazione tra i due può avvenire solo se si organizza un punto d’incontro. L’avaro deve acquisire il valore della libertà e il delirante quello della saggezza. Solo così arricchite le due personalità potranno comprendere il punto di vista dell’altro e confrontarsi all’interno della relazione
Il logoramento: (delirante-apatico) è frutto di rapporti superficiali con manifestazioni appariscenti ed estetizzanti. Ciò logora le persone costrette a dare risposte “all’altezza della situazione”, mai del tutto vere o del tutto chiare. L’usuale fuga dal logoramento si traduce nel tentativo di mantenersi indifferenti, ma l’accumulo conduce a manifestazioni di isteria. La loro opposizione si articola tra ideazione e indifferenza, tra aspirazione e remissività, tra ambizione e modestia tra complessività e semplificazione, tra eleganza e trascuratezza, tra superiorità e accettazione, tra scompiglio e quiete, tra disaccordo e pace.
Il fastidio: (apatico-adesivo) nasce dalla reattività di rifiuto “a pelle” di gesti, modi di fare, odori, rumori, sapori, immagini emanati da qualche persona. L’apatico ritiene fastidiosa la richiesta di attenzione da parte dell’adesivo. L’adesivo non trova alcuna soddisfazione affettiva nel rapporto con l’apatico. Conduce a rassegnazione e sopportazione ed al tentativo di mettere in atto l’allontanamento dall’altro. Il fastidio si manifesta in atti di vendetta: piccoli dispetti o vere e proprie violenze.
L’equivoco: (adesivo-ruminante) si crea quando le azioni che determinano i comportamenti delle persone non sono sinergiche e non sono orientate allo stesso fine. Questi opposti hanno in comune la tensione all’attivazione, ma essa è fondata su presupposti diversi: l’adesivo tende ad andare verso gli altri per attirare su di sé l’attenzione, il ruminante tende ad andare contro gli altri mosso da risentimento. L’equivoco rende impossibile l’intesa e conduce alla caduta della fiducia, alla diffidenza, al sospetto ed alla ripetuta attuazione di comportamenti che danneggiano se stessi e gli altri.
La delusione: (ruminante-sballone) si impianta stabilmente quando le persone avevano interpretato, illudendosi, il comportamento dell’altro in sintonia con le proprie aspettative. La delusione può manifestarsi improvvisamente, a seguito di un inganno, ma cresce lentamente in piccole esperienze quotidiane, poco percettibili. Per il ruminante ciò che conta è la carica con cui egli si avvicina al piacere, piuttosto che la qualità del piacere medesimo. Per lo sballone il ruminante è sempre impegnato e non sa prendere le cose alla leggera, ridere e godersi la vita. La delusione conduce al risentimento espresso attraverso la calunnia o il tradimento.
L’evitamento: (sballone-invisibile) è precostituita indisponibilità alla relazione. Entrambi i copioni hanno in comune sensibilità ed emotività, ma per lo sballone essa è fonte e ricerca di piacere, per l’invisibile è causa di sofferenza. Il loro contatto è impossibile, l’invisibile si vergogna delle modalità ostentate dello sballone, di contro secondo lo sballone l’invisibile non trasmette nessuna sensazione intrigante e seduttiva. L’evitamento preclude ogni possibilità di vita comune.
L’incomprensione: (invisibile-avaro) è l’incapacità di trovare il motivo del comportamento che l’altro mette in atto. Sebbene sia chiaro ed evidente ciò che l’altro fa, non si capisce perché lo faccia, come sia possibile che l’altro non capisca che ciò che fa non è quello che si deve fare in quella circostanza. Aumenta così la necessità di osservazione e di controllo del comportamento altrui, con vere e proprie ossessioni e modelli di comportamento paranoici. Insensibilità contro sensibilità, sopraffazione contro pavore, organizzazione contro umiltà, ordine contro delicatezza, responsabilità contro delega, determinazione contro inconsistenza, potere contro tenerezza non si possono risolvere in una relazione.
Le relazioni di affinità
L’integrazione: (avaro- sballone) è la base per una buona organizzazione. Vi è integrazione quando nessuno travalica o tradisce le aspettative che l’altro aveva riposto su di lui: il gioco delle parti, dei compiti, delle funzioni e dei ruoli è armonioso. L’integrazione è l’antidoto del fastidio perché rispetta l’identità di ciascuno e mette tutti nella “giusta distanza relazionale” reciproca. L’avaro ha un atteggiamento di limitazione, di compostezza e di sicurezza, ma non di freno nei confronti dello sballone, che gli può servire per imparare ad acquisire la capacità di gestire al meglio sentimenti ed emozioni. L’avaro può trasmettere allo sballone quel senso di responsabilità che gli manca e che lo fa precipitare nell’angoscia. Lo sballone vede nell’avaro quella capacità di governo delle situazioni, di ordine e di organizzazione che a lui manca. Egli però può insegnare all’avaro a difendersi un po’ meno dai piaceri della vita ed a scoprire il gusto dell’essere tolleranti e generosi con se stessi e gli altri.
