RIFLESSIVITA’ RELAZIONALE E CONSAPEVOLEZZA
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Vincenzo Masini
Premessa
Prevenire è Possibile nasce negli anni ’80 come un progetto di ricerca e
di lavoro sulle emozioni al fine di consentirne la gestione equilibrata
e la loro trasformazione in sentimenti. Il progetto di prevenzione è,
alla sua origine, di natura pedagogica ma lentamente evolve nella
comprensione del disagio come esito di relazioni critiche che producono
copioni di comportamento su cui l’individuo si è fissato.
Contrariamente alle letture psicologiche delle dipendenze da altri, da
sostanze, da abitudini, dal sesso, dal gioco, ecc. la teoria e la
pratica di prevenzione di Prepos si incentra sui processi sociali e
relazionali dopo aver valutato che la crisi della pedagogia non può
essere semplicemente descritta come “inefficace trasferimento di valori
e comportamenti da una generazione all’altra”.
I valori non si trasferiscono perché non sono sostenuti da un sistema
emotivo-sentimentale in grado di farli assaporare e, in luogo dei
valori, il disagio sociale trasferisce le emozioni nelle sostanze
chimiche, legali o illegali, in grado di generarle.
La dipendenza dalle sostanze si afferma in quegli anni come una
conseguenza dello scarso peso attribuito al vissuto emozionale dei
giovani ma anche come un rimedio farmacologico per persone non più in
grado di modificare da sole il loro vissuto interiore. Il disagio
mentale diventa malattia biomedica sullo sfondo di un sistema liberista
in economia ma non liberante nelle relazioni quotidiane e laburista nel
controllo sociale ma non nella distribuzione di risorse.
In altre parole buonismo, metadone e psicofarmaci sul fronte LIB e
precarietà, individualismo e immagine sul fronte LAB.
Se nel contesto del movimento di volontariato degli anni ’80 era ancora
possibile pensare e proporre una riforma delle strutture istituzionali e
famigliari riorientandole verso una più adeguata e moderna produzione di
senso, la crisi degli anni ’90 dimostra come sia impossibile esercitare
un atteggiamento preventivo senza una adeguata formazione alla
relazionalità degli operatori che svolgono tale intervento.
In pratica molti educatori, pedagogisti, psicologi e sociologi che
seguono la stagione dei gruppi di incontro (veri e propri laboratori di
prevenzione) appaiono impreparati nel comprendere la duttilità
necessaria ad intervenire nelle diverse personalità collettive di
gruppo. La ricerca commissionata dal LABOS in quegli anni mostra come
nelle comunità di recupero, ad esempio, non ci sia piena comprensione
della modulazione dell’intervento, ma che avvenga un po’ per caso
modulandosi talvolta come intervento educativo, talaltra centrato sul
lavoro e talaltra ancora esplicitamente terapeutico.
In quegli anni fa la comparsa in Italia la cultura del counseling, non
solo attraverso la traduzione dei testi di Rogers o di Truax Carkuff ma
soprattutto di Gerard Gladstein con il volume “Empathy and Counseling”
(Springer_Verlag, N.Y., 1977) che discute delle capacità di empatia nei
counselor in USA.
Alla fine degli anni 90 Prepos diventa espressamente relazionale, in
parte connettendosi alla sociologia relazionale, in parte articolando in
tipologie relazionali la proposta di Rogers di una Terapia Centrata sul
Cliente. Come è possibile centrare su un cliente se non si ha uno schema
tipologico di massima attraverso cui interpretare i vissuti?
Nascono così i 7 idealtipi di Prepos sulla scorta di un pensiero
educativo antico (da Aristotele a Dante Alighieri, da Sartre a Ekman e
Frisien) e il pensiero connessionista che legge la agency dei tipi nelle
relazioni con gli altri, la disposizione ai valori nella connessione con
il mondo e il copione strutturato nel rapporto con se stesso.
Progressivamente Prepos si orienta verso la razionalità relazionale
riflessiva poiché l’utilizzo delle tematiche emozionali si è, nel
frattempo, inflazionato e contaminato sia a seguito di alcune
teorizzazioni sulle intelligenze emozionali (ad esempio Daniel Coleman)
sia per lo sviluppo di pratiche volte al “benessere” inteso come
miglioramento della sola immagine di sé.
“Dalle emozioni ai sentimenti”, testo guida del counseling relazionale,
aveva già puntualizzato la necessità di orientare i clienti che si
rivolgono al counselor verso la costruzione di una riflessività
relazionale che, come spiega Pierpaolo Donati (pag 248) è una
razionalità del “noi” e non solo individuale.
Nella condivisione delle emozioni vissute esse diventano sentimenti
attraverso il valore (i valori) che acquistano e costruiscono percorsi
di miglioramento mediante una pedagogia innovativa del tutto in sintonia
con la Pedagogia del Terzo Millennio elaborata da Patrizio Paoletti.
Cito dal testo di Donati: “Dal punto di vista relazionale, il
«professionista rifles¬sivo» (relazionale) è un «counselor relazionale»
che aiuta le persone, le famiglie, i gruppi sociali a superare il
disagio attraverso la metodologia dei sistemi di osservazione ¬diagnosi
guida relazionale. Il counseling è una relazione di aiuto che muove
dall'analisi dei problemi del cliente, si propone di costruire una nuova
visione di tali problemi e di attuare un piano di azione per realizzare
le finalità po¬sitive desiderate dal cliente: prendere decisioni,
migliorare le relazioni, sviluppare la consapevolezza, gestire emozioni
e sentimenti, superare conflitti [Masini 2009].
E impor¬tante sottolineare che le emozioni sono transitorie e possono
evolvere in varie direzioni. Possono entrare nel caos (il normale caos
delle emozioni), oppure si stabilizzano, il che può avvenire in due
modi: attraverso la ripetizione di un modello emotivo già fissato oppure
trasformandosi in sentimenti. Il passaggio da emozioni a sentimenti in
Ego ha un carattere relazionale, deve essere attuato in uno spazio
relazionale, perché i sentimenti nascono quando le emozioni sono
condivise da Alter e acquistano valore sia per Ego sia per Alter. Così
come le sensazioni corporee si trasformano in emozioni attraverso i
mediatori sinap¬tici, le emozioni diventano sentimenti attraverso i
valori.
La radice culturale della morale è individuata nell'attribuzione di
rilevanza al fulcro ideale su cui si incentrano le diverse scale di
valori. Ogni valore vive sul sentimento di valore che io sorregge e che
diventa cultura nei raggruppamenti sociali che lo vivono. La cultura e
il clima sociale di un gruppo possono essere studiati analizzando la sua
personalità collettiva. Il counselor - osserva Masini [ibidem] - opera
mediante relazioni di affinità socio- solidale con il cliente; egli
diventa la persona di cui il cliente ha bisogno al fine di sviluppare
quelle dimensioni dell'umano ancora ignote o critiche per il cliente. Il
pro¬fessionista riflessivo relazionale è colui che affronta i
pro¬b1emremotivi con questa chiave relazionale approccio sociologico
relazionale ha da dire qual- cosa sia agli approcci psicologici sia a
quelli pedago¬gici. Sul piano sociologico, non solo occorre -
realistica¬mente - tenere conto del contesto sociale situato e delle
effettive relazioni sociali, ma si deve anche ragionare in rapporto a
un'ontologia sociale relazionale”.
Questa prospettiva va anche ben oltre il counseling; serve a orientarci
verso la mutazione relazionale dell’umanità. Sempre che avvenga ed abbia
un buon esito, riesca cioè a fronteggiare le perversioni della
relazionalità virtuale e della immagine precostruita.
Con il termine immagine precostruita descrivo quella realizzazione di sé
intesa con l’immagine della “psicologa cognitiva con tacchi da 16 che
lavora al palazzo di vetro dell’ONU”. Tale immagine è un esempio
ostensivo del sé che fuoriesce dagli schermi ed entra nella realtà della
vita quotidiana, rappresentandosi come la normalità a cui adeguarsi.
Doverosamente poiché nulla che sia meno di quell’immagine può avere
valore per una rappresentazione davvero meritoria. Gioca un grande ruolo
in questo processo proiettivo (le cui diseconomia vedremo più avanti)
anche uno sbagliato modo di intendere l’eccellenza.
Eccellenza è un titolo onorifico riservato ad alte personalità che
ricoprono ruoli ufficiali nell'amministrazione dello Stato, quali il
Presidente della Repubblica, i componenti del Consiglio dei Ministri,
gli Ambasciatori, i Presidenti dei Tribunali, i Prefetti ed i Vescovi.
Veniva usato per rivolgersi ai nobili di alto rango, solitamente Duchi e
Principi non di famiglia reale.
L’intendere con percorsi di eccellenza il raggiungimento di risultati
eccezionali e mirabili, allontana dal senso di realtà le persone e le
propone nell’olimpo dei meritori di ogni esaltante successo. La tensione
a dare il “meglio di sé” è un processo anche affettivo solo se è sempre
libero dalla necessità del risultato. Il successo eccellente è la
superbia dell’umano con cui vengono mascherate manchevolezze,
distrazioni, opportunismi e inefficienze.
Liberarsi dall’immagine precostituita è ricerca di autentica semplicità
nella consapevolezza di essere eccellentemente sfigati, ovvero partecipi
delle propria pienezza esistenziale.
Con il termine relazionalità virtuale intendo quel tipo di relazioni che
non oltrepassano lo stadio formale e che possono attuarsi ovunque e
qualunquisticamente con chiunque senza bisogno che l’altro sia davvero
un essere umano. Il che può avvenire sia quando capita di litigare con
la voce di “Chiara” nel navigatore satellitare, sia quando sono messo in
attesa in un qualunque call centre, sia quando la voce suadente di un
infermiere insiste ripetendomi informazioni già date senza essere
disponibile a capire davvero la mia domanda, o quando il centralinista
trasferisce la chiamata ad un ufficio reclami che, naturalmente, non
risponde, sia quando alcune maestre giungono a scrivere in un verbale
“In classe i bambini richiedono in modo eccessivo ed insistente
chiarimenti e conferme alla maestra. E’ bene fare capire ai figli che la
maestra è disponibile a prestare a tutti la dovuta attenzione, ma
proprio perché si deve rivolgere a tutti è necessario che ciascuno
sappia aspettare con calma e serenità”…
Forse non è del tutto possibile chiarire dove conduca la anomia della
virtualità poiché essa ha la capacità di generare paradossi molto
articolati da cui non è facile districarsi. In tali paradossi l’umano si
perde per 1) processi proiettivi di attesa (in qualche modo si aspetta
di trovare il significato che gli era sembrato che ci fosse… il senso,
il sapore relazionale che presumeva di incontrare… le aspettative che si
era fatto… le illusioni fabbricate per consolarsi…); 2) fughe mediante
negazione della realtà vissuta o pensata (non è vero che questo ti è
successo, non è vero quello che tu mi dici o quello che mi sono detto…
non è vero quello che ho vissuto… non è vero che io sognavo che… non ti
ho detto quello che ti ho scritto…); 3) scissioni da se mediante
contorcimenti di pensieri (non avevo capito che non avevamo capito…
forse ti sembrava che io stessi per dirti che non avevo capito… mi hai
fatto distrarre e non abbiamo dato lo stesso peso alle cose che ci siamo
scritti… sei tu che non hai saputo interpretare che ti stavo dicendo
quelle cose per scherzo…).
Compito del counselor riflessivo è portare alla luce la natura degli
equivoci e dissiparli prima che l’immagine e la virtualità pregiudichino
la mutazione evolutiva della relazionalità umana. Questa riflessione
critica si sviluppa in un alto numero di ambiti che corrispondono alle 5
testi sulla consapevolezza che più avanti saranno presentate.
Il nucleo teorico a cui questi due concetti è quello della personologia
poiché immagine precostruita e relazionalità virtuale sono oggi i due
principali ostacoli alla costruzione della persona umana.
Il concetto di umano precede il concetto di persona, così come il
concetto di umanità precede il concetto di personalità. L’essere umano
diventa persona nella relazione con l’altro e sviluppa la sua identità
biologica attraverso le occasioni a lui proposte dagli incontri con le
persone essenziali nel corso della sua vita. La sua identità emerge
dalla sua natura umana e prende forma nella sua costruzione della sua
personalità. L’identità biologica precede la coscienza e la coscienza
precede la personalità. La consapevolezza è coscienza di essere
coscienti e il suo principale oggetto di investigazione è dato dalla
discriminazione tra ciò che è umano e ciò che umano non è.
L’approccio del counseling all’umano precede concettualmente l’approccio
psicologico e si configura come processo di relazione con l’umano
presente nelle soggettività che il counselor incontra. L’attività del
counselor è quella di una educazione, o rieducazione, all’umanità nel
rapporto che il cliente ha con se stesso, con gli altri e con il
counselor stesso; il counselor è lo strumento umano per favorire lo
sviluppo dell’umanità del cliente.
Counseling e psicologia sono dunque marcatamente differenti; il primo è
una metodologia di lavoro relazionale, la seconda è una disciplina
teorico-pratica. Anche il loro oggetto differisce: l’”umano” infatti si
elicita nelle relazioni ed afferisce come oggetto più alle scienze
sociologiche o antropologiche che a quelle psicologiche. Inoltre il
metodo e le tecniche del counseling non si rivolgono al mondo
intrapsichico ma a quello relazionale, con privilegio dell’empatia
affettiva rispetto a quella cognitiva e con marcata attenzione alle
strutture archetipiche dell’umano sia nella coscienza collettiva che
nell’inconscio collettivo.
La scienza che si orienta allo studio analitico dell’umano in relazione
con l’umano e della sua riflessività consapevole che lo conduce ad
individuarsi in “persona” è la personologia. Il termine personologia
viene comunemente attribuito allo psicologo Henry Murray che lo utilizzò
nel 1938 per definire una branca della psicologia che si occupa dello
studio della personalità. Il termine ha origini diverse e si trova in
quelle parti del pensiero filosofico che si possono riassumere come
“filosofia della persona”.
La personologia si può intendere, in senso rigoroso, come la dottrina
che accentra nel concetto di persona il significato della realtà. E’
personologia ogni scienza che rivendica la dignità ontologica,
gnoseologica, morale, sociale, spirituale e relazionale della persona,
contro le negazioni materialistiche e contro anche la sua antitesi
intellettualistica, ovvero la disposizione del pensiero a ipostatizzare
se stesso come un assoluto, privo della persona che pensa tale pensiero.
Pertanto sono le persone “umane” o “spirituali” che pensano il pensiero,
giacché ove la dimensione spirituale sia superiore, e più estesa, di
quella umana essa deve essere come minimo “persona” o possedere una
estensione più ampia della “persona”.
Un importante contributo al concetto di personologia proviene dalla
Scuola di Francoforte. Adorno e Horkheimer muovono da questo concetto
per l’analisi della svalorizzazione e spersonalizzazione individuale
prodotta dalla “industria culturale" che ha prodotto l'uomo come essere
generico, privo di coscienza individuale, di iniziativa morale autonoma
e manipolato a piacere.
La personologia francofortese rimette al centro un uomo altrimenti
spazzato via come coscienza di sé che non scende mai nel profondo per
trovare la propria umanità e l’autorealizzazione come persona autonoma.
Recentemente Axel Honneth, sociologo della scuola di Francoforte, pone
l’accento sul concetto di "riconoscimento" per discutere del disagio
prodotto dal mancato riconoscimento di rivendicazioni identitarie
personologiche e non solo da rivendicazioni razionali – utilitaristiche.
Ma prima ancora di giungere, lungo la via della sociologia critica, ad
un ripescaggio del personalismo vale la pena di tornare alla formula di
Rosmini ed alla sua significatività: "Ciò che è, ma non è persona, non
può stare senza che ci sia una persona".
Ovvero l’identità di ciò che esiste, dotato di intenzionalità e di
coscienza, non può non essere una “Persona”. Ciò conduce ad una visione
dell’Assoluto (di Dio, del Senso, del Costruttore dell’universo, in
qualunque dei suoi 99 nomi…), che, se è entità superiore all’uomo, deve
essere come minimo Persona giacché l’uomo è persona e Dio non può essere
da meno dell’uomo. Questa è una radicale critica di tutte le visioni
riduttive nella spiritualità che tentano di condurre la filosofia della
trascendenza verso visioni del Senso (di Dio, dell’Assoluto,…) come se
fosse un meccanismo astratto con regole attribuite a Lui dall’uomo
stesso.
Anche la definizione fenomenologica proposta da Edith Stein di “persona”
è estremamente utile: "Persona è un soggetto di una vita egologica
attuale, che ha un corpo e un'anima ... dotata di un carattere e che
sviluppa le sue qualità sotto l'effetto di circostanze esterne ed in
tale sviluppo dispiega un'inclinazione originaria". Lo sviluppo della
persona è un processo di autoconoscenza di sé e di conoscenza della
persona estranea ai fini della conoscenza di sé. L’ontologia
dell’Esistenza è dunque subordinata a quella dell’Essere. Esistenza
deriva da ex-sistere, cioè "ciò che viene da..." e "che trova il suo
fondamento su...". L’Essere Umano esiste in funzione del percorso
coscienziale che attua nel diventare persona.
Da ciò si può argomentare che il concetto di umano precede il concetto
di persona, così come il concetto di umanità precede il concetto di
personalità. L’essere umano diventa persona nel suo sviluppo e non a
tutti gli esseri umani è dato, per motivi genetici, economici,
relazionali, socili e politici di poter sviluppare a pieno la loro
struttura personologica. L’identità biologica precede infatti la
coscienza e la coscienza precede la personalità. La scienza
personologica tende a rintracciare ogni germe di “persona” nella
creaturalità che incontro al fine di identificarla e dare ad essa
dignità. La dimensione persona logica della creaturalità è quella che
descrive un essere intenzionale e cosciente che può decidere tutto
tranne il suo inizio e la sua fine. Questo è l’uomo in una ottica ben
diversa da quella della psicologia.
La psicologia infatti studia il comportamento degli individui e i loro
processi mentali. Tale studio riguarda le dinamiche interne
dell'individuo, i rapporti che intercorrono tra quest'ultimo e
l'ambiente, il comportamento umano ed i processi mentali che
intercorrono tra gli stimoli sensoriali e le relative risposte.
Pur derivando dal greco psyché la psicologia non è studio dello spirito
o dell'anima ma, adeguandosi a nuove prospettive, è divenuto lo studio
della mente. Infatti esiste la psicologia umana e la psicologia animale,
ovvero la psicologia delle diverse forme di mente.
Le applicazioni della personologia toccano i campi:
1) etico: dove persona, razionalità e libertà si convertono l'uno
nell'altro con il duplice imperativo "agire secondo coscienza e formarsi
una coscienza".
2) estetico: dove l'universale poetico è visto, non come conformazione
dell'opera alla cosiddetta "bellezza ideale", o a un tipo intellettivo
di bellezza, ma come conformazione dell'opera alla singolarità
espressiva, col conseguente carattere dell'unicità, dell'originalità,
della novità del prodotto artistico come manifestazione di un'intimità
nel suo profondo sentire. Così l'opera bella, per la sua singolarità
espressiva,partecipa della stessa singolarità della persona e diventa un
imperturbabile termine di valore senza prezzo.
3) sociale: il rapporto sociale, che è endogeno nella persona, dal punto
di vista della personologia non si configura mai nel senso che sia la
persona funzione dell'ordine consociato, ma nel senso che è l'ordine
consociato funzione della persona. La società si finalizza nella persona
e non viceversa.
4) educativo: il valore educativo è nella persona per lo sviluppo di
quell' "essere proprio del singolo", fonte della dignità e della
responsabilità morale.
