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  RIFLESSIVITA’ RELAZIONALE E CONSAPEVOLEZZA scarica pdf

Vincenzo Masini

Premessa

Prevenire è Possibile nasce negli anni ’80 come un progetto di ricerca e di lavoro sulle emozioni al fine di consentirne la gestione equilibrata e la loro trasformazione in sentimenti. Il progetto di prevenzione è, alla sua origine, di natura pedagogica ma lentamente evolve nella comprensione del disagio come esito di relazioni critiche che producono copioni di comportamento su cui l’individuo si è fissato.
Contrariamente alle letture psicologiche delle dipendenze da altri, da sostanze, da abitudini, dal sesso, dal gioco, ecc. la teoria e la pratica di prevenzione di Prepos si incentra sui processi sociali e relazionali dopo aver valutato che la crisi della pedagogia non può essere semplicemente descritta come “inefficace trasferimento di valori e comportamenti da una generazione all’altra”.
I valori non si trasferiscono perché non sono sostenuti da un sistema emotivo-sentimentale in grado di farli assaporare e, in luogo dei valori, il disagio sociale trasferisce le emozioni nelle sostanze chimiche, legali o illegali, in grado di generarle.
La dipendenza dalle sostanze si afferma in quegli anni come una conseguenza dello scarso peso attribuito al vissuto emozionale dei giovani ma anche come un rimedio farmacologico per persone non più in grado di modificare da sole il loro vissuto interiore. Il disagio mentale diventa malattia biomedica sullo sfondo di un sistema liberista in economia ma non liberante nelle relazioni quotidiane e laburista nel controllo sociale ma non nella distribuzione di risorse.
In altre parole buonismo, metadone e psicofarmaci sul fronte LIB e precarietà, individualismo e immagine sul fronte LAB.
Se nel contesto del movimento di volontariato degli anni ’80 era ancora possibile pensare e proporre una riforma delle strutture istituzionali e famigliari riorientandole verso una più adeguata e moderna produzione di senso, la crisi degli anni ’90 dimostra come sia impossibile esercitare un atteggiamento preventivo senza una adeguata formazione alla relazionalità degli operatori che svolgono tale intervento.
In pratica molti educatori, pedagogisti, psicologi e sociologi che seguono la stagione dei gruppi di incontro (veri e propri laboratori di prevenzione) appaiono impreparati nel comprendere la duttilità necessaria ad intervenire nelle diverse personalità collettive di gruppo. La ricerca commissionata dal LABOS in quegli anni mostra come nelle comunità di recupero, ad esempio, non ci sia piena comprensione della modulazione dell’intervento, ma che avvenga un po’ per caso modulandosi talvolta come intervento educativo, talaltra centrato sul lavoro e talaltra ancora esplicitamente terapeutico.
In quegli anni fa la comparsa in Italia la cultura del counseling, non solo attraverso la traduzione dei testi di Rogers o di Truax Carkuff ma soprattutto di Gerard Gladstein con il volume “Empathy and Counseling” (Springer_Verlag, N.Y., 1977) che discute delle capacità di empatia nei counselor in USA.
Alla fine degli anni 90 Prepos diventa espressamente relazionale, in parte connettendosi alla sociologia relazionale, in parte articolando in tipologie relazionali la proposta di Rogers di una Terapia Centrata sul Cliente. Come è possibile centrare su un cliente se non si ha uno schema tipologico di massima attraverso cui interpretare i vissuti?
Nascono così i 7 idealtipi di Prepos sulla scorta di un pensiero educativo antico (da Aristotele a Dante Alighieri, da Sartre a Ekman e Frisien) e il pensiero connessionista che legge la agency dei tipi nelle relazioni con gli altri, la disposizione ai valori nella connessione con il mondo e il copione strutturato nel rapporto con se stesso.
Progressivamente Prepos si orienta verso la razionalità relazionale riflessiva poiché l’utilizzo delle tematiche emozionali si è, nel frattempo, inflazionato e contaminato sia a seguito di alcune teorizzazioni sulle intelligenze emozionali (ad esempio Daniel Coleman) sia per lo sviluppo di pratiche volte al “benessere” inteso come miglioramento della sola immagine di sé.
“Dalle emozioni ai sentimenti”, testo guida del counseling relazionale, aveva già puntualizzato la necessità di orientare i clienti che si rivolgono al counselor verso la costruzione di una riflessività relazionale che, come spiega Pierpaolo Donati (pag 248) è una razionalità del “noi” e non solo individuale.
Nella condivisione delle emozioni vissute esse diventano sentimenti attraverso il valore (i valori) che acquistano e costruiscono percorsi di miglioramento mediante una pedagogia innovativa del tutto in sintonia con la Pedagogia del Terzo Millennio elaborata da Patrizio Paoletti.
Cito dal testo di Donati: “Dal punto di vista relazionale, il «professionista rifles¬sivo» (relazionale) è un «counselor relazionale» che aiuta le persone, le famiglie, i gruppi sociali a superare il disagio attraverso la metodologia dei sistemi di osservazione ¬diagnosi guida relazionale. Il counseling è una relazione di aiuto che muove dall'analisi dei problemi del cliente, si propone di costruire una nuova visione di tali problemi e di attuare un piano di azione per realizzare le finalità po¬sitive desiderate dal cliente: prendere decisioni, migliorare le relazioni, sviluppare la consapevolezza, gestire emozioni e sentimenti, superare conflitti [Masini 2009].
E impor¬tante sottolineare che le emozioni sono transitorie e possono evolvere in varie direzioni. Possono entrare nel caos (il normale caos delle emozioni), oppure si stabilizzano, il che può avvenire in due modi: attraverso la ripetizione di un modello emotivo già fissato oppure trasformandosi in sentimenti. Il passaggio da emozioni a sentimenti in Ego ha un carattere relazionale, deve essere attuato in uno spazio relazionale, perché i sentimenti nascono quando le emozioni sono condivise da Alter e acquistano valore sia per Ego sia per Alter. Così come le sensazioni corporee si trasformano in emozioni attraverso i mediatori sinap¬tici, le emozioni diventano sentimenti attraverso i valori.
La radice culturale della morale è individuata nell'attribuzione di rilevanza al fulcro ideale su cui si incentrano le diverse scale di valori. Ogni valore vive sul sentimento di valore che io sorregge e che diventa cultura nei raggruppamenti sociali che lo vivono. La cultura e il clima sociale di un gruppo possono essere studiati analizzando la sua personalità collettiva. Il counselor - osserva Masini [ibidem] - opera mediante relazioni di affinità socio- solidale con il cliente; egli diventa la persona di cui il cliente ha bisogno al fine di sviluppare quelle dimensioni dell'umano ancora ignote o critiche per il cliente. Il pro¬fessionista riflessivo relazionale è colui che affronta i pro¬b1emremotivi con questa chiave relazionale approccio sociologico relazionale ha da dire qual- cosa sia agli approcci psicologici sia a quelli pedago¬gici. Sul piano sociologico, non solo occorre - realistica¬mente - tenere conto del contesto sociale situato e delle effettive relazioni sociali, ma si deve anche ragionare in rapporto a un'ontologia sociale relazionale”.
Questa prospettiva va anche ben oltre il counseling; serve a orientarci verso la mutazione relazionale dell’umanità. Sempre che avvenga ed abbia un buon esito, riesca cioè a fronteggiare le perversioni della relazionalità virtuale e della immagine precostruita.

Con il termine immagine precostruita descrivo quella realizzazione di sé intesa con l’immagine della “psicologa cognitiva con tacchi da 16 che lavora al palazzo di vetro dell’ONU”. Tale immagine è un esempio ostensivo del sé che fuoriesce dagli schermi ed entra nella realtà della vita quotidiana, rappresentandosi come la normalità a cui adeguarsi. Doverosamente poiché nulla che sia meno di quell’immagine può avere valore per una rappresentazione davvero meritoria. Gioca un grande ruolo in questo processo proiettivo (le cui diseconomia vedremo più avanti) anche uno sbagliato modo di intendere l’eccellenza.
Eccellenza è un titolo onorifico riservato ad alte personalità che ricoprono ruoli ufficiali nell'amministrazione dello Stato, quali il Presidente della Repubblica, i componenti del Consiglio dei Ministri, gli Ambasciatori, i Presidenti dei Tribunali, i Prefetti ed i Vescovi. Veniva usato per rivolgersi ai nobili di alto rango, solitamente Duchi e Principi non di famiglia reale.
L’intendere con percorsi di eccellenza il raggiungimento di risultati eccezionali e mirabili, allontana dal senso di realtà le persone e le propone nell’olimpo dei meritori di ogni esaltante successo. La tensione a dare il “meglio di sé” è un processo anche affettivo solo se è sempre libero dalla necessità del risultato. Il successo eccellente è la superbia dell’umano con cui vengono mascherate manchevolezze, distrazioni, opportunismi e inefficienze.
Liberarsi dall’immagine precostituita è ricerca di autentica semplicità nella consapevolezza di essere eccellentemente sfigati, ovvero partecipi delle propria pienezza esistenziale.
Con il termine relazionalità virtuale intendo quel tipo di relazioni che non oltrepassano lo stadio formale e che possono attuarsi ovunque e qualunquisticamente con chiunque senza bisogno che l’altro sia davvero un essere umano. Il che può avvenire sia quando capita di litigare con la voce di “Chiara” nel navigatore satellitare, sia quando sono messo in attesa in un qualunque call centre, sia quando la voce suadente di un infermiere insiste ripetendomi informazioni già date senza essere disponibile a capire davvero la mia domanda, o quando il centralinista trasferisce la chiamata ad un ufficio reclami che, naturalmente, non risponde, sia quando alcune maestre giungono a scrivere in un verbale “In classe i bambini richiedono in modo eccessivo ed insistente chiarimenti e conferme alla maestra. E’ bene fare capire ai figli che la maestra è disponibile a prestare a tutti la dovuta attenzione, ma proprio perché si deve rivolgere a tutti è necessario che ciascuno sappia aspettare con calma e serenità”…
Forse non è del tutto possibile chiarire dove conduca la anomia della virtualità poiché essa ha la capacità di generare paradossi molto articolati da cui non è facile districarsi. In tali paradossi l’umano si perde per 1) processi proiettivi di attesa (in qualche modo si aspetta di trovare il significato che gli era sembrato che ci fosse… il senso, il sapore relazionale che presumeva di incontrare… le aspettative che si era fatto… le illusioni fabbricate per consolarsi…); 2) fughe mediante negazione della realtà vissuta o pensata (non è vero che questo ti è successo, non è vero quello che tu mi dici o quello che mi sono detto… non è vero quello che ho vissuto… non è vero che io sognavo che… non ti ho detto quello che ti ho scritto…); 3) scissioni da se mediante contorcimenti di pensieri (non avevo capito che non avevamo capito… forse ti sembrava che io stessi per dirti che non avevo capito… mi hai fatto distrarre e non abbiamo dato lo stesso peso alle cose che ci siamo scritti… sei tu che non hai saputo interpretare che ti stavo dicendo quelle cose per scherzo…).
Compito del counselor riflessivo è portare alla luce la natura degli equivoci e dissiparli prima che l’immagine e la virtualità pregiudichino la mutazione evolutiva della relazionalità umana. Questa riflessione critica si sviluppa in un alto numero di ambiti che corrispondono alle 5 testi sulla consapevolezza che più avanti saranno presentate.
Il nucleo teorico a cui questi due concetti è quello della personologia poiché immagine precostruita e relazionalità virtuale sono oggi i due principali ostacoli alla costruzione della persona umana.

Il concetto di umano precede il concetto di persona, così come il concetto di umanità precede il concetto di personalità. L’essere umano diventa persona nella relazione con l’altro e sviluppa la sua identità biologica attraverso le occasioni a lui proposte dagli incontri con le persone essenziali nel corso della sua vita. La sua identità emerge dalla sua natura umana e prende forma nella sua costruzione della sua personalità. L’identità biologica precede la coscienza e la coscienza precede la personalità. La consapevolezza è coscienza di essere coscienti e il suo principale oggetto di investigazione è dato dalla discriminazione tra ciò che è umano e ciò che umano non è.
L’approccio del counseling all’umano precede concettualmente l’approccio psicologico e si configura come processo di relazione con l’umano presente nelle soggettività che il counselor incontra. L’attività del counselor è quella di una educazione, o rieducazione, all’umanità nel rapporto che il cliente ha con se stesso, con gli altri e con il counselor stesso; il counselor è lo strumento umano per favorire lo sviluppo dell’umanità del cliente.
Counseling e psicologia sono dunque marcatamente differenti; il primo è una metodologia di lavoro relazionale, la seconda è una disciplina teorico-pratica. Anche il loro oggetto differisce: l’”umano” infatti si elicita nelle relazioni ed afferisce come oggetto più alle scienze sociologiche o antropologiche che a quelle psicologiche. Inoltre il metodo e le tecniche del counseling non si rivolgono al mondo intrapsichico ma a quello relazionale, con privilegio dell’empatia affettiva rispetto a quella cognitiva e con marcata attenzione alle strutture archetipiche dell’umano sia nella coscienza collettiva che nell’inconscio collettivo.

La scienza che si orienta allo studio analitico dell’umano in relazione con l’umano e della sua riflessività consapevole che lo conduce ad individuarsi in “persona” è la personologia. Il termine personologia viene comunemente attribuito allo psicologo Henry Murray che lo utilizzò nel 1938 per definire una branca della psicologia che si occupa dello studio della personalità. Il termine ha origini diverse e si trova in quelle parti del pensiero filosofico che si possono riassumere come “filosofia della persona”.
La personologia si può intendere, in senso rigoroso, come la dottrina che accentra nel concetto di persona il significato della realtà. E’ personologia ogni scienza che rivendica la dignità ontologica, gnoseologica, morale, sociale, spirituale e relazionale della persona, contro le negazioni materialistiche e contro anche la sua antitesi intellettualistica, ovvero la disposizione del pensiero a ipostatizzare se stesso come un assoluto, privo della persona che pensa tale pensiero.
Pertanto sono le persone “umane” o “spirituali” che pensano il pensiero, giacché ove la dimensione spirituale sia superiore, e più estesa, di quella umana essa deve essere come minimo “persona” o possedere una estensione più ampia della “persona”.
Un importante contributo al concetto di personologia proviene dalla Scuola di Francoforte. Adorno e Horkheimer muovono da questo concetto per l’analisi della svalorizzazione e spersonalizzazione individuale prodotta dalla “industria culturale" che ha prodotto l'uomo come essere generico, privo di coscienza individuale, di iniziativa morale autonoma e manipolato a piacere.
La personologia francofortese rimette al centro un uomo altrimenti spazzato via come coscienza di sé che non scende mai nel profondo per trovare la propria umanità e l’autorealizzazione come persona autonoma.
Recentemente Axel Honneth, sociologo della scuola di Francoforte, pone l’accento sul concetto di "riconoscimento" per discutere del disagio prodotto dal mancato riconoscimento di rivendicazioni identitarie personologiche e non solo da rivendicazioni razionali – utilitaristiche.
Ma prima ancora di giungere, lungo la via della sociologia critica, ad un ripescaggio del personalismo vale la pena di tornare alla formula di Rosmini ed alla sua significatività: "Ciò che è, ma non è persona, non può stare senza che ci sia una persona".
Ovvero l’identità di ciò che esiste, dotato di intenzionalità e di coscienza, non può non essere una “Persona”. Ciò conduce ad una visione dell’Assoluto (di Dio, del Senso, del Costruttore dell’universo, in qualunque dei suoi 99 nomi…), che, se è entità superiore all’uomo, deve essere come minimo Persona giacché l’uomo è persona e Dio non può essere da meno dell’uomo. Questa è una radicale critica di tutte le visioni riduttive nella spiritualità che tentano di condurre la filosofia della trascendenza verso visioni del Senso (di Dio, dell’Assoluto,…) come se fosse un meccanismo astratto con regole attribuite a Lui dall’uomo stesso.
Anche la definizione fenomenologica proposta da Edith Stein di “persona” è estremamente utile: "Persona è un soggetto di una vita egologica attuale, che ha un corpo e un'anima ... dotata di un carattere e che sviluppa le sue qualità sotto l'effetto di circostanze esterne ed in tale sviluppo dispiega un'inclinazione originaria". Lo sviluppo della persona è un processo di autoconoscenza di sé e di conoscenza della persona estranea ai fini della conoscenza di sé. L’ontologia dell’Esistenza è dunque subordinata a quella dell’Essere. Esistenza deriva da ex-sistere, cioè "ciò che viene da..." e "che trova il suo fondamento su...". L’Essere Umano esiste in funzione del percorso coscienziale che attua nel diventare persona.
Da ciò si può argomentare che il concetto di umano precede il concetto di persona, così come il concetto di umanità precede il concetto di personalità. L’essere umano diventa persona nel suo sviluppo e non a tutti gli esseri umani è dato, per motivi genetici, economici, relazionali, socili e politici di poter sviluppare a pieno la loro struttura personologica. L’identità biologica precede infatti la coscienza e la coscienza precede la personalità. La scienza personologica tende a rintracciare ogni germe di “persona” nella creaturalità che incontro al fine di identificarla e dare ad essa dignità. La dimensione persona logica della creaturalità è quella che descrive un essere intenzionale e cosciente che può decidere tutto tranne il suo inizio e la sua fine. Questo è l’uomo in una ottica ben diversa da quella della psicologia.
La psicologia infatti studia il comportamento degli individui e i loro processi mentali. Tale studio riguarda le dinamiche interne dell'individuo, i rapporti che intercorrono tra quest'ultimo e l'ambiente, il comportamento umano ed i processi mentali che intercorrono tra gli stimoli sensoriali e le relative risposte.
Pur derivando dal greco psyché la psicologia non è studio dello spirito o dell'anima ma, adeguandosi a nuove prospettive, è divenuto lo studio della mente. Infatti esiste la psicologia umana e la psicologia animale, ovvero la psicologia delle diverse forme di mente.
Le applicazioni della personologia toccano i campi:
1) etico: dove persona, razionalità e libertà si convertono l'uno nell'altro con il duplice imperativo "agire secondo coscienza e formarsi una coscienza".
2) estetico: dove l'universale poetico è visto, non come conformazione dell'opera alla cosiddetta "bellezza ideale", o a un tipo intellettivo di bellezza, ma come conformazione dell'opera alla singolarità espressiva, col conseguente carattere dell'unicità, dell'originalità, della novità del prodotto artistico come manifestazione di un'intimità nel suo profondo sentire. Così l'opera bella, per la sua singolarità espressiva,partecipa della stessa singolarità della persona e diventa un imperturbabile termine di valore senza prezzo.
3) sociale: il rapporto sociale, che è endogeno nella persona, dal punto di vista della personologia non si configura mai nel senso che sia la persona funzione dell'ordine consociato, ma nel senso che è l'ordine consociato funzione della persona. La società si finalizza nella persona e non viceversa.
4) educativo: il valore educativo è nella persona per lo sviluppo di quell' "essere proprio del singolo", fonte della dignità e della responsabilità morale.
5) relazionale: giacché la personologia non mira a costruire in astratto la personalità “normale” ma tende a prevenire le coincidenze negative che la possono distorcere e sviare dal suo sviluppo, a sostenere le sue difficoltà ed a mettersi al servizio dello sviluppo della sua consapevolezza.