La disponibilità: (sballone-adesivo) scaturisce dall’apertura verso l’altro che rende possibile un’azione positiva senza che ciò costi molta fatica. Spesso è valutata nell’intenzione più che nel risultato. Consente di superare l’insofferenza. Lo sballone consente all’adesivo di avvolgerlo nel suo attaccamento, riconosce il valore e la bellezza di quell’emozione di attaccamento e finalmente impara a sentire con maggiore continuità e stabilità, moderando le sue frammentarietà e contenendo la voragine della sua angoscia. L’adesivo sarà felice di legarsi ad un così alto produttore di emozioni fantastiche ed eclatanti. Egli uscirà così dall’affanno e dalla rincorsa appiccicosa verso chiunque possa dargli attenzione.
La dialogicità: (adesivo-delirante) è possibile quando ci siano “cose da dire” e ci sia un contesto in cui possono essere dette. Una relazione in cui si discute di ogni cosa e non si litiga perché, anche di fronte alle idee o alle opinioni più divergenti, è possibile condurre a buon fine la discussione. È l’antidoto all’evitamento perché diminuisce le tensioni, supera le impressioni troppo superficiali o troppo appariscenti. Il delirante nell’incontro con l’adesivo si sentirà affettuosamente amato e capace di tenere insieme i diversi elementi della sua complessità mentale. Il delirante regalerà all’adesivo la libertà, lo costringerà a ragionare e a stabilire i confini del suo sé e la differenza tra il sé e gli altri.
Il riconoscimento: (delirante-invisibile) porta a scoprire che gli altri vivono le stesse emozioni. Si insegna il riconoscimento attraverso espressioni del tipo: “ Ma lei non si è accorto che…” spiegando il motivo per cui una terza persona manifesta un certo comportamento. Il riconoscimento è l’antidoto dell’equivoco: si basa sulla comprensione delle aspirazioni, delle frustrazioni e delle difficoltà dell’altro. Il delirante trasmette autostima all’invisibile tramite i complimenti. L’invisibile è in grado di regalare al delirante la concretezza e l’umiltà.
L’incontro: (invisibile-ruminante) è l’antidoto del logoramento perché presuppone la assoluta diversità delle persone, compresa l’estraneità dei modelli mentali e degli schemi d’azione, ma le impegna nell’obiettivo di scoprire che le diversità sono una potenza a cui ciascuno può attingere. L’incontro produce unità. L’invisibile è in grado di sopportare l’energia del ruminante, con paziente lo orienta e gli fa scoprire quali sono le cose davvero importanti per lui e qual è la via più semplice per realizzarle. Il ruminante può trasmettere all’invisibile il coraggio dell’azione, l’amore per il rischio e per l’iniziativa che a lui mancano.
La mediazione: (ruminante-apatico) costruisce il “senso comune” perché modera gli eccessi e stimola le energie necessarie per raggiungere un obiettivo. È l’antidoto all’incomprensione perché negozia i significati e libera dal controllo reciproco. Produce accordo. L’apatico riesce ad insegnare al ruminante a spegnersi per poter godere dei risultati del suo lavoro, riesce ad insegnargli la contemplazione. Il ruminante insegna all’apatico ad accendersi, a mantenere viva e attiva la concentrazione, ad avere obiettivi e ambizioni.
La complementarità: (apatico-avaro) nasce dalla consapevolezza che l’uno farà le cose che non possono essere fatte dall’altro. Si fonda sulla serena accettazione che gli altri stiano facendo esattamente ciò che c’é bisogno di fare perché è utile per tutti. Lo sfondo della complementarità è la tranquillità e il realismo ed è l’antidoto alla delusione perché non si fonda su aspettative fantastiche. L’avaro trasmette all’apatico il senso del mantenere acceso un controllo, anche minimo, sulle cose. L’apatico insegna all’avaro a contenere la paura che genera l’ansia, gli insegna la tranquillità.