5) relazionale: giacché la personologia non mira a costruire in astratto
la personalità “normale” ma tende a prevenire le coincidenze negative
che la possono distorcere e sviare dal suo sviluppo, a sostenere le sue
difficoltà ed a mettersi al servizio dello sviluppo della sua
consapevolezza.
La scienza della personologia si propone come fondamento del counseling
relazionale e si apre alla trilogia tematica che ha visto trattato
ampiamente, nello scorso 2011 il tema della PREVENZIONE, che prosegue
con il tema della CONSAPEVOLEZZA e si concluderà con quello della
AFFETTIVITA'.
PREVENZIONE, CONSAPEVOLEZZA ED AFFETTIVITA' sono infatti gli ambiti
specifici del counseling relazionale personologico che riguardano la
crescita della riflessività relazionale umana.
Prima tesi: Confucio e Lao Tse, Guelfi e Ghibellini, Stato e Mercato,
LIB-LAB
“Dimmi," disse Lao-Tzu, "in che consistono la carità e il dovere verso i
nostri simili?"
"Consistono," rispose Confucio, "nella capacità di rallegrarsi di ogni
cosa; nell'amore universale, senza l'elemento dell'io. Queste sono le
carat¬teristiche della carità e dei doveri verso il prossimo."
"Che sciocchezza!" gridò Lao-tzu. "L'amore universale non contrad¬dice
se stesso? La tua eliminazione dell'io non è una manifestazione positiva
dell'io? Signore, se vuoi che l'impero non perda la sua fonte di
nutrimento, considera l'universo, la sua regolarità infinita. Esistono
il sole e la luna, …vi sono gli astri, le costellazioni che mai mutano,
…vi sono gli uccelli e gli animali,…; vi sono alberi e arbusti, …. Sii
come questi; segui il Tao e sarai perfetto. Perché dun¬que questa vana
lotta per la carità e il dovere verso il proprio simile, che non
differisce dal battere il tamburo alla caccia di un fuggitivo? Ahimè!
Signore, tu hai arrecato molta confusione nella mente dell'uomo."
(H.A.Giles, Chuang-tsu, Kelly & Walsh, Shanghai,1926, pag 242)"
Questo dialogo immaginario, composto da Chuang-Tsu (Zhuāngzí nacque nel
369 a.C. e morì nel 286 a.C.), mostra la perenne contrapposizione tra
due tradizioni filosofiche che, nell’antica Cina, si incarnavano del
Taoismo e nel Confucianesimo. Il Taoismo si interessa alla via della
conoscenza non convenzionale, anzi si rivolta in modo delirante e
paradossale contro la convenzione, il Confucianesimo si preoccupa invece
delle convenzioni educative, etiche, giuridiche e rituali. Sia Lao Tse
che Confucio vivono intorno al 470 a.C. ma i loro modelli di pensiero
vengono fatti risalire al 1500 a.C. ed al llibro delle mutazioni I
Ching, quasi in contemporaneità con i Veda, i testi sacri dell’Induismo
e con la Genesi nella Bibbia.
La contrapposizione tra due modelli di pensiero ha una corrispondenza
con la nascita della riflessività che concerne tutti e due i paradigmi:
- il Confucianesimo cerca una gerarchia naturale nelle cose e costruisce
una cosmogonia sacra in cui tutti gli aspetti della vita sono correlati
e che, anzi, è il fondamento per l’organizzazione burocratica delle cose
che l’uomo fa nel mondo,
- il Taoismo critica la virtù convenzionale morale ma anche artistica e
professionale nella convinzione che le facoltà mentali si atrofizzino
ove il pensiero diventi troppo comodo e troppo poco consapevole al punto
che ogni risveglio possa anche diventare un blocco. Il millepiedi era
felice, tranquillo, finché un rospo non disse per scherzo: “In che
ordine procedono le tue zampe?" Questo arrovellò a tal punto la sua
mente, che il millepiedi giacque perplesso in un fossato riflettendo su
come muoversi.
Ma vediamo bene la relazione tra consapevolezza convergente e
consapevolezza divergente. Nel pensiero orientale, di natura preciso e
logico, sono presenti momenti anche molto alti di pensiero divergente
come nella successiva storia. “Un sovrano, scrive Chuang-Tsu, aveva
commissionato all'intagliatore Qing un piano in legno per campane entro
quindici giorni. I primi giorni Qing sembrava essersi dimenticato del
tutto del compito e dedicarsi ad altre cose, digiunare e non
preoccuparsi del tempo che passa. Durante una passeggiata però ecco
l'illuminazione: alla vista di un albero particolare Qing esclama di
aver trovato il legno esatto e, tornato nella sua bottega, conclude il
suo compito in poco tempo. Il sovrano rimase esterrefatto dalla bellezza
del supporto”.
Oltre ad essere una ottima giustificazione per i nostri studenti che
rimandano e procrastinano lo studio questa storia esemplifica i concetti
di oblio e di intuizione. Qing è riuscito nel suo lavoro perché la sua
mente ha dimenticato il lavoro stesso. L'oblio permette di imparare,
perché se uno pensa troppo alle regole o al risultato finale, non riesce
nel suo intento. Le regole comunque non si dimenticano, sono in un
"serbatoio" a cui possiamo sempre attingere, uno spirito che si
risveglia nel momento propizio. Esso è lo shen che è un inconscio
collettivo che memorizza tutto anche se non ce ne accorgiamo.
Il rapporto tra archetipi e sviluppo della coscienza divergente, che
determina la contraddizione tra Taismo e Confucianesimo, è ben spiegata
da Jaynes, nel suo libro dal titolo “Il crollo della mente bicamerale e
l’origine della coscienza”. Jaynes ipotizza che “sia esistita una razza
di uomini che parlavano, giudicavano, ragionavano, risolvevano problemi,
che facevano in definitiva quasi tutto quello che facciamo noi, ma che
non erano coscienti” (J. Jaynes, Il Crollo della Mente Bicamerale e
l’Origine della Coscienza, pag.69).
La nascita della coscienza in senso moderno è per Jaynes molto recente
tanto che nella sua analisi vede assenza di introspezione e
comportamenti da “voci interne” fino a circa tremila anni or sono. Tali
voci sono strutture archetipiche che si sono formate nella mente umana
in una fase evolutiva priva di soggettività: una mente che non era
cosciente d’essere cosciente e priva di introspezione.
Jaynes chiama questa forma mentale, mente bicamerale. L’ipotesi è che la
mente fosse scissa in due parti: una parte chiamata “dio” e una parte
“uomo”. Nessuna della due parti era cosciente. La coscienza deriva dalla
connessione relazionale tra queste due parti. Priva di coscienza, la
parte del cervello chiamata “dio” è dentro l’accadere del mondo e ne
osserva le regole per adeguarsi ad esse. In quella parte della mente si
ascoltano le voci interne, del tutto simili alle allucinazioni uditive
dell’uomo moderno causate dell’accumulo nel sangue di sostanze di
decomposizione dell’adrenalina, a seguito di stress. I comportamenti, le
decisioni, le iniziative, erano invece prodotte dalla parte del cervello
chiamata “uomo”. In quella parte c’è l’uomo che agisce e investiga sulle
regole ritenendo tutte le possibili risposte non convincenti. Il suo
sforzo intellettivo non giunge alle spiegazioni ultime ma cerca di
contestare quelle parziali e banali. E’ la coscienza che non si
accontenta nemmeno di pensarsi doppia, nemmeno del maschile e del
femninile o dello Ying e dello Yang. Tutte le dicotomie sono illusioni
sostengono proprio i seguaci del tao.
Il superamento della dicotomia è lontano, prima la dicotomia deve
diventare società “bicamerale” con sterzature concettuali plurime che si
riassumono, vichianamente, nelle contese tra conservatori guelfi e
dinamici ghibellini. Tra pensiero simbolico ed attivazione ad un livello
di complessità ancora più alto.
I Guelfi e i Ghibellini erano le due fazioni opposte nella politica
italiana dal XII secolo fino alla nascita delle signorie dal XIV secolo
in poi. Nella lotta per le investiture, i guelfi sostenevano il papato
ed il loro nome é la versione italianizzata di Welfen, la famiglia Sveva
opposta ai Weiblingen, cioè quella dei ghibellini che si schieravano per
l'imperatore. Queste due fazioni hanno rappresentato la dicotomia della
lotta politica tra impero e papato presente nei conflitti di potere dei
nascenti comuni. Nei due partiti c’è una opposta filosofia di vita ed un
opposto modello di pensiero: da un lato l’affidarsi alla tradizione
della chiesa cattolica ed alla conservazione del sapere biblibo,
dall’altro la volontà di innovazione e di sviluppo del pensiero.
Dopo la battaglia di Benevento e la morte di Manfredi (1266) si ha una
forte crisi del partito ghibellino e il potere dei guelfi sarà poi
compromesso da una crisi interna e dalla scissione tra guelfi bianchi e
guelfi neri: il conflitto tra chi, pur difendendo il Pontefice, non
preclude il ritorno o la necessità dell'imperatore (cioè i guelfi
Bianchi) e chi invece trovava indispensabile che il governo dovesse
essere affidato al papa perché missus domini ("mandato dal Signore"). La
vittoria fu dei Neri e Dante Alighieri, guelfo bianco, dovette emigrare
come "Ghibellin fuggiasco".
Così come fuggiasca può essere la teorizzazione di Ralph Dahrendorf
sulla nostra costituzione europea: «L’interazione fra le forze del
libero mercato e della concorrenza, da un lato, e l’eguaglianza di
opportunità per tutti i cittadini, dall’altro, è il master plan della
nuova costruzione europea». Fuggiasca perché ripropone un problema non
risolto di consapevolezza applicato all’economia.
Hobbes pensava di risolvere il vecchio conflitto tra Guelfi e
Ghibellini, diventato conflitto tra Guelfi Neri e Bianchi, e poi tra
aristocrazia e corporazioni, e poi tra Stato e Mercato e al fine tra LIB
e LAB, mediante la protezione dei due poli dell’intesa sociale:
l’individuo proprietario (con le sue libertà e il suo profitto) e,
dall’altro, lo Stato sovrano (con sua assunzione di tutti i diritti
della società).
Ma l’utilitarismo regolato attraverso un contratto non è più sufficiente
a garantire lo sviluppo della relazione. Si parla di un nuovo contratto
fra le generazioni, fra produttori e consumatori, tra garantiti e
precari, fra sindacati e imprenditori, ma la complessità attuale non può
più essere regolata contrattualmente perché nella modernità sono state
applicate forme di liberazione dalle costrizioni sociali molto estese
massimizzando la capacità delle persone di attivare il loro dialogo
interno riflessivo. Di conseguenza gli accordi interpersonali e
intergruppali hanno vita breve perché sono sistematicamente
ricontrattati generando più problemi di quanto la modernità possa
risolvere.
Il modello del cosiddetto "lib-lab", cioè di un compromesso tra Stato e
mercato che è ancora il tema dominante delle nostre istituzioni vige su
due pilastri: la competizione di mercato da un lato, e il controllo
politico delle disuguaglianze dall’altro.
In ogni caso dal modello LIB/LAB sono escluse le relazioni
interpersonali, famigliari, sociali e le loro produzioni in termini di
economie e di servizi.
“Che dire quando la modernità scopre che la famiglia non è più quella
normo-costituita da padre, madre e figli, ma è invece una forma
indefinita, aperta a tutte le possibili combinazioni di coppia (etero e
omosessuali) e di figli nati da diversi accoppiamenti, con reti sempre
più caotiche di relazioni parentali? … Che dire quando nella modernità
si scopre che un’impresa non è più un complesso ordinato di ruoli
lavorativi e di fattori di produzione ma è una rete sempre mutante di
posizioni e di comunicazioni che si trasformano continuamente e in
grande rapidità?”.
Con i processi di globalizzazione, non è più possibile ricorrere a
un’autorità per mettere ordine nella società; la proposta del counseling
relazionale è quella di produrre una riflessività diffusa, non
individualistica ed olistica ma gestita e vissuta nella relazione e con
lo scopo di potenziare le relazioni stesse.
Lao Tse è servito a Confucio, per non rimanere solo prigioniero della
tradizione e, al contrario, il senso delle cose reali del mondo è utile
a Lao Tse per non perdersi nel suo pensiero divergente; quando lo stato
ha dato eccessive norme al mercato abbiamo visto emergere la deflazione,
quando al contrario il mercato domina gli stati appare la crisi
inflattiva. Se la contesa tra Guelfi e Ghibellini si fosse fermata e
fosse stata aperta una relazione consapevole probabilmente la modernità
si sarebbe anticipata di qualche secolo e se lo statalismo LAB si
ritirasse dal suo ingeneroso bisogno di controllo e l’individualismo LIB
avesse più attenzione alle parti deboli della società saremmo
sicuramente già usciti dalla crisi post moderna globalizzante.
Perché ciò accada è necessario un processo di riflessività consapevole
nel sistema della relazioni e nella gestione del senso dell’economia nei
singoli e nei gruppi.
La consapevolezza relazionale produce sana economia.
Prima di tutto perché l’insieme del molto poco fa il molto
Poi perché la realtà relazionale è una forza frenante dei desideri
inutili.
L’immagine è espressione di un desiderio che vuole una rappresentazione
del soggetto come egli promette di essere e quindi si indebita con il
futuro.
La sommatoria di più forze applicate ed in relazione produce una resa
esponenziale di ogni investimento o fatica.
La finanziarizzazione dell’economia è stata resa possibile
dall’invenzione di numerosi prodotti finanziari che si sono incrociati
aumentando gli indebitamenti reciproci e massimizzando gli interessi che
tutte le parti reciprocamente richiedono fino al cataclisma sistemico
attuale. Ma è davvero un cataclisma se gli stati vanno in default o
rappresenta solo la caduta dell’economia virtuale per lo sviluppo
dell’economia reale?
Certo non vale la pena di rischiare ma l’economia relazionale può trarre
da questa esperienza alcune importanti lezioni per il counseling
economico.
Quando la relazionalità diventa consapevole anche la valutazione
economica cambia segno perché emerge la collaboratività, la spontanea
condivisione, il dono, la gratuità totale o relativa, il flusso naturale
di gesti e risorse che si stabilizzano nella quotidianità.
La relazione tra A e B è un campo di esistenza A x B e cioè un campo
bidimensionale che è solo limitato dal problema dell’immagine.
L’immagine rende l’investimento di A su B, relativa al gradimento
percettivo da parte di B, indipendentemente dalla vera natura di A.
Centrare l’immagine gradita da B è un processo di riflessività
proiettiva da parte di A. Con due costi/rischi. Il costo è la proiezione
di una immagine che anticipa e che quindi è costretta a pagare gli
interessi perché prende in prestito risorse dal futuro. Il rischio è
che, nonostante ciò, B non gradisca l’immagine di A.
Se si trasferisce tale assunto relazionale alla crisi del sistema
finanziario si evince che i gradimenti relazionali non sono altro che le
valutazioni delle agenzie di rating. Dunque non sono altro che
proiezioni immagine.
La relazione senza immagine consente di risparmiare, perché la realtà è
onesta senza bisogno di essere accattivante.
Ora in condizioni di assoluta assenza di trasparenza nei mercati la
possibilità di non avere immagine può presentarsi come una incredibile
risorsa. La caduta dell’immagine corrisponde alla possibilità di
praticare un’economia della gratuità in funzione del fatto che
nell’immagine vi è un po’ più di denaro di quanto non sembri.
Il denaro è il codice simbolico per eccellenza perché può trasformare
ogni cosa in un’altra a mezzo dell’equivalenza monetaria e può essere
trasferito senza alcun vincolo nella più totale mancanza di
relazionalità. Il denaro infatti richiede la totale obliterazione delle
relazioni, la riflessività relazionale genera quella consapevolezza che
supera il valore simbolico del denaro. Ad eccezione di quando la
consapevolezza è inquinata dal narcisismo di immagine e la gratuità
diventa impossibile perché occorre mantenere i costi di immagine.
Seconda tesi: Entrare nel corpo e uscire dal corpo
Il primo livello di consapevolezza lo si può considerare strutturato
nella percezione del sé corporeo, mediante la percezione dei segnali
sensoriali visivi, olfattivi, tattili, gustativi, cinestetici e uditivi.
Corpo, emozioni e mente sono differenti aspetti di un’unità organica,
dei quali diventiamo coscienti con un atto di equilibrio sul nostro
corpo ovvero con la sensazione fisica di esistere.
Entrare nel corpo corrisponde alla costruzione coscienziale di una
visione scientifica del continuo interscambio di energia tra centinaia
di miliardi di unità cellulari; uscire dal corpo corrisponde ad una
visione esistenziale che vede il corpo vivo, pulsante, sensibile e
intelligente.
La visione scientifica è acuta, la visione esistenziale è sacra. Ambedue
sono condizionate dai loro limiti. La scienza distoglie dal gusto della
considerazione del corpo come un tempio dell’evoluzione vivente dell’IO,
ma il corpo sacro rende relativo il significato evolutivo dell’IO.
Se entro dentro di me, fermo i pensieri e pongo tutta la mia attenzione
consapevole sulle sensazioni dell’istante presente, se sento tutto il
corpo come una cosa unica, che pulsa e respira; bene, questa piacevole
esperienza Vipassana mi porta lontano dall’IO, per come è concepito
nella modernità.
L’IO cosciente è infatti riflessione mentale, non più semplice riflesso,
ma non ancora riflessività relazionale.
L’IO cosciente è una tappa evolutiva formidabile che però ci soverchia
con il suo micidiale bisogno di esistenza. Lo sentiamo nella testa, lo
avvertiamo quando riusciamo ad essere presenti a noi stessi, a volte
quando la testa tace, quando il corpo respira e la percezione
dell’esistenza si espande alla fronte, alla nuca e al collo, al torace,
al centro del petto, al cuore pulsante. Esso sembra il vero centro dove
fluttuano emozioni di tristezza e di gioia che, superando il diaframma,
conducono alla pancia dove la vita è più primitiva ed animale.
Molti definiscono questa condizione consapevolezza, secondo il nostro
punto di vista non è così.
La “consapevolezza” è anche uno stato di illuminazione che consente
all’essere umano di “essere cosciente di essere cosciente” ma non è
possibile che si stabilizzi se non è condiviso in una relazione
riflessiva. "Ogni grado di consapevolezza acquisito dal singolo va
condiviso nell'affettività e trasmesso attraverso i sentimenti".
Molte persone riescono a raggiungere un certo grado di consapevolezza ma
si dimenticano di fare la seconda parte del percorso, pensando di
restare consapevoli chiudendosi in se stessi.
Questo modello di consapevolezza individualista e infelice, pretende
anche di proporre una dimensione di consapevole illuminazione come se
essa fosse una condizione stabile ed acquisita una volta per tutte da
quel singolo individuo “illuminato”. Una visione limitata che cerca di
ricondurre a parziale razionalità uno stato di grazia altrimenti non
definibile.
Lo stato di consapevolezza è una modalità di esistenza ben lontana dalla
semplice attenzione individuale percettiva o intuitiva, giacché il
nostro cervello può essere consapevole e disattento allo stesso tempo.
La nostra percezione attentiva è sempre selettiva. Non siamo mai attenti
a tutto e, spesso, lo stato di consapevolezza implica una volontaria
disattenzione a molti segnali esterni ed interni, soprattutto dai
segnali e dai segni che ci allontanano dalla consapevolezza medesima.
Invece nella tradizione psicologica i due processi dell’attenzione e
della consapevolezza sono presentati come indissolubilmente legati ed è
per questo che le teorie su coscienza ed inconscio non si muovono a loro
agio di fronte a stati d’animo e di mente che implicano forme di
consapevolezza possibili sia in condizioni di vigilanza, di lucidità e
di veglia sia di obnubilazione, confusione mentale o sogno.