La scienza della personologia si propone come fondamento del counseling relazionale e si apre alla trilogia tematica che ha visto trattato ampiamente, nello scorso 2011 il tema della PREVENZIONE, che prosegue con il tema della CONSAPEVOLEZZA e si concluderà con quello della AFFETTIVITA'.
PREVENZIONE, CONSAPEVOLEZZA ED AFFETTIVITA' sono infatti gli ambiti specifici del counseling relazionale personologico che riguardano la crescita della riflessività relazionale umana.







Prima tesi: Confucio e Lao Tse, Guelfi e Ghibellini, Stato e Mercato, LIB-LAB

“Dimmi," disse Lao-Tzu, "in che consistono la carità e il dovere verso i nostri simili?"
"Consistono," rispose Confucio, "nella capacità di rallegrarsi di ogni cosa; nell'amore universale, senza l'elemento dell'io. Queste sono le carat¬teristiche della carità e dei doveri verso il prossimo."
"Che sciocchezza!" gridò Lao-tzu. "L'amore universale non contrad¬dice se stesso? La tua eliminazione dell'io non è una manifestazione positiva dell'io? Signore, se vuoi che l'impero non perda la sua fonte di nutrimento, considera l'universo, la sua regolarità infinita. Esistono il sole e la luna, …vi sono gli astri, le costellazioni che mai mutano, …vi sono gli uccelli e gli animali,…; vi sono alberi e arbusti, …. Sii come questi; segui il Tao e sarai perfetto. Perché dun¬que questa vana lotta per la carità e il dovere verso il proprio simile, che non differisce dal battere il tamburo alla caccia di un fuggitivo? Ahimè! Signore, tu hai arrecato molta confusione nella mente dell'uomo." (H.A.Giles, Chuang-tsu, Kelly & Walsh, Shanghai,1926, pag 242)"
Questo dialogo immaginario, composto da Chuang-Tsu (Zhuāngzí nacque nel 369 a.C. e morì nel 286 a.C.), mostra la perenne contrapposizione tra due tradizioni filosofiche che, nell’antica Cina, si incarnavano del Taoismo e nel Confucianesimo. Il Taoismo si interessa alla via della conoscenza non convenzionale, anzi si rivolta in modo delirante e paradossale contro la convenzione, il Confucianesimo si preoccupa invece delle convenzioni educative, etiche, giuridiche e rituali. Sia Lao Tse che Confucio vivono intorno al 470 a.C. ma i loro modelli di pensiero vengono fatti risalire al 1500 a.C. ed al llibro delle mutazioni I Ching, quasi in contemporaneità con i Veda, i testi sacri dell’Induismo e con la Genesi nella Bibbia.
La contrapposizione tra due modelli di pensiero ha una corrispondenza con la nascita della riflessività che concerne tutti e due i paradigmi:
- il Confucianesimo cerca una gerarchia naturale nelle cose e costruisce una cosmogonia sacra in cui tutti gli aspetti della vita sono correlati e che, anzi, è il fondamento per l’organizzazione burocratica delle cose che l’uomo fa nel mondo,
- il Taoismo critica la virtù convenzionale morale ma anche artistica e professionale nella convinzione che le facoltà mentali si atrofizzino ove il pensiero diventi troppo comodo e troppo poco consapevole al punto che ogni risveglio possa anche diventare un blocco. Il millepiedi era felice, tranquillo, finché un rospo non disse per scherzo: “In che ordine procedono le tue zampe?" Questo arrovellò a tal punto la sua mente, che il millepiedi giacque perplesso in un fossato riflettendo su come muoversi.
Ma vediamo bene la relazione tra consapevolezza convergente e consapevolezza divergente. Nel pensiero orientale, di natura preciso e logico, sono presenti momenti anche molto alti di pensiero divergente come nella successiva storia. “Un sovrano, scrive Chuang-Tsu, aveva commissionato all'intagliatore Qing un piano in legno per campane entro quindici giorni. I primi giorni Qing sembrava essersi dimenticato del tutto del compito e dedicarsi ad altre cose, digiunare e non preoccuparsi del tempo che passa. Durante una passeggiata però ecco l'illuminazione: alla vista di un albero particolare Qing esclama di aver trovato il legno esatto e, tornato nella sua bottega, conclude il suo compito in poco tempo. Il sovrano rimase esterrefatto dalla bellezza del supporto”.
Oltre ad essere una ottima giustificazione per i nostri studenti che rimandano e procrastinano lo studio questa storia esemplifica i concetti di oblio e di intuizione. Qing è riuscito nel suo lavoro perché la sua mente ha dimenticato il lavoro stesso. L'oblio permette di imparare, perché se uno pensa troppo alle regole o al risultato finale, non riesce nel suo intento. Le regole comunque non si dimenticano, sono in un "serbatoio" a cui possiamo sempre attingere, uno spirito che si risveglia nel momento propizio. Esso è lo shen che è un inconscio collettivo che memorizza tutto anche se non ce ne accorgiamo.
Il rapporto tra archetipi e sviluppo della coscienza divergente, che determina la contraddizione tra Taismo e Confucianesimo, è ben spiegata da Jaynes, nel suo libro dal titolo “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”. Jaynes ipotizza che “sia esistita una razza di uomini che parlavano, giudicavano, ragionavano, risolvevano problemi, che facevano in definitiva quasi tutto quello che facciamo noi, ma che non erano coscienti” (J. Jaynes, Il Crollo della Mente Bicamerale e l’Origine della Coscienza, pag.69).
La nascita della coscienza in senso moderno è per Jaynes molto recente tanto che nella sua analisi vede assenza di introspezione e comportamenti da “voci interne” fino a circa tremila anni or sono. Tali voci sono strutture archetipiche che si sono formate nella mente umana in una fase evolutiva priva di soggettività: una mente che non era cosciente d’essere cosciente e priva di introspezione.
Jaynes chiama questa forma mentale, mente bicamerale. L’ipotesi è che la mente fosse scissa in due parti: una parte chiamata “dio” e una parte “uomo”. Nessuna della due parti era cosciente. La coscienza deriva dalla connessione relazionale tra queste due parti. Priva di coscienza, la parte del cervello chiamata “dio” è dentro l’accadere del mondo e ne osserva le regole per adeguarsi ad esse. In quella parte della mente si ascoltano le voci interne, del tutto simili alle allucinazioni uditive dell’uomo moderno causate dell’accumulo nel sangue di sostanze di decomposizione dell’adrenalina, a seguito di stress. I comportamenti, le decisioni, le iniziative, erano invece prodotte dalla parte del cervello chiamata “uomo”. In quella parte c’è l’uomo che agisce e investiga sulle regole ritenendo tutte le possibili risposte non convincenti. Il suo sforzo intellettivo non giunge alle spiegazioni ultime ma cerca di contestare quelle parziali e banali. E’ la coscienza che non si accontenta nemmeno di pensarsi doppia, nemmeno del maschile e del femninile o dello Ying e dello Yang. Tutte le dicotomie sono illusioni sostengono proprio i seguaci del tao.
Il superamento della dicotomia è lontano, prima la dicotomia deve diventare società “bicamerale” con sterzature concettuali plurime che si riassumono, vichianamente, nelle contese tra conservatori guelfi e dinamici ghibellini. Tra pensiero simbolico ed attivazione ad un livello di complessità ancora più alto.
I Guelfi e i Ghibellini erano le due fazioni opposte nella politica italiana dal XII secolo fino alla nascita delle signorie dal XIV secolo in poi. Nella lotta per le investiture, i guelfi sostenevano il papato ed il loro nome é la versione italianizzata di Welfen, la famiglia Sveva opposta ai Weiblingen, cioè quella dei ghibellini che si schieravano per l'imperatore. Queste due fazioni hanno rappresentato la dicotomia della lotta politica tra impero e papato presente nei conflitti di potere dei nascenti comuni. Nei due partiti c’è una opposta filosofia di vita ed un opposto modello di pensiero: da un lato l’affidarsi alla tradizione della chiesa cattolica ed alla conservazione del sapere biblibo, dall’altro la volontà di innovazione e di sviluppo del pensiero.
Dopo la battaglia di Benevento e la morte di Manfredi (1266) si ha una forte crisi del partito ghibellino e il potere dei guelfi sarà poi compromesso da una crisi interna e dalla scissione tra guelfi bianchi e guelfi neri: il conflitto tra chi, pur difendendo il Pontefice, non preclude il ritorno o la necessità dell'imperatore (cioè i guelfi Bianchi) e chi invece trovava indispensabile che il governo dovesse essere affidato al papa perché missus domini ("mandato dal Signore"). La vittoria fu dei Neri e Dante Alighieri, guelfo bianco, dovette emigrare come "Ghibellin fuggiasco".
Così come fuggiasca può essere la teorizzazione di Ralph Dahrendorf sulla nostra costituzione europea: «L’interazione fra le forze del libero mercato e della concorrenza, da un lato, e l’eguaglianza di opportunità per tutti i cittadini, dall’altro, è il master plan della nuova costruzione europea». Fuggiasca perché ripropone un problema non risolto di consapevolezza applicato all’economia.
Hobbes pensava di risolvere il vecchio conflitto tra Guelfi e Ghibellini, diventato conflitto tra Guelfi Neri e Bianchi, e poi tra aristocrazia e corporazioni, e poi tra Stato e Mercato e al fine tra LIB e LAB, mediante la protezione dei due poli dell’intesa sociale: l’individuo proprietario (con le sue libertà e il suo profitto) e, dall’altro, lo Stato sovrano (con sua assunzione di tutti i diritti della società).
Ma l’utilitarismo regolato attraverso un contratto non è più sufficiente a garantire lo sviluppo della relazione. Si parla di un nuovo contratto fra le generazioni, fra produttori e consumatori, tra garantiti e precari, fra sindacati e imprenditori, ma la complessità attuale non può più essere regolata contrattualmente perché nella modernità sono state applicate forme di liberazione dalle costrizioni sociali molto estese massimizzando la capacità delle persone di attivare il loro dialogo interno riflessivo. Di conseguenza gli accordi interpersonali e intergruppali hanno vita breve perché sono sistematicamente ricontrattati generando più problemi di quanto la modernità possa risolvere.
Il modello del cosiddetto "lib-lab", cioè di un compromesso tra Stato e mercato che è ancora il tema dominante delle nostre istituzioni vige su due pilastri: la competizione di mercato da un lato, e il controllo politico delle disuguaglianze dall’altro.
In ogni caso dal modello LIB/LAB sono escluse le relazioni interpersonali, famigliari, sociali e le loro produzioni in termini di economie e di servizi.
“Che dire quando la modernità scopre che la famiglia non è più quella normo-costituita da padre, madre e figli, ma è invece una forma indefinita, aperta a tutte le possibili combinazioni di coppia (etero e omosessuali) e di figli nati da diversi accoppiamenti, con reti sempre più caotiche di relazioni parentali? … Che dire quando nella modernità si scopre che un’impresa non è più un complesso ordinato di ruoli lavorativi e di fattori di produzione ma è una rete sempre mutante di posizioni e di comunicazioni che si trasformano continuamente e in grande rapidità?”.
Con i processi di globalizzazione, non è più possibile ricorrere a un’autorità per mettere ordine nella società; la proposta del counseling relazionale è quella di produrre una riflessività diffusa, non individualistica ed olistica ma gestita e vissuta nella relazione e con lo scopo di potenziare le relazioni stesse.
Lao Tse è servito a Confucio, per non rimanere solo prigioniero della tradizione e, al contrario, il senso delle cose reali del mondo è utile a Lao Tse per non perdersi nel suo pensiero divergente; quando lo stato ha dato eccessive norme al mercato abbiamo visto emergere la deflazione, quando al contrario il mercato domina gli stati appare la crisi inflattiva. Se la contesa tra Guelfi e Ghibellini si fosse fermata e fosse stata aperta una relazione consapevole probabilmente la modernità si sarebbe anticipata di qualche secolo e se lo statalismo LAB si ritirasse dal suo ingeneroso bisogno di controllo e l’individualismo LIB avesse più attenzione alle parti deboli della società saremmo sicuramente già usciti dalla crisi post moderna globalizzante.
Perché ciò accada è necessario un processo di riflessività consapevole nel sistema della relazioni e nella gestione del senso dell’economia nei singoli e nei gruppi.
La consapevolezza relazionale produce sana economia.
Prima di tutto perché l’insieme del molto poco fa il molto
Poi perché la realtà relazionale è una forza frenante dei desideri inutili.
L’immagine è espressione di un desiderio che vuole una rappresentazione del soggetto come egli promette di essere e quindi si indebita con il futuro.
La sommatoria di più forze applicate ed in relazione produce una resa esponenziale di ogni investimento o fatica.
La finanziarizzazione dell’economia è stata resa possibile dall’invenzione di numerosi prodotti finanziari che si sono incrociati aumentando gli indebitamenti reciproci e massimizzando gli interessi che tutte le parti reciprocamente richiedono fino al cataclisma sistemico attuale. Ma è davvero un cataclisma se gli stati vanno in default o rappresenta solo la caduta dell’economia virtuale per lo sviluppo dell’economia reale?
Certo non vale la pena di rischiare ma l’economia relazionale può trarre da questa esperienza alcune importanti lezioni per il counseling economico.
Quando la relazionalità diventa consapevole anche la valutazione economica cambia segno perché emerge la collaboratività, la spontanea condivisione, il dono, la gratuità totale o relativa, il flusso naturale di gesti e risorse che si stabilizzano nella quotidianità.
La relazione tra A e B è un campo di esistenza A x B e cioè un campo bidimensionale che è solo limitato dal problema dell’immagine.
L’immagine rende l’investimento di A su B, relativa al gradimento percettivo da parte di B, indipendentemente dalla vera natura di A. Centrare l’immagine gradita da B è un processo di riflessività proiettiva da parte di A. Con due costi/rischi. Il costo è la proiezione di una immagine che anticipa e che quindi è costretta a pagare gli interessi perché prende in prestito risorse dal futuro. Il rischio è che, nonostante ciò, B non gradisca l’immagine di A.
Se si trasferisce tale assunto relazionale alla crisi del sistema finanziario si evince che i gradimenti relazionali non sono altro che le valutazioni delle agenzie di rating. Dunque non sono altro che proiezioni immagine.
La relazione senza immagine consente di risparmiare, perché la realtà è onesta senza bisogno di essere accattivante.
Ora in condizioni di assoluta assenza di trasparenza nei mercati la possibilità di non avere immagine può presentarsi come una incredibile risorsa. La caduta dell’immagine corrisponde alla possibilità di praticare un’economia della gratuità in funzione del fatto che nell’immagine vi è un po’ più di denaro di quanto non sembri.
Il denaro è il codice simbolico per eccellenza perché può trasformare ogni cosa in un’altra a mezzo dell’equivalenza monetaria e può essere trasferito senza alcun vincolo nella più totale mancanza di relazionalità. Il denaro infatti richiede la totale obliterazione delle relazioni, la riflessività relazionale genera quella consapevolezza che supera il valore simbolico del denaro. Ad eccezione di quando la consapevolezza è inquinata dal narcisismo di immagine e la gratuità diventa impossibile perché occorre mantenere i costi di immagine.

Seconda tesi: Entrare nel corpo e uscire dal corpo

Il primo livello di consapevolezza lo si può considerare strutturato nella percezione del sé corporeo, mediante la percezione dei segnali sensoriali visivi, olfattivi, tattili, gustativi, cinestetici e uditivi.
Corpo, emozioni e mente sono differenti aspetti di un’unità organica, dei quali diventiamo coscienti con un atto di equilibrio sul nostro corpo ovvero con la sensazione fisica di esistere.
Entrare nel corpo corrisponde alla costruzione coscienziale di una visione scientifica del continuo interscambio di energia tra centinaia di miliardi di unità cellulari; uscire dal corpo corrisponde ad una visione esistenziale che vede il corpo vivo, pulsante, sensibile e intelligente.
La visione scientifica è acuta, la visione esistenziale è sacra. Ambedue sono condizionate dai loro limiti. La scienza distoglie dal gusto della considerazione del corpo come un tempio dell’evoluzione vivente dell’IO, ma il corpo sacro rende relativo il significato evolutivo dell’IO.
Se entro dentro di me, fermo i pensieri e pongo tutta la mia attenzione consapevole sulle sensazioni dell’istante presente, se sento tutto il corpo come una cosa unica, che pulsa e respira; bene, questa piacevole esperienza Vipassana mi porta lontano dall’IO, per come è concepito nella modernità.
L’IO cosciente è infatti riflessione mentale, non più semplice riflesso, ma non ancora riflessività relazionale.
L’IO cosciente è una tappa evolutiva formidabile che però ci soverchia con il suo micidiale bisogno di esistenza. Lo sentiamo nella testa, lo avvertiamo quando riusciamo ad essere presenti a noi stessi, a volte quando la testa tace, quando il corpo respira e la percezione dell’esistenza si espande alla fronte, alla nuca e al collo, al torace, al centro del petto, al cuore pulsante. Esso sembra il vero centro dove fluttuano emozioni di tristezza e di gioia che, superando il diaframma, conducono alla pancia dove la vita è più primitiva ed animale.
Molti definiscono questa condizione consapevolezza, secondo il nostro punto di vista non è così.
La “consapevolezza” è anche uno stato di illuminazione che consente all’essere umano di “essere cosciente di essere cosciente” ma non è possibile che si stabilizzi se non è condiviso in una relazione riflessiva. "Ogni grado di consapevolezza acquisito dal singolo va condiviso nell'affettività e trasmesso attraverso i sentimenti".
Molte persone riescono a raggiungere un certo grado di consapevolezza ma si dimenticano di fare la seconda parte del percorso, pensando di restare consapevoli chiudendosi in se stessi.
Questo modello di consapevolezza individualista e infelice, pretende anche di proporre una dimensione di consapevole illuminazione come se essa fosse una condizione stabile ed acquisita una volta per tutte da quel singolo individuo “illuminato”. Una visione limitata che cerca di ricondurre a parziale razionalità uno stato di grazia altrimenti non definibile.
Lo stato di consapevolezza è una modalità di esistenza ben lontana dalla semplice attenzione individuale percettiva o intuitiva, giacché il nostro cervello può essere consapevole e disattento allo stesso tempo. La nostra percezione attentiva è sempre selettiva. Non siamo mai attenti a tutto e, spesso, lo stato di consapevolezza implica una volontaria disattenzione a molti segnali esterni ed interni, soprattutto dai segnali e dai segni che ci allontanano dalla consapevolezza medesima.
Invece nella tradizione psicologica i due processi dell’attenzione e della consapevolezza sono presentati come indissolubilmente legati ed è per questo che le teorie su coscienza ed inconscio non si muovono a loro agio di fronte a stati d’animo e di mente che implicano forme di consapevolezza possibili sia in condizioni di vigilanza, di lucidità e di veglia sia di obnubilazione, confusione mentale o sogno.
A) Questo modello scientifico di “entrare nel corpo” mediante analisi, intuizione o illuminazione si presenta ancorato solo ad un processo coscienziale. In questo quadro entrare nel corpo non implica consapevolezza ed è purtroppo tipico di grandi masse di “inconsapevoli” che rischiano di restare intrappolati in opportunità esistenziali sprecate. Masse che sembrano soggettività incompiute.
Secondo la prospettiva fenomenologica, infatti, il ritorno alla realtà è attraverso il conseguimento di «una relazione sociale verso altri soggetti in forma di conoscenza noematica, empatica, così come attraverso atti sociali o locutivi» che io, in quanto persona, divento eticamente significativo. La persona secondo quanto indicato sia da Husserl che da E. Stein, è infatti “il soggetto di un mondo circostante in un intreccio di relazioni, il punto centrale di un mondo specificatamente umano che è “per me” ma anche consequenzialmente in relazione con gli altri. Una società di persone viventi in un rapporto di inter-comprensione che costituisce sia una soggettività sociale che una comunità spirituale oggettivizzata”.
B) Il modello esistenziale dell’IO che “esce dal corpo”, è solitamente descritto come un processo per cui:
1) il Sé psico-corporeo è l’esito dell’integrazione dell’Io con il corpo fisico
2) i blocchi corporei tendono a sciogliersi e le proiezioni mentali si riducono
3) il Sé psico-corporeo si congiunge con il corpo energetico, chiamato anche corpo sottile o aura.
4) La percezione delle interazioni energetiche tra le persone e con il mondo diventa coscienza di unione con il Tutto (Samadhi) in una espansione indefinita e illimitata, trascendente qualsiasi confine del sé limitato.
5) L’Io si dissolve nel Tutto. Nella forma più profonda resta la consapevolezza pura di essere l’Universo intero, senza soggetto percipiente e senza oggetto percepito.