Nell'incontro con le persone affini ciascuno di noi percepisce quanto l'altro può rappresentare per lui e come, attraverso la relazione, sia possibile acquisire modalità di vita, valori ed atteggiamenti su cui ciascuno è carente. L'incontro tra le diversità diventa così scoperta, attuazione delle personali affinità ed occasione di crescita.
5.4 Una storia di adozione difficile
R., nato in un paese dell’est Europa, arriva in Italia insieme ai genitori adottivi all’età di sette anni e viene ricoverato in struttura dopo appena cinque giorni dal suo arrivo, vista l’impossibilità espressa dai coniugi di farsene carico.[64] Il bambino è stato affidato all’orfanotrofio della sua città natale all’età di un anno in quanto “minore al quale mancava la cura dei genitori”. Dal giorno del suo arrivo in orfanotrofio nessuno si è interessato a lui, né i genitori, né i parenti. È stato così dichiarato l’abbandono del minore, deferendone la tutela all’istituto. A distanza di sei anni dall’istituzionalizzazione, il Tribunale del paese d’origine del bambino, accetta la richiesta dei coniugi italiani di adottare il minore.
Entrambi i coniugi hanno alle spalle storie familiari difficili. Nonostante ciò ai servizi la coppia appare ben integrata ed equilibrata nei propri ruoli, lui svolge una funzione più analitica e contenitiva, lei si affida ad una visione positiva della vita riponendo fiducia nel futuro e nella capacità della coppia di affrontare eventuali difficoltà. La signora ripone molta stima nel marito che appare solido e riflessivo. La coppia si mostra molto motivata al progetto genitoriale adottivo e interessata ad approfondire le tematiche inerenti all’adozione. I coniugi sembrano sufficientemente consapevoli delle problematiche connesse al percorso intrapreso e dotati di sufficienti risorse per affrontare l’adozione di un solo minore.
Appena rientrati dal paese straniero, i coniugi non vogliono più tenere il bambino affidato loro. In particolare la moglie riferisce che sin dal primo incontro ha provato un forte rifiuto che ha tentato di controllare senza poi riuscirvi, stando molto male per questo. Il bambino è stato collocato in una struttura dopo cinque giorni dall’arrivo in Italia. Nonostante i successivi ripensamenti dei coniugi è stato loro revocato l’affidamento preadottivo, poiché, è stata rilevata in loro l’incapacità di valutare il peso del ruolo giocato dalle loro storie personali nell’accaduto e la tendenza ad attribuire all’esterno (per esempio al cattivo operato dell’ente autorizzato cui si erano affidati) le maggiori responsabilità. Benché la coppia fosse stata valutata idonea all’adozione erano state espresse dal tribunale riserve legate alle forti limitazioni poste dai coniugi sulle caratteristiche del bambino: età il più possibile precoce, senza deficit se non di lieve entità, razza bianca. Il bambino è stato affidato e poi adottato da un’altra famiglia dove, nonostante le difficoltà (manifestazioni di aggressività e oppositività, enuresi notturna, difficoltà a ricordare e parlare del proprio passato, ed altre ancora), risulta essersi positivamente inserito.
Dal racconto di questa storia, ma ne potrei citare delle altre, emerge come il problema dell’abbinamento tra genitori e bambini sia importante per una buona riuscita dell’adozione internazionale e come sia necessario valutare le personalità di tutti gli attori dell’adozione per cercare di fare degli abbinamenti sulla base delle affinità e non delle opposizioni.
Tutto è rimesso alla professionalità e correttezza degli enti autorizzati ai quali compete l’abbinamento in fase di adozione internazionale. L’abbinamento, cioè la scelta della coppia cui affidare in adozione un bambino, è effettuata dagli psicologi degli enti autorizzati in caso di adozione internazionale. L’abbinamento è compiuto in base al profilo psicosociale della coppia in relazione alle necessità e alle caratteristiche del bambino: si tratta di scegliere la coppia giusta di genitori per un bambino e non viceversa.
La teoria precedentemente esposta dell’artigianato educativo potrebbe essere utile proprio in questa fase. Avendo chiara la struttura di personalità del bambino e sapendo in anticipo di che tipo di genitori avrebbe bisogno per sviluppare le sue potenzialità e per superare i traumi del passato, si potrebbero fare degli abbinamenti più mirati e finalizzati al successo dell’adozione.
In base alla teoria sulle affinità ed opposizioni e alle tipologie di personalità proposte dalla teoria dell’artigianato educativo, possiamo evidenziare quali sono i bisogni dei bambini e in base ad essi abbinare loro dei genitori in grado di soddisfare tali bisogni.