A) Questo modello scientifico di “entrare nel corpo” mediante analisi,
intuizione o illuminazione si presenta ancorato solo ad un processo
coscienziale. In questo quadro entrare nel corpo non implica
consapevolezza ed è purtroppo tipico di grandi masse di “inconsapevoli”
che rischiano di restare intrappolati in opportunità esistenziali
sprecate. Masse che sembrano soggettività incompiute.
Secondo la prospettiva fenomenologica, infatti, il ritorno alla realtà è
attraverso il conseguimento di «una relazione sociale verso altri
soggetti in forma di conoscenza noematica, empatica, così come
attraverso atti sociali o locutivi» che io, in quanto persona, divento
eticamente significativo. La persona secondo quanto indicato sia da
Husserl che da E. Stein, è infatti “il soggetto di un mondo circostante
in un intreccio di relazioni, il punto centrale di un mondo
specificatamente umano che è “per me” ma anche consequenzialmente in
relazione con gli altri. Una società di persone viventi in un rapporto
di inter-comprensione che costituisce sia una soggettività sociale che
una comunità spirituale oggettivizzata”.
B) Il modello esistenziale dell’IO che “esce dal corpo”, è solitamente
descritto come un processo per cui:
1) il Sé psico-corporeo è l’esito dell’integrazione dell’Io con il corpo
fisico
2) i blocchi corporei tendono a sciogliersi e le proiezioni mentali si
riducono
3) il Sé psico-corporeo si congiunge con il corpo energetico, chiamato
anche corpo sottile o aura.
4) La percezione delle interazioni energetiche tra le persone e con il
mondo diventa coscienza di unione con il Tutto (Samadhi) in una
espansione indefinita e illimitata, trascendente qualsiasi confine del
sé limitato.
5) L’Io si dissolve nel Tutto. Nella forma più profonda resta la
consapevolezza pura di essere l’Universo intero, senza soggetto
percipiente e senza oggetto percepito.
Ambedue i modelli di ingresso e di uscita dal corpo in funzione della
consapevolezza presentano limiti oggettivi:
In primo luogo il superamento dell’IO non significa la sua estinzione
come sembra troppo frequentemente apparire nei percorsi di
consapevolezza che utilizzano regressioni meditative. Superamento è
qualcosa di molto diverso dall’estinzione perché implica una permanenza
dell’IO anche in livelli più alti, superiori, di consapevolezza. Già il
concetto di persona è, in qualche modo, una forma di superamento di
quell’IO corporeo fino a qui descritto.
In secondo luogo l’illuminazione totale, e cioè quello stato di
risveglio annunciato soprattutto nelle tradizioni meditative orientali
come difficilmente descrivibile a parole del linguaggio ma solo
sperimentabile, viene presentata come uno sgretolamento dell’individuo.
L’uscita dal corpo è, alla fin fine, l’identità soggettiva che si perde
nel nirvana poiché solo la dissoluzione dell’IO permette l’esperienza
degli stati coscienziali più espansi. A proposito del percorso
dissolutivo dell’ego nello Shivaismo Kashmiro, ad esempio, Daniel Odier
scrive: ”Una tal maniera di mettersi in contatto con il mondo è
meravigliosa, ma ha anche qualcosa di terrificante per un occidentale,
l’impressione angosciosa, agli inizi, di diluirsi nell’oggetto della
percezione. Abbiamo rafforzato a tal punto il nostro ego che è difficile
cominciare a sentire con quale velocità può svanire quando tocchiamo
realmente il mondo” .
Per tal via la meditazione e la preghiera non sono per nulla
rassicuranti ed assomigliano alla notte dello spirito dei mistici
cristiani per i quali, però, la sensazione di dissoluzione è sempre e
solo temporanea.
In terzo luogo anche l’ingresso nel corpo implica una forma diversa ma
pur sempre di dissoluzione dell’IO. Alexander Lowen indica le tre tappe
del processo costruttivo del sé psico-corporeo in questa successione: 1)
Presa di consapevolezza dell’Io e del proprio corpo; 2) Piena
espressione dei propri sentimenti; 3) Padronanza di sé, ovvero la
libertà di essere sé stessi. La padronanza di sé conduce ad un essere
umano integro ben radicato nel sé psico-corporeo nel corso di “un
viaggio alla scoperta di sé. Non è un viaggio rapido, né facile, e
neanche privo di paure. In certi casi può prendere l’intera esistenza,
ma la ricompensa è il sentimento che la vita non sia passata invano” .
La prosecuzione del viaggio mediante vie mistiche, che consentirebbero
di sperimentare ciò che esiste oltre i confini del sé psico-corporeo
stesso, non è altrettanto serena.
Una prima descrizione è quella dell’emersione di una qualità che
favorisce il dissolvimento dell’ego (cfr. Eric Baret ) ed è la capacità
di abbandonarsi, di non avere progetti. Lo scivolare nei nodi delle
coincidenze e fluire nel fiume della vita è uno dei nuclei primitivi del
monachesimo.
Tale abbandono è una tappa della “notte dei sensi”, descrivibile come
una scissione tra l’immagine che si ha di sé e chi si è veramente. Il
vero IO si abbandona nella vita è opera un primo passaggio verso la
consapevolezza. E’ questa la fase che costruisce la conoscenza dei
propri copioni occasionali e stabili, ed anche la prima ricognizione sui
processi profondi, individuali o collettivi, come i complessi
archetipici. Ma anche questo percorso non è infinito perché la
conoscenza di sé è oggettivamente limitata a meno che non la si confonda
con la sterminata produzione di immagini, di pensieri, di associazioni,
di sensazioni e di emozioni della nostra mente. E in questa produzione
non vi è nulla di mistico.
Elmar Zadra descrive bene come il cliente, accompagnato ad attraversare
gli strati dell’agency e del carattere, arrivato a toccare le ferite,
riesce a “cadere” nel vero sé spontaneamente. Unica eccezione è quella
del cliente vittima, che tende a restare nelle ferite, anche se non
sentite fino in fondo, e che quindi va aiutato a comprendere il
meccanismo dello svelamento progressivo del Sé, verso la intima natura
dell’essere.
E’ la stessa visione di C.G. Jung sul fatto che l’espansione della
consapevolezza sia uno sprofondare in sé stessi per lasciar emergere
tutto ciò che l’inconscio contiene.
L’obiezione teorica che formuliamo è relativa al fatto che non vediamo
necessario il dissolvere l’individualità per accedere alla visione del
Tutto. Jung assume che il Tutto e la visione dell’inconscio completo
siano la stessa cosa e questo vuol dire aver portato la luce della
consapevolezza nell’inconscio, personale e collettivo, da cui deriva la
sensazione di totalità e di connessione con tutta l’esistenza. Ma la
soggettività di chi vede è pur sempre un IO; e questo è un problema già
risolto da secoli dalla filosofia della conoscenza.
Le metafore poetiche di questa totalità appartengono alla fase
“romantica” della modernità che è ormai completamente alle nostre
spalle. Anche la consapevolezza “romantica” ha dovuto farsi sempre più
riflessiva, e cioè passare attraverso Cartesio (il cogito ergo sum) e
Husserl (cogito res cogitata) per superare i fallimenti dell’empirismo e
del razionalismo (altri due modi per vedere reincarnate le questioni di
Confucio e di Lao Tsu).
Ingresso ed uscita dal corpo vengono descritte come la possibilità di
stare sulla soglia dello spazio infinito o come la sensazione di abitare
internamente il corpo fisico. Il corpo è quindi visto come un guscio
esterno, il soggetto è in fusione con la percezione di ciò che vede,
realizza nella coscienza la vacuità intrinseca della realtà e di se
stesso, stabilizza il contatto con il vuoto esistenziale dell’angoscia e
la sua consapevolezza di essere sul punto della dissoluzione estrema.
Tutti e due i modelli di entrata o di scita dal corpo presentano, per di
più, il rischio di esaltare le componenti più irrazionali (emotive e
passionali), estetiche anziché razionali, della riflessività
consapevole.
Se è vero che l’IO è una tappa evolutiva, la riflessività relazionale fa
si che la relazione stessa ecceda i poteri dei singoli IO; l’evoluzione
relazionale dell’IO è nel NOI con una più o meno presente riflessività
consapevole. Riusciamo a definire il NOI quando la relazione è in corso?
Raramente. Vediamo il senso della relazione solo quando essa cessa ed ha
evidenze fortemente visibili come quando siamo traditi, o quando una
relazione svanisce mentre pensiamo che sia ancora attiva.
La figura antropologica fondamentale rimane quella della
inter-dipendenza. L'essere dagli altri e per gli altri è il presupposto
ovvio di ciò che siamo. Anche il nostro pensare a noi stessi, il nostro
individuarci come identità, è sempre in funzione di modelli
significativi che hanno segnato il nostro crescere. Il pensiero è esso
stesso sempre in relazione indissolubile con quello che gli altri hanno
comunicato o hanno significato per noi. Il pensare non è mai costruzione
meramente individuale, perché è un'esperienza vitale, condivisa con gli
altri con cui si entra in comunicazione. Da questo punto di vista si può
affermare che si appartiene sempre ad un mondo, all'orizzonte
intenzionale ed affettivo, in cui siamo posti. La persona umana è
sussistenza individuale, che conservando però la sua singolarità e
superando la sua solitudine ontologica, è strutturalmente in tensione ad
aprirsi all'altro e alla totalità dell'essere. La persona, proprio
perché è se stessa, è indissolubilmente bisogno di relazionarsi. La
persona non è solo sussistenza, ma anche comunicazione e relazione. Se
questa apertura all'altro è costitutiva della persona, si può
comprendere come la comunicazione sia non una possibilità aggiuntiva, ma
un'esperienza fondamentale che realizza, arricchisce e completa la
persona stessa: La prima esperienza della persona è l'esperienza della
seconda persona: il tu. Quando la relazione si allenta o si corrompe,
l’IO perde profondamente me stesso: ogni follia è uno scacco al rapporto
con gli altri. L'alter diventa alienus, e l’IO diventa estraneo a me
stesso, alienato. Si potrebbe quasi dire che io esisto soltanto nella
misura in cui esisto per gli altri.
La tesi fondamentale è che la corporeità abbia una particolare
importanza nel processo diventare persona, prima tappa della coscienza
che diventa consapevole. Questo passaggio storico al concetto di persona
avviene nel cristianesimo e nella filosofia dell’occidente che non può
permettersi di scivolare in processi regressivi tradendo il suo compito
storico. La principale critica al transpersonale verte proprio sulla
mancanza di chiarezza su questo punto fondamentale: l’esistenza dell’Io
e il suo superamento è un processo di crescita nella relazione che, se
diventa riflessiva, consente l’uscita dall’angoscia di morte.
Gesù di Nazareth diventando il Cristo non è né entrato né uscito dal
corpo, semmai ha fatto uscire il suo corpo dalle dimensioni spazio
temporali passando attraverso la Sindone. “Ora la caratteristica del
Cristo è quella di essere persona ovvero un nodo in una rete di
relazioni”, scrive Raimon Panikkar in Il Cristo sconosciuto
dell’Induismo (Jaka Book, 2008, pag 72) e prosegue discutendo sul fatto
che “la conoscenza di una cosa ha insita la consapevolezza che essa non
è causa di se stessa… per cui questo Mondo, che non è un Assoluto in sé
e per sé, lascia spazio ad una origine, che ammette un fondamento che lo
sostenga e così via” (pag. 156). Per questa via Panikkar descrive
l’importanza di Brahman nei primi quattro sutra dei Vedanta e il suo
fondamento diventa conoscenza di avere coscienza, la quale coscienza
rende consapevoli che la coscienza stessa non è causa di se stessa. Il
gioco logico è altamente importante al fine di comprendere il senso
della corporeità di Gesù Cristo. “Riconducendo il problema
epistemologico al puro essenziale, scrive ancora Panikkar (pg 44) … ho
cercato di dimostrare che l’affermazione cristiana “Gesù è il Cristo”
non è identica a “il Cristo è Gesù”… Non è necessario infatti che il
Signore sia chiamato cristoo riconosciuto con questo titolo perché il
nome salvifico di Cristo è un super nome , al di sopra di ogni nome… Il
Cristo è “più” e non meno di Gesù di Nazareth… il cristiano però non può
dire “Cristo è solo Gesù” perché Gesù risorto è più che Gesù di
Nazareth. Il fatto di aver varcato le soglie dello spazio e del tempo
con il corpo, non entrandoci né uscendone, fa si che Cristo non possa
appartenere solo ai cristiani.
Terza tesi: Relazionismo e neuroni mirror, la riflessività relazionale
Lo specchio neuronale
Nei primi anni '90, lo scienziato Giacomo Rizzolatti ha scoperto nel
cervello dei primati e in quello umano, la presenza di alcune cellule
definite “neuroni specchio” o “cellule mirror”. Tali cellule si attivano
quando osserviamo qualcuno che compie una sequenza di gesti simile a
quella che potremmo compiere noi .
Utilizzando come soggetti sperimentali dei macachi, questi ricercatori
osservarono che alcuni gruppi di neuroni si attivavano non solo quando
gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando
guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.
Studi successivi, effettuati con tecniche non invasive, hanno dimostrato
l'esistenza di sistemi simili anche negli uomini. Sembrerebbe che essi
interessino diverse aree cerebrali, comprese quelle del linguaggio.
I neuroni specchio permettono di spiegare fisiologicamente la nostra
capacità di porci in relazione con gli altri. Quando osserviamo un
nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro
cervello, gli stessi neuroni che entrano in gioco quando siamo noi a
compiere quella stessa azione. Per questo possiamo comprendere con
facilità le azioni degli altri: nel nostro cervello si accendono
circuiti nervosi che richiamano analoghe azioni compiute da noi in
passato.
Quest'ultima precisazione è molto importante. Infatti sembrerebbe che il
"sistema specchio" entri in azione soltanto quando il soggetto osserva
un comportamento che egli stesso ha posto in atto in precedenza. Ad
esempio, si è visto che in un danzatore classico i neuroni specchio si
attivano esclusivamente di fronte a una esibizione di danza classica, e
non di fronte al ballo moderno, e viceversa.
Anche il riconoscimento delle emozioni sembra poggiare su un insieme di
circuiti neuronali che, per quanto differenti, condividono quella
proprietà "specchio" già rilevata nel caso della comprensione delle
azioni. E' stato possibile studiare sperimentalmente alcune emozioni
primarie: i risultati mostrano che quando osserviamo negli altri una
manifestazione di dolore o di disgusto si attiva il medesimo substrato
neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo
di emozione. Un'altra conferma viene da studi clinici su pazienti
affetti da patologie neurologiche: una volta perduta la capacità di
provare un'emozione non si è più in grado di riconoscerla quando viene
espressa da altri.
Vi sono infine alcune evidenze sperimentali che sembrano indicare che
anche la comprensione del linguaggio faccia riferimento, almeno per
certi aspetti, a meccanismi di "risonanza" che coinvolgono il sistema
motorio. Comprendere una frase che esprime un'azione provoca
probabilmente un'attivazione degli stessi circuiti motori chiamati in
causa durante l'effettiva esecuzione di quell'azione.
La scoperta dei neuroni specchio potrebbe offrire una spiegazione
biologica per almeno alcune forme di autismo, come, ad esempio, la
sindrome di Asperger: in effetti, gli esperimenti in tal senso finora
condotti sembrerebbero indicare un ridotto funzionamento di questo tipo
di neuroni nei bambini autistici. Benché per ora si tratti soltanto di
un'ipotesi, essa potrebbe aiutare a comprendere perché le persone
autistiche non partecipano alla vita degli altri, non riescono ad
entrare in sintonia con il mondo che li circonda, non capiscono il
significato dei gesti e delle azioni altrui. Probabilmente non
comprendono neppure le più comuni emozioni espresse dal volto e dagli
atteggiamenti di coloro che li circondano: quello che per tutti è un
sorriso, per loro potrebbe essere una semplice smorfia.
L'esistenza dei neuroni specchio prospetta la necessità di una profonda
modifica nelle attuali concezioni riguardanti il modo di operare della
nostra mente. Sicuramente tale scoperta implica un drastico
ridimensionamento del modello di mente prospettato dalla psicologia
cognitivista (vedi cognitivismo), basato sull'analogia funzionale con i
calcolatori. Questo tipo di approccio concentra i propri sforzi
soprattutto nel definire le regole formali che sarebbero alla base del
funzionamento della mente, ignorando completamente il ruolo
dell'esperienza corporea legata al comportamento motorio. I neuroni
specchio implicano infatti l'esistenza di un meccanismo che consente di
comprendere immediatamente il significato delle azioni altrui e persino
delle intenzioni ad esse sottese senza porre in atto alcun tipo di
ragionamento.
Le ricerche sui neuroni specchio sono ancora agli inizi, ma è probabile
- come osserva il neuroscienziato Vilayanur Ramachandran - che si tratti
di una delle più importanti scoperte degli ultimi decenni, destinata ad
avere profonde ripercussioni nel nostro modo di concepire la mente.
Le recenti ricerche neurologiche mostrano come il cervello sia
organizzato per poter rispondere all'espressione di emozioni specifiche
e quindi che l'empatia abbia una premessa biologica. Gazzaniga
sottolinea la naturale relazione empatica esprimendosi in questi
termini: “... è come riflettere il mondo esterno nel proprio cervello,
perché un soggetto può comprendere le intenzioni, i sentimenti e le
azioni altrui, soltanto attraverso i suoi propri sentimenti, ai quali
risponde abitualmente tramite il suo cervello”.
Empatia
Alcuni spunti polemici nei confronti della teoria di Rizzolati, (cfr uno
studio dell'Universita' di Trento pubblicato sulla rivista
dell'Accademia Italiana delle Scienze 'PNAS' condotto di Angelika
Lingnau, Benno Gesierich e Alfonso Caramazza) contestano l'evidenza del
sistema di neuroni negli umani dimostrando che è improbabile che tali
neuroni giochino un ruolo in funzioni complesse come empatia e
comprensione del linguaggio. Fondamentalmente, non sono stati trovati
segni di adattamento per atti motori che sono stati eseguiti e poi
osservati, il che, in altre parole non è possibile dimostrare che il
riconoscimento di azione e la sua comprensione si basa sulla simulazione
del movimento.
Questa osservazione, che non nega l’importanza dei neuroni specchio, ci
riporta all’approccio fenomenologico all'empatia per come è stato
proposto da edith Stein, allieva di Husserl.
Edith Stein affronta in maniera organica il problema analizzando la
differenza tra empatia e ricordo, attesa e fantasia, imitazione,
inferenza per analogia, associazione ad un vissuto estraneo,
distinguendo l'empatia come atto offerente della realtà vissuta "hic et
nunc" da altri processi mentali e comunicativi.
Nel ricalcare la definizione di Lipps la Stein scrive: "(l'empatia) è
una partecipazione interiore alle esperienze vissute altrui (...) quel
momento in cui siamo presso il soggetto altro da noi e siamo volti con
esso verso il suo oggetto" (Stein,cit.,p.80). Ma la caratteristica
principale dell'empatia è per la Stein la sua attualità: "Un ricordo è
pienamente riempito e mostrato se tutte le sue tendenze sono giunte alla
loro esplicazione e se vi è la continuità dei vissuti fino al presente.
Ma, pur con questo, quel che viene ricordato non si traduce in vissuto
originario. La presa di posizione, che noi assumiamo nel presente, in
riferimento ad una situazione di fatto ricordata, è del tutto autonoma
rispetto alla posizione ricordata (...) Posso ricordarmi del mio disagio
provato in una situazione imbarazzante, mentre rievocarlo in questo
momento mi diverte piacevolmente" (Stein,cit.,p.82).