Ambedue i modelli di ingresso e di uscita dal corpo in funzione della consapevolezza presentano limiti oggettivi:
In primo luogo il superamento dell’IO non significa la sua estinzione come sembra troppo frequentemente apparire nei percorsi di consapevolezza che utilizzano regressioni meditative. Superamento è qualcosa di molto diverso dall’estinzione perché implica una permanenza dell’IO anche in livelli più alti, superiori, di consapevolezza. Già il concetto di persona è, in qualche modo, una forma di superamento di quell’IO corporeo fino a qui descritto.
In secondo luogo l’illuminazione totale, e cioè quello stato di risveglio annunciato soprattutto nelle tradizioni meditative orientali come difficilmente descrivibile a parole del linguaggio ma solo sperimentabile, viene presentata come uno sgretolamento dell’individuo. L’uscita dal corpo è, alla fin fine, l’identità soggettiva che si perde nel nirvana poiché solo la dissoluzione dell’IO permette l’esperienza degli stati coscienziali più espansi. A proposito del percorso dissolutivo dell’ego nello Shivaismo Kashmiro, ad esempio, Daniel Odier scrive: ”Una tal maniera di mettersi in contatto con il mondo è meravigliosa, ma ha anche qualcosa di terrificante per un occidentale, l’impressione angosciosa, agli inizi, di diluirsi nell’oggetto della percezione. Abbiamo rafforzato a tal punto il nostro ego che è difficile cominciare a sentire con quale velocità può svanire quando tocchiamo realmente il mondo” .
Per tal via la meditazione e la preghiera non sono per nulla rassicuranti ed assomigliano alla notte dello spirito dei mistici cristiani per i quali, però, la sensazione di dissoluzione è sempre e solo temporanea.
In terzo luogo anche l’ingresso nel corpo implica una forma diversa ma pur sempre di dissoluzione dell’IO. Alexander Lowen indica le tre tappe del processo costruttivo del sé psico-corporeo in questa successione: 1) Presa di consapevolezza dell’Io e del proprio corpo; 2) Piena espressione dei propri sentimenti; 3) Padronanza di sé, ovvero la libertà di essere sé stessi. La padronanza di sé conduce ad un essere umano integro ben radicato nel sé psico-corporeo nel corso di “un viaggio alla scoperta di sé. Non è un viaggio rapido, né facile, e neanche privo di paure. In certi casi può prendere l’intera esistenza, ma la ricompensa è il sentimento che la vita non sia passata invano” . La prosecuzione del viaggio mediante vie mistiche, che consentirebbero di sperimentare ciò che esiste oltre i confini del sé psico-corporeo stesso, non è altrettanto serena.
Una prima descrizione è quella dell’emersione di una qualità che favorisce il dissolvimento dell’ego (cfr. Eric Baret ) ed è la capacità di abbandonarsi, di non avere progetti. Lo scivolare nei nodi delle coincidenze e fluire nel fiume della vita è uno dei nuclei primitivi del monachesimo.
Tale abbandono è una tappa della “notte dei sensi”, descrivibile come una scissione tra l’immagine che si ha di sé e chi si è veramente. Il vero IO si abbandona nella vita è opera un primo passaggio verso la consapevolezza. E’ questa la fase che costruisce la conoscenza dei propri copioni occasionali e stabili, ed anche la prima ricognizione sui processi profondi, individuali o collettivi, come i complessi archetipici. Ma anche questo percorso non è infinito perché la conoscenza di sé è oggettivamente limitata a meno che non la si confonda con la sterminata produzione di immagini, di pensieri, di associazioni, di sensazioni e di emozioni della nostra mente. E in questa produzione non vi è nulla di mistico.
Elmar Zadra descrive bene come il cliente, accompagnato ad attraversare gli strati dell’agency e del carattere, arrivato a toccare le ferite, riesce a “cadere” nel vero sé spontaneamente. Unica eccezione è quella del cliente vittima, che tende a restare nelle ferite, anche se non sentite fino in fondo, e che quindi va aiutato a comprendere il meccanismo dello svelamento progressivo del Sé, verso la intima natura dell’essere.
E’ la stessa visione di C.G. Jung sul fatto che l’espansione della consapevolezza sia uno sprofondare in sé stessi per lasciar emergere tutto ciò che l’inconscio contiene.
L’obiezione teorica che formuliamo è relativa al fatto che non vediamo necessario il dissolvere l’individualità per accedere alla visione del Tutto. Jung assume che il Tutto e la visione dell’inconscio completo siano la stessa cosa e questo vuol dire aver portato la luce della consapevolezza nell’inconscio, personale e collettivo, da cui deriva la sensazione di totalità e di connessione con tutta l’esistenza. Ma la soggettività di chi vede è pur sempre un IO; e questo è un problema già risolto da secoli dalla filosofia della conoscenza.
Le metafore poetiche di questa totalità appartengono alla fase “romantica” della modernità che è ormai completamente alle nostre spalle. Anche la consapevolezza “romantica” ha dovuto farsi sempre più riflessiva, e cioè passare attraverso Cartesio (il cogito ergo sum) e Husserl (cogito res cogitata) per superare i fallimenti dell’empirismo e del razionalismo (altri due modi per vedere reincarnate le questioni di Confucio e di Lao Tsu).
Ingresso ed uscita dal corpo vengono descritte come la possibilità di stare sulla soglia dello spazio infinito o come la sensazione di abitare internamente il corpo fisico. Il corpo è quindi visto come un guscio esterno, il soggetto è in fusione con la percezione di ciò che vede, realizza nella coscienza la vacuità intrinseca della realtà e di se stesso, stabilizza il contatto con il vuoto esistenziale dell’angoscia e la sua consapevolezza di essere sul punto della dissoluzione estrema.
Tutti e due i modelli di entrata o di scita dal corpo presentano, per di più, il rischio di esaltare le componenti più irrazionali (emotive e passionali), estetiche anziché razionali, della riflessività consapevole.
Se è vero che l’IO è una tappa evolutiva, la riflessività relazionale fa si che la relazione stessa ecceda i poteri dei singoli IO; l’evoluzione relazionale dell’IO è nel NOI con una più o meno presente riflessività consapevole. Riusciamo a definire il NOI quando la relazione è in corso? Raramente. Vediamo il senso della relazione solo quando essa cessa ed ha evidenze fortemente visibili come quando siamo traditi, o quando una relazione svanisce mentre pensiamo che sia ancora attiva.
La figura antropologica fondamentale rimane quella della inter-dipendenza. L'essere dagli altri e per gli altri è il presupposto ovvio di ciò che siamo. Anche il nostro pensare a noi stessi, il nostro individuarci come identità, è sempre in funzione di modelli significativi che hanno segnato il nostro crescere. Il pensiero è esso stesso sempre in relazione indissolubile con quello che gli altri hanno comunicato o hanno significato per noi. Il pensare non è mai costruzione meramente individuale, perché è un'esperienza vitale, condivisa con gli altri con cui si entra in comunicazione. Da questo punto di vista si può affermare che si appartiene sempre ad un mondo, all'orizzonte intenzionale ed affettivo, in cui siamo posti. La persona umana è sussistenza individuale, che conservando però la sua singolarità e superando la sua solitudine ontologica, è strutturalmente in tensione ad aprirsi all'altro e alla totalità dell'essere. La persona, proprio perché è se stessa, è indissolubilmente bisogno di relazionarsi. La persona non è solo sussistenza, ma anche comunicazione e relazione. Se questa apertura all'altro è costitutiva della persona, si può comprendere come la comunicazione sia non una possibilità aggiuntiva, ma un'esperienza fondamentale che realizza, arricchisce e completa la persona stessa: La prima esperienza della persona è l'esperienza della seconda persona: il tu. Quando la relazione si allenta o si corrompe, l’IO perde profondamente me stesso: ogni follia è uno scacco al rapporto con gli altri. L'alter diventa alienus, e l’IO diventa estraneo a me stesso, alienato. Si potrebbe quasi dire che io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri.
La tesi fondamentale è che la corporeità abbia una particolare importanza nel processo diventare persona, prima tappa della coscienza che diventa consapevole. Questo passaggio storico al concetto di persona avviene nel cristianesimo e nella filosofia dell’occidente che non può permettersi di scivolare in processi regressivi tradendo il suo compito storico. La principale critica al transpersonale verte proprio sulla mancanza di chiarezza su questo punto fondamentale: l’esistenza dell’Io e il suo superamento è un processo di crescita nella relazione che, se diventa riflessiva, consente l’uscita dall’angoscia di morte.
Gesù di Nazareth diventando il Cristo non è né entrato né uscito dal corpo, semmai ha fatto uscire il suo corpo dalle dimensioni spazio temporali passando attraverso la Sindone. “Ora la caratteristica del Cristo è quella di essere persona ovvero un nodo in una rete di relazioni”, scrive Raimon Panikkar in Il Cristo sconosciuto dell’Induismo (Jaka Book, 2008, pag 72) e prosegue discutendo sul fatto che “la conoscenza di una cosa ha insita la consapevolezza che essa non è causa di se stessa… per cui questo Mondo, che non è un Assoluto in sé e per sé, lascia spazio ad una origine, che ammette un fondamento che lo sostenga e così via” (pag. 156). Per questa via Panikkar descrive l’importanza di Brahman nei primi quattro sutra dei Vedanta e il suo fondamento diventa conoscenza di avere coscienza, la quale coscienza rende consapevoli che la coscienza stessa non è causa di se stessa. Il gioco logico è altamente importante al fine di comprendere il senso della corporeità di Gesù Cristo. “Riconducendo il problema epistemologico al puro essenziale, scrive ancora Panikkar (pg 44) … ho cercato di dimostrare che l’affermazione cristiana “Gesù è il Cristo” non è identica a “il Cristo è Gesù”… Non è necessario infatti che il Signore sia chiamato cristoo riconosciuto con questo titolo perché il nome salvifico di Cristo è un super nome , al di sopra di ogni nome… Il Cristo è “più” e non meno di Gesù di Nazareth… il cristiano però non può dire “Cristo è solo Gesù” perché Gesù risorto è più che Gesù di Nazareth. Il fatto di aver varcato le soglie dello spazio e del tempo con il corpo, non entrandoci né uscendone, fa si che Cristo non possa appartenere solo ai cristiani.








Terza tesi: Relazionismo e neuroni mirror, la riflessività relazionale

Lo specchio neuronale
Nei primi anni '90, lo scienziato Giacomo Rizzolatti ha scoperto nel cervello dei primati e in quello umano, la presenza di alcune cellule definite “neuroni specchio” o “cellule mirror”. Tali cellule si attivano quando osserviamo qualcuno che compie una sequenza di gesti simile a quella che potremmo compiere noi .
Utilizzando come soggetti sperimentali dei macachi, questi ricercatori osservarono che alcuni gruppi di neuroni si attivavano non solo quando gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.
Studi successivi, effettuati con tecniche non invasive, hanno dimostrato l'esistenza di sistemi simili anche negli uomini. Sembrerebbe che essi interessino diverse aree cerebrali, comprese quelle del linguaggio.
I neuroni specchio permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri. Quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, gli stessi neuroni che entrano in gioco quando siamo noi a compiere quella stessa azione. Per questo possiamo comprendere con facilità le azioni degli altri: nel nostro cervello si accendono circuiti nervosi che richiamano analoghe azioni compiute da noi in passato.
Quest'ultima precisazione è molto importante. Infatti sembrerebbe che il "sistema specchio" entri in azione soltanto quando il soggetto osserva un comportamento che egli stesso ha posto in atto in precedenza. Ad esempio, si è visto che in un danzatore classico i neuroni specchio si attivano esclusivamente di fronte a una esibizione di danza classica, e non di fronte al ballo moderno, e viceversa.
Anche il riconoscimento delle emozioni sembra poggiare su un insieme di circuiti neuronali che, per quanto differenti, condividono quella proprietà "specchio" già rilevata nel caso della comprensione delle azioni. E' stato possibile studiare sperimentalmente alcune emozioni primarie: i risultati mostrano che quando osserviamo negli altri una manifestazione di dolore o di disgusto si attiva il medesimo substrato neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione. Un'altra conferma viene da studi clinici su pazienti affetti da patologie neurologiche: una volta perduta la capacità di provare un'emozione non si è più in grado di riconoscerla quando viene espressa da altri.
Vi sono infine alcune evidenze sperimentali che sembrano indicare che anche la comprensione del linguaggio faccia riferimento, almeno per certi aspetti, a meccanismi di "risonanza" che coinvolgono il sistema motorio. Comprendere una frase che esprime un'azione provoca probabilmente un'attivazione degli stessi circuiti motori chiamati in causa durante l'effettiva esecuzione di quell'azione.
La scoperta dei neuroni specchio potrebbe offrire una spiegazione biologica per almeno alcune forme di autismo, come, ad esempio, la sindrome di Asperger: in effetti, gli esperimenti in tal senso finora condotti sembrerebbero indicare un ridotto funzionamento di questo tipo di neuroni nei bambini autistici. Benché per ora si tratti soltanto di un'ipotesi, essa potrebbe aiutare a comprendere perché le persone autistiche non partecipano alla vita degli altri, non riescono ad entrare in sintonia con il mondo che li circonda, non capiscono il significato dei gesti e delle azioni altrui. Probabilmente non comprendono neppure le più comuni emozioni espresse dal volto e dagli atteggiamenti di coloro che li circondano: quello che per tutti è un sorriso, per loro potrebbe essere una semplice smorfia.
L'esistenza dei neuroni specchio prospetta la necessità di una profonda modifica nelle attuali concezioni riguardanti il modo di operare della nostra mente. Sicuramente tale scoperta implica un drastico ridimensionamento del modello di mente prospettato dalla psicologia cognitivista (vedi cognitivismo), basato sull'analogia funzionale con i calcolatori. Questo tipo di approccio concentra i propri sforzi soprattutto nel definire le regole formali che sarebbero alla base del funzionamento della mente, ignorando completamente il ruolo dell'esperienza corporea legata al comportamento motorio. I neuroni specchio implicano infatti l'esistenza di un meccanismo che consente di comprendere immediatamente il significato delle azioni altrui e persino delle intenzioni ad esse sottese senza porre in atto alcun tipo di ragionamento.
Le ricerche sui neuroni specchio sono ancora agli inizi, ma è probabile - come osserva il neuroscienziato Vilayanur Ramachandran - che si tratti di una delle più importanti scoperte degli ultimi decenni, destinata ad avere profonde ripercussioni nel nostro modo di concepire la mente.
Le recenti ricerche neurologiche mostrano come il cervello sia organizzato per poter rispondere all'espressione di emozioni specifiche e quindi che l'empatia abbia una premessa biologica. Gazzaniga sottolinea la naturale relazione empatica esprimendosi in questi termini: “... è come riflettere il mondo esterno nel proprio cervello, perché un soggetto può comprendere le intenzioni, i sentimenti e le azioni altrui, soltanto attraverso i suoi propri sentimenti, ai quali risponde abitualmente tramite il suo cervello”.