Il bambino avaro: Brontolo
È composto, ordinato e preciso. È obbediente, rispetta le regole prevalentemente quando si sente controllato. Ha bassa sensibilità emotiva ed empatica, tende al perfezionismo e per questo ama fare qualunque cosa in cui sa di riuscire bene. Ha poca immaginazione ed è più portato verso attività che richiedono procedure logiche.
È un bambino con grande autocontrollo e con una forte padronanza delle azioni. Preferisce star fermo piuttosto che agire di impulso, appare molto equilibrato ma sempre teso e contratto. Le azioni gli costano comunque un grande sforzo perché ha una enorme paura di sbagliare. Ha bisogno di scoprire il piacere del rilassamento e dell’azione libera ed appagante.
Il bambino avaro ha bisogno di avere una madre generosa (sballona) che lo aiuti a sperimentare i sentimenti della tolleranza, della commozione di fronte alla vita. E di un padre paziente (apatico) che spenga la sua ansia e lo indirizzi verso la pace attraverso una visione della vita che si accetta per quella che è, una vita che si affronta con impegno sì ma senza paura. La famiglia di brontolo deve essere una famiglia che lo aiuti a rilassarsi e nello stesso tempo a commuoversi per poter godere a pieno dei piaceri della vita senza ansie e tensioni.
Il bambino ruminante: Eolo
Si accende facilmente, è energico, ama le attività manuali e attive. È ribelle e trasgressivo, si arrabbia frequentemente, ha molti amici e tende a schierarsi dalla parte dei più deboli di cui si sente un po’ responsabile. È un forte trascinatore, le sue energie lo portano ad essere iperattivo.
Ha bisogno di un padre umile (invisibile) che lo aiuti con sensibilità e delicatezza a dirigere la sua energia verso le cose davvero importanti indicandogli anche il modo di conquistarle con minore fatica.
E di una madre paziente (apatica) che insegni al figlio a spegnersi assorbendo “tranquillamente” la sua rabbia, la sua energia senza commenti e facendogli poi vedere con soddisfazione quello che ha realizzato. La famiglia di eolo deve essere una famiglia pacifica, capace di spegnere la sua rabbia e di indirizzarla verso progetti importanti.
Il bambino delirante: Dotto
È un bambino curioso, acuto, pronto a differenziarsi perché si sente libero, e anche un po’ al di sopra degli altri. Per questo e per la difficoltà a manifestare le sue emozioni non socializza facilmente e può addirittura risultare un po’ antipatico. Ha difficoltà ad ascoltare ed accettare le sue emozioni quasi volesse essere libero anche da quelle.
Ha bisogno di una mamma umile (invisibile) che, con la sua sensibilità, sappia cogliere tutte le sfumature delle emozioni del figlio e gliele restituisca non come buone intuizioni, ma come comprensione e condivisione del senso umano che esse contengono. La mamma invisibile può porsi con grande discrezione a fianco del delirante, reggere i suoi ragionamenti, seguire con pazienza il funambolismo dei suoi pensieri e portarlo ad un contatto più autentico con se stesso. La mamma invisibile sa essere umile ed attraverso l'umiltà insegnare al figlio la concretezza.
Ha bisogno di un papà adesivo che attraverso l’attenzione affettuosa e premurosa sia in grado di ricomporre la complessità mentale del figlio per riportarlo verso il centro di sé e verso la comprensione della sua storia.
La famiglia di dotto deve essere una famiglia concreta, sensibile e avvolgente che sappia ascoltare il bambino e ricomporre con l’affetto la sua interiorità frammentata.
Il bambino sballone: Gongolo
È un bimbo scatenato e incontenibile, allegro e giocoso che cerca di trasformare ogni cosa in scherzo. Si mette in mostra, parla in continuazione, è vanitoso, fantasioso ma volubile. Passa da una emozione all’altra, nei momenti di vuoto si annoia. Ricerca sempre il gioco, si muove senza sosta, disturba le attività di gruppo. Il bambino tende all’esclusiva ricerca del piacere nei suoi movimenti e nelle sue azioni. Ama esprimersi con prontezza di riflessi, estemporaneamente, senza una logica o un fine preciso.
Oscilla velocemente tra alti e bassi e quando perde la sua dimensione di piacere soffre una solitudine immensa ed un pessimismo cupo. L'angoscia lo porta a vedere tutto nero. La sua principale paura è quella di non poter condividere con altri la raffinatissima sensazione della fusionalità, cioè vivere intense emozioni in sintonia con le emozioni dell'altro.