Un'altra differenziazione è quella dell'empatia dal co-sentire; nel
polemizzare con Scheler, la Stein fa osservare che sentire il vissuto
dell'altro e vivere insieme a lui lo stesso vissuto sono due dimensioni
differenti. Il co-sentire significa gioire o soffrire della stessa gioia
o sofferenza che l'altro vive e cioè condividere concretamente un
momento vissuto insieme con comunanza di sentimenti relativi alla
circostanza vissuta; l'empatizzare significa invece cogliere la gioia o
la sofferenza nel vissuto dell'altro e farla propria. Il "co-sentire" è
"uni-patia" che si verifica quando i diversi soggetti, nel condividere
un vissuto, formano un "Noi" collettivo. L’empatia consente di "cogliere
il vissuto altrui", la "uni-patia" di provare un "sentimento collettivo"
scaturito dal vivere individualmente lo stesso avvenimento.
La differenza tra processo di empatizzazione, coinvolgimento nei
sentimenti degli altri, co-sentire, associazione, imitazione, analogia
va così chiarificandosi. Infatti se l’empatia fosse solo inferenza per
analogia (come al momento sio presenta nella concezione di base dei
neuroni specchio) non potrebbe accadere che io empatizzi un vissuto
altrui senza però riuscire a definirlo né a riconoscerlo compiutamente
perché non l’ho mai personalmente provato.
Inoltre non potrei empatizzare atti corporei che mi sono impossibili
come quando empatizzo il vissuto di un acrobata che compie gesti per me
impossibili.
Se poi l’empatia fosse solo una forma di inferenza allora potrei anche
empatizzare la fisicità di una statua o di un manichino mentre posso
solo riconoscere la sua espressione e la sua rappresentazione mediante
la simbologia artistica o comunicativa.
L'empatia ha un proprio campo di esistenza come fenomeno comunicativo
specifico: non si tratta di associarsi ad un vissuto estraneo né di
"trasmissione di sentimenti" ma di un processo emozionale e cognitivo
che consente di percepire l'esperienza altrui, calarsi in essa e poi
riemergere con una nuova consapevolezza.
La Stein descrive tre momenti nel processo di empatizzazione: "1)
l'emersione del vissuto, 2) la sua esplicazione riempiente, 3)
l'oggettivizzazione comprensiva del vissuto esplicitato"
(Stein,cit.,p.78).
"Nell'istante in cui il vissuto emerge improvvisamente dinanzi a me, io
l'ho dinanzi come Oggetto (ad esempio, l'espressione di dolore che
riesco a "leggere nel volto di un altro"); mentre però mi rivolgo alle
tendenze in esso implicite e cerco di portare a datità più chiara lo
stato d'animo in cui l'altro si trova, quel vissuto non è più Oggetto
nel vero senso della parola, dal momento che mi ha attratto dentro di
sé, per cui adesso io non sono più rivolto a quel vissuto ma,
immedesimandomi in esso, sono rivolto al suo Oggetto, lo stato d'animo
altrui, e sono presso il suo Soggetto, al suo posto. Soltanto dopo la
chiarificazione cui si è pervenuti mediante l'attuazione giunta a
compimento, il vissuto stesso torna di nuovo dinanzi a me come "Oggetto"
(Stein,cit.,p.78). "Mentre io vivo quella gioia che è provata da un
altro, non avverto alcuna gioia non-originaria: essa non scaturisce in
maniera viva dal mio Io, né ha il carattere di essere stata viva in
precedenza come la gioia ricordata, tantomeno essa è meramente
fantasticata, priva cioè di una reale vita, ma è precisamente l'altro
Soggetto che prova in maniera viva l'originarietà (...) in tal modo noi
perveniamo per mezzo dell'empatia ad una specie di atti esperienziali
sui generis" (Stein,cit.,p.79).
I neuroni mirror ci aprono la strada per comprendere l’antica base
corporea dell’empatia (e con ciò pongono un pesante intralcio
all’espansione della psicologia cognitiva che equipara il funzionamento
della mente umana a quella di un computer) ma non risolvono il problema
della comunicazione interumana affidata a processi non linguistici, né
gestuali, né simbolici.
Quale sia il veicolo del processo di empatizzazione non ci è dato
saperlo, così come non ci era dato di sapere dell’esistenza delle onde
radio prima di Guglielmo Marconi.
Intelligenza emotiva
Leslie Brothers del California Institute of Tecnology, individua
nell'amigdala e nelle sue connessioni con le aree associative della
corteccia visiva, la localizzazione del circuito cerebrale fondamentale
per manifestare le proprie emozioni o per la comprensione delle emozioni
altrui.
Lo schema biologico sembra sia, secondo Daniel Goleman, diverso per
ciascuna emozione importante e selezionato tra le memorie immagazzinate
nell'archivio personale al fine di attuare le risposte preconfezionate
più idonee a quel tipo di sollecitazione emozionale. Le emozioni
agganciano strutture archetipe e, in effetti, la mente emotiva reagisce
alle situazioni presenti come se si trovasse nel passato.
Dal punto di vista filogenetico, tutte le strutture superiori si sono
sviluppate dal sistema limbico; esso, perciò, dal punto di vista
funzionale, occupa una posizione centrale rispetto all'insieme e,
collegato da un'infinità di circuiti neurali alla corteccia, influenza
il funzionamento di tutte le aree cerebrali compresa la mente razionale.
La nostra vita mentale sarebbe costruita sulla base dell'influenza di
due tipi di intelligenze, quella razionale e quella emotiva che, pur
definite da due circuiti cerebrali distinti, interagiscono tra loro
influenzandosi a vicenda. La modalità con cui si esprime la mente
razionale è collegata alla capacità di riflettere, di osservare e
valutare gli eventi in modo distaccato; la mente emotiva, invece, è
impulsiva, irruente e a volte illogica.
Quest'ultima intelligenza sarebbe stata utile per la sopravvivenza
individuale perché induce ad agire con tempestività e determinazione in
caso di pericolo attraverso una valutazione automatica rapida che non
sfiora nemmeno la consapevolezza.
L'intelligenza emotiva si collega velocemente a precedenti esperienze
senza tenere conto dei differenti contesti. Joseph LeDoux ha scoperto
che vi sono essenzialmente due diversi percorsi neurali emotivi; nel
comportamento appena descritto, l'amigdala funziona come una sorta di
innesco che può dare origine ad una vera e propria deflagrazione
emozionale, definita “sequestro dell'amigdala o sequestro neurale”, in
grado di paralizzare la mente razionale per tempi più o meno lunghi. Gli
input sensoriali visivi ed auditivi, raggiungono il talamo, archivio dei
nostri ricordi, e da qui proseguono direttamente verso l'amigdala;
questa area cerebrale, costituita da due ghiandole poste specularmente
alla base del tronco encefalico, rappresenta l'archivio dove le nuove
impressioni e le memorie che vengono conservate assumono una valenza
emozionale. Essa rappresenta la specializzazione per eccellenza delle
questioni emotive, al punto che, una lesione del nucleo amigdaloide
produce povertà dei sentimenti e una evidentissima incapacità di
valutazione emotiva.
Un altro percorso, viene invece attivato quando i dati sensoriali
provenienti dall'interno o dall'esterno, vengono inviati dal talamo alla
neocorteccia, alla mente razionale, dove vengono decodificati e
classificati in base alle loro caratteristiche. In questi casi la
risposta emotiva, più lenta perché più complessa e raffinata, scaturisce
dalla valutazione delle impressioni sensoriali, quindi da un approccio
piuttosto riflessivo, nel quale anche l'area corticale, soprattutto la
corteccia orbitofrontale, si adopera per produrre una risposta
correttiva più idonea alla richiesta del momento.
Le emozioni di base interessano visceri, muscoli scheletrici, ghiandole
endocrine, sistema vascolare e sistema immunitario; possono essere
considerate risposte specializzate e fisiologiche atte a favorire la
sopravvivenza, quindi risposte di difesa automatiche o
emotivo-istintive, rispondenti a precise necessità biologico-funzionali.
Le emozioni secondarie ovvero i sentimenti positivi della amicizia,
della unione, del rispetto, della responsabilità e negativi
dell’imbarazzo, dell’ orgoglio, della gelosia, della colpa, invece
sarebbero quelle che, più elaborate e complesse e mediate da vissuti
personali e sociali dell'individuo, non sono limitate all'attività del
sistema limbico, ma coinvolgono la corteccia prefrontale e
somatosensitiva. Esse, collegate al rapporto con se stessi e alle
relazioni interpersonali, si sviluppano nel mondo dei valori e
definiscono la sfera psichica dell'affettività.
Va da sé che la stessa definizione di “intelligenza emotiva” sia
inefficace proprio in funzione del suo comportamento immediato e
reattivo e che la struttura su cui si fonda sia, in linea di massima
l’archivio degli archepiti (intendendo con questi i complessi emozionali
più antichi che si sono sedimentati nella specie umana).
Tre cervelli e due emisferi
Essenzialmente il nostro cervello è triplice, il cervello rettile,
limbico e corticale e ogni parte gestisce particolari funzioni del
nostro organismo, dalle più basilari alle più sofisticate.
Il cervello rettile è quella parte dell’encefalo che “comprende il
tronco encefalico ed il cervelletto. Il tronco encefalico ci accomuna al
mondo dei rettili, in quanto si occupa della gestione delle funzioni
elementari del corpo, come la respirazione, il battito cardiaco, il
livello generale di veglia. Il cervelletto, che è unito alla parte
posteriore del tronco encefalico, si occupa invece della gestione delle
posture del corpo coordinando tutti i movimenti muscolari ed assumendo
il ruolo di memorizzare le risposte apprese.
Il cervello limbico è composto dall’ipofisi, l’ipotalamo e il talamo,
l’ippocampo, l’amigdala e il fornice, organi comuni al mondo dei
mammiferi con funzioni di controllo del battito cardiaco, della
pressione sanguigna, della temperatura corporea e delle risposte emotive
chiamate in causa in situazioni che mettono a rischio la sopravvivenza.
Il cervello corticale “è la parte più grande dell’encefalo umano ed è
divisa in due emisferi, connessi tra loro da una banda composta da circa
trecento milioni di fibre, chiamata corpo calloso. Ogni emisfero è
ricoperto da uno strato di circa tre millimetri, costituito da
accorpamenti di cellule nervose: la corteccia cerebrale che svolge
funzioni connesse alla razionalità, come l’organizzazione, la
comunicazione, la comprensione, la creatività. Una fessura longitudinale
divide il cervello in due emisferi, congiunti unicamente per mezzo
del corpo calloso. Ciascun emisfero è diviso dalle scissure in cinque
lobi: frontale, parietale, temporale, occipitale ed insula. Uno di
questi spicca per la sua straordinaria rilevanza da un punto di vista
evolutivo: si tratta del lobo frontale che è il deposito di
straordinarie capacità come l’intenzionalità, l’organizzazione delle
emozioni e la relazione con altri.
Il corpo calloso che suddivide il cervello in due emisferi, permette ai
“due cervelli” di lavorare “sincronicamente” controllando la parte
opposta del corpo, l’emisfero sinistro la parte destra e viceversa.
Nell’emisfero sinistro, nella stragrande maggioranza dei casi, risiede
il linguaggio e la capacità logica mentre il destro è coinvolto in
attività non linguistiche, come la vita emotiva o le relazioni spaziali,
riconoscimento di persone, musica, mimica ed emozioni.
Michael Gazzaniga (Michael S. Gazzaniga, L’interprete. Come il cervello
decodifica il mondo, Di Renzo Editore, Roma, 2007) ha studiato pazienti
sottoposti allo split brain, recisione chirurgica che rende gli emisferi
cerebrali non comunicanti, ed ha ipotizzato l’esistenza, nell’emisfero
sinistro del cervello, di un interprete, un meccanismo automatico
specializzato nell’elaborare interpretazioni e narrazioni,
apparentemente logiche, per dare un ordine e un senso alle nostre
esperienze. Per esempio “il paziente percepisce una variazione d’umore
e, subito, l’interprete comincia a costruire una teoria sui motivi che
hanno scatenato quel determinato disturbo”.
Il filo narrativo riempie di significato interpretando le esperienze
anche mediante inferenze attraverso le quali diventa possibile percepire
anche determinate figure geometriche “impossibili”, cose che non abbiamo
mai visto nel nostro mondo tridimensionale e che il nostro cervello non
potrebbe determinare se davvero si basasse solo sull’esperienza
sensoriale. Secondo Gazzaniga l’emisfero sinistro gestisce i livelli
“alti” del pensiero, come la risoluzione dei problemi e interpreti le
nostre azioni e i nostri sentimenti; mentre l’emisfero destro è incapace
di svolger simili funzioni. L’emisfero destro non è in grado di pensare
o comunicare; esso può risolvere problemi semplici, attraverso le sue
reti associative ma non sarà in grado di usare le informazioni di cui
dispone. Solo l’ emisfero sinistro è in grado di fare da “interprete”
del reale.
Interprete, archetipi e coscienza
Torniamo alle ipotesi di Jaynes sulla mente bicamerale. L’ipotesi è che
la mente fosse scissa in due parti e possedesse solo nell’emisfero
sinistro le tre aree destinate al linguaggio, mentre tutte le altre
importanti funzioni sono rappresentate bilateralmente. Jaynes si chiede
se le aree dell’emisfero destro, corrispondenti alle aree del
linguaggio, non abbiano avuto in passato un ruolo che ora non hanno più.
Entrambi gli emisferi sono in grado di comprendere il linguaggio ma solo
il sinistro può parlare. Nell’emisfero destro, nell’area corrispondente
all’area di Wernike dell’emisfero sinistro, esiste una funzione
vestigiale simile alla voce degli dei.
Gli studi fatti da Wilder Penfield dimostrano che stimolando quest’area
si possono verificare esperienze allucinogene a carattere uditivo,
simili ad imperativi divini. I due emisferi sono in grado di funzionare
come due persone indipendenti, forse in passato erano la parte divina e
quell’umana e le differenze nelle funzioni cognitive sono forse lo
specchio delle differenze tra uomo e dio.
La plasticità del cervello, inoltre, permette mutamenti come quello
dall’uomo bicamerale all’uomo cosciente, sotto lo stimolo
dell’apprendimento e della cultura. “La mente bicamerale è una forma di
controllo sociale ed è per la precisione quella forma di controllo
sociale che consentì all’umanità di passare dai piccoli gruppi di
cacciatori-raccoglitori alle grandi comunità agricole” (J. Jaynes, Il
Crollo della Mente Bicamerale e l’Origine della Coscienza, pag.159),
permettendo l’origine della civiltà.
Uomini e donne non erano coscienti, ognuno aveva una parte divina che
impartiva ordini, gli dei erano la volizione dell’uomo. Questa
suggestiva interpretazione dei complessi archetipici, peraltro
efficacemente giustificativa delle teologie rintracciabili nei miti, è
anche una implicita spiegazione della ricerca sempre in atto nell’uomo
di costruzioni simboliche, quali l’olismo o la teoria dei sistemi o lo
strutturalismo o la condivisione umana di “campi morfogenetici” ,
tendenti a spiegare l’equifinalità dei comportamenti o l’obbedienza
umana a leggi comportamentali relativamente comuni a tutta la specie.
L’archetipo è utile per la sopravvivenza delle relazioni (o almeno per
limitare, nell’ecologia umana, la loro distruzione dettata da impulsi
egoistici o tribali) fino a quando un ulteriore potenziamento della
coscienza pone fine alla mente bicamerale e desincronizza gli emisferi.
Quali mutamenti permisero il passaggio dalla mente bicamerale alla
coscienza? Quando avvenne questo? Perché? Jaynes, con l’ausilio di
documenti storici, archeologici, antropologici, vede il secondo
millennio a.C. come teatro di grandi sconvolgimenti sia geografici sia
culturali. L’inizio dei commerci, l’aumento della popolazione, le
guerre, misero in luce la precarietà e la fragilità delle teocrazie
bicamerali. L’avvento della scrittura, su tavolette d’argilla, provocò
l’indebolimento delle allucinazioni uditive fino all’emersione di nuove
capacità mentali, che diedero il via ad un ulteriore sviluppo della
coscienza.
Ricordi, pensieri ed emozioni danno vita ad un primario io ed alla
coscienza soggettiva mentre il cervello bicamerale contiene ancora
residui del nostro passato. Ciò significherebbe che l’emisfero destro si
è involuto per lasciare spazio alla dimensione razionale dell’io
cosciente e, secondo Jaynes, l’esperienza religiosa è il residuo più
manifesto di una diversa forma mentale in cui risiedeva la convinzione
dell’esistenza di una relazione con un’entità più vasta.
La coscienza implica infatti una separazione dalla relazione con il
tutto e una chiusura dell’io in se stesso che interpreta il permanere di
allucinazioni come forme di patologie schizofreniche che dissolvono
l’io.
Il processo di estensione della coscienza sembra invece di segno
opposto: proprio il distanziamento dalle voci interiori internalizzate
come archetipi conduce alla loro progressiva osservazione ed
elaborazione facendo i conti con l’angoscia di morte e con
l’interpretazione delle voci interiori profonde. Ma non si tratta di
lotta contro l’emersione dall’inconscio della forma mentale primitiva ma
semmai dell’integrazione e della purificazione del sapere ancestrale
presente nell’uomo e nella esperienza biologica fino agli strati più
inferiori.
In pratica la liberazione dagli istinti primordiali è condotta
attraverso la purificazione di tali strati e la trasformazione delle
negatività in essi contenute in risorse per l’ulteriore sviluppo della
affettività nel mondo sociale, relazionale ed anche nella sfera
biologica.
Tale processo non può però prescindere dall’uso della coscienza come
orientatore dei processi affettivi.
La coscienza
La caratteristica fondante dell’essere umano è un grado assolutamente
superiore agli altri esseri viventi di allargamento della coscienza. La
coscienza dell’ego, che è formata dalla somma dei contenuti psichici
presenti nella persona, è inondata da un flusso continuo di pensieri,
emozioni, sentimenti, stati d’animo e di umori che trasformano la
psicofisiologia della coscienza stessa, pur lasciando inalterato il
nucleo dell’identità della persona. Nel momento del risveglio dal sonno
la coscienza sa di avere una continuità, sa di essere la stessa del
giorno prima e sa anche di aver dormito. Pur essendo rimasta sopita nel
corso del sonno.
In contrasto con la coscienza si presentano tre condizioni di
progressiva diminuzione della coscienza, che possono essere graduate
fino all’inconscio, al sonno, al coma. La coscienza può quindi essere
descritta come: mondo del conscio, della vigilanza e della lucidità.
Poste queste condizioni nel loro equilibrio ottimale, possiamo definire
la coscienza come l’autopercezione del sé vivente. Che, in altre parole,
corrisponde a quello stato di pienezza che spesso definiamo come
“sentirsi vivi”.
All’interno della elaborazione del sapere scientifico possiamo però
inventariare informazioni importanti sul rapporto tra vita, identità e
coscienza. Tali informazioni sono utili per dissipare numerosi equivoci
o proiezioni negative sulla morte.
In primo luogo la certezza dell’identità di ciascuna forma vitale è
scientificamente dimostrata dall’infinita differenziazione del DNA, in
secondo luogo l’esperienza del vissuto umano ha a che fare con la
coscienza di esistere in una specifica forma di esistenza.
Per la piena comprensione dei processi di coscienza occorre però
affrontare le grandi categorie in cui la coscienza è articolata:
Conscio Inconscio
Vigilanza Sonno
Lucidità Coma
Conscio /Inconscio
Qui la coscienza è definibile come la parte della attività psichica che
emerge dall’inconscio e che diventa contenuto della coscienza stessa.