Empatia
Alcuni spunti polemici nei confronti della teoria di Rizzolati, (cfr uno studio dell'Universita' di Trento pubblicato sulla rivista dell'Accademia Italiana delle Scienze 'PNAS' condotto di Angelika Lingnau, Benno Gesierich e Alfonso Caramazza) contestano l'evidenza del sistema di neuroni negli umani dimostrando che è improbabile che tali neuroni giochino un ruolo in funzioni complesse come empatia e comprensione del linguaggio. Fondamentalmente, non sono stati trovati segni di adattamento per atti motori che sono stati eseguiti e poi osservati, il che, in altre parole non è possibile dimostrare che il riconoscimento di azione e la sua comprensione si basa sulla simulazione del movimento.
Questa osservazione, che non nega l’importanza dei neuroni specchio, ci riporta all’approccio fenomenologico all'empatia per come è stato proposto da edith Stein, allieva di Husserl.
Edith Stein affronta in maniera organica il problema analizzando la differenza tra empatia e ricordo, attesa e fantasia, imitazione, inferenza per analogia, associazione ad un vissuto estraneo, distinguendo l'empatia come atto offerente della realtà vissuta "hic et nunc" da altri processi mentali e comunicativi.
Nel ricalcare la definizione di Lipps la Stein scrive: "(l'empatia) è una partecipazione interiore alle esperienze vissute altrui (...) quel momento in cui siamo presso il soggetto altro da noi e siamo volti con esso verso il suo oggetto" (Stein,cit.,p.80). Ma la caratteristica principale dell'empatia è per la Stein la sua attualità: "Un ricordo è pienamente riempito e mostrato se tutte le sue tendenze sono giunte alla loro esplicazione e se vi è la continuità dei vissuti fino al presente. Ma, pur con questo, quel che viene ricordato non si traduce in vissuto originario. La presa di posizione, che noi assumiamo nel presente, in riferimento ad una situazione di fatto ricordata, è del tutto autonoma rispetto alla posizione ricordata (...) Posso ricordarmi del mio disagio provato in una situazione imbarazzante, mentre rievocarlo in questo momento mi diverte piacevolmente" (Stein,cit.,p.82).
Un'altra differenziazione è quella dell'empatia dal co-sentire; nel polemizzare con Scheler, la Stein fa osservare che sentire il vissuto dell'altro e vivere insieme a lui lo stesso vissuto sono due dimensioni differenti. Il co-sentire significa gioire o soffrire della stessa gioia o sofferenza che l'altro vive e cioè condividere concretamente un momento vissuto insieme con comunanza di sentimenti relativi alla circostanza vissuta; l'empatizzare significa invece cogliere la gioia o la sofferenza nel vissuto dell'altro e farla propria. Il "co-sentire" è "uni-patia" che si verifica quando i diversi soggetti, nel condividere un vissuto, formano un "Noi" collettivo. L’empatia consente di "cogliere il vissuto altrui", la "uni-patia" di provare un "sentimento collettivo" scaturito dal vivere individualmente lo stesso avvenimento.
La differenza tra processo di empatizzazione, coinvolgimento nei sentimenti degli altri, co-sentire, associazione, imitazione, analogia va così chiarificandosi. Infatti se l’empatia fosse solo inferenza per analogia (come al momento sio presenta nella concezione di base dei neuroni specchio) non potrebbe accadere che io empatizzi un vissuto altrui senza però riuscire a definirlo né a riconoscerlo compiutamente perché non l’ho mai personalmente provato.
Inoltre non potrei empatizzare atti corporei che mi sono impossibili come quando empatizzo il vissuto di un acrobata che compie gesti per me impossibili.
Se poi l’empatia fosse solo una forma di inferenza allora potrei anche empatizzare la fisicità di una statua o di un manichino mentre posso solo riconoscere la sua espressione e la sua rappresentazione mediante la simbologia artistica o comunicativa.
L'empatia ha un proprio campo di esistenza come fenomeno comunicativo specifico: non si tratta di associarsi ad un vissuto estraneo né di "trasmissione di sentimenti" ma di un processo emozionale e cognitivo che consente di percepire l'esperienza altrui, calarsi in essa e poi riemergere con una nuova consapevolezza.
La Stein descrive tre momenti nel processo di empatizzazione: "1) l'emersione del vissuto, 2) la sua esplicazione riempiente, 3) l'oggettivizzazione comprensiva del vissuto esplicitato" (Stein,cit.,p.78).
"Nell'istante in cui il vissuto emerge improvvisamente dinanzi a me, io l'ho dinanzi come Oggetto (ad esempio, l'espressione di dolore che riesco a "leggere nel volto di un altro"); mentre però mi rivolgo alle tendenze in esso implicite e cerco di portare a datità più chiara lo stato d'animo in cui l'altro si trova, quel vissuto non è più Oggetto nel vero senso della parola, dal momento che mi ha attratto dentro di sé, per cui adesso io non sono più rivolto a quel vissuto ma, immedesimandomi in esso, sono rivolto al suo Oggetto, lo stato d'animo altrui, e sono presso il suo Soggetto, al suo posto. Soltanto dopo la chiarificazione cui si è pervenuti mediante l'attuazione giunta a compimento, il vissuto stesso torna di nuovo dinanzi a me come "Oggetto" (Stein,cit.,p.78). "Mentre io vivo quella gioia che è provata da un altro, non avverto alcuna gioia non-originaria: essa non scaturisce in maniera viva dal mio Io, né ha il carattere di essere stata viva in precedenza come la gioia ricordata, tantomeno essa è meramente fantasticata, priva cioè di una reale vita, ma è precisamente l'altro Soggetto che prova in maniera viva l'originarietà (...) in tal modo noi perveniamo per mezzo dell'empatia ad una specie di atti esperienziali sui generis" (Stein,cit.,p.79).
I neuroni mirror ci aprono la strada per comprendere l’antica base corporea dell’empatia (e con ciò pongono un pesante intralcio all’espansione della psicologia cognitiva che equipara il funzionamento della mente umana a quella di un computer) ma non risolvono il problema della comunicazione interumana affidata a processi non linguistici, né gestuali, né simbolici.
Quale sia il veicolo del processo di empatizzazione non ci è dato saperlo, così come non ci era dato di sapere dell’esistenza delle onde radio prima di Guglielmo Marconi.

Intelligenza emotiva
Leslie Brothers del California Institute of Tecnology, individua nell'amigdala e nelle sue connessioni con le aree associative della corteccia visiva, la localizzazione del circuito cerebrale fondamentale per manifestare le proprie emozioni o per la comprensione delle emozioni altrui.
Lo schema biologico sembra sia, secondo Daniel Goleman, diverso per ciascuna emozione importante e selezionato tra le memorie immagazzinate nell'archivio personale al fine di attuare le risposte preconfezionate più idonee a quel tipo di sollecitazione emozionale. Le emozioni agganciano strutture archetipe e, in effetti, la mente emotiva reagisce alle situazioni presenti come se si trovasse nel passato.
Dal punto di vista filogenetico, tutte le strutture superiori si sono sviluppate dal sistema limbico; esso, perciò, dal punto di vista funzionale, occupa una posizione centrale rispetto all'insieme e, collegato da un'infinità di circuiti neurali alla corteccia, influenza il funzionamento di tutte le aree cerebrali compresa la mente razionale.
La nostra vita mentale sarebbe costruita sulla base dell'influenza di due tipi di intelligenze, quella razionale e quella emotiva che, pur definite da due circuiti cerebrali distinti, interagiscono tra loro influenzandosi a vicenda. La modalità con cui si esprime la mente razionale è collegata alla capacità di riflettere, di osservare e valutare gli eventi in modo distaccato; la mente emotiva, invece, è impulsiva, irruente e a volte illogica.
Quest'ultima intelligenza sarebbe stata utile per la sopravvivenza individuale perché induce ad agire con tempestività e determinazione in caso di pericolo attraverso una valutazione automatica rapida che non sfiora nemmeno la consapevolezza.
L'intelligenza emotiva si collega velocemente a precedenti esperienze senza tenere conto dei differenti contesti. Joseph LeDoux ha scoperto che vi sono essenzialmente due diversi percorsi neurali emotivi; nel comportamento appena descritto, l'amigdala funziona come una sorta di innesco che può dare origine ad una vera e propria deflagrazione emozionale, definita “sequestro dell'amigdala o sequestro neurale”, in grado di paralizzare la mente razionale per tempi più o meno lunghi. Gli input sensoriali visivi ed auditivi, raggiungono il talamo, archivio dei nostri ricordi, e da qui proseguono direttamente verso l'amigdala; questa area cerebrale, costituita da due ghiandole poste specularmente alla base del tronco encefalico, rappresenta l'archivio dove le nuove impressioni e le memorie che vengono conservate assumono una valenza emozionale. Essa rappresenta la specializzazione per eccellenza delle questioni emotive, al punto che, una lesione del nucleo amigdaloide produce povertà dei sentimenti e una evidentissima incapacità di valutazione emotiva.
Un altro percorso, viene invece attivato quando i dati sensoriali provenienti dall'interno o dall'esterno, vengono inviati dal talamo alla neocorteccia, alla mente razionale, dove vengono decodificati e classificati in base alle loro caratteristiche. In questi casi la risposta emotiva, più lenta perché più complessa e raffinata, scaturisce dalla valutazione delle impressioni sensoriali, quindi da un approccio piuttosto riflessivo, nel quale anche l'area corticale, soprattutto la corteccia orbitofrontale, si adopera per produrre una risposta correttiva più idonea alla richiesta del momento.
Le emozioni di base interessano visceri, muscoli scheletrici, ghiandole endocrine, sistema vascolare e sistema immunitario; possono essere considerate risposte specializzate e fisiologiche atte a favorire la sopravvivenza, quindi risposte di difesa automatiche o emotivo-istintive, rispondenti a precise necessità biologico-funzionali. Le emozioni secondarie ovvero i sentimenti positivi della amicizia, della unione, del rispetto, della responsabilità e negativi dell’imbarazzo, dell’ orgoglio, della gelosia, della colpa, invece sarebbero quelle che, più elaborate e complesse e mediate da vissuti personali e sociali dell'individuo, non sono limitate all'attività del sistema limbico, ma coinvolgono la corteccia prefrontale e somatosensitiva. Esse, collegate al rapporto con se stessi e alle relazioni interpersonali, si sviluppano nel mondo dei valori e definiscono la sfera psichica dell'affettività.
Va da sé che la stessa definizione di “intelligenza emotiva” sia inefficace proprio in funzione del suo comportamento immediato e reattivo e che la struttura su cui si fonda sia, in linea di massima l’archivio degli archepiti (intendendo con questi i complessi emozionali più antichi che si sono sedimentati nella specie umana).

Tre cervelli e due emisferi
Essenzialmente il nostro cervello è triplice, il cervello rettile, limbico e corticale e ogni parte gestisce particolari funzioni del nostro organismo, dalle più basilari alle più sofisticate.
Il cervello rettile è quella parte dell’encefalo che “comprende il tronco encefalico ed il cervelletto. Il tronco encefalico ci accomuna al mondo dei rettili, in quanto si occupa della gestione delle funzioni elementari del corpo, come la respirazione, il battito cardiaco, il livello generale di veglia. Il cervelletto, che è unito alla parte posteriore del tronco encefalico, si occupa invece della gestione delle posture del corpo coordinando tutti i movimenti muscolari ed assumendo il ruolo di memorizzare le risposte apprese.
Il cervello limbico è composto dall’ipofisi, l’ipotalamo e il talamo, l’ippocampo, l’amigdala e il fornice, organi comuni al mondo dei mammiferi con funzioni di controllo del battito cardiaco, della pressione sanguigna, della temperatura corporea e delle risposte emotive chiamate in causa in situazioni che mettono a rischio la sopravvivenza. Il cervello corticale “è la parte più grande dell’encefalo umano ed è divisa in due emisferi, connessi tra loro da una banda composta da circa trecento milioni di fibre, chiamata corpo calloso. Ogni emisfero è ricoperto da uno strato di circa tre millimetri, costituito da accorpamenti di cellule nervose: la corteccia cerebrale che svolge funzioni connesse alla razionalità, come l’organizzazione, la comunicazione, la comprensione, la creatività. Una fessura longitudinale divide il cervello in due emisferi, congiunti unicamente per mezzo
del corpo calloso. Ciascun emisfero è diviso dalle scissure in cinque lobi: frontale, parietale, temporale, occipitale ed insula. Uno di questi spicca per la sua straordinaria rilevanza da un punto di vista evolutivo: si tratta del lobo frontale che è il deposito di straordinarie capacità come l’intenzionalità, l’organizzazione delle emozioni e la relazione con altri.
Il corpo calloso che suddivide il cervello in due emisferi, permette ai “due cervelli” di lavorare “sincronicamente” controllando la parte opposta del corpo, l’emisfero sinistro la parte destra e viceversa. Nell’emisfero sinistro, nella stragrande maggioranza dei casi, risiede il linguaggio e la capacità logica mentre il destro è coinvolto in attività non linguistiche, come la vita emotiva o le relazioni spaziali, riconoscimento di persone, musica, mimica ed emozioni.
Michael Gazzaniga (Michael S. Gazzaniga, L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo, Di Renzo Editore, Roma, 2007) ha studiato pazienti sottoposti allo split brain, recisione chirurgica che rende gli emisferi cerebrali non comunicanti, ed ha ipotizzato l’esistenza, nell’emisfero sinistro del cervello, di un interprete, un meccanismo automatico specializzato nell’elaborare interpretazioni e narrazioni, apparentemente logiche, per dare un ordine e un senso alle nostre esperienze. Per esempio “il paziente percepisce una variazione d’umore e, subito, l’interprete comincia a costruire una teoria sui motivi che hanno scatenato quel determinato disturbo”.
Il filo narrativo riempie di significato interpretando le esperienze anche mediante inferenze attraverso le quali diventa possibile percepire anche determinate figure geometriche “impossibili”, cose che non abbiamo mai visto nel nostro mondo tridimensionale e che il nostro cervello non potrebbe determinare se davvero si basasse solo sull’esperienza sensoriale. Secondo Gazzaniga l’emisfero sinistro gestisce i livelli “alti” del pensiero, come la risoluzione dei problemi e interpreti le nostre azioni e i nostri sentimenti; mentre l’emisfero destro è incapace di svolger simili funzioni. L’emisfero destro non è in grado di pensare o comunicare; esso può risolvere problemi semplici, attraverso le sue reti associative ma non sarà in grado di usare le informazioni di cui dispone. Solo l’ emisfero sinistro è in grado di fare da “interprete” del reale.

Interprete, archetipi e coscienza
Torniamo alle ipotesi di Jaynes sulla mente bicamerale. L’ipotesi è che la mente fosse scissa in due parti e possedesse solo nell’emisfero sinistro le tre aree destinate al linguaggio, mentre tutte le altre importanti funzioni sono rappresentate bilateralmente. Jaynes si chiede se le aree dell’emisfero destro, corrispondenti alle aree del linguaggio, non abbiano avuto in passato un ruolo che ora non hanno più. Entrambi gli emisferi sono in grado di comprendere il linguaggio ma solo il sinistro può parlare. Nell’emisfero destro, nell’area corrispondente all’area di Wernike dell’emisfero sinistro, esiste una funzione vestigiale simile alla voce degli dei.
Gli studi fatti da Wilder Penfield dimostrano che stimolando quest’area si possono verificare esperienze allucinogene a carattere uditivo, simili ad imperativi divini. I due emisferi sono in grado di funzionare come due persone indipendenti, forse in passato erano la parte divina e quell’umana e le differenze nelle funzioni cognitive sono forse lo specchio delle differenze tra uomo e dio.
La plasticità del cervello, inoltre, permette mutamenti come quello dall’uomo bicamerale all’uomo cosciente, sotto lo stimolo dell’apprendimento e della cultura. “La mente bicamerale è una forma di controllo sociale ed è per la precisione quella forma di controllo sociale che consentì all’umanità di passare dai piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori alle grandi comunità agricole” (J. Jaynes, Il Crollo della Mente Bicamerale e l’Origine della Coscienza, pag.159), permettendo l’origine della civiltà.
Uomini e donne non erano coscienti, ognuno aveva una parte divina che impartiva ordini, gli dei erano la volizione dell’uomo. Questa suggestiva interpretazione dei complessi archetipici, peraltro efficacemente giustificativa delle teologie rintracciabili nei miti, è anche una implicita spiegazione della ricerca sempre in atto nell’uomo di costruzioni simboliche, quali l’olismo o la teoria dei sistemi o lo strutturalismo o la condivisione umana di “campi morfogenetici” , tendenti a spiegare l’equifinalità dei comportamenti o l’obbedienza umana a leggi comportamentali relativamente comuni a tutta la specie. L’archetipo è utile per la sopravvivenza delle relazioni (o almeno per limitare, nell’ecologia umana, la loro distruzione dettata da impulsi egoistici o tribali) fino a quando un ulteriore potenziamento della coscienza pone fine alla mente bicamerale e desincronizza gli emisferi.
Quali mutamenti permisero il passaggio dalla mente bicamerale alla coscienza? Quando avvenne questo? Perché? Jaynes, con l’ausilio di documenti storici, archeologici, antropologici, vede il secondo millennio a.C. come teatro di grandi sconvolgimenti sia geografici sia culturali. L’inizio dei commerci, l’aumento della popolazione, le guerre, misero in luce la precarietà e la fragilità delle teocrazie bicamerali. L’avvento della scrittura, su tavolette d’argilla, provocò l’indebolimento delle allucinazioni uditive fino all’emersione di nuove capacità mentali, che diedero il via ad un ulteriore sviluppo della coscienza.
Ricordi, pensieri ed emozioni danno vita ad un primario io ed alla coscienza soggettiva mentre il cervello bicamerale contiene ancora residui del nostro passato. Ciò significherebbe che l’emisfero destro si è involuto per lasciare spazio alla dimensione razionale dell’io cosciente e, secondo Jaynes, l’esperienza religiosa è il residuo più manifesto di una diversa forma mentale in cui risiedeva la convinzione dell’esistenza di una relazione con un’entità più vasta.
La coscienza implica infatti una separazione dalla relazione con il tutto e una chiusura dell’io in se stesso che interpreta il permanere di allucinazioni come forme di patologie schizofreniche che dissolvono l’io.
Il processo di estensione della coscienza sembra invece di segno opposto: proprio il distanziamento dalle voci interiori internalizzate come archetipi conduce alla loro progressiva osservazione ed elaborazione facendo i conti con l’angoscia di morte e con l’interpretazione delle voci interiori profonde. Ma non si tratta di lotta contro l’emersione dall’inconscio della forma mentale primitiva ma semmai dell’integrazione e della purificazione del sapere ancestrale presente nell’uomo e nella esperienza biologica fino agli strati più inferiori.
In pratica la liberazione dagli istinti primordiali è condotta attraverso la purificazione di tali strati e la trasformazione delle negatività in essi contenute in risorse per l’ulteriore sviluppo della affettività nel mondo sociale, relazionale ed anche nella sfera biologica.
Tale processo non può però prescindere dall’uso della coscienza come orientatore dei processi affettivi.