Ha bisogno di una mamma affettuosa (adesiva) che gli trasmetta la continuità affettiva, avvolgendolo con il suo amore in modo che si senta sicuro e protetto. L'energia di avvolgimento della mamma adesiva lo rende consapevole del fatto di essere amato in continuità nonostante egli avverta la mutevolezza interna delle sue emozioni.
Ha bisogno di un papà saggio (avaro) che gli insegni la coerenza e la responsabilità. Il bambino ne ricaverà un senso di sicurezza per gestire le proprie emozioni senza cadere nell’angoscia. Egli ha bisogno che dall'esterno un papà avaro gli trasmetta la continuità dell’emozione, per permettere al figlio di non gettarsi a capofitto sull’emozione successiva.
La famiglia de gongolo deve essere una famiglia ben strutturata che sappia trasmettere al bambino il senso di responsabilità e la coerenza delle azioni e che gli insegni a non farsi trascinare troppo dalle emozioni per non cadere nell’angoscia.
Il bambino apatico. Pisolo
È un bambino tranquillo, calmo, ama le attività ripetitive, ma è un po’ pigro e spesso demotivato a fare. Tende a scivolare nell’indolenza e nell’ascolto di sé, dei suoi sogni e delle sue fantasie esprimendo in esse il meno possibile delle sue energie. Sa indubbiamente riposarsi e non farsi coinvolgere dagli altri. Vive nei suoi pensieri e si presenta imbambolato e tendenzialmente inattivo. Ama le attività ripetitive e ritmate e fatica quando deve cambiare il suo stato di azione.
Ha bisogno di una mamma saggia (avara) che gli insegni che la cura, l’attenzione e l’ordine facilitano la vita e che, nello stesso tempo, con la sua ansia tenga desto il senso di responsabilità del bambino. L'ansia preoccupata della mamma avara lo costringe a restare sveglio ed a mantenere attiva almeno quella parte di sé che deve rispondere ai ricorrenti appelli della mamma.
Ha bisogno di un papà energico (ruminante) che gli trasmetta la sua energia in modo da provocare in lui una reazione. E che gli insegni a concentrarsi per aumentare la sua tensione interna, mantenerla viva per lanciarsi poi verso l’obiettivo. Il papà di Pisolo deve accendersi e scatenarsi per trasmettere il gusto dell'energia al figlio.
La famiglia di pisolo deve essere una famiglia attiva, capace di accendere il bambino e stimolarlo ad agire.
Il bambino invisibile: Mammolo
È molto sensibile, timido e disponibile ad aiutare le persone che sente vulnerabili e in difficoltà. Tale capacità è però mal utilizzata perché gestita nella convinzione che anche gli altri siano sensibili come lui. Egli riesce a captare le minime perturbazioni dell'animo di chi gli sta intorno e si è esercitato per lungo tempo nella sua solitudine a questa modalità di rapporto. Si sente piccolo e indifeso, inferiore agli altri e incapace, inutile e intrappolato nella vergogna o nel panico.
Ha bisogno di una mamma energica (ruminante) che gli dimostri tutto il suo amore in modo intenso e forte. Se lui sente che la mamma, pur leggendo i suoi pensieri, ha per lui un affetto protettivo e lo ama in ogni sua parte, può riuscire a cogliere e ritrovare in sé una carica imprevista che lo spinge verso l’azione.
Ha bisogno di un papà creativo (delirante) che, dall’alto della sua intellettuale libertà, riconosca le sue azioni e le apprezzi come frutto delle sue capacità. Questo apprezzamento permette al figlio di accrescere la stima di sé perchè sente che l’amore del padre lo conferma come persona importante.
La famiglia di mammolo deve essere una famiglia creativa, di successo ed energica, capace di far sentire il bambino al centro dell’attenzione in modo da aumentare in lui la stima di sé che lo spingerà all’azione.
Il bambino adesivo: Cucciolo
È un bambino che manifesta un forte bisogno di attenzione e di riconoscimento. È un bimbo lento, impacciato, che tende al sovrappeso per un rapporto non equilibrato con i cibi. Tendenzialmente è incline alla bulimia. Si presenta disordinato, ha poca cura di sé. Ciò è dovuto al fatto che i genitori hanno sempre mostrato una scarsa attenzione verso di lui. La sua ricerca di attenzione da parte degli altri lo porta ad essere appiccicoso ed insistente ed a manifestare una richiesta continua di cura. Si attacca molto anche agli oggetti (ciuccio, giochi, luoghi, etc.).