Con il termine inconscio Freud intendeva un complesso di processi,
contenuti ed impulsi che non affiorano alla coscienza del soggetto e non
sono quindi controllabili razionalmente. Egli riferì il termine dapprima
ad una parte della mente in cui si trovano i contenuti psichici rimossi,
per poi passare ad indicare i contenuti stessi che possono riaffiorare
nei sogni in forma simbolica, o manifestarsi come atti mancati, come i
lapsus e le distrazioni. La dimensione inconscia e irrazionale è per la
psicoanalisi il luogo in cui si annidano una serie di istinti e desideri
il cui contenuto non si manifesta a livello cosciente, ma la cui
soddisfazione è necessaria, pena il manifestarsi di disturbi del
comportamento più o meno gravi.
La forte dicotomia tra conscio e inconscio ha portato la formulazione di
un luogo intermedio ai due: il subconscio. Il subcosciente (espressione
che non fa parte della terminologia psicoanalitica) è descritto come uno
stato a cui si può accedere con meno sforzo, in quanto interposto tra il
conscio e l'inconscio. Lo stadio di mezzo era stato definito come
preconscio per la sua attività di censore dei desideri e impulsi
dell'inconscio, a cui permette un accesso distorto alla coscienza.
I contenuti preconsci sarebbero quindi non-immediatamente accessibili
alla coscienza, ma neanche del tutto inaccessibili come quelli inconsci.
Oggi possiamo però estendere, in modo semplice, il significato della
dimensione inconscia a tutto ciò che attiene alla nostra attività
psichica senza apparire alla coscienza attuale. Vi sono parti
dell’inconscio che possono essere attivate con un semplice richiamo di
memoria, altre che sono più lontane, altre fortemente precluse perché
blindate da sensazioni di dolore o di paura, altre ancora del tutto
inaccessibili alla coscienza come i processi fisiologici neurovegetativi
che soprassiedono all’equilibrio vitale, alla crescita, alla
riproduzione. Le regolazioni psicosomatiche e somatopsichiche, ad
esempio, non possono essere accessibili alla coscienza che, per
interagire con tali processi, ha bisogno di individuare altri percorsi
psicobiologici.
In questa ottica si ribalta la definizione di partenza e, posto che sia
conscio tutto ciò che appare nella esperienza attuale della nostra
coscienza, l’inconscio è tutto il resto. Più o meno facilmente
accessibile alla coscienza. Ciò dipende dalla proprietà stesse della
coscienza perché non può esistere una entità totalmente cosciente.
"Basta riflettere solo un po’ sul problema, scrive Gregory Bateson, per
convincersi che non si può concepire in alcun modo un sistema totalmente
cosciente. Si immagini che sullo schermo della coscienza vi siano
resoconti provenienti da numerose parti dell'intera mente, e si immagini
di aggiungere alla coscienza i resoconti necessari a riferire su ciò di
cui, ad un dato stadio di evoluzioni, non si hanno ancora informazioni.
Quest'ag¬giunta comporterà un grandissimo aumento della struttura
circuitale del cervello, ma non darà lo stesso un'informazione completa.
Il passo succes¬sivo consisterà nel riferire sui processi e sugli eventi
che hanno luogo nella struttura circuitale or ora aggiunta. E così via".
Se infatti si paragona la coscienza ad uno schermo è facile appura¬re
che su tale schermo può essere proiettata qualsiasi immagine, compresa
l'immagine dello schermo stesso, tranne che l'immagine della telecamera
che sta riprendendo lo schermo. E' possibile riprendere la telecamera
con una seconda telecamera, la quale può essere ripresa riflessivamente
dalla prima, ma sarà allora necessaria una terza telecamera che riprenda
l'intero sistema. E così via. Lo stesso dicasi per i meccanismi
riflessivi della nostra coscienza: esisterà qualche struttura a
fondamento della coscienza stessa che non è direttamente esaminabile
dalla coscienza. Tale fondamento è lo specifico individuale di ciascuna
coscienza, che ne determina le caratteristi¬che e le dimensioni. Per
cogliere tale fondamento serve porre una distanza dal proprio sé e dalla
struttura attivata del pensiero riflesso che va "messa tra parentesi"
per far emergere "qualcos'altro".
La nostra attività psichica è caratterizzata da processi di elaborazione
generalizzati che prendono in considerazione tutte le informazioni
presenti dentro di noi. Noi siamo coscienti di una parte infinitesimale
di tali informazioni: possiamo paragonare ciò al lavoro del nostro
computer che legge continuamente tutto il contenuto dell’hard disk ma
che proietta sullo schermo solo ciò che abbiamo chiesto al processore di
elaborare. Il resto, pur non apparendo, esiste ed è ciò che consente al
processore di sostenere l’attività specifica che stiamo svolgendo. In
altre parole lo schermo -coscienza proietta una piccola parte e ci
induce spesso nell’inganno che tale parte sia la effettiva realtà
esistente sottraendoci alla comprensione della vastità delle
informazioni e dei processi mentali e psicologici che sono in atto in
noi momento per momento. Eppure nessuno pensa che, nel momento in cui
sta assistendo ad un programma della rete RAI 1, le altre reti non
esistano più e non siano in onda.
La distinzione psicologica tra conscio e inconscio è però una metafora
simbolica, poiché non esistono questi due comparti nella mente, giacché
trattasi delle mobili condizioni in cui un oggetto si affaccia o meno
alla coscienza. La distinzione psicodinamica è comunque molto utile, se
si supera una visione assolutistica di questo modello, perché conduce ad
osservare i processi inconsci come più mutevoli e veloci di quelli
consci, poiché sono privi della necessità di allineamento consapevole.
L’inconscio può così essere pensato come un mondo che si vede “con la
coda dell’occhio”. Esso è formato da tutte le innumerevoli informazioni
della vita individuale e della memoria della specie umana, che sono
sotto la soglia della percezione intenzionalmente allineata con le
informazioni, comprese le informazioni implicite sul grado personale di
gestione delle diverse informazioni. Tali informazioni possono essere
negate (o rimosse), oppure associate ad altre perché il sistema di
pensiero e di emozioni non è in grado di gestirle per la loro
incomprensibilità o per il dolore che contengono. In tal caso le
informazioni sono messe in posizione da non nuocere, non allineandosi
con la percezione consapevole. Così si può comprendere come le
informazioni concernenti la nostra identità biologica ed esperienziale,
le informazioni circa i complessi archetipici trasmessi dai nostri geni,
stanno alle nostre spalle e, pur servendo anche a definire i rapporti
sociali, non interferiscano con la nostra attività cosciente. Come
potremmo infatti gestire il conflitto tra lo scatenamento emozionale
prodotto da una forte attrazione sessuale riproduttiva, lanciata nel
nostro organismo dalla attivazione dei ferormoni, con la coscienza delle
norme sociali che presiedono alla vita di coppia?
Nell’inconscio si trovano strutture archetipiche che non riusciamo a far
emergere e che si sono consolidate nello sviluppo psicobiosociale
dell’umanità. Alcune di esse sono utili, altre meno e su queste ultime
gravitano molte battaglie di civiltà gestite attraverso la politica.
Vigilanza /Sonno
Il secondo processo riguarda il rapporto tra vigilanza (allerta) e
sonno. Vigilanza e sonno presuppongono diversi livelli o stati di
coscienza. Il sonno si caratterizza come una quasi totale interruzione
dei contatti sensoriali con l’ambiente esterno. Il tracciato
elettroencefalografico della veglia ha in condizioni normali un
andamento vivace e irregolare, con tanti picchi, denominato
desincronizzazione cerebrale. Mostra cioè la presenza di processi
mentali plurimi che, in fasi di rilassamento e addormentamento,
presentano un andamento più lento denominato di sincronizzazione
cerebrale. La desincronizzazione è in atto con uno stato di attivazione
cerebrale diffuso, la sincronizzazione è uno stato di riposo. Al termine
di ogni ciclo di sonno (90 minuti) a onde lente, compare un processo di
desincronizzazione cerebrale abbastanza simile allo stato di veglia.
Questa è la fase del sonno in cui compaiono i sogni, ovvero vengono
processate informazioni che provengono dall’interno della mente.
Sulla base dei parametri elettroencefalografici il sonno viene
classificato come contraddistinto da 5 stadi: 4 Non REM (Rapid eye
movement, movimento rapido degli occhi) ed uno stadio REM.
Nel periodo di sonno REM si ha attività onirica con allucinazioni e
autorappresentazioni, nei quali il soggetto ha esperienza di vissuti
percettivi, assimilabili ad una forma di funzionamento psichico con
desideri e impulsi disorganizzati e incomprensibili al pensiero
razionale, immagini visive bizzarre e noncuranti del tempo, dell'ordine
o della coerenza logica.
Tale funzionamento psichico è indispensabile per la persona. Chi viene
infatti privato della possibilità di sognare, attraverso la privazione
delle fasi REM, ha una insorgenza rapida di ansia, di irritazione, di
disturbi della memoria e della concentrazione.
Durante la veglia l'EEG alterna fondamentalmente tra due pattern. Un
pattern chiamato di 'attivazione' (o pattern desincronizzato)
caratterizzato da onde di basso voltaggio (10-30 microvolt) ed alta
frequenza (16-25 Hz) ed un secondo chiamato 'attività alfa'
caratterizzato da onde sinusoidali di 8-12 Hz. L’attivazione è presente
quando il paziente è in stato di attenzione ad occhi aperti. I movimenti
oculari sono presenti e il tono muscolare è medio-alto.
Lo stadio REM, caratterizzato da un EEG a basso voltaggio con frequenze
miste, presenta paralisi dei muscoli (per evitare di mimare i sogni) e
per i sogni. Il cervello consuma ossigeno e glucosio come se il soggetto
fosse sveglio e stesse svolgendo un'attività intellettuale. Se ci si
sveglia in questa fase si è perfettamente orientati.
La sequenza delle fasi del sonno mostra come dalla vigilanza si passi al
sonno attraverso un continuum in cui l’alerting cosciente scema e si
passa alla comparsa spontanea di processi mentali incontrollati. Non
essendoci più contatto con l’ambiente esterno appaiono nella mente
rapidi flash allucinatori ipnagogici. Ove essi abbiano una particolare
intensità, il dormiente può essere preso da stupore, paura o ansia e
svegliarsi di soprassalto (questo è il tipico caso di un disturbo
ansioso del sonno).
Il sonno è uno stato dell'organismo caratterizzato da una ridotta
reattività agli stimoli ambientali che comporta una sospensione
dell'attività relazionale (rapporti con l'ambiente) e modificazioni
dello stato di coscienza: esso si instaura autonomamente e
periodicamente, si autolimita nel tempo ed è reversibile.
Il fatto che sia reversibile sulla base di uno stimolo esterno (o anche
interno, ad esempio con un risveglio autoindotto per comparsa di incubi,
preoccupazioni o per autocondizionamento) distingue il sonno dal coma o
dall'anestesia che, rispettivamente, sono una patologia o sonno indotto
farmacologicamente. Il sonno quindi si differenzia da altri stati di
alterazione di coscienza: col sonno la perdita dello stato di coscienza
è, come già detto, reversibile. Quindi il soggetto può risvegliarsi dopo
stimolo anche non doloroso. Lo stupor diversamente, è un'alterazione
dello stato di coscienza dal quale ci si può risvegliare dopo
somministrazione di uno stimolo doloroso. Lo stato comatoso è
un'alterazione dello stato di coscienza dal quale non ci si può
risvegliare dopo somministrazione di uno stimolo doloroso.
Lucidità /Coma
Lo stato vigile ed attento si contrappone alla vigilanza ridotta, tipica
della sonnolenza fino ai diversi stadi del sonno o alla perdita di
coscienza (svenimento); la lucidità si contrappone all’offuscamento,
all’ottundimento, all’obnubilamento, al torpore, allo stato soporoso ed
al coma.
Il coma viene descritto come situazione in cui l’essere è ancora vivente
ma la sua lucidità tende allo zero. “Il coma è uno stato di areattività
psicologica, non suscettibile di risveglio, in cui il soggetto giace ad
occhi chiusi” [F. Plum e J.B. Poster] e non produce alcuna risposta agli
stimoli esterni o ai bisogni interni. Esso è “quello stato di
sospensione della coscienza di sé e del mondo, di impossibilità di
entrare in rapporto con chi ti circonda, con chi ti vuole parlare,
aiutare? [...] uno stato che non è vita e non è morte, ma che vita e
morte riassume, specchio di ciò che siamo e che saremo” [Standola,
Avesani: 1997].
Il coma è il contrario della lucida attivazione, poiché in esso c’è
l’abolizione di un particolare stato di coscienza che non è quella
attentiva e nemmeno quella della veglia. Infatti nel coma persiste lo
stato di coscienza nei termini della vigilanza, organizzata in ritmi
circadiani di sonno-veglia. Infatti i trattamenti con stimolazione
elettrica encefalica profonda vengono praticati ogni due ore, ma solo di
giorno, sospendendola la notte per permettere il ciclo sonno veglia. I
programmi di risveglio mediante stimolazione neuronale per pazienti in
coma o in stato vegetativo possono essere possibili grazie alla
neuroplasticità, cioè alla riorganizzazione neuronale centrale,
possibile solo quando sono presenti livelli attentivi e percettivi
seppur minimi [Fiori M., Giaquinto S., 1999].
Lo stato vegetativo è il più complesso e meno compreso disturbo della
coscienza, poiché appare come situazione di perdita del contenuto di
coscienza (cioè totale perdita delle funzioni cognitive e quindi anche
assenza di interazione con l'ambiente circostante), e completo o
par¬ziale mantenimento delle funzioni autonomiche ipotalamiche e del
tronco encefali¬co (l'attività cardiaca, la respirazione, la
temperatura, la pressione sanguigna sono più o meno normali). Esso è un
fenomeno moderno prodotto della rianimazione e della terapia intensiva.
Il paziente in stato vegetativo apre gli occhi spontaneamente o in
seguito ad un rumore, ma lo sguardo si perde nel vuoto. “Talvolta può
girare il capo e gli occhi in direzione di stimoli sonori o di oggetti
in movimento. Può emettere suoni, abbozzare un sorriso o pian¬gere,
senza motivo. Respira regolarmente da solo, non abbisogna di assistenza
per la funzione cardiaca, la cute è calda e le pupille si contraggono
normalmente alla luce. Reagisce agli stimoli dolorosi, talora anche con
grimaces facciali e semplici vocalizzazioni, ma l'attività motoria è in
genere scarsa e sempre priva di movi¬menti finalistici. Può avere una
ricca motilità orale, con movimenti automatici di suzione, masticazione
e deglutizione, ma non è in grado di attivarli in modo coor¬dinato per
alimentarsi. Quando gli viene messo 'qualcosa in gola ha conati di
vo¬mito o tossisce. È del tutto incontinente” II paziente in coma
profondo rimane invece con le palpebre abbassate, non apre gli occhi
spontaneamente-ciclicamente o in risposta a stimoli esterni. Il respi¬ro
è irregolare. Può avere movimenti involontari, come il pizzicare le
lenzuola con le dita o il tentare di afferrare con le mani oggetti
immaginari. La reattività agli stimoli dolorosi è afinalistica o
assente. Non ha validi riflessi di deglutizione, fa¬ringeo e della
tosse. È incontinente…Mentre nel coma la perdita della vigilanza
consegue alla depressione del tronco encefalico, nello stato vegetativo
la funzione del tronco è conservata, ma viene a manca¬re l'interazione
tra tronco encefalico, talamo e corteccia cerebrale” [Verlicchi A.,
Zanotti B.: 1999, 306].
L’azione terapeutica sul coma da parte dei neurotrasmettitori determina
la ripresa o l'innesco funzionale di cellule e vie inattive mediante
“agonisti della dopamina, che sono stati collegati al ripristino di
specifi¬che proiezioni dopaminergiche che normalmente interagiscono,
come un 'unità co¬ordinata, con la sostanza reticolare ascendente”
[Echiverri H.C., Tatum W.O., Merens T.A., Coker S.B.:1998, 228].
L’azione dopaminergica aumenta il livello di responsività del soggetto
fino all’eventualità di svegliarlo dal coma. Questo tipo di azione
attivatoria ha l’obiettivo di far pervenire il soggetto a lucidità e
quindi di modificare il suo stato di non - coscienza verso uno stato di
lucidità. Per raggiunger quest’obiettivo, le azioni da applicare
all’organismo sono tutte azioni di attivazione che lo scuotano dal coma.
In questa accezione l’attivazione è simile al movimento stressogeno
nella accezione originale del termine . Questo processo non è solo umano
poiché appartiene alla sfera più propriamente biologica: gli effetti di
esperienze stressanti sul comportamento e sulla funzione dopaminergica
possono essere molto diversi in relazione all'evitabilità della
situazione, al background genetico dell'animale e alla sua storia
individuale. Numerosi studi dimostrano che i neuroni dopaminergici
mesocorticali vengono selettivamente attivati dallo stress e la reazione
agli stress da parte dei nuclei della base è ridotta dalla iperattività
corticale. Siamo infatti nello stato soglia che distingue l’eustress dal
distress: se prevale il secondo la ricerca di nuove soluzioni rischia di
produrre oscillazioni dissociative.
Con il concetto di lucidità, in contrapposizione allo stato soporoso,
all’obnubilamento ed al coma ci si riferisce a quel livello di dinamica
psicobiologica, che ha a che fare con l’attivazione vitale. Qui il
significato di coscienza lucida (e non vigile) è apparentata con il
controllo esecutivo, che mobilita la focalizzazione del comportamento
sugli obiettivi, la capacità di pianificazione e di riconoscimento degli
errori e l’inibizione di risposte automatiche. Esso opera quando le
funzioni di routine sono insufficienti, ovvero proprio nel momento di
massimo bisogno di coscienza lucida, per rispondere ad un forte stimolo
stressante in arrivo.
Il concetto di coscienza lucida non può essere sufficientemente
descritto mediante la sola buona responsività tramite script
comportamentali. Gli script sono comportamenti appresi e resi automatici
per servire da difesa contro eventi negativi (stressor). Ciò che si
perde nel coma, o negli stadi di perdita di lucidità ad esso connessi,
non è la ricezione degli stimoli ma la capacità di attivazione delle
risposte.
La differenza fondamentale fra il coma e lo stato stuporoso è che un
paziente in stato comatoso non è capace di rispondere né agli stimoli
verbali né a quelli dolorosi, mentre un paziente in stato di shock
riesce a dare una risposta a tali stimoli, almeno istintiva (gridare in
risposta a un pizzicotto, per esempio).
Il coma è anche diverso dallo stato vegetativo che a volte può
susseguire ad esso: un paziente in stato vegetativo ha perso le funzioni
neurologiche cognitive e la consapevolezza dell'ambiente intorno a sé,
ma mantiene quelle non-cognitive e il ciclo sonno/veglia; può avere
movimenti spontanei e apre gli occhi se stimolato, ma non parla e non
obbedisce ai comandi. I pazienti in stato vegetativo possono apparire in
qualche modo normali: di tanto in tanto possono fare smorfie, ridere o
piangere.
Il coma non è nemmeno indice di morte cerebrale, cioè di cessazione
irreversibile di tutte le funzioni del cervello: può accadere che un
paziente in coma sia in grado di respirare da solo, mentre uno
decerebrato non può farlo mai.
È inoltre diverso anche dal sonno, perché il sonno è sempre
interrompibile, mentre non è possibile "svegliare" a piacere una persona
in stato di coma.