La coscienza
La caratteristica fondante dell’essere umano è un grado assolutamente superiore agli altri esseri viventi di allargamento della coscienza. La coscienza dell’ego, che è formata dalla somma dei contenuti psichici presenti nella persona, è inondata da un flusso continuo di pensieri, emozioni, sentimenti, stati d’animo e di umori che trasformano la psicofisiologia della coscienza stessa, pur lasciando inalterato il nucleo dell’identità della persona. Nel momento del risveglio dal sonno la coscienza sa di avere una continuità, sa di essere la stessa del giorno prima e sa anche di aver dormito. Pur essendo rimasta sopita nel corso del sonno.
In contrasto con la coscienza si presentano tre condizioni di progressiva diminuzione della coscienza, che possono essere graduate fino all’inconscio, al sonno, al coma. La coscienza può quindi essere descritta come: mondo del conscio, della vigilanza e della lucidità.
Poste queste condizioni nel loro equilibrio ottimale, possiamo definire la coscienza come l’autopercezione del sé vivente. Che, in altre parole, corrisponde a quello stato di pienezza che spesso definiamo come “sentirsi vivi”.
All’interno della elaborazione del sapere scientifico possiamo però inventariare informazioni importanti sul rapporto tra vita, identità e coscienza. Tali informazioni sono utili per dissipare numerosi equivoci o proiezioni negative sulla morte.
In primo luogo la certezza dell’identità di ciascuna forma vitale è scientificamente dimostrata dall’infinita differenziazione del DNA, in secondo luogo l’esperienza del vissuto umano ha a che fare con la coscienza di esistere in una specifica forma di esistenza.
Per la piena comprensione dei processi di coscienza occorre però affrontare le grandi categorie in cui la coscienza è articolata:
Conscio Inconscio
Vigilanza Sonno
Lucidità Coma

Conscio /Inconscio
Qui la coscienza è definibile come la parte della attività psichica che emerge dall’inconscio e che diventa contenuto della coscienza stessa.
Con il termine inconscio Freud intendeva un complesso di processi, contenuti ed impulsi che non affiorano alla coscienza del soggetto e non sono quindi controllabili razionalmente. Egli riferì il termine dapprima ad una parte della mente in cui si trovano i contenuti psichici rimossi, per poi passare ad indicare i contenuti stessi che possono riaffiorare nei sogni in forma simbolica, o manifestarsi come atti mancati, come i lapsus e le distrazioni. La dimensione inconscia e irrazionale è per la psicoanalisi il luogo in cui si annidano una serie di istinti e desideri il cui contenuto non si manifesta a livello cosciente, ma la cui soddisfazione è necessaria, pena il manifestarsi di disturbi del comportamento più o meno gravi.
La forte dicotomia tra conscio e inconscio ha portato la formulazione di un luogo intermedio ai due: il subconscio. Il subcosciente (espressione che non fa parte della terminologia psicoanalitica) è descritto come uno stato a cui si può accedere con meno sforzo, in quanto interposto tra il conscio e l'inconscio. Lo stadio di mezzo era stato definito come preconscio per la sua attività di censore dei desideri e impulsi dell'inconscio, a cui permette un accesso distorto alla coscienza.
I contenuti preconsci sarebbero quindi non-immediatamente accessibili alla coscienza, ma neanche del tutto inaccessibili come quelli inconsci.
Oggi possiamo però estendere, in modo semplice, il significato della dimensione inconscia a tutto ciò che attiene alla nostra attività psichica senza apparire alla coscienza attuale. Vi sono parti dell’inconscio che possono essere attivate con un semplice richiamo di memoria, altre che sono più lontane, altre fortemente precluse perché blindate da sensazioni di dolore o di paura, altre ancora del tutto inaccessibili alla coscienza come i processi fisiologici neurovegetativi che soprassiedono all’equilibrio vitale, alla crescita, alla riproduzione. Le regolazioni psicosomatiche e somatopsichiche, ad esempio, non possono essere accessibili alla coscienza che, per interagire con tali processi, ha bisogno di individuare altri percorsi psicobiologici.
In questa ottica si ribalta la definizione di partenza e, posto che sia conscio tutto ciò che appare nella esperienza attuale della nostra coscienza, l’inconscio è tutto il resto. Più o meno facilmente accessibile alla coscienza. Ciò dipende dalla proprietà stesse della coscienza perché non può esistere una entità totalmente cosciente.
"Basta riflettere solo un po’ sul problema, scrive Gregory Bateson, per convincersi che non si può concepire in alcun modo un sistema totalmente cosciente. Si immagini che sullo schermo della coscienza vi siano resoconti provenienti da numerose parti dell'intera mente, e si immagini di aggiungere alla coscienza i resoconti necessari a riferire su ciò di cui, ad un dato stadio di evoluzioni, non si hanno ancora informazioni. Quest'ag¬giunta comporterà un grandissimo aumento della struttura circuitale del cervello, ma non darà lo stesso un'informazione completa. Il passo succes¬sivo consisterà nel riferire sui processi e sugli eventi che hanno luogo nella struttura circuitale or ora aggiunta. E così via". Se infatti si paragona la coscienza ad uno schermo è facile appura¬re che su tale schermo può essere proiettata qualsiasi immagine, compresa l'immagine dello schermo stesso, tranne che l'immagine della telecamera che sta riprendendo lo schermo. E' possibile riprendere la telecamera con una seconda telecamera, la quale può essere ripresa riflessivamente dalla prima, ma sarà allora necessaria una terza telecamera che riprenda l'intero sistema. E così via. Lo stesso dicasi per i meccanismi riflessivi della nostra coscienza: esisterà qualche struttura a fondamento della coscienza stessa che non è direttamente esaminabile dalla coscienza. Tale fondamento è lo specifico individuale di ciascuna coscienza, che ne determina le caratteristi¬che e le dimensioni. Per cogliere tale fondamento serve porre una distanza dal proprio sé e dalla struttura attivata del pensiero riflesso che va "messa tra parentesi" per far emergere "qualcos'altro".
La nostra attività psichica è caratterizzata da processi di elaborazione generalizzati che prendono in considerazione tutte le informazioni presenti dentro di noi. Noi siamo coscienti di una parte infinitesimale di tali informazioni: possiamo paragonare ciò al lavoro del nostro computer che legge continuamente tutto il contenuto dell’hard disk ma che proietta sullo schermo solo ciò che abbiamo chiesto al processore di elaborare. Il resto, pur non apparendo, esiste ed è ciò che consente al processore di sostenere l’attività specifica che stiamo svolgendo. In altre parole lo schermo -coscienza proietta una piccola parte e ci induce spesso nell’inganno che tale parte sia la effettiva realtà esistente sottraendoci alla comprensione della vastità delle informazioni e dei processi mentali e psicologici che sono in atto in noi momento per momento. Eppure nessuno pensa che, nel momento in cui sta assistendo ad un programma della rete RAI 1, le altre reti non esistano più e non siano in onda.
La distinzione psicologica tra conscio e inconscio è però una metafora simbolica, poiché non esistono questi due comparti nella mente, giacché trattasi delle mobili condizioni in cui un oggetto si affaccia o meno alla coscienza. La distinzione psicodinamica è comunque molto utile, se si supera una visione assolutistica di questo modello, perché conduce ad osservare i processi inconsci come più mutevoli e veloci di quelli consci, poiché sono privi della necessità di allineamento consapevole. L’inconscio può così essere pensato come un mondo che si vede “con la coda dell’occhio”. Esso è formato da tutte le innumerevoli informazioni della vita individuale e della memoria della specie umana, che sono sotto la soglia della percezione intenzionalmente allineata con le informazioni, comprese le informazioni implicite sul grado personale di gestione delle diverse informazioni. Tali informazioni possono essere negate (o rimosse), oppure associate ad altre perché il sistema di pensiero e di emozioni non è in grado di gestirle per la loro incomprensibilità o per il dolore che contengono. In tal caso le informazioni sono messe in posizione da non nuocere, non allineandosi con la percezione consapevole. Così si può comprendere come le informazioni concernenti la nostra identità biologica ed esperienziale, le informazioni circa i complessi archetipici trasmessi dai nostri geni, stanno alle nostre spalle e, pur servendo anche a definire i rapporti sociali, non interferiscano con la nostra attività cosciente. Come potremmo infatti gestire il conflitto tra lo scatenamento emozionale prodotto da una forte attrazione sessuale riproduttiva, lanciata nel nostro organismo dalla attivazione dei ferormoni, con la coscienza delle norme sociali che presiedono alla vita di coppia?
Nell’inconscio si trovano strutture archetipiche che non riusciamo a far emergere e che si sono consolidate nello sviluppo psicobiosociale dell’umanità. Alcune di esse sono utili, altre meno e su queste ultime gravitano molte battaglie di civiltà gestite attraverso la politica.

Vigilanza /Sonno
Il secondo processo riguarda il rapporto tra vigilanza (allerta) e sonno. Vigilanza e sonno presuppongono diversi livelli o stati di coscienza. Il sonno si caratterizza come una quasi totale interruzione dei contatti sensoriali con l’ambiente esterno. Il tracciato elettroencefalografico della veglia ha in condizioni normali un andamento vivace e irregolare, con tanti picchi, denominato desincronizzazione cerebrale. Mostra cioè la presenza di processi mentali plurimi che, in fasi di rilassamento e addormentamento, presentano un andamento più lento denominato di sincronizzazione cerebrale. La desincronizzazione è in atto con uno stato di attivazione cerebrale diffuso, la sincronizzazione è uno stato di riposo. Al termine di ogni ciclo di sonno (90 minuti) a onde lente, compare un processo di desincronizzazione cerebrale abbastanza simile allo stato di veglia. Questa è la fase del sonno in cui compaiono i sogni, ovvero vengono processate informazioni che provengono dall’interno della mente.
Sulla base dei parametri elettroencefalografici il sonno viene classificato come contraddistinto da 5 stadi: 4 Non REM (Rapid eye movement, movimento rapido degli occhi) ed uno stadio REM.
Nel periodo di sonno REM si ha attività onirica con allucinazioni e autorappresentazioni, nei quali il soggetto ha esperienza di vissuti percettivi, assimilabili ad una forma di funzionamento psichico con desideri e impulsi disorganizzati e incomprensibili al pensiero razionale, immagini visive bizzarre e noncuranti del tempo, dell'ordine o della coerenza logica.
Tale funzionamento psichico è indispensabile per la persona. Chi viene infatti privato della possibilità di sognare, attraverso la privazione delle fasi REM, ha una insorgenza rapida di ansia, di irritazione, di disturbi della memoria e della concentrazione.
Durante la veglia l'EEG alterna fondamentalmente tra due pattern. Un pattern chiamato di 'attivazione' (o pattern desincronizzato) caratterizzato da onde di basso voltaggio (10-30 microvolt) ed alta frequenza (16-25 Hz) ed un secondo chiamato 'attività alfa' caratterizzato da onde sinusoidali di 8-12 Hz. L’attivazione è presente quando il paziente è in stato di attenzione ad occhi aperti. I movimenti oculari sono presenti e il tono muscolare è medio-alto.
Lo stadio REM, caratterizzato da un EEG a basso voltaggio con frequenze miste, presenta paralisi dei muscoli (per evitare di mimare i sogni) e per i sogni. Il cervello consuma ossigeno e glucosio come se il soggetto fosse sveglio e stesse svolgendo un'attività intellettuale. Se ci si sveglia in questa fase si è perfettamente orientati.
La sequenza delle fasi del sonno mostra come dalla vigilanza si passi al sonno attraverso un continuum in cui l’alerting cosciente scema e si passa alla comparsa spontanea di processi mentali incontrollati. Non essendoci più contatto con l’ambiente esterno appaiono nella mente rapidi flash allucinatori ipnagogici. Ove essi abbiano una particolare intensità, il dormiente può essere preso da stupore, paura o ansia e svegliarsi di soprassalto (questo è il tipico caso di un disturbo ansioso del sonno).
Il sonno è uno stato dell'organismo caratterizzato da una ridotta reattività agli stimoli ambientali che comporta una sospensione dell'attività relazionale (rapporti con l'ambiente) e modificazioni dello stato di coscienza: esso si instaura autonomamente e periodicamente, si autolimita nel tempo ed è reversibile.
Il fatto che sia reversibile sulla base di uno stimolo esterno (o anche interno, ad esempio con un risveglio autoindotto per comparsa di incubi, preoccupazioni o per autocondizionamento) distingue il sonno dal coma o dall'anestesia che, rispettivamente, sono una patologia o sonno indotto farmacologicamente. Il sonno quindi si differenzia da altri stati di alterazione di coscienza: col sonno la perdita dello stato di coscienza è, come già detto, reversibile. Quindi il soggetto può risvegliarsi dopo stimolo anche non doloroso. Lo stupor diversamente, è un'alterazione dello stato di coscienza dal quale ci si può risvegliare dopo somministrazione di uno stimolo doloroso. Lo stato comatoso è un'alterazione dello stato di coscienza dal quale non ci si può risvegliare dopo somministrazione di uno stimolo doloroso.

Lucidità /Coma
Lo stato vigile ed attento si contrappone alla vigilanza ridotta, tipica della sonnolenza fino ai diversi stadi del sonno o alla perdita di coscienza (svenimento); la lucidità si contrappone all’offuscamento, all’ottundimento, all’obnubilamento, al torpore, allo stato soporoso ed al coma.
Il coma viene descritto come situazione in cui l’essere è ancora vivente ma la sua lucidità tende allo zero. “Il coma è uno stato di areattività psicologica, non suscettibile di risveglio, in cui il soggetto giace ad occhi chiusi” [F. Plum e J.B. Poster] e non produce alcuna risposta agli stimoli esterni o ai bisogni interni. Esso è “quello stato di sospensione della coscienza di sé e del mondo, di impossibilità di entrare in rapporto con chi ti circonda, con chi ti vuole parlare, aiutare? [...] uno stato che non è vita e non è morte, ma che vita e morte riassume, specchio di ciò che siamo e che saremo” [Standola, Avesani: 1997].
Il coma è il contrario della lucida attivazione, poiché in esso c’è l’abolizione di un particolare stato di coscienza che non è quella attentiva e nemmeno quella della veglia. Infatti nel coma persiste lo stato di coscienza nei termini della vigilanza, organizzata in ritmi circadiani di sonno-veglia. Infatti i trattamenti con stimolazione elettrica encefalica profonda vengono praticati ogni due ore, ma solo di giorno, sospendendola la notte per permettere il ciclo sonno veglia. I programmi di risveglio mediante stimolazione neuronale per pazienti in coma o in stato vegetativo possono essere possibili grazie alla neuroplasticità, cioè alla riorganizzazione neuronale centrale, possibile solo quando sono presenti livelli attentivi e percettivi seppur minimi [Fiori M., Giaquinto S., 1999].
Lo stato vegetativo è il più complesso e meno compreso disturbo della coscienza, poiché appare come situazione di perdita del contenuto di coscienza (cioè totale perdita delle funzioni cognitive e quindi anche assenza di interazione con l'ambiente circostante), e completo o par¬ziale mantenimento delle funzioni autonomiche ipotalamiche e del tronco encefali¬co (l'attività cardiaca, la respirazione, la temperatura, la pressione sanguigna sono più o meno normali). Esso è un fenomeno moderno prodotto della rianimazione e della terapia intensiva. Il paziente in stato vegetativo apre gli occhi spontaneamente o in seguito ad un rumore, ma lo sguardo si perde nel vuoto. “Talvolta può girare il capo e gli occhi in direzione di stimoli sonori o di oggetti in movimento. Può emettere suoni, abbozzare un sorriso o pian¬gere, senza motivo. Respira regolarmente da solo, non abbisogna di assistenza per la funzione cardiaca, la cute è calda e le pupille si contraggono normalmente alla luce. Reagisce agli stimoli dolorosi, talora anche con grimaces facciali e semplici vocalizzazioni, ma l'attività motoria è in genere scarsa e sempre priva di movi¬menti finalistici. Può avere una ricca motilità orale, con movimenti automatici di suzione, masticazione e deglutizione, ma non è in grado di attivarli in modo coor¬dinato per alimentarsi. Quando gli viene messo 'qualcosa in gola ha conati di vo¬mito o tossisce. È del tutto incontinente” II paziente in coma profondo rimane invece con le palpebre abbassate, non apre gli occhi spontaneamente-ciclicamente o in risposta a stimoli esterni. Il respi¬ro è irregolare. Può avere movimenti involontari, come il pizzicare le lenzuola con le dita o il tentare di afferrare con le mani oggetti immaginari. La reattività agli stimoli dolorosi è afinalistica o assente. Non ha validi riflessi di deglutizione, fa¬ringeo e della tosse. È incontinente…Mentre nel coma la perdita della vigilanza consegue alla depressione del tronco encefalico, nello stato vegetativo la funzione del tronco è conservata, ma viene a manca¬re l'interazione tra tronco encefalico, talamo e corteccia cerebrale” [Verlicchi A., Zanotti B.: 1999, 306].
L’azione terapeutica sul coma da parte dei neurotrasmettitori determina la ripresa o l'innesco funzionale di cellule e vie inattive mediante “agonisti della dopamina, che sono stati collegati al ripristino di specifi¬che proiezioni dopaminergiche che normalmente interagiscono, come un 'unità co¬ordinata, con la sostanza reticolare ascendente” [Echiverri H.C., Tatum W.O., Merens T.A., Coker S.B.:1998, 228].
L’azione dopaminergica aumenta il livello di responsività del soggetto fino all’eventualità di svegliarlo dal coma. Questo tipo di azione attivatoria ha l’obiettivo di far pervenire il soggetto a lucidità e quindi di modificare il suo stato di non - coscienza verso uno stato di lucidità. Per raggiunger quest’obiettivo, le azioni da applicare all’organismo sono tutte azioni di attivazione che lo scuotano dal coma.
In questa accezione l’attivazione è simile al movimento stressogeno nella accezione originale del termine . Questo processo non è solo umano poiché appartiene alla sfera più propriamente biologica: gli effetti di esperienze stressanti sul comportamento e sulla funzione dopaminergica possono essere molto diversi in relazione all'evitabilità della situazione, al background genetico dell'animale e alla sua storia individuale. Numerosi studi dimostrano che i neuroni dopaminergici mesocorticali vengono selettivamente attivati dallo stress e la reazione agli stress da parte dei nuclei della base è ridotta dalla iperattività corticale. Siamo infatti nello stato soglia che distingue l’eustress dal distress: se prevale il secondo la ricerca di nuove soluzioni rischia di produrre oscillazioni dissociative.
Con il concetto di lucidità, in contrapposizione allo stato soporoso, all’obnubilamento ed al coma ci si riferisce a quel livello di dinamica psicobiologica, che ha a che fare con l’attivazione vitale. Qui il significato di coscienza lucida (e non vigile) è apparentata con il controllo esecutivo, che mobilita la focalizzazione del comportamento sugli obiettivi, la capacità di pianificazione e di riconoscimento degli errori e l’inibizione di risposte automatiche. Esso opera quando le funzioni di routine sono insufficienti, ovvero proprio nel momento di massimo bisogno di coscienza lucida, per rispondere ad un forte stimolo stressante in arrivo.
Il concetto di coscienza lucida non può essere sufficientemente descritto mediante la sola buona responsività tramite script comportamentali. Gli script sono comportamenti appresi e resi automatici per servire da difesa contro eventi negativi (stressor). Ciò che si perde nel coma, o negli stadi di perdita di lucidità ad esso connessi, non è la ricezione degli stimoli ma la capacità di attivazione delle risposte.
La differenza fondamentale fra il coma e lo stato stuporoso è che un paziente in stato comatoso non è capace di rispondere né agli stimoli verbali né a quelli dolorosi, mentre un paziente in stato di shock riesce a dare una risposta a tali stimoli, almeno istintiva (gridare in risposta a un pizzicotto, per esempio).
Il coma è anche diverso dallo stato vegetativo che a volte può susseguire ad esso: un paziente in stato vegetativo ha perso le funzioni neurologiche cognitive e la consapevolezza dell'ambiente intorno a sé, ma mantiene quelle non-cognitive e il ciclo sonno/veglia; può avere movimenti spontanei e apre gli occhi se stimolato, ma non parla e non obbedisce ai comandi. I pazienti in stato vegetativo possono apparire in qualche modo normali: di tanto in tanto possono fare smorfie, ridere o piangere.
Il coma non è nemmeno indice di morte cerebrale, cioè di cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello: può accadere che un paziente in coma sia in grado di respirare da solo, mentre uno decerebrato non può farlo mai.
È inoltre diverso anche dal sonno, perché il sonno è sempre interrompibile, mentre non è possibile "svegliare" a piacere una persona in stato di coma.
Il coma vero e proprio dura di solito da 2 a 4 settimane, raramente di più. Alcuni pazienti in stato vegetativo possono recuperare un certo grado di consapevolezza, alcuni invece possono restare in tale stato per anni o per decenni.
Si definisce poi coma farmacologico, o coma indotto, o coma da barbiturici, il coma provvisorio (un stato profondo dell'inconsapevolezza) causato da una dose controllata di barbiturici, di solito pentobarbital. Il coma farmacologico viene utilizzato per proteggere il cervello durante grandi interventi chirurgici.
I barbiturici riducono il metabolismo nei tessuti del cervello e il flusso di sangue cerebrale. Con queste riduzioni, i vasi sanguigni nel cervello diminuiscono di volume, e, di conseguenza, fanno decrescere il volume occupato dall'organo e la pressione intra-cranica. In questo modo, diminuendo la pressione, possono essere evitati o diminuiti alcuni danni .
La piena comprensione del vissuto del coma è ancora lontana ma il suo collegamento con la confusione mentale, lo stupor, l’anestesia da farmaci consente di vederlo come una condizione in cui, a seguito della modificazione bioenergetica dei vissuti della persona e della diminuzione della attività cerebrale, la coscienza si distacca dai vissuti corporei. Nel coma si manifesta, ad esempio, una profonda modificazione del senso del tempo di cui non viene più percepito il fluire anche se, in molti casi, vengono invece mantenute le percezioni ambientali.
Nel sonno si perde la percezione dell’ambiente e si mantiene quella della personale corporeità e dei suoi bioritmi, nel coma è più probabile venga mantenuta la percezione dell’ambiente e persa quella mentale e corporea.
La caduta di lucidità porta la persona a vivere alterazioni della coscienza; ad esempio la modificazione della percezione temporale. Il coma dunque può apparire come l’esatto contratto della iperlucidità del vivido presente che sperimentiamo quando la nostra attenzione è massimamente attiva: nel momento in cui viviamo una forte emozione, un evento traumatico o una importante performance sportiva. In tali situazione percepiamo il tempo al rallentatore proprio perché riusciamo a rallentare il tempo.
La percezione soggettiva dello scorrere del tempo non è sempre uguale al tempo realmente trascorso: la sensazione dello scorrere del tempo è del tutto soggettiva anche se i meccanismi fisiologici su cui si fonda non sono chiari perché influenzati dallo stato emotivo e dal contesto. Ora se è chiaro nella esperienza comune che lo stato emotivo influenza la percezione del tempo, è meno chiaro quali siano i meccansismi neurofisiologici che vengono implicati nel processo di accelerazione o di rallentamento del tempo vissuto.
Sul piano psicologico le diverse percezioni del tempo sono correlate alla prevedibilità ripetitiva degli eventi: tanto più gli eventi sono imprevisti tanto più appaiono lunghi, tanto più sono noti e scontati tanto meno durano.
Ciò ha molto a che fare con la funzione della lucidità intesa come chiara e coerente percezione del presente; al diminuire della lucidità diminuisce la sensazione attuale del tempo che può restringersi o dilatarsi rispetto alla percezione corporea del tempo, socialmente condivisa e confermata.
Il coma è il contrario della lucidità della coscienza ed è intimamente collegato a distorsioni nella percezione soggettiva del tempo. Nel coma si attua una percezione di tempo continuato, nella lucidità quella di tempo rallentato. Al tempo ininterrotto si associa la confusione mentale della non consecutività del pensato, al tempo rallentato una maggior lucida consapevolezza dello svolgimento degli eventi.