Ha bisogno di una mamma creativa (delirante) capace di liberarlo dai suoi condizionamenti. La mamma delirante sa amare con intelligenza sapendosi collocare alla giusta distanza, avvicinandosi quando il bambino ha bisogno ed allontanandosi quando può farcela da solo. Ha bisogno di un papà generoso (sballone) allegro e scanzonato, capace di gustare la vita nei suoi diversi aspetti, che gli offra emozioni e sentimenti intensi che lo facciano sentire molto vicino al genitore e che lo riempiano tanto da permettergli di gustare questa prossimità anche quando il papà non c’è.
La famiglia di cucciolo deve essere una famiglia stimolante e creativa, in grado di riempire in modo coinvolgente il vissuto emozionale del bambino e di trasmettergli la gioia di vivere libero da condizionamenti.
CONCLUSIONI
L’adozione internazionale, se ben riuscita, è la dimostrazione di come sia possibile superare le barriere della distanza tra i popoli causata dalla differenza culturale. Ciò è possibile considerando la diversità una grande ricchezza e facendola diventare un valore radicato in seno alla famiglia.
I genitori devono essere preparati adeguatamente per poter fornire ai figli, che sono i soggetti più deboli, quelle risorse e quegli elementi che li aiuteranno a sviluppare un’identità multietnica.
È necessario, a questo punto, ricordare quanto sia importante la preparazione delle coppie che fanno richiesta per l’adozione internazionale, preparazione che deve essere svolta da personale qualificato e che deve essere incentrata sul riconoscimento e la valorizzazione delle differenze, sulla centralità del dialogo con il bambino, sul rispetto della sua identità culturale e sulla condivisione delle esperienze passate che è base per il consolidamento del presente e la progettazione del futuro. La costruzione del legame adottivo è un’operazione congiunta tra genitori e figli, entrambi non sono solo scelti, ma si scelgono. I genitori, per poter affrontare nel migliore dei modi la sfida dell’adozione internazionale, devono essere disponibili al cambiamento, devono avere la capacità di mettersi in discussione, non devono avere schemi precostituiti sui quali basare il loro rapporto con il figlio, che, invece, deve essere costruito insieme.
Nonostante i miglioramenti apportati dalle ultime leggi sull’adozione internazionale non possiamo ignorare, che la percentuale dei fallimenti risulta essere ancora troppo elevata e preoccupante. Certo è necessario essere consapevoli, che il rischio di fallimento è insito nel percorso adottivo, ma sicuramente in molti casi esso può essere prevenuto.
Oggi però il lavoro di prevenzione non sembra essere ancora abbastanza efficace. Infatti, spesso le adozioni internazionali, seppure intraprese con le migliori intenzioni, si trasformano in situazioni di grosso disagio per tutte le componenti coinvolte e specialmente per il bambino che, invece di trovare, in questo percorso, un’occasione per crescere e raggiungere quell'equilibrio con se stesso e con gli altri che porta alla realizzazione della più completa e autentica umanità, si trova ad accumulare un fallimento sull’altro.
I fallimenti che derivano dalle scelte sbagliate di abbinamento tra genitori adottivi e bambino straniero, quando non si traducono in un nuovo abbandono per il bambino, necessitano comunque di un forte sostegno sul piano terapeutico; sostegno che non sempre si rivela efficace perché nelle famiglie la sofferenza e il disagio prendono spesso il sopravvento creando una situazione di non ritorno che porta ugualmente ad una rottura insanabile.
Il fallimento, come abbiamo visto, comporta enormi costi a livello umano, psicologico e sociale per tutte le persone in esso coinvolte, ma soprattutto per i bambini che a volte non riescono a superare il disagio di un ennesimo abbandono. La descrizione di queste situazioni dolorose, non deve mettere in discussione l’istituto dell’adozione tout court, bensì convincere dell’utilità di strutturare in maniera più solida gli interventi sociali, psicologici e terapeutici delle fasi di pre e post-adozione, rendendo l’adozione un’opportunità “non casuale” di crescita per bambini e genitori.
Pensare in termini di prevenzione è d’obbligo proprio per non arrivare a questi estremi.
Le ricerche teoriche e i percorsi pratici dell’artigianato educativo sopra descritti, sono, a mio avviso, un valido strumento per la prevenzione dei fallimenti dell’adozione internazionale soprattutto in fase di abbinamento genitori/bambino, perché è proprio da lì che partono i presupposti per un’adozione ben riuscita. Trovare una famiglia per un bambino non significa solo trovare un luogo dove egli possa crescere e due persone che gli garantiscano vitto e alloggio, ma significa trovare una coppia che sia in grado di soddisfare a pieno i bisogni che la tipologia di personalità di quel determinato bambino ha evidenziato. Grazie alla teoria dell’artigianato educativo è possibile individuare a priori tali necessità e sfruttare queste conoscenze per abbinare ai bambini le migliori famiglie possibili. I percorsi educativi che l’artigianato educativo propone sono anche un’autentica occasione di crescita e di miglioramento per tutte quelle famiglie che realmente vogliono progettare un percorso educativo volto al miglioramento del proprio equilibrio interno. Grazie ad una maggiore consapevolezza dei disagi presenti all’interno della famiglia e dei percorsi educativi da intraprendere si potrà avere una migliore qualità della vita di tutti i componenti della famiglia stessa.