Il coma vero e proprio dura di solito da 2 a 4 settimane, raramente di
più. Alcuni pazienti in stato vegetativo possono recuperare un certo
grado di consapevolezza, alcuni invece possono restare in tale stato per
anni o per decenni.
Si definisce poi coma farmacologico, o coma indotto, o coma da
barbiturici, il coma provvisorio (un stato profondo
dell'inconsapevolezza) causato da una dose controllata di barbiturici,
di solito pentobarbital. Il coma farmacologico viene utilizzato per
proteggere il cervello durante grandi interventi chirurgici.
I barbiturici riducono il metabolismo nei tessuti del cervello e il
flusso di sangue cerebrale. Con queste riduzioni, i vasi sanguigni nel
cervello diminuiscono di volume, e, di conseguenza, fanno decrescere il
volume occupato dall'organo e la pressione intra-cranica. In questo
modo, diminuendo la pressione, possono essere evitati o diminuiti alcuni
danni .
La piena comprensione del vissuto del coma è ancora lontana ma il suo
collegamento con la confusione mentale, lo stupor, l’anestesia da
farmaci consente di vederlo come una condizione in cui, a seguito della
modificazione bioenergetica dei vissuti della persona e della
diminuzione della attività cerebrale, la coscienza si distacca dai
vissuti corporei. Nel coma si manifesta, ad esempio, una profonda
modificazione del senso del tempo di cui non viene più percepito il
fluire anche se, in molti casi, vengono invece mantenute le percezioni
ambientali.
Nel sonno si perde la percezione dell’ambiente e si mantiene quella
della personale corporeità e dei suoi bioritmi, nel coma è più probabile
venga mantenuta la percezione dell’ambiente e persa quella mentale e
corporea.
La caduta di lucidità porta la persona a vivere alterazioni della
coscienza; ad esempio la modificazione della percezione temporale. Il
coma dunque può apparire come l’esatto contratto della iperlucidità del
vivido presente che sperimentiamo quando la nostra attenzione è
massimamente attiva: nel momento in cui viviamo una forte emozione, un
evento traumatico o una importante performance sportiva. In tali
situazione percepiamo il tempo al rallentatore proprio perché riusciamo
a rallentare il tempo.
La percezione soggettiva dello scorrere del tempo non è sempre uguale al
tempo realmente trascorso: la sensazione dello scorrere del tempo è del
tutto soggettiva anche se i meccanismi fisiologici su cui si fonda non
sono chiari perché influenzati dallo stato emotivo e dal contesto. Ora
se è chiaro nella esperienza comune che lo stato emotivo influenza la
percezione del tempo, è meno chiaro quali siano i meccansismi
neurofisiologici che vengono implicati nel processo di accelerazione o
di rallentamento del tempo vissuto.
Sul piano psicologico le diverse percezioni del tempo sono correlate
alla prevedibilità ripetitiva degli eventi: tanto più gli eventi sono
imprevisti tanto più appaiono lunghi, tanto più sono noti e scontati
tanto meno durano.
Ciò ha molto a che fare con la funzione della lucidità intesa come
chiara e coerente percezione del presente; al diminuire della lucidità
diminuisce la sensazione attuale del tempo che può restringersi o
dilatarsi rispetto alla percezione corporea del tempo, socialmente
condivisa e confermata.
Il coma è il contrario della lucidità della coscienza ed è intimamente
collegato a distorsioni nella percezione soggettiva del tempo. Nel coma
si attua una percezione di tempo continuato, nella lucidità quella di
tempo rallentato. Al tempo ininterrotto si associa la confusione mentale
della non consecutività del pensato, al tempo rallentato una maggior
lucida consapevolezza dello svolgimento degli eventi.
Coma e stati alterati di coscienza
E’ particolarmente difficile trattare in modo corretto il tema del coma
e usare in modo preciso le definizioni di coma, stato vegetativo,
risveglio. L’EEG informa sul funzionamento delle cellule della corteccia
cerebrale e se l’elettroencefalogramma è piatto significa arresto delle
funzioni con rara reversibilità. Più lento è il tracciato, più grave è
il danno cerebrale.
Il coma può persistere per alcune settimane in cui il paziente tende a
riaprire gli occhi anche solo per brevi intervalli, con progressiva
ripresa di coscienza. Se rimane ancora non cosciente nonostante sia
entrato nello stato vegetativo o coma vigile. In tale stato non reagisce
a nessuno
stimolo anche per diversi mesi. I primi segni di recupero dal coma
riguardano il contatto con l’ambiente esterno (seguire con lo sguardo,
piangere, sorridere, ecc.) mediante uno stato di minima coscienza o di
minima responsività. In fasi più avanzate di recupero l’uscita dal coma
è accompagnata da grave disorientamento spazio-temporale (non sa dove si
trova, né qual è la data corrente - giorno, mese e anno), non è in grado
neanche di riconoscere le persone, presenta amnesie, disturbi della
memoria recente, manifesti confabulazioni, mutismo e confusione mentale.
Coma, stato confusionale , shock , svenimento sono stati in cui la
coscienza si altera presentando alcuni delle caratteristiche elencate da
Arnold Ludwig: alterazioni del pensiero; disturbi nel senso del tempo;
perdita del controllo; cambiamenti nell'espressione emotiva; cambiamenti
dell'immagine corporea; distorsioni percettive; cambiamenti nel
significato o senso; senso dell'ineffabile; sentimenti di rinnovamento;
ipersuggestionabilità.
Tali condizioni hanno basi fisiologiche e sono parte di un continuum:
“La nostra intera vita psichica può, a sua volta, avere gradi di
coscienza differenti, che vanno dalla coscienza più lucida, attraverso i
livelli d’offuscamento, fino all’incoscienza. Ci possiamo figurare la
coscienza come un’onda. La coscienza lucida, chiara, è l’apice
dell’onda…. che diventa sempre più bassa fino al suo completo defluire
nella perdita di coscienza” (K. Jaspers, Psicopatologia Generale,
pag.150).
Le alterazioni dello stato di coscienza riguardano la diminuzione delle
singole funzioni psichiche e del controllo di coscienza che
progressivamente si restringe o modifica il suo flusso normale a seconda
dei livelli di attivazione del sistema parasimpatico e ortosimpatico.
L’elemento determinante per il passaggio da uno stato di coscienza
all’altro è espresso dalla velocità di elaborazione del cervello. In
altri termini, cambiare la velocità di lavoro del cervello significa
cambiare stato di coscienza. Lo stato ordinario di coscienza è
rappresentato da un equilibrio ottimale tra le informazioni che il
cervello riceve e quelle che elabora, così, se tale equilibrio viene a
mancare, ecco che si possono manifestare stati non ordinari di
coscienza. L’esperienza della trance è lo stato di massima velocità di
lavoro del cervello. I vari modi per indurre uno stato alterato di
coscienza, mettono in luce il fatto che il nostro ordinario stato di
coscienza è solo una delle tante possibili strutturazioni della mente.
Riflessività relazionale e consapevolezza
“Dal punto di vista sociologico, la riflessività è un’operazione
relazionale fatta da una mete individuale in relazione ad un “Altro”
dentro un contesto sociale, la quale genera una relazione che è un
effetto emergente fra i termini che essa collega” (Donati, 79).
I termini collegati possono essere tutti interni alla persona (l’io a
cui Io parlo) in tal caso la riflessività corrisponde alla conversazione
interiore di cui tratta Margareth Archer. Se invece è esterno (ad
esempio una figura che ho interiorizzato) significa che tale figura ha
influenzato la attività mentale.
“Forse l’unica eccezione è quando sogniamo (o ci troviamo in una stato
non cosciente o di evasione mentale), ossia quando ci troviamo in una
condizione in cui, pur dialogando con noi stessi non abbiamo una piena
presenza coscienziale a noi stessi. In tal caso c’è conversazione
interiore,ma la riflessività sociale va a zero“ (Donati, 80).
Pur non essendo del tutto vera la affermazione sul sogno di Donati (come
vedremo giacché è possibile l’ingresso dell’Io cosciente nel sogno) essa
è utile per aprire alla comprensione della riflessività con l’altro
internalizzato.
“Se la comunicazione del Sé (self) rimane all’interno del soggetto, si
parla di riflessività personale o conversazione interiore. Nel caso
invece che l’attività riflessiva (di ritorno su se stessi per ridefinire
ciò che è stato comunicato) sia svolta in una interazione comunicativa
con altri (conversazione esteriore) allora dobbiamo usare il termine
riflessività sociale o relazionale.
Quando la riflessività relazionale non funziona cade l’apertura empatica
verso l’altro ed appaiono vere e proprie patologie di alessitimia
(alexithymia) e cioè la assoluta caduta di intelligenza relazionale.
L’alexithymia (Nemiah, Freyberger, Sifneos 1996) presenta le seguenti
caratteristiche: 1) difficoltà di identificare i sentimenti e le
emozioni; 2) difficoltà di descrivere i sentimenti e le emozioni; 3)
limitata capacità immaginativa; 4) stile di pensiero orientato verso la
realtà esterna. L’intelligenza emotiva (Salovey e Mayer 1989-1990) è
definita come “la capacità di osservare le proprie ed altrui emozioni,
di differenziarle e di usare tale informazione per guidare il proprio
pensiero e le proprie azioni”. Gli autori nel 1997 hanno modificato la
definizione di intelligenza emotiva, ponendo l’accento: 1) sulla
capacità di pensare i sentimenti; 2) sulla capacità di regolare le
emozioni; 3) sulla percezione dei comportamenti non-verbali, incluse le
sensazioni corporee evocate dall’attivazione emozionale; le espressioni
facciali; il tono della voce; la gestualità esibita dagli altri.
Tra i costrutti di alexithymia e di intelligenza emotiva esiste una
somiglianza ed una forte relazione inversa. In effetti i risultati di
valutazione, confermano che i due costrutti sono opposti e fortemente
sovrapposti.
Il cervello emotivo (Le Doux 1996) è il sistema dell’elaborazione
emozionale che opera indipendentemente dall’esperienza cosciente tramite
due circuiti: talamo-amigdala, è una via diretta che consente una rapida
risposta in caso di attacco-fuga; talamo-neocorteccia-amigdala, che
consente una valutazione ed una risposta emotiva più ponderata. Le Doux
(1989-1996) ipotizza che i sentimenti vengano vissuti quando le
rappresentazioni degli stimoli effettuate dall’amigdala e dalla
neocorteccia, insieme alle rappresentazioni degli stimoli scatenanti,
sono immesse nella memoria di lavoro e si integrano con le esperienze
passate e le rappresentazioni del sé. Vi sono evidenze che la memoria di
lavoro coinvolge l’attività della corteccia prefrontale laterale, la
corteccia cingolata anteriore e la corteccia orbitofrontale.
E’ probabile che l’alexithymia sia associata ad una limitazione
funzionale della comunicazione interemisferica e, secondo Lane (1997)
possa essere associata ad un deficit nell’attività della corteccia
cingolata anteriore durante l’attivazione emozionale causata da un mondo
rappresentazionale impoverito; e con limitata abilità di rappresentare
le emozioni, tramite parole e fantasie. Probabilmente a causa di deficit
nelle prime relazioni di attaccamento che non hanno favorito il
rispecchiamento delle espressioni emotive del bambino da parte della
figura di accudimento con associazione a stili di attaccamento insicuro.
Spesso ciò è dipendente dall’occhio in cui bambino è guardato dalla
madre nel corso dell’allattamento con problemi seri di spostamento o non
riconoscimento del mancinismo. Vi sono anche evidenze che grave abuso o
trascuratezza possono impedire la maturazione neocorticale nei bambini,
ridurre la differenziazione dell’emisfero sinistro ed invertire la
normale asimmetria emisferica sinistro-destro.
La consapevolezza può dunque essere compromessa nel processo relazionale
che , in tal situazione di negligenza si presenta critico e oppositivo.
Qui vale la pena di sottolineare come le relazioni critiche (le
opposizioni) possono impedire lo sviluppo di relazioni che non possono
promuovere. Al contrario le relazioni socio solidali di affinità sono
generative. Ad esempio l’amicizia come relazione che media l’agency nei
soggetti Ego e Alter. L’amicizia è il riconoscimento di qualcosa che non
appartiene a nessuno dei due processi negativi pur essendo di entrambi.
Ed anche a dimostrazione che l’amicizia non è contenuta in nessuna
struttura sociale alla quale le persone possano conformarsi. Per essere
amici non serve aderire ma bisogna essere almeno in due e condividere e
scambiare qualcosa.
Le linee di pensiero che si incrociano in questa analisi correlazionale
tra le ricerche neurofisiologiche, antropologiche, psicologiche e
fenomenologiche sulla coscienza hanno la necessità di definire con
riflessività consapevole i tipi di relazioni tra persone umane.
Noi di Prepos abbiamo inventariato le teorie relazionali ed sintetizzato
un linguaggio in grado di definire le relazioni di dialogicità, di
riconoscimento, di incontro, di mediazione, di integrazione, di
complementarità e di disponibilità.
Una rapida descrizione delle 14 modulazioni relazionali ci può essere di
aiuto per comprendere ciò che accade tra i tipi e ciò che la
riflessività può arrivare a descrivere sulle relazioni.
L’INSOFFERENZA si verifica quando le persone si oppongono con costrutti
articolati di comportamento. Quanto più uno è, intenzionalmente,
ordinato, preciso, metodico, ripetitivo, tanto più l’altro è,
intenzionalmente, confusionario, vago, innovativo e creativo.
L’insofferenza intercorre tra il soggetto responsabile e controllato e
il creativo indipendente (1 e 3). L’insofferenza produce litigio.
La DELUSIONE si impianta stabilmente quando le persone avevano
interpretato, illudendosi, il comportamento dell’altro in sintonia con
le proprie aspettative. La delusione può manifestarsi improvvisamente, a
seguito di un inganno, ma cresce lentamente in piccole esperienze
quotidiane, poco percettibili. La relazione di delusione reciproca corre
tra l’intraprendente e l’espressivo (2 e 4). La delusione conduce al
risentimento espresso attraverso la calunnia o il tradimento.
Il LOGORAMENTO è frutto di rapporti superficiali con manifestazioni
appariscenti ed estetizzanti. E’ una certa immagine, un tono sempre
“sopra le righe”, che logora le persone costrette a dare risposte
all’”altezza della situazione”, mai del tutto vere o del tutto chiare.
Il logoramento si tipizza tra il creativo indipendente e l’apatico (3 e
5). La fuga dal logoramento si traduce nel tentativo di mantenersi
indifferenti, ma l’accumulo conduce a manifestazioni di isteria
L’EVITAMENTO è precostituita indisponibilità alla relazione. I motivi
psicologici dell’evitamento sono: inibizione, incapacità di stabilire
rapporti, eccesso di sensibilità, bassa autostima ma anche senso di
superiorità, megalomania o superbia. L’espressivo ed il rassegnato si
evitano reciprocamente (4 e 6). L’evitamento preclude ogni possibilità
di vita comune.
Il FASTIDIO nasce dalla reattività di rifiuto “a pelle” di gesti, modi
di fare, odori, rumori, sapori, immagini emanati da qualche persona.
Conduce a rassegnazione e sopportazione ed al tentativo di mettere in
atto l’allontanamento dall’altro. Il soggetto con forti propensioni
all’attaccamento (adesivo) e l’apatico provano reciproco fastidio (5 e
7). . Il fastidio si manifesta in atti di vendetta: piccoli dispetti o
vere e proprie violenze
L’INCOMPRENSIONE è l’incapacità di trovare il motivo del comportamento
che l’altro mette in atto. Sebbene sia chiaro ed evidente ciò che
l’altro fa, non si capisce perché lo faccia, come sia possibile che
l’altro non capisca che ciò che fa non è quello che si deve fare in
quella circostanza. Il confronto è sterile perché ciascuno pensa:
“Possibile che non capisca che…?”. Aumenta così la necessità di
osservazione e di controllo del comportamento altrui, con vere e proprie
ossessioni e modelli di comportamento paranoici. Il rassegnato che il
controllato vivono nella incomprensione reciproca (6 e 1).
C’è EQUIVOCO nei comportamenti delle persone quando le azioni non sono
sinergiche ed orientate allo stesso fine o, se orientate allo stesso
fine, sono svolte in modi e tempi diversi. L’intraprendente e l’adesivo
(eccesso di attaccamento) equivocano sul significato dei loro
comportamenti (7 e 2). L’equivoco rende impossibile l’intesa e conduce
alla caduta della fiducia, alla diffidenza, al sospetto ed alla ripetuta
attuazione di comportamenti che danneggiano se stessi e gli altri.
Il RICONOSCIMENTO porta a scoprire che gli altri vivono le stesse
emozioni. Si insegna il riconoscimento attraverso espressioni del tipo:
“ Ma lei non si è accorto che…” spiegando il motivo per cui una terza
persona manifesta un certo comportamento. Il riconoscimento è l’antidoto
dell’equivoco: si basa sulla comprensione delle aspirazioni, delle
frustrazioni e delle difficoltà dell’altro. Il riconoscimento si tipizza
tra il sensibile rassegnato e il creativo indipendente (3 e 6).
La DISPONIBILITA’ scaturisce dall’apertura verso l’altro che rende
possibile un’azione positiva senza che ciò costi molta fatica. Spesso è
valutata nell’intenzione più che nel risultato. Consente di superare
l’insofferenza. La disponibilità nasce nell’incontro tra l’espressivo e
l’adesivo (4 e 7).
La COMPLEMENTARITA’ nasce dalla consapevolezza che l’uno farà le cose
che non possono essere fatte dall’altro. Si fonda sulla serena
accettazione che gli altri stiano facendo esattamente ciò che c’é
bisogno di fare perché è utile per tutti. Lo sfondo della
complementarità è la tranquillità e il realismo ed è l’antidoto alla
delusione perché non si fonda su aspettative fantastiche. La
complementarità vige tra l’apatico e il controllato (1 e 5).
L’INCONTRO è l’antidoto del logoramento perché presuppone la assoluta
diversità delle persone, compresa l’estraneità dei modelli mentali e
degli schemi d’azione, ma le impegna nell’obiettivo di scoprire che le
diversità sono una potenza a cui ciascuno può attingere. L’incontro
produce unità. L’incontro avviene tra il sensibile rassegnato e
l’intraprendente (2 e 5).
La DIALOGICITA’ è possibile quando ci siano “cose da dire” e ci sia un
contesto in cui possono essere dette. Una relazione in cui si discute di
ogni cosa, non si litiga perché, anche di fronte agli idee o alle
opinioni più divergenti, sa che è possibile condurre a buon fine la
discussione. E’ l’antidoto all’evitamento perché diminuisce le tensioni,
supera le impressioni troppo superficiali o troppo appariscenti. La
dialogicità intercorre tra il creativo e l’adesivo (3 e 7).
L’INTEGRAZIONE è la base per una buona organizzazione (e non il
contrario). Vi è integrazione quando nessuno travalica o tradisce le
aspettative che l’altro aveva riposto su di lui: il gioco delle parti,
dei compiti, delle funzioni e dei ruoli è armonioso. L’integrazione è
l’antidoto del fastidio perché rispetta l’identità di ciascuno e mette
tutti nella “giusta distanza relazionale” reciproca. Si attua tra
controllo ed espressione (1 e 4).
La MEDIAZIONE costruisce il “senso comune” perché modera gli eccessi e
stimola le energie necessarie per raggiungere un obiettivo. E’
l’antidoto all’incomprensione perché negozia i significati e libera dal
controllo reciproco. Produce accordo. E’ la relazione tipica tra
intraprendente e apatico (2 e 5).