Coma e stati alterati di coscienza
E’ particolarmente difficile trattare in modo corretto il tema del coma e usare in modo preciso le definizioni di coma, stato vegetativo, risveglio. L’EEG informa sul funzionamento delle cellule della corteccia cerebrale e se l’elettroencefalogramma è piatto significa arresto delle funzioni con rara reversibilità. Più lento è il tracciato, più grave è il danno cerebrale.
Il coma può persistere per alcune settimane in cui il paziente tende a riaprire gli occhi anche solo per brevi intervalli, con progressiva ripresa di coscienza. Se rimane ancora non cosciente nonostante sia entrato nello stato vegetativo o coma vigile. In tale stato non reagisce a nessuno
stimolo anche per diversi mesi. I primi segni di recupero dal coma riguardano il contatto con l’ambiente esterno (seguire con lo sguardo, piangere, sorridere, ecc.) mediante uno stato di minima coscienza o di minima responsività. In fasi più avanzate di recupero l’uscita dal coma è accompagnata da grave disorientamento spazio-temporale (non sa dove si trova, né qual è la data corrente - giorno, mese e anno), non è in grado neanche di riconoscere le persone, presenta amnesie, disturbi della memoria recente, manifesti confabulazioni, mutismo e confusione mentale.
Coma, stato confusionale , shock , svenimento sono stati in cui la coscienza si altera presentando alcuni delle caratteristiche elencate da Arnold Ludwig: alterazioni del pensiero; disturbi nel senso del tempo; perdita del controllo; cambiamenti nell'espressione emotiva; cambiamenti dell'immagine corporea; distorsioni percettive; cambiamenti nel significato o senso; senso dell'ineffabile; sentimenti di rinnovamento; ipersuggestionabilità.
Tali condizioni hanno basi fisiologiche e sono parte di un continuum: “La nostra intera vita psichica può, a sua volta, avere gradi di coscienza differenti, che vanno dalla coscienza più lucida, attraverso i livelli d’offuscamento, fino all’incoscienza. Ci possiamo figurare la coscienza come un’onda. La coscienza lucida, chiara, è l’apice dell’onda…. che diventa sempre più bassa fino al suo completo defluire nella perdita di coscienza” (K. Jaspers, Psicopatologia Generale, pag.150).
Le alterazioni dello stato di coscienza riguardano la diminuzione delle singole funzioni psichiche e del controllo di coscienza che progressivamente si restringe o modifica il suo flusso normale a seconda dei livelli di attivazione del sistema parasimpatico e ortosimpatico. L’elemento determinante per il passaggio da uno stato di coscienza all’altro è espresso dalla velocità di elaborazione del cervello. In altri termini, cambiare la velocità di lavoro del cervello significa cambiare stato di coscienza. Lo stato ordinario di coscienza è rappresentato da un equilibrio ottimale tra le informazioni che il cervello riceve e quelle che elabora, così, se tale equilibrio viene a mancare, ecco che si possono manifestare stati non ordinari di coscienza. L’esperienza della trance è lo stato di massima velocità di lavoro del cervello. I vari modi per indurre uno stato alterato di coscienza, mettono in luce il fatto che il nostro ordinario stato di coscienza è solo una delle tante possibili strutturazioni della mente.

Riflessività relazionale e consapevolezza
“Dal punto di vista sociologico, la riflessività è un’operazione relazionale fatta da una mete individuale in relazione ad un “Altro” dentro un contesto sociale, la quale genera una relazione che è un effetto emergente fra i termini che essa collega” (Donati, 79).
I termini collegati possono essere tutti interni alla persona (l’io a cui Io parlo) in tal caso la riflessività corrisponde alla conversazione interiore di cui tratta Margareth Archer. Se invece è esterno (ad esempio una figura che ho interiorizzato) significa che tale figura ha influenzato la attività mentale.
“Forse l’unica eccezione è quando sogniamo (o ci troviamo in una stato non cosciente o di evasione mentale), ossia quando ci troviamo in una condizione in cui, pur dialogando con noi stessi non abbiamo una piena presenza coscienziale a noi stessi. In tal caso c’è conversazione interiore,ma la riflessività sociale va a zero“ (Donati, 80).
Pur non essendo del tutto vera la affermazione sul sogno di Donati (come vedremo giacché è possibile l’ingresso dell’Io cosciente nel sogno) essa è utile per aprire alla comprensione della riflessività con l’altro internalizzato.
“Se la comunicazione del Sé (self) rimane all’interno del soggetto, si parla di riflessività personale o conversazione interiore. Nel caso invece che l’attività riflessiva (di ritorno su se stessi per ridefinire ciò che è stato comunicato) sia svolta in una interazione comunicativa con altri (conversazione esteriore) allora dobbiamo usare il termine riflessività sociale o relazionale.
Quando la riflessività relazionale non funziona cade l’apertura empatica verso l’altro ed appaiono vere e proprie patologie di alessitimia (alexithymia) e cioè la assoluta caduta di intelligenza relazionale.
L’alexithymia (Nemiah, Freyberger, Sifneos 1996) presenta le seguenti caratteristiche: 1) difficoltà di identificare i sentimenti e le emozioni; 2) difficoltà di descrivere i sentimenti e le emozioni; 3) limitata capacità immaginativa; 4) stile di pensiero orientato verso la realtà esterna. L’intelligenza emotiva (Salovey e Mayer 1989-1990) è definita come “la capacità di osservare le proprie ed altrui emozioni, di differenziarle e di usare tale informazione per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni”. Gli autori nel 1997 hanno modificato la definizione di intelligenza emotiva, ponendo l’accento: 1) sulla capacità di pensare i sentimenti; 2) sulla capacità di regolare le emozioni; 3) sulla percezione dei comportamenti non-verbali, incluse le sensazioni corporee evocate dall’attivazione emozionale; le espressioni facciali; il tono della voce; la gestualità esibita dagli altri.
Tra i costrutti di alexithymia e di intelligenza emotiva esiste una somiglianza ed una forte relazione inversa. In effetti i risultati di valutazione, confermano che i due costrutti sono opposti e fortemente sovrapposti.
Il cervello emotivo (Le Doux 1996) è il sistema dell’elaborazione emozionale che opera indipendentemente dall’esperienza cosciente tramite due circuiti: talamo-amigdala, è una via diretta che consente una rapida risposta in caso di attacco-fuga; talamo-neocorteccia-amigdala, che consente una valutazione ed una risposta emotiva più ponderata. Le Doux (1989-1996) ipotizza che i sentimenti vengano vissuti quando le rappresentazioni degli stimoli effettuate dall’amigdala e dalla neocorteccia, insieme alle rappresentazioni degli stimoli scatenanti, sono immesse nella memoria di lavoro e si integrano con le esperienze passate e le rappresentazioni del sé. Vi sono evidenze che la memoria di lavoro coinvolge l’attività della corteccia prefrontale laterale, la corteccia cingolata anteriore e la corteccia orbitofrontale.
E’ probabile che l’alexithymia sia associata ad una limitazione funzionale della comunicazione interemisferica e, secondo Lane (1997) possa essere associata ad un deficit nell’attività della corteccia cingolata anteriore durante l’attivazione emozionale causata da un mondo rappresentazionale impoverito; e con limitata abilità di rappresentare le emozioni, tramite parole e fantasie. Probabilmente a causa di deficit nelle prime relazioni di attaccamento che non hanno favorito il rispecchiamento delle espressioni emotive del bambino da parte della figura di accudimento con associazione a stili di attaccamento insicuro. Spesso ciò è dipendente dall’occhio in cui bambino è guardato dalla madre nel corso dell’allattamento con problemi seri di spostamento o non riconoscimento del mancinismo. Vi sono anche evidenze che grave abuso o trascuratezza possono impedire la maturazione neocorticale nei bambini, ridurre la differenziazione dell’emisfero sinistro ed invertire la normale asimmetria emisferica sinistro-destro.
La consapevolezza può dunque essere compromessa nel processo relazionale che , in tal situazione di negligenza si presenta critico e oppositivo.
Qui vale la pena di sottolineare come le relazioni critiche (le opposizioni) possono impedire lo sviluppo di relazioni che non possono promuovere. Al contrario le relazioni socio solidali di affinità sono generative. Ad esempio l’amicizia come relazione che media l’agency nei soggetti Ego e Alter. L’amicizia è il riconoscimento di qualcosa che non appartiene a nessuno dei due processi negativi pur essendo di entrambi. Ed anche a dimostrazione che l’amicizia non è contenuta in nessuna struttura sociale alla quale le persone possano conformarsi. Per essere amici non serve aderire ma bisogna essere almeno in due e condividere e scambiare qualcosa.
Le linee di pensiero che si incrociano in questa analisi correlazionale tra le ricerche neurofisiologiche, antropologiche, psicologiche e fenomenologiche sulla coscienza hanno la necessità di definire con riflessività consapevole i tipi di relazioni tra persone umane.
Noi di Prepos abbiamo inventariato le teorie relazionali ed sintetizzato un linguaggio in grado di definire le relazioni di dialogicità, di riconoscimento, di incontro, di mediazione, di integrazione, di complementarità e di disponibilità.
Una rapida descrizione delle 14 modulazioni relazionali ci può essere di aiuto per comprendere ciò che accade tra i tipi e ciò che la riflessività può arrivare a descrivere sulle relazioni.
L’INSOFFERENZA si verifica quando le persone si oppongono con costrutti articolati di comportamento. Quanto più uno è, intenzionalmente, ordinato, preciso, metodico, ripetitivo, tanto più l’altro è, intenzionalmente, confusionario, vago, innovativo e creativo. L’insofferenza intercorre tra il soggetto responsabile e controllato e il creativo indipendente (1 e 3). L’insofferenza produce litigio.
La DELUSIONE si impianta stabilmente quando le persone avevano interpretato, illudendosi, il comportamento dell’altro in sintonia con le proprie aspettative. La delusione può manifestarsi improvvisamente, a seguito di un inganno, ma cresce lentamente in piccole esperienze quotidiane, poco percettibili. La relazione di delusione reciproca corre tra l’intraprendente e l’espressivo (2 e 4). La delusione conduce al risentimento espresso attraverso la calunnia o il tradimento.
Il LOGORAMENTO è frutto di rapporti superficiali con manifestazioni appariscenti ed estetizzanti. E’ una certa immagine, un tono sempre “sopra le righe”, che logora le persone costrette a dare risposte all’”altezza della situazione”, mai del tutto vere o del tutto chiare. Il logoramento si tipizza tra il creativo indipendente e l’apatico (3 e 5). La fuga dal logoramento si traduce nel tentativo di mantenersi indifferenti, ma l’accumulo conduce a manifestazioni di isteria
L’EVITAMENTO è precostituita indisponibilità alla relazione. I motivi psicologici dell’evitamento sono: inibizione, incapacità di stabilire rapporti, eccesso di sensibilità, bassa autostima ma anche senso di superiorità, megalomania o superbia. L’espressivo ed il rassegnato si evitano reciprocamente (4 e 6). L’evitamento preclude ogni possibilità di vita comune.
Il FASTIDIO nasce dalla reattività di rifiuto “a pelle” di gesti, modi di fare, odori, rumori, sapori, immagini emanati da qualche persona. Conduce a rassegnazione e sopportazione ed al tentativo di mettere in atto l’allontanamento dall’altro. Il soggetto con forti propensioni all’attaccamento (adesivo) e l’apatico provano reciproco fastidio (5 e 7). . Il fastidio si manifesta in atti di vendetta: piccoli dispetti o vere e proprie violenze
L’INCOMPRENSIONE è l’incapacità di trovare il motivo del comportamento che l’altro mette in atto. Sebbene sia chiaro ed evidente ciò che l’altro fa, non si capisce perché lo faccia, come sia possibile che l’altro non capisca che ciò che fa non è quello che si deve fare in quella circostanza. Il confronto è sterile perché ciascuno pensa: “Possibile che non capisca che…?”. Aumenta così la necessità di osservazione e di controllo del comportamento altrui, con vere e proprie ossessioni e modelli di comportamento paranoici. Il rassegnato che il controllato vivono nella incomprensione reciproca (6 e 1).
C’è EQUIVOCO nei comportamenti delle persone quando le azioni non sono sinergiche ed orientate allo stesso fine o, se orientate allo stesso fine, sono svolte in modi e tempi diversi. L’intraprendente e l’adesivo (eccesso di attaccamento) equivocano sul significato dei loro comportamenti (7 e 2). L’equivoco rende impossibile l’intesa e conduce alla caduta della fiducia, alla diffidenza, al sospetto ed alla ripetuta attuazione di comportamenti che danneggiano se stessi e gli altri.
Il RICONOSCIMENTO porta a scoprire che gli altri vivono le stesse emozioni. Si insegna il riconoscimento attraverso espressioni del tipo: “ Ma lei non si è accorto che…” spiegando il motivo per cui una terza persona manifesta un certo comportamento. Il riconoscimento è l’antidoto dell’equivoco: si basa sulla comprensione delle aspirazioni, delle frustrazioni e delle difficoltà dell’altro. Il riconoscimento si tipizza tra il sensibile rassegnato e il creativo indipendente (3 e 6).
La DISPONIBILITA’ scaturisce dall’apertura verso l’altro che rende possibile un’azione positiva senza che ciò costi molta fatica. Spesso è valutata nell’intenzione più che nel risultato. Consente di superare l’insofferenza. La disponibilità nasce nell’incontro tra l’espressivo e l’adesivo (4 e 7).
La COMPLEMENTARITA’ nasce dalla consapevolezza che l’uno farà le cose che non possono essere fatte dall’altro. Si fonda sulla serena accettazione che gli altri stiano facendo esattamente ciò che c’é bisogno di fare perché è utile per tutti. Lo sfondo della complementarità è la tranquillità e il realismo ed è l’antidoto alla delusione perché non si fonda su aspettative fantastiche. La complementarità vige tra l’apatico e il controllato (1 e 5).
L’INCONTRO è l’antidoto del logoramento perché presuppone la assoluta diversità delle persone, compresa l’estraneità dei modelli mentali e degli schemi d’azione, ma le impegna nell’obiettivo di scoprire che le diversità sono una potenza a cui ciascuno può attingere. L’incontro produce unità. L’incontro avviene tra il sensibile rassegnato e l’intraprendente (2 e 5).
La DIALOGICITA’ è possibile quando ci siano “cose da dire” e ci sia un contesto in cui possono essere dette. Una relazione in cui si discute di ogni cosa, non si litiga perché, anche di fronte agli idee o alle opinioni più divergenti, sa che è possibile condurre a buon fine la discussione. E’ l’antidoto all’evitamento perché diminuisce le tensioni, supera le impressioni troppo superficiali o troppo appariscenti. La dialogicità intercorre tra il creativo e l’adesivo (3 e 7).
L’INTEGRAZIONE è la base per una buona organizzazione (e non il contrario). Vi è integrazione quando nessuno travalica o tradisce le aspettative che l’altro aveva riposto su di lui: il gioco delle parti, dei compiti, delle funzioni e dei ruoli è armonioso. L’integrazione è l’antidoto del fastidio perché rispetta l’identità di ciascuno e mette tutti nella “giusta distanza relazionale” reciproca. Si attua tra controllo ed espressione (1 e 4).
La MEDIAZIONE costruisce il “senso comune” perché modera gli eccessi e stimola le energie necessarie per raggiungere un obiettivo. E’ l’antidoto all’incomprensione perché negozia i significati e libera dal controllo reciproco. Produce accordo. E’ la relazione tipica tra intraprendente e apatico (2 e 5).
Quarta tesi: Io cosciente e principio di individuazione, Io sognante e anima