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[1]Cfr. A. Dell’Antonio, Bambini di colore in affido e in adozione, R. Cortina, Milano, 1994, p. 135
[2]E. Scabini, P. Donati, Famiglia e adozione internazionale: esperienze, normativa e servizi, Vita e Pensiero, Milano, 1996, p. 7
[3]Cfr C. Fischetti, F. Croce, G. Hassan , Un bambino da scoprire: sviluppo e problemi dell’adozione internazionale, Phoenix Editore, Roma, 1999, p. 103
[4]Cfr E. Scabini, P. Donati, Famiglia e adozione internazionale: esperienze, normativa e servizi, op. cit., p. 40
[5]Cfr. L. Fadiga, L’adozione, Il Mulino, Bologna, 1999, pp. 64-65
[6]C. Fischetti, F. Croce, G. Hassan, Un bambino da scoprire: sviluppo e problemi dell’adozione internazionale, op. cit. p. 109
[7]E. Scabini, P. Donati, Famiglia e adozione internazionale: esperienze, normativa e servizi, op. cit., p. 43
[8]L. Fadiga, L’adozione, op. cit., p. 65
[9]Cfr. ivi., p. 88
[10]E. Scabini, P. Donati, Famiglia e adozione internazionale: esperienze, normativa e servizi, op. cit., p. 26
[11]Ivi, pp. 25/27
[12]L. Fadiga, L’adozione, op. cit., p. 92
[13]Ibidem
[14]Cfr. L. Fadiga, L’adozione, op. cit., p. 93
[15]Cfr. L. Fadiga, L’adozione, op. cit., p. 94
[16]Cfr. J.F. Chicoine, P. German, J. Lemieux, Genitori adottivi e figli del mondo, op. cit. p. 270
[17]Cfr. L. Fadiga, L’adozione, op. cit., p. 95
[18]F. Da Riva Grechi, Manuale sull’adozione internazionale, op. cit., p. 11
[19]F. Da Riva Grechi, Manuale sull’adozione internazionale, op. cit., p. 7
[20] I seguenti dati sono tratti dal Rapporto della Commissione per le Adozioni Internazionali fascicoli dal 16/11/2000 al 31/12/2007 in, Coppie e bambini nelle adozion iinternazionali, www.commissioneadozioni.it/FilesService/Download.aspx?ID=353
[21] I seguenti dati sono tratti dal Rapporto della Commissione per le Adozioni Internazionali anteprima sui fascicoli dal 01/01/2008 al 30/06/2008 in, Dati e prospettive nelle adozioni internazionali, www.commissioneadozioni.it/FilesService/Download.aspx?ID=371
[22]S. Grimaldi, Adozione: teoria e pratica dell’intervento psicologico, Franco Angeli, Milano, 1996, p. 73
[23]S. Lorenzini, Adozione internazionale: genitori e figli tra estraneità e familiarità, Alberto Perdisa Editore, Bologna, 2004, p. 74
[24]L. Camaioni, Manuale di psicologia dello sviluppo, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 404
[25]Ibidem
[26]Nicole Quémada, Cure materne e adozione, Utet Libreria, Torino, 2000, pp. 19-20
[27]Nicole Quémada, Cure materne e adozione, op. cit., p. 42
[28]Cfr. S. Lorenzini, Adozione internazionale: genitori e figli tra estraneità e familiarità, op. cit., 2004, pp. 75-76
[29]Cfr. E. De Rienzo, C. Saccoccio, F. Ionizzo, G. Viarengo, Storie di figli adottivi: l’adozione vista dai protagonisti, Utet Libreria, Torino, 1999, p. 125
[30]Cfr A. Dell’Antonio, Bambini di colore in affido e in adozione, op. cit, p. 10
[31]C. Fischetti, F. Croce, G. Hassan, Un bambino da scoprire: sviluppo e problemi dell’adozione internazionale, op. cit., p. 23
[32]Cfr. A. Dell’Antonio, Le problematiche psicologiche dell’adozione nazionale e internazionale, Giuffré Editore, Milano, 1986, p.42
[33]Cfr. A. D’Andrea, I tempi dell’attesa. Come vivono l’attesa dell’adozione il bambino, la coppia e gli operatori, Franco Angeli, Milano, 2000, p. 64
[34]Cfr. C. Rubinacci, L’inserimento scolastico del minore straniero in stato d’adozione, , Anicia, Roma, 2001, pp. 40-41