Quarta tesi: Io cosciente e principio di individuazione, Io sognante e
anima
La consapevolezza può essere valutata prendendo in considerazione ciò di
cui si è consapevoli, per quanto tempo la si può sostenere e quale
livello di profondità e intensità essa raggiunga.
La consapevolezza si stabilizza nella sua comunicazione relazionale
riflessiva attraverso cui l’essere umano diventa consapevole di essere
persona.
La definizione classica di persona è quella di Severino Boezio (Contra
Eutychen et Nestorium) che definisce la persona: una “sostanza
individuale di natura razionale” (“rationabilis naturae individua
substantia”). Sostanza perché ha un esistenza propria, in sè, ovvero non
ha bisogno di nient’altro per vivere. Perciò ogni uomo è allo stesso
tempo uguale e diverso dagli altri.
Individuale perché la Persona è unità e vive in essa: se un uomo è
diviso non può più continuare a vivere. Razionale ovvero dotata di
senso.
Dalla definizione boeziana ri¬sulta che persona non dice semplicemente
individualità singola, né semplicemente natura, né semplicemente
sostanza.
S. Tommaso assegna implicitamente alla persona tutte quelle proprietà su
cui insisteranno i filosofi moderni e contemporanei quando parlano della
persona: l’autocoscienza, la libertà, la comunicazione, la coesistenza,
la vocazio¬ne ecc., perché tutte queste qualità trovano la loro radice
profonda nella ragione oppure nella intelligenza: è la ragione
(l’intelligen¬za) che possiede l’autocoscienza, la libertà, la
comunicazione, la coesistenza, la vocazio¬ne, la partecipazione, la
solidarietà ecc.
La persona umana percorre il suo cammino di individuazione della
coscienza umana, e, quindi, il passaggio dall’apparire della coscienza
alla consapevolezza. Hegel, nella “Fenomenologia dello Spirito”,
descrive lo sviluppo della coscienza sia della specie che dei singoli
individui.
Il cammino di individuazione della coscienza umana così come è stato
prospettato da Hegel, mostra tre fasi di sviluppo: 1) coscienza (che
significa da assenza di coscienza al primo apparire della stessa); 2)
autocoscienza (che sta a significare dal primo timido apparire della
coscienza all’attuarsi della coscienza di sé); 3) ragione (il quale
sviluppo porta fino alla consapevolezza). Coscienza non è ancora
consapevolezza: io posso avere coscienza di me, ma non consapevolezza,
ovvero posso sapere che esisto, che “ci sono” e avere coscienza della
distinzione tra me e l’altro, ma non essere arrivato alla consapevolezza
di “essere qui dentro” (ovvero avere il contatto con il mio “umano”, con
ciò che mi fa uomo), non essere giunto a capire che sono “persona”, non
aver raggiunto una coscienza morale, la capacità di riconoscere che
anche l’altro è “persona”, che in quanto tale ha “una dignità di
pensiero, di libertà, di relazione con altri, con il trascendente, con
sé” (da E. Stein “Introduzione alla filosofia”).
Jung ci propone un processo di progressiva individuazione nello sviluppo
coscienziale le cui parti in espansione sono 1) la Persona, chiamata
anche psiche parziale, è ciò che si pensa di essere, fino a quando non
intervengono spinte ad andare più a fondo; 2) l’Ombra e cioè i lati
nascosti dell’Io presenti nell’inconscio. Sono parte dell’ombra le
ferite e i lati rifiutati della propria personalità che non si mostrano
mai agli altri e neppure si è consapevoli di possedere. C.G. Jung
afferma: "Col termine di Ombra intendo il lato negativo della
personalità, e precisamente la somma delle caratteristiche nascoste,
sfavorevoli, delle funzioni sviluppatesi in maniera incompleta e dei
contenuti dell'inconscio personale"; 3) l’Io, ovvero l’unione di Persona
e Ombra, chiamata anche psiche completa.
Il processo di individuazione è una sorta di progressivo focusing
individuale che ricompone il mondo interiore e conduce alla esplorazione
dei complessi archetipi ricomponendoli nell’ ‘essere al mondo’ con il
corpo fisico, emotivo, mentale, energetico e quant’altro…
Ma l’individuazione conduce alla esplorazione del concetto di persona
che, anche nella cultura induista, contiene concetti come la mente
(manas), i sensi (indriya), la coscienza (cetana) e l’intelligenza
(buddhi) servono per porsi domande (jijñāsa) sulla Verità Assoluta e
sulla propria condizione materiale e spirituale: “Colui che cerca di
conoscere la Verità Assoluta, la Persona Divina e Suprema, deve
sicuramente fare domande sulla Verità Assoluta in ogni occasione, in
ogni tempo e in ogni luogo, direttamente e indirettamente”. La persona
pertanto manifesta nella forma di vita umana, quelle potenzialità che le
permettono di porsi domande: “la persona sussiste in sé,
indipendentemente dalla natura materiale, in quanto energia spirituale
in un corpo di energia materiale, ma è nella forma di vita umana, che
questa energia spirituale (anima) può manifestare le sue qualità
appieno, indagare su chi è veramente e porre domande sulla Persona
Suprema”.
. Quando si parla di persona, s’indica in realtà la parte più profonda
dell’uomo, l’energia vitale, la scintilla divina, ossia l’anima e,
facendo un ulteriore passo in avanti, si afferma che: “la persona
sussiste in sé al di là dell’attività pensante e conoscitiva e dei suoi
attributi materiali, perché nella sua condizione spirituale originale,
dove non ha bisogno di un corpo per interagire con Dio, manifesta
attributi e qualità personali originali proprie, così come la Verità
Assoluta”.
In definitiva la stessa ratio che troviamo in Boezio: “Rationalis
naturae individua substantia” e cioè la persona è “una sostanza
individuale di natura razionale”).
Il concetto di persona consente di superare le strettoie
dell’individuazione junghiana anche in relazione al rapporto con il
Tutto, l’assoluto e con il processo già criticato dell’estinzione
dell’IO.
Se Dio, l’Assoluto, il Logo, il Senso, esiste è sicuramente maggiore e
non minore dell’essere umano. Se l’essere umano è persona anche Dio deve
essere come minimo persona, ovvero cosciente ed intenzionale oltre che
consapevole e relazionale.
La comunicazione, la dialogicità e la relazionalità sono i caratteri
strutturali dell'essere persona. Esse rivelano un nuovo volto
dell'essere, per cui nelle cose e nella coscienza c'è un'inclinazione a
trascendersi, ad andare oltre se stessi; ed è quanto si sperimenta
nell'amore. Nella relazione l’Io eccede a se stesso: il bisogno di
complementarietà è piantato nell'essere stesso della persona, il
riconoscimento dell'altro vive nella sua esteriorità trascendente la
coscienza; nella dialogicità la prigionia dell'io è infranta e si coglie
la realtà non come dominio, ma come incontro. La relazione
interpersonale esprime la struttura originaria dell'essere, la
profondità ontologica per la quale l'uomo non è solitudine, ma
costitutiva apertura all'altro, e viene a realizzarsi nel riconoscimento
e nell'accoglienza dell'alterità.
La persona è tale grazie alle sue qualità spirituali: la coscienza,
l’intelligenza, la libertà, l’amore, il valore, l’unicità, la felicità,
l’eternità, le attività e le capacità conoscitive superiori che si
esprimono ponendosi domande sulla Persona Suprema e su sé stessa. Il
porsi domande sulla Verità Assoluta, (il Senso ndr.) è un’attività
indagatrice umana. “Finchè l’essere vivente non s’interroga sui valori
spirituali dell’esistenza, deve conoscere la sconfitta e i mali nati
dall’ignoranza...” (Srimad-Bhagavatam 5.5.5).
Il percorso dell’IO cosciente verso la consapevolezza si svolge lungo
molti differenti percorsi. Il Processo di accettazione della passione è
“la cruda e semplice coscienza che si manifesta nella conoscenza
sensibile ed immediata”, in cui l’io non è neppure in grado di
distinguere tra sé e l’oggetto. Si tratta di una fase assolutamente
corporea in cui, sul piano dell’ “individuazione psicologica” si tratta
di incontrare il corpo e le sue funzioni, scoprendo se stessi anche
mediante il dolore o le potenzialità. E’ uno stadio veramente drammatico
per la vita dell’io, in quanto l’“esserci” a questo livello è di fatto
dominato dalla paura. Il non superamento di questa fase espone
l’individuo alle dipendenze, alle manipolazioni, ai condizionamenti a
causa della non comprensione del “se stessi” incarnato in un corpo (“io
sono qui dentro”). E’ questa una fase che si può definire sub - umana,
poiché l’individuo non è in grado di capire né di esistere né che
esistono gli altri: vuole, pretende di essere invaso dall’onnipotente
volontà altrui e scarica sugli altri le proprie difficoltà. In questo
primo momento possiamo dire, con Hegel, che è l’oggetto che incombe sul
soggetto.
C’è la fase in cui la coscienza comincia a focalizzare la riflessione.
La coscienza dell’io dà luogo all’impulso di auto affermare se stessa;
ora è il soggetto che tende ad incombere sull’oggetto, dove, però,
oggetto è anche l’altro, il mio simile. E’ questa la fase egocentrica di
auto - percezione senza la comprensione dell’esistenza delle coscienze
esterne. In questa fase si consolida il copione coscienziale del
predatore. L’atto di invasione fa, però, intuire l’esistenza dell’altro
e tale conflitto interno oppositivo diventa la base per la
contemplazione dell’altro quando la sua esistenza sia accettata.
L’invasione riuscita dell’altro genera, infatti, piacere e fa sentire
realizzati. Nel rapporto di coppia, ad esempio, ognuno vuole essere per
l’altro l’assoluto; e, poiché entrambi vogliono la stessa cosa, la gioia
d’amore risulta avvelenata dal conflitto e votata allo scacco. Ma
proprio qui si genera una nuova contraddizione perché questo tipo di
libertà è solo astratta ed illusoria. La coscienza medita sopra queste
contraddizioni e percepisce di provare vergogna. Qui la coscienza si fa
intensa perché c’è dunque un io che si vergogna di qualcosa. C’è qui la
piena differenziazione degli emisferi con la voce sociale degli
archetipi da un lato e la voce dell’io dall’altro.
L’io vive la coscienza della relazione e la medita; impara ad osservare
i pensieri mediante la meditazione recettiva e, a questo punto, da
osservante e teoretica, la coscienza si trasforma in ragione pratica,
ovvero in ragione morale. Ma anche a questo livello l’io non si può dire
che abbia raggiunto la consapevolezza; infatti, per attuare la morale la
coscienza deve inibire i suoi impulsi tramite la ragione e ciò significa
scissione tra ragione ed impulso, tra anima e corpo. Scissione è
sinonimo di “coscienza infelice” a cui l’Io rimedia con la sublimazione
e il distacco dalle pulsioni. La pace, che nel linguaggio di Hegel si
chiama “anima bella” è l’autocoscienza - piena, la consapevolezza
realizzata che non ha più bisogno di trattenere in sé le parti spurie e
l’individuazione rafforza l’identità soggettiva ma non porta
all’individualismo.
La coscienza soggettiva dell’IO vive sul riscontro della personale
sensazione di esistere come entità collegata ad altre coscienze
incontrate. La coscienza sa di essere chi è (o pensa di essere ciò che
è) e nella percezione di coscienze estranea (o pensieri di percezione di
esistenza estranea), le presenze pensate sono comunque pensieri
esistenti autenticamente anche se fossero solo un sogno.
Io cosciente e io sognante
L'identità profonda si colloca in un luogo "altro" rispetto alla
coscienza, la cui attività va, per così dire, sospesa per accertare
l'identità. Questo processo che va a suggerire al soggetto la sede, la
struttura e le dimensioni della propria identità, si attua giungendo ai
limiti del campo di esistenza della coscienza per giungere ad intuire
ciò che la sorregge e la connota; ciò accade in momenti deriflessivi. La
"presa diretta" del vissuto, il distanziamento da sé, la "messa tra
parentesi della realtà", pratiche tradi¬zionali quali la meditazione o
la preghiera, oppure nel momento finale del processo di coglimento
empatico del vissuto altrui. Quando cioè, sospesa la riflessività
vigile, l'individuo percepisce la voce del suo "io": una voce che parla
dentro di lui sempre con lo stesso timbro, dalla nascita alla morte e
che lo contraddistingue.
Ciascun uomo ha una specifica identità, condivide aspetti comuni con
altri membri della specie e perviene a livelli di coscienza di sé e
della sua identità in funzione del grado di approfondimento del suo
processo di individuazione.
Per individuazione si intende il lavoro mentale ed emozionale attraverso
cui l’essere umano amplifica la conoscenza di se stesso. Tale conoscenza
rafforza l’identità soggettiva ma non conduce all’individualismo poiché
tanto più l’essere umano si conosce tanto più facilmente arriva a
conoscere e capire gli altri esseri umani.
Tanto maggiore è il grado di elaborazione dei processi interiori, presi
in considerazione dentro di sé, tanto più i processi mentali altrui,
anche i più folli ed irrazionali, diventano comprensibili.
Il processo di crescita interiore può essere descritto come un
progressivo aprirsi a dimensioni emozionali di esistenza estranee e
lontane dalle percezioni abituali e la successiva interpretazione di
tali emozioni in vista della loro comprensione .
L’individuazione serve anche a prendere sufficiente distanza psichica da
vissuti anaffettivi e riprovevoli, perché l’estensione della coscienza
amplifica anche le capacità critiche e non solo quelle di
immedesimazione.
Al fine di far evolvere l’estensione della coscienza è necessario
affrontare scientificamente i diversi significati psicobiologici che la
definiscono.
Essa è dunque, secondo Jaspers, sia l’interiorità di un’esperienza
vissuta, sia coscienza oggettiva, sia autoriflessione. La coscienza
dell’IO è contraddistinta, secondo Jaspers, da 4 caratteri formali:
coscienza di attività, coscienza dell’unità, coscienza dell’identità,
coscienza della delimitazione. Diminuzioni di questi caratteri di
coscienza conducono a depersonalizzazione autopsichica (estraneità del
proprio Io psichico dell’unitarietà del Sé), depersonalizzazione
somatopsichica (estraneità del proprio corpo o di parti di esso, Sé
fisico), derealizzazione (estraneità della percezione dell’ambiente).
Tali alterazioni della coscienza compaiono occasionalmente in condizioni
di stanchezza o isolamento, in situazioni di patologia epilettica (crisi
parziali, aura, automatismi) o nei disturbi dissociativi, nella
schizofrenia e nei disturbi dell’umore.
I disturbi di depersonalizzazione appaiono come esperienze di distacco e
di estraneità vissute dal soggetto nei confronti della propria
interiorità psichica, del proprio corpo o dell’ambiente esterno La
derealizzazione è invece connessa alla perdita del contatto che ciascuno
ha con la continuità della sua coscienza. In ambedue i casi si
accompagnano a sensazioni di angoscia.
Nella psicopatologia descrittiva i disturbi della coscienza di sé sono
declinati come disturbi del senso di esistere, disturbi della percezione
della propria attività, disturbi della continuità del sé e della unicità
del sé, disturbi dell’identità e dei confini del sé.
La perdita o la crisi nella coscienza dell’io sono infatti sensazioni
correlate all’emersione della angoscia di morte poiché implicano una
sensazione di distacco dalla continuità del sé. Per l’essere umano la
perdita della coscienza di sé equivale alla perdita della vita stessa.
L’IO sognante
Contrariamente all’IO cosciente l’IO sognante può acquistare tutto lo
spazio e tutto il tempo che vuole proprio perché vaga e fantastica ma
non è privo né di conoscenza né di coscienza. Mentre sogno mi informo
che sono IO che sogno e che ho intorno a me altre anime sognanti.
Il sogno è una forma di attivazione da parte del Sistema Reticolare
Ascendente, che invia impulsi nervosi che raggiungono la corteccia sotto
forma di onde ponto-genicolo-occipitali e danno vita a mutevoli
immagini, dati sensoriali ed emozioni. I sogni, pertanto, possono essere
paragonati ad allucinazioni che sono fisiologiche nello stato
ipnagogico.
L’esperienza più profonda del sonno è quella legata alle sequenze
narrative, che compongono il sogno. Il sogno è infatti a tutti gli
effetti una narrazione, più o meno comprensibile, che appare solo quando
siamo lontani dallo stato di veglia.
Questo è il motivo che ci porta a combinare la dimensione del continuum
veglia - sonno con la dimensione più emozionale e narrativa degli stati
di coscienza. Il tessuto narrativo infatti si può muovere nella
direzione della conferma dell’esperienza, operando così una
interpretazione ed una sintesi simbolica, oppure divenire così
emozionalmente carico da richiedere una proiezione verso l’esterno del
vissuto narrativo. In questo caso è molto probabile che si associ allo
stato ipnagogico, l’alerting fasico. In tal caso le emozioni prodotte
dallo stato di sogno producono una attivazione a seguito di una sorta di
avvertimento che ferma il pensiero nell'anticamera del sogno.
Ma la coscienza , l’Io cosciente, continua anche nel sonno. Nel sogno la
coscienza permane, pur in una condizione non di veglia e di mancanza di
vigilanza conscia sul pensiero. Quando si dorme non si perde la
coscienza infatti essa perdura. Se così non fosse al risveglio non
avremmo la sensazione di continuità di coscienza ovvero di essere le
stesse persone che si sono addormentate il giorno prima.
Nel sonno si perde la percezione del mondo oggettivo e la coscienza
perde la sua natura vigile ed entra nella diversa dimensione di
coscienza sognante e cioè in uno stato capace di procurare imprevedibili
espe¬rienze.
I fenomeni neurofisiologici più importanti nel corso del sonno ci
indicano alcune caratteristiche dell’IO sognante.
1) I vissuti emozionali interiori hanno la caratteristica di turbare il
sonno, sia impedendolo con un ansioso alerting quando ci addormentiamo,
sia svegliandoci di colpo quando i sogni producono sensazioni o immagini
inquietanti. Ove il materiale psichico rimosso non sia stato ben
compreso o elaborato emergono prepotentemente disturbi del sonno e le
persone, prive di un addestramento alla loro igiene mentale, soffrono di
disturbi del sonno. In questo caso l’IO sognante non ha un buon contatto
con l’IO cosciente, il quale a sua volta ha poco esplorato le sue
dimensioni inconscie.
2) Solo quando una persona vive un buon rapporto con il suo sonno, per
aver rielaborato suoi particolari vissuti angosciosi, può sperimentare
lo sviluppo della coscienza anche nella fase del sonno. Per comprendere
questo processo basta fare attenzione ai diversi risvegli latenti che
caratterizzano il passaggio temporale da un ciclo di sonno a quello
successivo. Gli adulti (e ancor più gli anziani) dormono molto meno
perché hanno maggior percezione dei risvegli latenti che li conducono
alla veglia specie nei cicli mattutini del sonno: alle 4 del mattino,
alle 5 e mezza, alle sette, alle 8 e mezza, ecc. Ogni 90 minuti, al
termine della produzione del sogno, siamo sull’orlo del risveglio,
spesso ne diventiamo consapevoli per poi riaddormentarci in un altro
ciclo di sonno .
3) Il progressivo espandersi della coscienza nel sonno conduce anche ad
un importante sviluppo del tipo di sogni: dai sogni di impotenza ai
sogni evoluti di sviluppo delle potenzialità. Vediamoli:
3.1.) I sogni di impotenza caratterizzano le prime fasi dell’esperienza
della coscienza latente del sognare. Sono sogni in cui si cerca di
scappare ma i piedi non si muovono da terra, si cerca di dare un pugno
ma le mani non hanno forza, si cerca di proteggersi ma le difese o i
nascondigli non reggono, ecc. Questi sono in genere i primi sogni,
tipici dell’infanzia, di cui si ha ricordo. Ove tali sogni non vengano
rielaborati (aggiustandoli al mattino o parlandone con altri) può
manifestarsi, anche per lungo tempo, l’incapacità di ricordare i sogni
al mattino.