La consapevolezza può essere valutata prendendo in considerazione ciò di cui si è consapevoli, per quanto tempo la si può sostenere e quale livello di profondità e intensità essa raggiunga.
La consapevolezza si stabilizza nella sua comunicazione relazionale riflessiva attraverso cui l’essere umano diventa consapevole di essere persona.
La definizione classica di persona è quella di Severino Boezio (Contra Eutychen et Nestorium) che definisce la persona: una “sostanza individuale di natura razionale” (“rationabilis naturae individua substantia”). Sostanza perché ha un esistenza propria, in sè, ovvero non ha bisogno di nient’altro per vivere. Perciò ogni uomo è allo stesso tempo uguale e diverso dagli altri.
Individuale perché la Persona è unità e vive in essa: se un uomo è diviso non può più continuare a vivere. Razionale ovvero dotata di senso.
Dalla definizione boeziana ri¬sulta che persona non dice semplicemente individualità singola, né semplicemente natura, né semplicemente sostanza.
S. Tommaso assegna implicitamente alla persona tutte quelle proprietà su cui insisteranno i filosofi moderni e contemporanei quando parlano della persona: l’autocoscienza, la libertà, la comunicazione, la coesistenza, la vocazio¬ne ecc., perché tutte queste qualità trovano la loro radice profonda nella ragione oppure nella intelligenza: è la ragione (l’intelligen¬za) che possiede l’autocoscienza, la libertà, la comunicazione, la coesistenza, la vocazio¬ne, la partecipazione, la solidarietà ecc.
La persona umana percorre il suo cammino di individuazione della coscienza umana, e, quindi, il passaggio dall’apparire della coscienza alla consapevolezza. Hegel, nella “Fenomenologia dello Spirito”, descrive lo sviluppo della coscienza sia della specie che dei singoli individui.
Il cammino di individuazione della coscienza umana così come è stato prospettato da Hegel, mostra tre fasi di sviluppo: 1) coscienza (che significa da assenza di coscienza al primo apparire della stessa); 2) autocoscienza (che sta a significare dal primo timido apparire della coscienza all’attuarsi della coscienza di sé); 3) ragione (il quale sviluppo porta fino alla consapevolezza). Coscienza non è ancora consapevolezza: io posso avere coscienza di me, ma non consapevolezza, ovvero posso sapere che esisto, che “ci sono” e avere coscienza della distinzione tra me e l’altro, ma non essere arrivato alla consapevolezza di “essere qui dentro” (ovvero avere il contatto con il mio “umano”, con ciò che mi fa uomo), non essere giunto a capire che sono “persona”, non aver raggiunto una coscienza morale, la capacità di riconoscere che anche l’altro è “persona”, che in quanto tale ha “una dignità di pensiero, di libertà, di relazione con altri, con il trascendente, con sé” (da E. Stein “Introduzione alla filosofia”).
Jung ci propone un processo di progressiva individuazione nello sviluppo coscienziale le cui parti in espansione sono 1) la Persona, chiamata anche psiche parziale, è ciò che si pensa di essere, fino a quando non intervengono spinte ad andare più a fondo; 2) l’Ombra e cioè i lati nascosti dell’Io presenti nell’inconscio. Sono parte dell’ombra le ferite e i lati rifiutati della propria personalità che non si mostrano mai agli altri e neppure si è consapevoli di possedere. C.G. Jung afferma: "Col termine di Ombra intendo il lato negativo della personalità, e precisamente la somma delle caratteristiche nascoste, sfavorevoli, delle funzioni sviluppatesi in maniera incompleta e dei contenuti dell'inconscio personale"; 3) l’Io, ovvero l’unione di Persona e Ombra, chiamata anche psiche completa.
Il processo di individuazione è una sorta di progressivo focusing individuale che ricompone il mondo interiore e conduce alla esplorazione dei complessi archetipi ricomponendoli nell’ ‘essere al mondo’ con il corpo fisico, emotivo, mentale, energetico e quant’altro…
Ma l’individuazione conduce alla esplorazione del concetto di persona che, anche nella cultura induista, contiene concetti come la mente (manas), i sensi (indriya), la coscienza (cetana) e l’intelligenza (buddhi) servono per porsi domande (jijñāsa) sulla Verità Assoluta e sulla propria condizione materiale e spirituale: “Colui che cerca di conoscere la Verità Assoluta, la Persona Divina e Suprema, deve sicuramente fare domande sulla Verità Assoluta in ogni occasione, in ogni tempo e in ogni luogo, direttamente e indirettamente”. La persona pertanto manifesta nella forma di vita umana, quelle potenzialità che le permettono di porsi domande: “la persona sussiste in sé, indipendentemente dalla natura materiale, in quanto energia spirituale in un corpo di energia materiale, ma è nella forma di vita umana, che questa energia spirituale (anima) può manifestare le sue qualità appieno, indagare su chi è veramente e porre domande sulla Persona Suprema”.
. Quando si parla di persona, s’indica in realtà la parte più profonda dell’uomo, l’energia vitale, la scintilla divina, ossia l’anima e, facendo un ulteriore passo in avanti, si afferma che: “la persona sussiste in sé al di là dell’attività pensante e conoscitiva e dei suoi attributi materiali, perché nella sua condizione spirituale originale, dove non ha bisogno di un corpo per interagire con Dio, manifesta attributi e qualità personali originali proprie, così come la Verità Assoluta”.
In definitiva la stessa ratio che troviamo in Boezio: “Rationalis naturae individua substantia” e cioè la persona è “una sostanza individuale di natura razionale”).
Il concetto di persona consente di superare le strettoie dell’individuazione junghiana anche in relazione al rapporto con il Tutto, l’assoluto e con il processo già criticato dell’estinzione dell’IO.
Se Dio, l’Assoluto, il Logo, il Senso, esiste è sicuramente maggiore e non minore dell’essere umano. Se l’essere umano è persona anche Dio deve essere come minimo persona, ovvero cosciente ed intenzionale oltre che consapevole e relazionale.
La comunicazione, la dialogicità e la relazionalità sono i caratteri strutturali dell'essere persona. Esse rivelano un nuovo volto dell'essere, per cui nelle cose e nella coscienza c'è un'inclinazione a trascendersi, ad andare oltre se stessi; ed è quanto si sperimenta nell'amore. Nella relazione l’Io eccede a se stesso: il bisogno di complementarietà è piantato nell'essere stesso della persona, il riconoscimento dell'altro vive nella sua esteriorità trascendente la coscienza; nella dialogicità la prigionia dell'io è infranta e si coglie la realtà non come dominio, ma come incontro. La relazione interpersonale esprime la struttura originaria dell'essere, la profondità ontologica per la quale l'uomo non è solitudine, ma costitutiva apertura all'altro, e viene a realizzarsi nel riconoscimento e nell'accoglienza dell'alterità.
La persona è tale grazie alle sue qualità spirituali: la coscienza, l’intelligenza, la libertà, l’amore, il valore, l’unicità, la felicità, l’eternità, le attività e le capacità conoscitive superiori che si esprimono ponendosi domande sulla Persona Suprema e su sé stessa. Il porsi domande sulla Verità Assoluta, (il Senso ndr.) è un’attività indagatrice umana. “Finchè l’essere vivente non s’interroga sui valori spirituali dell’esistenza, deve conoscere la sconfitta e i mali nati dall’ignoranza...” (Srimad-Bhagavatam 5.5.5).
Il percorso dell’IO cosciente verso la consapevolezza si svolge lungo molti differenti percorsi. Il Processo di accettazione della passione è “la cruda e semplice coscienza che si manifesta nella conoscenza sensibile ed immediata”, in cui l’io non è neppure in grado di distinguere tra sé e l’oggetto. Si tratta di una fase assolutamente corporea in cui, sul piano dell’ “individuazione psicologica” si tratta di incontrare il corpo e le sue funzioni, scoprendo se stessi anche mediante il dolore o le potenzialità. E’ uno stadio veramente drammatico per la vita dell’io, in quanto l’“esserci” a questo livello è di fatto dominato dalla paura. Il non superamento di questa fase espone l’individuo alle dipendenze, alle manipolazioni, ai condizionamenti a causa della non comprensione del “se stessi” incarnato in un corpo (“io sono qui dentro”). E’ questa una fase che si può definire sub - umana, poiché l’individuo non è in grado di capire né di esistere né che esistono gli altri: vuole, pretende di essere invaso dall’onnipotente volontà altrui e scarica sugli altri le proprie difficoltà. In questo primo momento possiamo dire, con Hegel, che è l’oggetto che incombe sul soggetto.
C’è la fase in cui la coscienza comincia a focalizzare la riflessione. La coscienza dell’io dà luogo all’impulso di auto affermare se stessa; ora è il soggetto che tende ad incombere sull’oggetto, dove, però, oggetto è anche l’altro, il mio simile. E’ questa la fase egocentrica di auto - percezione senza la comprensione dell’esistenza delle coscienze esterne. In questa fase si consolida il copione coscienziale del predatore. L’atto di invasione fa, però, intuire l’esistenza dell’altro e tale conflitto interno oppositivo diventa la base per la contemplazione dell’altro quando la sua esistenza sia accettata.
L’invasione riuscita dell’altro genera, infatti, piacere e fa sentire realizzati. Nel rapporto di coppia, ad esempio, ognuno vuole essere per l’altro l’assoluto; e, poiché entrambi vogliono la stessa cosa, la gioia d’amore risulta avvelenata dal conflitto e votata allo scacco. Ma proprio qui si genera una nuova contraddizione perché questo tipo di libertà è solo astratta ed illusoria. La coscienza medita sopra queste contraddizioni e percepisce di provare vergogna. Qui la coscienza si fa intensa perché c’è dunque un io che si vergogna di qualcosa. C’è qui la piena differenziazione degli emisferi con la voce sociale degli archetipi da un lato e la voce dell’io dall’altro.
L’io vive la coscienza della relazione e la medita; impara ad osservare i pensieri mediante la meditazione recettiva e, a questo punto, da osservante e teoretica, la coscienza si trasforma in ragione pratica, ovvero in ragione morale. Ma anche a questo livello l’io non si può dire che abbia raggiunto la consapevolezza; infatti, per attuare la morale la coscienza deve inibire i suoi impulsi tramite la ragione e ciò significa scissione tra ragione ed impulso, tra anima e corpo. Scissione è sinonimo di “coscienza infelice” a cui l’Io rimedia con la sublimazione e il distacco dalle pulsioni. La pace, che nel linguaggio di Hegel si chiama “anima bella” è l’autocoscienza - piena, la consapevolezza realizzata che non ha più bisogno di trattenere in sé le parti spurie e l’individuazione rafforza l’identità soggettiva ma non porta all’individualismo.
La coscienza soggettiva dell’IO vive sul riscontro della personale sensazione di esistere come entità collegata ad altre coscienze incontrate. La coscienza sa di essere chi è (o pensa di essere ciò che è) e nella percezione di coscienze estranea (o pensieri di percezione di esistenza estranea), le presenze pensate sono comunque pensieri esistenti autenticamente anche se fossero solo un sogno.

Io cosciente e io sognante
L'identità profonda si colloca in un luogo "altro" rispetto alla coscienza, la cui attività va, per così dire, sospesa per accertare l'identità. Questo processo che va a suggerire al soggetto la sede, la struttura e le dimensioni della propria identità, si attua giungendo ai limiti del campo di esistenza della coscienza per giungere ad intuire ciò che la sorregge e la connota; ciò accade in momenti deriflessivi. La "presa diretta" del vissuto, il distanziamento da sé, la "messa tra parentesi della realtà", pratiche tradi¬zionali quali la meditazione o la preghiera, oppure nel momento finale del processo di coglimento empatico del vissuto altrui. Quando cioè, sospesa la riflessività vigile, l'individuo percepisce la voce del suo "io": una voce che parla dentro di lui sempre con lo stesso timbro, dalla nascita alla morte e che lo contraddistingue.
Ciascun uomo ha una specifica identità, condivide aspetti comuni con altri membri della specie e perviene a livelli di coscienza di sé e della sua identità in funzione del grado di approfondimento del suo processo di individuazione.
Per individuazione si intende il lavoro mentale ed emozionale attraverso cui l’essere umano amplifica la conoscenza di se stesso. Tale conoscenza rafforza l’identità soggettiva ma non conduce all’individualismo poiché tanto più l’essere umano si conosce tanto più facilmente arriva a conoscere e capire gli altri esseri umani.
Tanto maggiore è il grado di elaborazione dei processi interiori, presi in considerazione dentro di sé, tanto più i processi mentali altrui, anche i più folli ed irrazionali, diventano comprensibili.
Il processo di crescita interiore può essere descritto come un progressivo aprirsi a dimensioni emozionali di esistenza estranee e lontane dalle percezioni abituali e la successiva interpretazione di tali emozioni in vista della loro comprensione .
L’individuazione serve anche a prendere sufficiente distanza psichica da vissuti anaffettivi e riprovevoli, perché l’estensione della coscienza amplifica anche le capacità critiche e non solo quelle di immedesimazione.
Al fine di far evolvere l’estensione della coscienza è necessario affrontare scientificamente i diversi significati psicobiologici che la definiscono.
Essa è dunque, secondo Jaspers, sia l’interiorità di un’esperienza vissuta, sia coscienza oggettiva, sia autoriflessione. La coscienza dell’IO è contraddistinta, secondo Jaspers, da 4 caratteri formali: coscienza di attività, coscienza dell’unità, coscienza dell’identità, coscienza della delimitazione. Diminuzioni di questi caratteri di coscienza conducono a depersonalizzazione autopsichica (estraneità del proprio Io psichico dell’unitarietà del Sé), depersonalizzazione somatopsichica (estraneità del proprio corpo o di parti di esso, Sé fisico), derealizzazione (estraneità della percezione dell’ambiente). Tali alterazioni della coscienza compaiono occasionalmente in condizioni di stanchezza o isolamento, in situazioni di patologia epilettica (crisi parziali, aura, automatismi) o nei disturbi dissociativi, nella schizofrenia e nei disturbi dell’umore.
I disturbi di depersonalizzazione appaiono come esperienze di distacco e di estraneità vissute dal soggetto nei confronti della propria interiorità psichica, del proprio corpo o dell’ambiente esterno La derealizzazione è invece connessa alla perdita del contatto che ciascuno ha con la continuità della sua coscienza. In ambedue i casi si accompagnano a sensazioni di angoscia.
Nella psicopatologia descrittiva i disturbi della coscienza di sé sono declinati come disturbi del senso di esistere, disturbi della percezione della propria attività, disturbi della continuità del sé e della unicità del sé, disturbi dell’identità e dei confini del sé.
La perdita o la crisi nella coscienza dell’io sono infatti sensazioni correlate all’emersione della angoscia di morte poiché implicano una sensazione di distacco dalla continuità del sé. Per l’essere umano la perdita della coscienza di sé equivale alla perdita della vita stessa.

L’IO sognante
Contrariamente all’IO cosciente l’IO sognante può acquistare tutto lo spazio e tutto il tempo che vuole proprio perché vaga e fantastica ma non è privo né di conoscenza né di coscienza. Mentre sogno mi informo che sono IO che sogno e che ho intorno a me altre anime sognanti.
Il sogno è una forma di attivazione da parte del Sistema Reticolare Ascendente, che invia impulsi nervosi che raggiungono la corteccia sotto forma di onde ponto-genicolo-occipitali e danno vita a mutevoli immagini, dati sensoriali ed emozioni. I sogni, pertanto, possono essere paragonati ad allucinazioni che sono fisiologiche nello stato ipnagogico.
L’esperienza più profonda del sonno è quella legata alle sequenze narrative, che compongono il sogno. Il sogno è infatti a tutti gli effetti una narrazione, più o meno comprensibile, che appare solo quando siamo lontani dallo stato di veglia.
Questo è il motivo che ci porta a combinare la dimensione del continuum veglia - sonno con la dimensione più emozionale e narrativa degli stati di coscienza. Il tessuto narrativo infatti si può muovere nella direzione della conferma dell’esperienza, operando così una interpretazione ed una sintesi simbolica, oppure divenire così emozionalmente carico da richiedere una proiezione verso l’esterno del vissuto narrativo. In questo caso è molto probabile che si associ allo stato ipnagogico, l’alerting fasico. In tal caso le emozioni prodotte dallo stato di sogno producono una attivazione a seguito di una sorta di avvertimento che ferma il pensiero nell'anticamera del sogno.
Ma la coscienza , l’Io cosciente, continua anche nel sonno. Nel sogno la coscienza permane, pur in una condizione non di veglia e di mancanza di vigilanza conscia sul pensiero. Quando si dorme non si perde la coscienza infatti essa perdura. Se così non fosse al risveglio non avremmo la sensazione di continuità di coscienza ovvero di essere le stesse persone che si sono addormentate il giorno prima.
Nel sonno si perde la percezione del mondo oggettivo e la coscienza perde la sua natura vigile ed entra nella diversa dimensione di coscienza sognante e cioè in uno stato capace di procurare imprevedibili espe¬rienze.
I fenomeni neurofisiologici più importanti nel corso del sonno ci indicano alcune caratteristiche dell’IO sognante.
1) I vissuti emozionali interiori hanno la caratteristica di turbare il sonno, sia impedendolo con un ansioso alerting quando ci addormentiamo, sia svegliandoci di colpo quando i sogni producono sensazioni o immagini inquietanti. Ove il materiale psichico rimosso non sia stato ben compreso o elaborato emergono prepotentemente disturbi del sonno e le persone, prive di un addestramento alla loro igiene mentale, soffrono di disturbi del sonno. In questo caso l’IO sognante non ha un buon contatto con l’IO cosciente, il quale a sua volta ha poco esplorato le sue dimensioni inconscie.
2) Solo quando una persona vive un buon rapporto con il suo sonno, per aver rielaborato suoi particolari vissuti angosciosi, può sperimentare lo sviluppo della coscienza anche nella fase del sonno. Per comprendere questo processo basta fare attenzione ai diversi risvegli latenti che caratterizzano il passaggio temporale da un ciclo di sonno a quello successivo. Gli adulti (e ancor più gli anziani) dormono molto meno perché hanno maggior percezione dei risvegli latenti che li conducono alla veglia specie nei cicli mattutini del sonno: alle 4 del mattino, alle 5 e mezza, alle sette, alle 8 e mezza, ecc. Ogni 90 minuti, al termine della produzione del sogno, siamo sull’orlo del risveglio, spesso ne diventiamo consapevoli per poi riaddormentarci in un altro ciclo di sonno .
3) Il progressivo espandersi della coscienza nel sonno conduce anche ad un importante sviluppo del tipo di sogni: dai sogni di impotenza ai sogni evoluti di sviluppo delle potenzialità. Vediamoli:
3.1.) I sogni di impotenza caratterizzano le prime fasi dell’esperienza della coscienza latente del sognare. Sono sogni in cui si cerca di scappare ma i piedi non si muovono da terra, si cerca di dare un pugno ma le mani non hanno forza, si cerca di proteggersi ma le difese o i nascondigli non reggono, ecc. Questi sono in genere i primi sogni, tipici dell’infanzia, di cui si ha ricordo. Ove tali sogni non vengano rielaborati (aggiustandoli al mattino o parlandone con altri) può manifestarsi, anche per lungo tempo, l’incapacità di ricordare i sogni al mattino.
3.2.) I sogni fobici. Il più comune è quello di cadere da grandi altezze. Oppure di ritrovarsi nudi in mezzo alla gente. Sono sogni che hanno a che fare con un senso di insufficienza del proprio io. Compaiono nell’adolescenza ed a volte permangono per l’intera vita se non vengono trattati modificando il finale. Spesso possono diventare animati anche da presenze inquietanti, mostri o personaggi che inducono addirittura terrore. Oppure oggetti insignificanti che si presentano però come inspiegabilmente terrorizzanti. Una analisi del contenuto di tali sogni può condurre anche a buone interpretazioni ma tali interpretazioni non sono essenziali. E’ essenziale che compaia nel sogno qualche senso di realtà. Il miglior suggerimento è quello di riuscire a visualizzare le proprie mani nel sogno in modo da presentificarle nell’incubo e farlo dissolvere
3.3.) Uno tra i primi sogni di potenza che compare nel vissuto onirico sano delle persone è quello di volare. Si presenta come una capacità appresa o attraverso una sorta di levitazione prodotta dallo schiacciare l’aria sotto il proprio corpo o dal balzo coraggioso verso il cielo. In genere le persone fanno ripetuta esperienza del volo nel sogno e la coscienza si manifesta evoluta al punto che le persone che hanno ripetutamente praticato tale sogno, rimangono deluse quando si rendono conto, da sveglie, di non essere in grado di volare. Erano convinte di averlo davvero appreso. Tale sogno mostra un buon processo di coscienza mantenuto nello stato onirico che entra in contatto con la realtà all’uscita dal sogno. E’ da notare che con i sogni di potenza il senso del tempo nel sogno si stabilizza passando dalla fase in cui si presentano confusi i diversi momenti del sogno a quello in cui è possibile raccontare i sogni con evidente continuità e logica temporale.
3.4.) I sogni più evoluti e maturi sono quelli funzionali agli obiettivi concreti della vita. Se il livello di coscienza mantiene una certa densità nel corso del sogno è possibile utilizzarlo per sviluppare capacità mentali e di apprendimento. Si può impadronirsi della capacità di parlare in una lingua straniera sognando di farlo, si possono apprendere tecniche sportive, abilità pratiche e fare esercizi mentali in diverse discipline.
3.5.) Sognare le persone defunte rappresenta uno stadio evoluto del sognare poiché presenta allucinazioni visive ed uditive estremamente forti e vivide. Tali sogni corrispondono ad uno stadio di ottima organizzazione dei propri immaginari che contrastano l’angoscia di morte.