[35]S. Lorenzini, Adozione internazionale: genitori e figli tra estraneità e familiarità, op. cit., p. 119
[36]C. Fischetti, F. Croce, G. Hassan, Un bambino da scoprire: sviluppo e problemi dell’adozione internazionale, op. cit., p. 44
[37]E. Sormano, L’altra adozione: esperienze e riflessioni sull’adozione inter-razziale, Giuffrè Editore, Milano, 1991, pp. 26-27
[38]Cfr. D. Bramanti, R. Rosnati, Il patto adottivo: l’adozione internazionale di fronte alla sfida dell’adolescenza, Franco Angeli, Milano, 1998, p. 18
[39]Cfr. S. Lorenzini, Adozione internazionale: genitori e figli tra estraneità e familiarità, op. cit., pp. 96-97
[40]L. Fadiga, L’adozione, op. cit., p. 40
[41]Cfr. S. Savio, Le implicazioni psicologiche del processo adottivo, articolo tratto dal sito Psiconline.it, 2003, p. 3
[42]M. Canterini, La formazione interculturale dei genitori adottivi, rivista “La Famiglia”, n. 218, 2003, p. 6
[43]L. Fadiga, L’adozione, op. cit., p. 40
[44]E. Sormano, L’altra adozione: esperienze e riflessioni sull’adozione inter-razziale, op. cit., p. 44
[45]A. Dell’Antonio, Bambini di colore in affido e in adozione, op. cit, p. 17
[46]Cfr. E. Sormano, L’altra adozione: esperienze e riflessioni sull’adozione inter-razziale, op. cit., pp. 68/69
[47]A. Dell’Antonio, Bambini di colore in affido e in adozione, op. cit, p. 22
[48]Ivi, p. 23
[49]Cfr. S. Lorenzini, Adozione internazionale: genitori e figli tra estraneità e familiarità, op. cit., pp. 109/110
[50]Cfr. F. Cambi, Intercultura: fondamenti pedagogici, edizione Carocci, Roma, 2001, pp. 42/46
[51]Ivi, p.52
[52]Cfr. AA.VV., La scuola nella società multietnica. Lineamenti di pedagogia interculturale, La Scuola, Brescia, 1994, pp. 165/166
[53]Cfr. A. Dell’Antonio, Bambini di colore in affido e in adozione, op. cit, p. 39
[54]Cfr. R. Rosnati, Diventare “famiglia adottiva multietnica”: una sfida possibile?, rivista “La famiglia” n. 194 , 1999 p.36
[55]A. Dell’Antonio, Bambini di colore in affido e in adozione, op. cit, p. 57
[56]Ivi, p. 96
[57]Cfr. D. Bramanti, R. Rosnati, Il patto adottivo: l’adozione internazionale di fronte alla sfida dell’adolescenza, op. cit., p. 66
[58] I dati del paragrafo sono tratti da Percorsi problematici dell’adozione internazionale, indagine nazionale sul fenomeno della “restituzione” dei minori adottati da altri Paesi, Collana della Commissione per le Adozioni Internazionali, Istituto degli Innocenti di Firenze, 2003.
[59] Cfr. Collana della commissione per le adozioni internazionali, Percorsi problematici dell’adozione internazionale, in collaborazione con l’istituto degli Innocenti di Firenze, 2003
[60]S. Lorenzini, Adozione internazionale: genitori e figli tra estraneità e familiarità, op. cit., p. 140
[61]P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia Firenze, 1993, p. 12
[62]V. Masini, Dalle emozioni ai sentimenti, Ed. Prevenire è possibile, Terni, 2001
[63]V. Masini, Dalle emozioni ai sentimenti, Ed. Prevenire è possibile, Terni, 2001, pag. 184
[64]La storia è tratta da, Adozioni internazionali: un nucleo interculturale di affetti, ma non sempre. Storie di adozioni impossibili o fortemente problematiche, di Stefania Lorenzini e Maria Pia Mancini, Progetto Editoriale: Servizio politiche familiari, infanzia e adolescenza, Regione Emilia-Romagna, stampato presso la Stamperia della Regione Emilia-Romagna nel settembre 2007