3.2.) I sogni fobici. Il più comune è quello di cadere da grandi
altezze. Oppure di ritrovarsi nudi in mezzo alla gente. Sono sogni che
hanno a che fare con un senso di insufficienza del proprio io. Compaiono
nell’adolescenza ed a volte permangono per l’intera vita se non vengono
trattati modificando il finale. Spesso possono diventare animati anche
da presenze inquietanti, mostri o personaggi che inducono addirittura
terrore. Oppure oggetti insignificanti che si presentano però come
inspiegabilmente terrorizzanti. Una analisi del contenuto di tali sogni
può condurre anche a buone interpretazioni ma tali interpretazioni non
sono essenziali. E’ essenziale che compaia nel sogno qualche senso di
realtà. Il miglior suggerimento è quello di riuscire a visualizzare le
proprie mani nel sogno in modo da presentificarle nell’incubo e farlo
dissolvere
3.3.) Uno tra i primi sogni di potenza che compare nel vissuto onirico
sano delle persone è quello di volare. Si presenta come una capacità
appresa o attraverso una sorta di levitazione prodotta dallo schiacciare
l’aria sotto il proprio corpo o dal balzo coraggioso verso il cielo. In
genere le persone fanno ripetuta esperienza del volo nel sogno e la
coscienza si manifesta evoluta al punto che le persone che hanno
ripetutamente praticato tale sogno, rimangono deluse quando si rendono
conto, da sveglie, di non essere in grado di volare. Erano convinte di
averlo davvero appreso. Tale sogno mostra un buon processo di coscienza
mantenuto nello stato onirico che entra in contatto con la realtà
all’uscita dal sogno. E’ da notare che con i sogni di potenza il senso
del tempo nel sogno si stabilizza passando dalla fase in cui si
presentano confusi i diversi momenti del sogno a quello in cui è
possibile raccontare i sogni con evidente continuità e logica temporale.
3.4.) I sogni più evoluti e maturi sono quelli funzionali agli obiettivi
concreti della vita. Se il livello di coscienza mantiene una certa
densità nel corso del sogno è possibile utilizzarlo per sviluppare
capacità mentali e di apprendimento. Si può impadronirsi della capacità
di parlare in una lingua straniera sognando di farlo, si possono
apprendere tecniche sportive, abilità pratiche e fare esercizi mentali
in diverse discipline.
3.5.) Sognare le persone defunte rappresenta uno stadio evoluto del
sognare poiché presenta allucinazioni visive ed uditive estremamente
forti e vivide. Tali sogni corrispondono ad uno stadio di ottima
organizzazione dei propri immaginari che contrastano l’angoscia di
morte.
L’evoluzione naturale dell’IO sognante
L’evolvere dei sogni rappresenta una progressiva attivazione della
corteccia. Per Le Doux la corteccia non è attivata durante il sonno,
tranne che durante il sonno REM, quando è coinvolta nell’elaborazione di
eventi interni. Ciò significa che l’interprete – l’IO cosciente – è
attivato nel sogno ed è al servizio dell’IO sognante. La capacità di
ricordare i sogni al risveglio e riflettere sul loro contenuto è una
componente importante dell’autoconsapevolezza infatti è determinata dal
rapporto che l’Io cosciente ha con l’Io sognante e cioè quanto l’IO
sognante prende possesso nel sogno dell’IO cosciente. Proprio per questo
per Levin, Macquet, Panksepp la funzione del sonno REM ha un ruolo
importante nell’elaborazione della memoria procedurale - implicita e
nell’integrazione ed elaborazione dell’informazione emotivamente carica.
Il sonno REM, che è associato ad intensa attività dell’amigdala e della
corteccia cingolata anteriore, è carico di immagini, sensazioni, ricordi
fortemente emozionali.
Si apre allora una grande riflessione sul rapporto tra queste due forme
dell’IO, cosciente e sognante. Lo sviluppo della consapevolezza riguarda
ampiamente il loro rapporto che conduce la parte cosciente dell’IO ad
entrare sempre più in profondità ed al servizio dell’IO sognante. Al
contrario di quanto si afferma nel rapporto tra conscio ed inconscio,
con la necessità di far emergere il materiale psichico per portarlo alla
vista della coscienza, il processo è qui esattamente al contrario: è la
coscienza che entra nel sogno e si mette al suo servizio giacché la
realtà profonda della consapevolezza umana conduce alla scoperta
consapevole che nel sogno l’essere umano incontra la sua anima e ne
accerta l’immortalità, ovvero il suo possibile perdurare anche al di
fuori del supporto biofisico e bioenergetico del corpo.
La ricerca sull’Io sognante, sull’anima, è dunque un processo che si
sviluppa con naturalezza nel corso della vita umana quando, con l’età,
le persone iniziano a frequentare molto più assiduamente e
produttivamente i loro sogni.
La serenità con cui si affronta la ricerca interiore è l’unica garanzia
per se stessi e per gli altri di non cadere nella tentazione dell’uso
della consapevolezza spirituale per l’aumento delle personali capacità
di controllo sugli altri, per auto concentrazione supermassiva dell’Io,
per apparire ad altri come un miraggio al solo fine di accrescere il
proprio narcisismo o la propria dipendenza, ma anche per l’uso della
ricerca interiore come sottrazione di se stessi dagli impegni affettivi
o, al contrario, come schiacciamento militante della affettività in
funzione della disciplina necessaria per raggiungere gli obiettivi
spirituali, o come intimismo evitante.
In altre parole la consapevolezza spirituale che emerge dall’Io sognante
si contamina se l’Io cosciente non è giunto a individuarsi ed a
purificarsi dai suoi antichi copioni. L’emersione del copione rovina la
consapevolezza, nel senso che costringe a vedere la realtà sotto la
solita luce senza che l’io cosciente se ne accorga pienamente.
Quinta tesi: Illuminazione e comunione
“Non siamo abat-jour"… giacché la dimensione dell’illuminazione non è
stabile né conquistata una volta per tutte mediante la assoluta
trasformazione della persona in qualcosa di diverso.
L’aver vissuto intensità spirituali illuminanti è una grazia accessibile
a tutti coloro che abbiano percorso alcuni passaggi di: 1) presa di
coscienza corporea, 2) coscienza di essere, 3) coscienza dei propri
copioni 4) coscienza dell’esistenza altrui, 5) consapevolezza
“esistenziale e filosofica” 6) consapevolezza di essere persona, 7)
consapevolezza delle coincidenze significative.
La l’illuminazione è sempre uno stato transitorio che non si stabilizza
nel suo essere un’esperienza soggettiva ma richiede, per averne
certezza, una possibilità concreta di condivisione con altri. Questo il
significato relazionale del concetto di comunione nel cristianesimo.
La coscienza non può rimanere isolata poiché si attiva o con la semplice
curiosità o con consistente di meraviglia, può assumere forma di un
sentimento di rivalità o di avversione e di odio, o può assumere quella
forma di attrazione, di bisogno irresistibile di stare insieme
all'altro, che si sperimenta nell'amore.
La comunione è la dislocazione dell’illuminazione nel vissuto condiviso
e può venir anch’essa consapevolizzata attraverso la riflessività.
La riflessività non può essere chiusa nell'Io trascen¬dentale (come per
la fenomenologia di Husserl) e neanche nel pensiero riflessivo
(reflective thought) del professionista riflessivo. Un primo modo di
intendere la riflessività è quella di vederla come una abilità mentale
che tiene conto di sé e dell’altro (… delle voci di ciascuno…) e delle
relazioni; un secondo modo è pensare la riflessività e i suoi traguardi
di consapevolezza relazionale come una vera e propria forma di relazione
sociale.
Questa relazione di “comunione” è avvertita come desiderio ma giunge ad
essere espresso solo quando la coscienza abbia almeno percorso uno dei
citati passaggi.
Solo allora la coscienza sente distintamente il desiderio dell’ “amor
sublime”. Ovvero della potenzialità che la coscienza ha di percepire il
sublime ma massimo livello di pienezza e di piacere nel corso
dell’esistenza umana.
Anche del sublime si può avere consapevolezza riflessiva sempre che non
vengano perdute le occasioni per comunicarlo. Il processo che comunica
il sublime e il desiderio del sublime è la «razionalità riflessiva del
noi». Essa è il punto di arrivo nelle relazione interpersonale a partire
dalle forme di consapevolezza illuminante. Il loro catalogo, redatto
attraverso l’usuale codice delle predisposizioni tipologiche, è il
seguente:
Osservazione dei pensieri.
L’osservazione dei pensieri è il raggiungimento da parte della mente di
uno stato di consapevolezza senza pensieri. L’attenzione sulla
esperienza di illuminazione è quella forma di consapevolezza che
consente all’essere umano di “essere cosciente di essere cosciente”.
questa definizione riconduce in un linguaggio razionale uno stato di
grazia altrimenti non definibile.
Tale stato di consapevolezza è una modalità di esistenza ben lontana
dalla semplice attenzione percettiva o intuitiva, giacché il nostro
cervello può essere consapevole e disattento allo stesso tempo poiché la
nostra percezione attentiva è selettiva. Non siamo mai attenti a tutto
e, spesso, lo stato di consapevolezza implica una volontaria
disattenzione a molti segnali per lasciar fluire l’attività mentale
interiore. L’”osservazione dei pensieri” richiede un alto livello di
controllo nei confronti dei pensieri parassiti.
Esperienza tipo: “Ero in treno da molte ore ed osservavo distrattamente
il mare e il cielo mentre vedevo emergere dentro di me la forma dei miei
pensieri, i miei problemi, le mie scelte di vita. Non mi davano
inquietudine perché le lasciavo andare e vedevo tutte le cose che si
rimettevano a posto. All’esterno comparivano tratti di mare e di cielo
alternati dal buio delle gallerie che mi davano una piacevole vertigine
e mi sentivo viva al cento per cento”
Riflessione Focalizzata - riconfigurazione:
Nella riflessione è presente una proiezione che lascia ampio spazio al
dialogo interiore tra le diverse voci che popolano la mente umana. Lo
stato della coscienza meditativo si ottiene indirizzando
intenzionalmente l’attenzione verso un oggetto che può essere qualsiasi
cosa: un oggetto fisico, un’emozione, una immagine, la luce di una
candela, un testo sacro, un ricordo, un ragionamento soffermandosi su
una parola, un vissuto o un concetto "ruminandolo" interiormente.
Esperienza tipo: “Mi sono ritrovato a pensare ad un ricordo quando,
molti anni fa, ho reagito istintivamente ad un insulto di una persona
incontrata ad una festa colpendolo con un pugno in faccia. Riesaminando
l’episodio mi sono sentito in colpa per il male fatto ed a riflettere
sul fatto “se fossi stato io quella persona”, mi sono messo nei sui suoi
panni e poi di nuovo nei miei. Col passare del tempo ho cominciato ad
avvertire una comunanza tra me e quell’uomo, tra me e gli altri, come se
d’improvviso gli altri diventassero un altro me, diversi da un lato ma
dall’altro simili a me. Mi sono sentito in pace con me stesso e con gli
altri, sentivo di poterli reggere, sentivo rallentare il dramma, la
spaccatura dentro di me”.
La sublimazione - connessione:
Sublimazione è il processo di trasformazione dallo stato solido a quello
gassoso senza passare attraverso lo stadio liquido e la sua applicazione
analogica in psicologia merita di essere approfondita. La sublimazione
può essere un processo conscio e non un semplice spostamento da una
pulsione inconscia repressa verso un’altra attività. Chi agisce un
processo di sublimazione sa di compierlo con consapevolezza e ne ha
osservato le caratteristiche e gli effetti dentro di sé. Tale stato
conduce all’esperienza di estensione verso la realtà circostante in cui
ci troviamo. Fino ad essere un tutt’uno con essa.
Esperienza tipo: “Avevo 14 anni, ed ero andata a vivere una esperienza
di un mese nella città di Parigi. Visitavo la città percorrendola in
lungo e in largo ed un giorno mi sentii di essere diventata io Parigi.
In parte la città mi aveva assorbito, in parte ero in assoluta
connessione con essa e con il suo sapore, il suo stile, il suo
funzionamento”.
Contemplazione affettiva – estensione
Il potenziamento del desiderio senza realizzazione della passione è la
via più elevata per raggiungere la trasformazione della libido in
affettività.
Il sistema visivo è quello più affine alla contemplazione poiché è ad
esso che i simboli meglio si agganciano. Per sistema visivo non si
intende però la sola percezione visiva della realtà ma il potenziamento
delle capacità di rappresentazione mentale fino a vere e proprie
allucinazioni visive deliberata e controllata che conducono alla
contemplazione dell’oggetto d’amore in uno stato ben descritto dai
mistici.
Esperienza tipo: “Stavo nuotando con difficoltà perché la mareggiata mi
buttava sott’acqua e non riuscivo più a risalire. Ricordo che vedevo la
luce sopra di me mentre lentamente andavo a fondo in uno stato tra la
vita e la morte. Ho avvertito una strana sensazione: io ero il mare, ero
un pesce che contemplava ed amava il mondo sottomarino. Desideravo
vivere ma stavo in estasi fino a che mi sono sentita di essere il vento,
l’aria. Contemplavo il cielo, cavalcavo il vento e mi sono ritrovata a
riva”.
Distanziamento dal sé- Estraniazione - Lavaggio mentale
Con il termine lavaggio mentale si vuole qui indicare l’emersione dei
pensieri negativi ossia parassiti, presenti dentro di noi e
l’attivazione della completa pulizia
Si può indicare questo modello come il più semplice e il più diffuso
nelle diverse culture spirituali. Si realizza nella recitazione di
frasi, mantra, preghiere ripetute, rosario… o di particolari concetti,
sui quali l’individuo si concentra individuandone il significato o
prestando semplicemente attenzione al loro suono. Può anche
semplicemente avvenire nel corso di un viaggio o in un luogo che si
presenta come un varco spazio-temporale in cui si è felicemente
costretti ad una attesa che ci allontana dal dover agire.
Esperienza tipo: “Stavo vivendo un momento molto difficile della mia
vita per il fallimento del mio matrimonio. Di ritorno da un viaggio di
lavoro l’aereo ha fatto scalo a Berlino ed era annullata la coincidenza
con Roma. Ero in una situazione senza tempo e distante nello spazio dai
miei problemi. Ho sentito in quel momento che avrei potuto essere libero
di fermarmi lì. Di non tornare a casa, di intraprendere qualunque altro
tipo di vita”.
La trance meditativa – il distanziamento
Per fortuna l‘essere umano riesce a meditare anche senza l‘esplicito
aiuto di una scuola o di un maestro che, a volte, lo conduce dove non
vuole o dove non può andare. Il rischio insito in molte pratiche di
meditazione è quello di considerarsi assolute ed esclusive senza
considerare le caratteristiche psicologiche del soggetto a cui si
rivolge tale pratica. Può infatti accadere che meditazioni centrate su
processi ripetiti sortiscano l’effetto di rinforzare ossessioni o, al
contrario, processi di distanziamento dal sé conducano ad una
rarefazione della coscienza.
Lo stato di trance meditativa serve ad aprire il contatto con i
contenuti della mente affettiva ed emotiva, per convenzione con
l’emisfero destro (il contrario nei mancini), ed analizzarne il
contenuto purificandolo progressivamente dai copioni e dagli archetipi.
Esperienza tipo: “Nel dicembre 1989 crollò il regime di Ceauşescu e
ricordo mio padre che guardava la televisione piangendo. Io uscii per
strada in mezzo alle manifestazioni tra gente con bandiere che esultava.
Mi sentii come in una bolla senza aver voglia di andar dietro a tutta
quella gente che sentivo lontana e estranea. Ero in una condizione di
trance, senza né gioia, né dolore. Ho avvertito per la prima volta nella
mia vita di poter voler bene a me stessa, indipendentemente da tutto.
Ero lì, in mezzo a tutta quella gente e semplicemente mi volevo bene “.
Accettazione della passione.
Le tecniche di accettazione della passione sono esplicitamente dinamiche
e consistono in svariate forme di training e di gestione del proprio
corpo e delle proprie personali sensazioni corporee. Dall’ascolto del
peso di un braccio, della propria posizione posturale, del proprio
respiro, ecc.
In tali stati di rilassamento è possibile essere disponibili ad
accettare la passione, la sofferenza e l’energia interiore poiché si ha
la consapevolezza di poterla spegnere o orientare. In tali tecniche
meditative si attua la riduzione della sofferenza. La consapevolezza del
proprio corpo, specie se sofferente, può diventare, contrariamente a
quanto comunemente si pensa, una potente forma di autoanestesia dal
dolore.
Esperienza tipo: “Ero ad un campo scuola per giovani adolescenti. In
quel momento della mia vita mi sentivo l’ultimo essere del mondo.
Stavamo facendo una faticosa salita in montagna ed ero certo che non ce
l’avrei fatta. Allora mi sono affidato alle mie gambe che mi hanno
portato in vetta dove ho percepito un brivido e mi sono sentito alla
presenza di Dio”.
Estasi e desiderio del sublime
Il raggiungimento di questi traguardi di consapevolezza è, in qualche
modo, la premessa per la condivisione in comunione con altri della
consapevolezza medesima. A livello spirituale, ovvero nel rapporto con
chi trascende il sé umano, tale forma di consapevolezza è l'estasi (dal
greco ἐξ στάσις, ex-stasis, essere fuori) ovvero quella forma di
elevazione mistica della mente, estraniata dal corpo, descritta in modo
straordinariamente simile in tutte le culture. Il supporto neuronale è
molto probabilmente ancora l’emisfero destro (e il sinistro per i
mancini?) ma la sua collocazione oggettivata nel mondo delle relazioni è
più misteriosa.
Ai livelli più primitivi l’estasi si confonde con la trance e con
l’ipnosi (come nei riti esoterici) e con la divinazione profetica
(l’estasi degli oracoli).
Nello sviluppo della consapevolezza umana diventerà illuminazione e
saggezza suprema e perfetta nell'induismo, stato di grazia nel
cattolicesimo, devozione ed obbedienza alla volontà di Dio nel sufismo
islamico, dono da parte di Dio e possibilità naturale dell'anima nel
cristianesimo, pieno sviluppo delle potenzialità e delle qualità
naturali nel taoismo e nel buddismo, contemplazione funzionale alla
comunione d’amore con Dio nei mistici postmoderni.
La strada da percorrere per la descrizione e la definizione della
consapevolezza relazione del sublime passa attraverso la scienza e
fondandosi su una delle dichiarazioni più esplicite di Gesù Cristo
contenuta in Matteo 10,26 …”non v'è nulla di nascosto che non debba
essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. 27Quello
che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate
all'orecchio predicatelo sui tetti. 28E non abbiate paura di quelli che
uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete
piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo
nella Geenna. 29Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure
neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia”.
Non c’è Mistero, non c’è peccato originale, non c’è colpa, tutti questi
termini non compaiono nemmeno una volta nei testi dei Vangeli che,
giustamente, San Francesco invitava a leggere “sine glossa”.
Ma il manifesto scientifico di Gesù di Nazareth, il Cristo, prosegue con
ulteriore determinazione: 30Quanto a voi, perfino i capelli del vostro
capo sono tutti contati; 31non abbiate dunque timore: voi valete più di
molti passeri!”.
Quale maggior precisione sulla immortalità dell’anima, ovvero sul
permanere dell’identità dopo la vita biologica.
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