L’evoluzione naturale dell’IO sognante
L’evolvere dei sogni rappresenta una progressiva attivazione della corteccia. Per Le Doux la corteccia non è attivata durante il sonno, tranne che durante il sonno REM, quando è coinvolta nell’elaborazione di eventi interni. Ciò significa che l’interprete – l’IO cosciente – è attivato nel sogno ed è al servizio dell’IO sognante. La capacità di ricordare i sogni al risveglio e riflettere sul loro contenuto è una componente importante dell’autoconsapevolezza infatti è determinata dal rapporto che l’Io cosciente ha con l’Io sognante e cioè quanto l’IO sognante prende possesso nel sogno dell’IO cosciente. Proprio per questo per Levin, Macquet, Panksepp la funzione del sonno REM ha un ruolo importante nell’elaborazione della memoria procedurale - implicita e nell’integrazione ed elaborazione dell’informazione emotivamente carica. Il sonno REM, che è associato ad intensa attività dell’amigdala e della corteccia cingolata anteriore, è carico di immagini, sensazioni, ricordi fortemente emozionali.
Si apre allora una grande riflessione sul rapporto tra queste due forme dell’IO, cosciente e sognante. Lo sviluppo della consapevolezza riguarda ampiamente il loro rapporto che conduce la parte cosciente dell’IO ad entrare sempre più in profondità ed al servizio dell’IO sognante. Al contrario di quanto si afferma nel rapporto tra conscio ed inconscio, con la necessità di far emergere il materiale psichico per portarlo alla vista della coscienza, il processo è qui esattamente al contrario: è la coscienza che entra nel sogno e si mette al suo servizio giacché la realtà profonda della consapevolezza umana conduce alla scoperta consapevole che nel sogno l’essere umano incontra la sua anima e ne accerta l’immortalità, ovvero il suo possibile perdurare anche al di fuori del supporto biofisico e bioenergetico del corpo.
La ricerca sull’Io sognante, sull’anima, è dunque un processo che si sviluppa con naturalezza nel corso della vita umana quando, con l’età, le persone iniziano a frequentare molto più assiduamente e produttivamente i loro sogni.
La serenità con cui si affronta la ricerca interiore è l’unica garanzia per se stessi e per gli altri di non cadere nella tentazione dell’uso della consapevolezza spirituale per l’aumento delle personali capacità di controllo sugli altri, per auto concentrazione supermassiva dell’Io, per apparire ad altri come un miraggio al solo fine di accrescere il proprio narcisismo o la propria dipendenza, ma anche per l’uso della ricerca interiore come sottrazione di se stessi dagli impegni affettivi o, al contrario, come schiacciamento militante della affettività in funzione della disciplina necessaria per raggiungere gli obiettivi spirituali, o come intimismo evitante.
In altre parole la consapevolezza spirituale che emerge dall’Io sognante si contamina se l’Io cosciente non è giunto a individuarsi ed a purificarsi dai suoi antichi copioni. L’emersione del copione rovina la consapevolezza, nel senso che costringe a vedere la realtà sotto la solita luce senza che l’io cosciente se ne accorga pienamente.




Quinta tesi: Illuminazione e comunione

“Non siamo abat-jour"… giacché la dimensione dell’illuminazione non è stabile né conquistata una volta per tutte mediante la assoluta trasformazione della persona in qualcosa di diverso.
L’aver vissuto intensità spirituali illuminanti è una grazia accessibile a tutti coloro che abbiano percorso alcuni passaggi di: 1) presa di coscienza corporea, 2) coscienza di essere, 3) coscienza dei propri copioni 4) coscienza dell’esistenza altrui, 5) consapevolezza “esistenziale e filosofica” 6) consapevolezza di essere persona, 7) consapevolezza delle coincidenze significative.
La l’illuminazione è sempre uno stato transitorio che non si stabilizza nel suo essere un’esperienza soggettiva ma richiede, per averne certezza, una possibilità concreta di condivisione con altri. Questo il significato relazionale del concetto di comunione nel cristianesimo.
La coscienza non può rimanere isolata poiché si attiva o con la semplice curiosità o con consistente di meraviglia, può assumere forma di un sentimento di rivalità o di avversione e di odio, o può assumere quella forma di attrazione, di bisogno irresistibile di stare insieme all'altro, che si sperimenta nell'amore.
La comunione è la dislocazione dell’illuminazione nel vissuto condiviso e può venir anch’essa consapevolizzata attraverso la riflessività.
La riflessività non può essere chiusa nell'Io trascen¬dentale (come per la fenomenologia di Husserl) e neanche nel pensiero riflessivo (reflective thought) del professionista riflessivo. Un primo modo di intendere la riflessività è quella di vederla come una abilità mentale che tiene conto di sé e dell’altro (… delle voci di ciascuno…) e delle relazioni; un secondo modo è pensare la riflessività e i suoi traguardi di consapevolezza relazionale come una vera e propria forma di relazione sociale.
Questa relazione di “comunione” è avvertita come desiderio ma giunge ad essere espresso solo quando la coscienza abbia almeno percorso uno dei citati passaggi.
Solo allora la coscienza sente distintamente il desiderio dell’ “amor sublime”. Ovvero della potenzialità che la coscienza ha di percepire il sublime ma massimo livello di pienezza e di piacere nel corso dell’esistenza umana.
Anche del sublime si può avere consapevolezza riflessiva sempre che non vengano perdute le occasioni per comunicarlo. Il processo che comunica il sublime e il desiderio del sublime è la «razionalità riflessiva del noi». Essa è il punto di arrivo nelle relazione interpersonale a partire dalle forme di consapevolezza illuminante. Il loro catalogo, redatto attraverso l’usuale codice delle predisposizioni tipologiche, è il seguente:

Osservazione dei pensieri.
L’osservazione dei pensieri è il raggiungimento da parte della mente di uno stato di consapevolezza senza pensieri. L’attenzione sulla esperienza di illuminazione è quella forma di consapevolezza che consente all’essere umano di “essere cosciente di essere cosciente”. questa definizione riconduce in un linguaggio razionale uno stato di grazia altrimenti non definibile.
Tale stato di consapevolezza è una modalità di esistenza ben lontana dalla semplice attenzione percettiva o intuitiva, giacché il nostro cervello può essere consapevole e disattento allo stesso tempo poiché la nostra percezione attentiva è selettiva. Non siamo mai attenti a tutto e, spesso, lo stato di consapevolezza implica una volontaria disattenzione a molti segnali per lasciar fluire l’attività mentale interiore. L’”osservazione dei pensieri” richiede un alto livello di controllo nei confronti dei pensieri parassiti.
Esperienza tipo: “Ero in treno da molte ore ed osservavo distrattamente il mare e il cielo mentre vedevo emergere dentro di me la forma dei miei pensieri, i miei problemi, le mie scelte di vita. Non mi davano inquietudine perché le lasciavo andare e vedevo tutte le cose che si rimettevano a posto. All’esterno comparivano tratti di mare e di cielo alternati dal buio delle gallerie che mi davano una piacevole vertigine e mi sentivo viva al cento per cento”

Riflessione Focalizzata - riconfigurazione:
Nella riflessione è presente una proiezione che lascia ampio spazio al dialogo interiore tra le diverse voci che popolano la mente umana. Lo stato della coscienza meditativo si ottiene indirizzando intenzionalmente l’attenzione verso un oggetto che può essere qualsiasi cosa: un oggetto fisico, un’emozione, una immagine, la luce di una candela, un testo sacro, un ricordo, un ragionamento soffermandosi su una parola, un vissuto o un concetto "ruminandolo" interiormente.
Esperienza tipo: “Mi sono ritrovato a pensare ad un ricordo quando, molti anni fa, ho reagito istintivamente ad un insulto di una persona incontrata ad una festa colpendolo con un pugno in faccia. Riesaminando l’episodio mi sono sentito in colpa per il male fatto ed a riflettere sul fatto “se fossi stato io quella persona”, mi sono messo nei sui suoi panni e poi di nuovo nei miei. Col passare del tempo ho cominciato ad avvertire una comunanza tra me e quell’uomo, tra me e gli altri, come se d’improvviso gli altri diventassero un altro me, diversi da un lato ma dall’altro simili a me. Mi sono sentito in pace con me stesso e con gli altri, sentivo di poterli reggere, sentivo rallentare il dramma, la spaccatura dentro di me”.


La sublimazione - connessione:
Sublimazione è il processo di trasformazione dallo stato solido a quello gassoso senza passare attraverso lo stadio liquido e la sua applicazione analogica in psicologia merita di essere approfondita. La sublimazione può essere un processo conscio e non un semplice spostamento da una pulsione inconscia repressa verso un’altra attività. Chi agisce un processo di sublimazione sa di compierlo con consapevolezza e ne ha osservato le caratteristiche e gli effetti dentro di sé. Tale stato conduce all’esperienza di estensione verso la realtà circostante in cui ci troviamo. Fino ad essere un tutt’uno con essa.
Esperienza tipo: “Avevo 14 anni, ed ero andata a vivere una esperienza di un mese nella città di Parigi. Visitavo la città percorrendola in lungo e in largo ed un giorno mi sentii di essere diventata io Parigi. In parte la città mi aveva assorbito, in parte ero in assoluta connessione con essa e con il suo sapore, il suo stile, il suo funzionamento”.

Contemplazione affettiva – estensione
Il potenziamento del desiderio senza realizzazione della passione è la via più elevata per raggiungere la trasformazione della libido in affettività.
Il sistema visivo è quello più affine alla contemplazione poiché è ad esso che i simboli meglio si agganciano. Per sistema visivo non si intende però la sola percezione visiva della realtà ma il potenziamento delle capacità di rappresentazione mentale fino a vere e proprie allucinazioni visive deliberata e controllata che conducono alla contemplazione dell’oggetto d’amore in uno stato ben descritto dai mistici.
Esperienza tipo: “Stavo nuotando con difficoltà perché la mareggiata mi buttava sott’acqua e non riuscivo più a risalire. Ricordo che vedevo la luce sopra di me mentre lentamente andavo a fondo in uno stato tra la vita e la morte. Ho avvertito una strana sensazione: io ero il mare, ero un pesce che contemplava ed amava il mondo sottomarino. Desideravo vivere ma stavo in estasi fino a che mi sono sentita di essere il vento, l’aria. Contemplavo il cielo, cavalcavo il vento e mi sono ritrovata a riva”.

Distanziamento dal sé- Estraniazione - Lavaggio mentale
Con il termine lavaggio mentale si vuole qui indicare l’emersione dei pensieri negativi ossia parassiti, presenti dentro di noi e l’attivazione della completa pulizia
Si può indicare questo modello come il più semplice e il più diffuso nelle diverse culture spirituali. Si realizza nella recitazione di frasi, mantra, preghiere ripetute, rosario… o di particolari concetti, sui quali l’individuo si concentra individuandone il significato o prestando semplicemente attenzione al loro suono. Può anche semplicemente avvenire nel corso di un viaggio o in un luogo che si presenta come un varco spazio-temporale in cui si è felicemente costretti ad una attesa che ci allontana dal dover agire.
Esperienza tipo: “Stavo vivendo un momento molto difficile della mia vita per il fallimento del mio matrimonio. Di ritorno da un viaggio di lavoro l’aereo ha fatto scalo a Berlino ed era annullata la coincidenza con Roma. Ero in una situazione senza tempo e distante nello spazio dai miei problemi. Ho sentito in quel momento che avrei potuto essere libero di fermarmi lì. Di non tornare a casa, di intraprendere qualunque altro tipo di vita”.

La trance meditativa – il distanziamento
Per fortuna l‘essere umano riesce a meditare anche senza l‘esplicito aiuto di una scuola o di un maestro che, a volte, lo conduce dove non vuole o dove non può andare. Il rischio insito in molte pratiche di meditazione è quello di considerarsi assolute ed esclusive senza considerare le caratteristiche psicologiche del soggetto a cui si rivolge tale pratica. Può infatti accadere che meditazioni centrate su processi ripetiti sortiscano l’effetto di rinforzare ossessioni o, al contrario, processi di distanziamento dal sé conducano ad una rarefazione della coscienza.
Lo stato di trance meditativa serve ad aprire il contatto con i contenuti della mente affettiva ed emotiva, per convenzione con l’emisfero destro (il contrario nei mancini), ed analizzarne il contenuto purificandolo progressivamente dai copioni e dagli archetipi.
Esperienza tipo: “Nel dicembre 1989 crollò il regime di Ceauşescu e ricordo mio padre che guardava la televisione piangendo. Io uscii per strada in mezzo alle manifestazioni tra gente con bandiere che esultava. Mi sentii come in una bolla senza aver voglia di andar dietro a tutta quella gente che sentivo lontana e estranea. Ero in una condizione di trance, senza né gioia, né dolore. Ho avvertito per la prima volta nella mia vita di poter voler bene a me stessa, indipendentemente da tutto. Ero lì, in mezzo a tutta quella gente e semplicemente mi volevo bene “.

Accettazione della passione.
Le tecniche di accettazione della passione sono esplicitamente dinamiche e consistono in svariate forme di training e di gestione del proprio corpo e delle proprie personali sensazioni corporee. Dall’ascolto del peso di un braccio, della propria posizione posturale, del proprio respiro, ecc.
In tali stati di rilassamento è possibile essere disponibili ad accettare la passione, la sofferenza e l’energia interiore poiché si ha la consapevolezza di poterla spegnere o orientare. In tali tecniche meditative si attua la riduzione della sofferenza. La consapevolezza del proprio corpo, specie se sofferente, può diventare, contrariamente a quanto comunemente si pensa, una potente forma di autoanestesia dal dolore.
Esperienza tipo: “Ero ad un campo scuola per giovani adolescenti. In quel momento della mia vita mi sentivo l’ultimo essere del mondo. Stavamo facendo una faticosa salita in montagna ed ero certo che non ce l’avrei fatta. Allora mi sono affidato alle mie gambe che mi hanno portato in vetta dove ho percepito un brivido e mi sono sentito alla presenza di Dio”.

Estasi e desiderio del sublime
Il raggiungimento di questi traguardi di consapevolezza è, in qualche modo, la premessa per la condivisione in comunione con altri della consapevolezza medesima. A livello spirituale, ovvero nel rapporto con chi trascende il sé umano, tale forma di consapevolezza è l'estasi (dal greco ἐξ στάσις, ex-stasis, essere fuori) ovvero quella forma di elevazione mistica della mente, estraniata dal corpo, descritta in modo straordinariamente simile in tutte le culture. Il supporto neuronale è molto probabilmente ancora l’emisfero destro (e il sinistro per i mancini?) ma la sua collocazione oggettivata nel mondo delle relazioni è più misteriosa.
Ai livelli più primitivi l’estasi si confonde con la trance e con l’ipnosi (come nei riti esoterici) e con la divinazione profetica (l’estasi degli oracoli).
Nello sviluppo della consapevolezza umana diventerà illuminazione e saggezza suprema e perfetta nell'induismo, stato di grazia nel cattolicesimo, devozione ed obbedienza alla volontà di Dio nel sufismo islamico, dono da parte di Dio e possibilità naturale dell'anima nel cristianesimo, pieno sviluppo delle potenzialità e delle qualità naturali nel taoismo e nel buddismo, contemplazione funzionale alla comunione d’amore con Dio nei mistici postmoderni.
La strada da percorrere per la descrizione e la definizione della consapevolezza relazione del sublime passa attraverso la scienza e fondandosi su una delle dichiarazioni più esplicite di Gesù Cristo contenuta in Matteo 10,26 …”non v'è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. 27Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sui tetti. 28E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna. 29Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia”.
Non c’è Mistero, non c’è peccato originale, non c’è colpa, tutti questi termini non compaiono nemmeno una volta nei testi dei Vangeli che, giustamente, San Francesco invitava a leggere “sine glossa”.
Ma il manifesto scientifico di Gesù di Nazareth, il Cristo, prosegue con ulteriore determinazione: 30Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; 31non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri!”.
Quale maggior precisione sulla immortalità dell’anima, ovvero sul permanere dell’identità dopo la vita biologica.


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